Qualche dubbio sul decreto antiterrorismo—di Lucio Scudiero
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Lucio Scudiero.
La scorsa settimana il Senato ha definitivamente convertito in legge il decreto “antiterrorismo (decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7), la risposta del nostro Paese alla minaccia del fondamentalismo concretizzatasi nei fatti che sconvolsero Parigi qualche mese fa.
In estrema sintesi, il decreto ha introdotto una serie di previsioni che incidono ad ampio spettro sull’ordinamento del nostro sistema penale e di pubblica sicurezza, introducendo fattispecie penali di contrasto al fenomeno dei cosiddetti foreign fighters, potenziando gli strumenti di indagine a disposizione delle autorità investigative su fatti e sospettati di attività terroristiche nonché la dotazione delle forze armate e di polizia per operazioni di controllo del territorio e di cooperazione internazionale. Per il dettaglio delle misure, si rinvia qui e qui.
Va subito chiarito che l’opportunità politica di un simile intervento pare pacifica, ed era stata auspicata anche da atti di indirizzo internazionale, come la Risoluzione 2718 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Va però chiarito se – come spesso accade in questi casi – l’obiettivo di aumentare la sicurezza non ha fagocitato pezzi di libertà dei cittadini.
Innanzitutto, sul piano penale, viene ad esempio criminalizzata la condotta di coloro che vengono arruolati per finalità di terrorismo anche internazionali (reclusione da 5 a 8 anni), novellando l’articolo 270-quater del codice penale. Sarà interessante scoprire come la giurisprudenza delimiterà i confini dell’arruolamento in rapporto alla fattispecie di associazione ad organizzazioni terroristiche, previsto dall’articolo 270-bis. Perché servirà quel classico lavoro di cesello giudiziario che rende le norme incomprensibili ai più per capire la differenza tra il “mettersi seriamente e concretamente a disposizione come milite, e quindi soggiacendo a vincoli di obbedienza gerarchica, per il compimento di atti di terrorismo” (condotta punita con la reclusione da 5 a 8 anni ai sensi del nuovo articolo 270-quater), dall’assunzione di un ruolo funzionale all’interno di una compagine associativa, tradizionalmente intesa (punita con la pena più grave della reclusione da 5 a 10 anni, come previsto dall’articolo 270-bis). In buona sostanza, se una recluta si mette in viaggio verso un luogo per il compimento di atti di terrorismo, è “solo” passivamente a disposizione dell’organizzazione, oppure ha un ruolo funzionale al suo interno?
E’ evidente come l’obiettivo di politica criminale perseguito con questa norma – e in generale con tutte le nuove previsioni contenute del decreto – fosse quello di anticipare la tutela penale, includendo nell’area del “penalmente rilevante” anche gli atti preparatori e propedeutici alla commissione di reati a sfondo terroristico. Il rischio però era esagerare, anticipando e/o allargando troppo l’intervento dello Stato nella sfera di libertà degli Italiani.
Un caso emblematico è l’articolo 4-bis del decreto, con il quale si dispone che “i dati relativi al traffico telefonico (…) sono conservati dal fornitore fino al 31 dicembre 2016 per finalità di accertamento e repressione dei reati”, così come i dati di traffico telematico, e perfino il registro delle chiamate senza risposta. Si tratta di una norma eccezionale rispetto ad una disposizione – l’articolo 132 del Codice Privacy – che era già caducabile per non conformità con il diritto comunitario, in quanto trasposizione della Direttiva 2006/24/CE (cd. Data Retention), a sua volta abrogata lo scorso anno con una sentenza dalla Corte di Giustizia Ue, che scriveva di “ingerenza vasta e particolarmente grave di tale direttiva nei diritti fondamentali (alla riservatezza, nda) non sufficientemente regolamentata in modo da essere effettivamente limitata allo stretto necessario”. Di fatto, l’articolo 4-bis aumenta quell’ingerenza vasta già censurata dalla CGE, allungando considerevolmente, da 12 a circa 19 mesi, i tempi di conservazione dei dati di traffico telematico, ed enormemente quelli delle chiamate senza risposta, da 30 giorni a 19 mesi. Non è per converso chiaro se questa disposizione diminuisca da 24 (termine vigente) a 19 mesi l’obbligo di conservazione dei dati di traffico telefonico, né si comprende come questo obbligo di conservazione, specifico per alcuni reati (tra i quali associazione sovversiva, strage, banda armata, omicidio, sequestro di persona, associazione di tipo mafioso anche straniera, associazione per delinquere), possa essere praticamente adempiuto dai providers di servizi, considerato che su di essi già incombe un obbligo generico di conservazione dei dati di traffico per finalità di accertamento e repressione dei reati (tutti, non solo quelli identificati dal decreto antiterrorismo), che prescinde dal concreto avvio di un’indagine. Come faranno cioè i fornitori di servizi di telefonia e connettività internet a differenziare i diversi regimi di retention, posto che non risulterà possibile conoscere ab initio per quale tipo di reato potrebbe essere rilevante l’orario di una certa telefonata, ovvero l’url del sito visitato da un utente? E ciò per tacere del fatto che questa misura di sorveglianza sul traffico telefonico e telematico continuerà a riguardare chiunque, non soltanto i sospettati dei gravi reati per i quali il decreto è stato emanato e convertito.
La medesima ratio ispira anche la modifica della norma che regola le intercettazioni preventive (art. 226 disp. att. del codice di procedura penale): si tratta di intercettazioni disposte dietro autorizzazione di un procuratore della Repubblica (dunque non un giudice terzo), per la ricerca di mezzi di prova relativi a reati già citati poco sopra. In deroga alle disposizioni previgenti, che disponevano la distruzione dei verbali e dei supporti delle intercettazioni una volta che fosse stato redatto il verbale sintetico di chiusura, il P.M. ha adesso la possibilità di conservare quei dati per due anni.
Mi fermo qui con gli esempi per trarre qualche conclusione.
L’intervento normativo a contrasto del terrorismo era dovuto e opportuno, e le norme sui foreign fighters vanno a riempire una lacuna dell’ordinamento interno, nonostante i dubbi interpretativi residui su alcuni dettagli della loro formulazione letterale.
Si è però ecceduto nella predisposizione di alcuni strumenti di ricerca dei reati, come testimoniano le due norme commentate sopra. E si ha come l’impressione che la contestatissima norma sul remote searching – che avrebbe consentito alla polizia l’accesso indiscriminato ai pc di chiunque – sia stata introdotta in commissione alla Camera e poi stralciata dal Governo in esecuzione di un gioco delle parti, per distrarre l’opinione pubblica dal contenuto delle reali intenzioni del Governo, che erano quelle di introdurre limitazioni meno visibili, ma pur sempre molto ampie, alla riservatezza degli Italiani.
Infine, un ulteriore regalo alle forze polizia è venuto dall’emendamento all’articolo 53 del Codice Privacy, modificato in modo da consentire la disapplicazione di alcune garanzie per i dati personali dei cittadini quando vengono trattati dalla Polizia per finalità di prevenzione e repressione dei reati, di tutela dell’ordine pubblico e di sicurezza pubblica non previste necessariamente da una legge, bensì anche da un regolamento, dunque una fonte di rango secondario. E tutto ciò in assenza dell’Allegato C al Codice Privacy, di cui si attende l’adozione da almeno un decennio, e che avrebbe dovuto dettare le garanzie per i trattamenti dei dati dei cittadini effettuati, appunto, dalle forze di polizia.