Può una soda-tax migliorare la nostra salute?
La soda-tax è probabilmente tra gli esempi pratici più noti di teoria del nudge, di cui presenta tanto gli aspetti “positivi”, quanto quelli “negativi”: primo su tutti, quello di rischiare di indirizzare la “spinta gentile” lì dove non serve. E cioè, far pensare che un’imposta sia più utile, anche solo nell’immediato, rispetto al mutamento dei fattori socio-culturali
Il Regno Unito è entrato a far parte del novero di quei Paesi (in verità, pochi) che, in funzione di lotta all’obesità, hanno scelto di passare dalle parole ai fatti in materia di soda-tax: a partire dal 6 aprile, un litro di una bevanda zuccherata costerà tra i 18 e i 24 penny in più, a seconda della quantità di zucchero contenuta. Quello dei reali benefici della soda-tax è argomento da sempre controverso, con il campo ben diviso tra entusiasti sostenitori e pessimisti critici: si impone, pertanto, una ricognizione scevra da pregiudizi sugli effetti che una simile imposta può conseguire.
Come ogni imposta indiretta, anche la soda-tax ha un tendenziale effetto “regressivo”, incidendo maggiormente sui consumi dei cittadini più poveri, anziché su quelli dei più ricchi. Per restare nel Regno Unito, il decile più povero degli inglesi spende il 34% del proprio reddito disponibile in tasse indirette, incluso il 2.9% in accise sul tabacco e il 2% in accise sugli alcolici, laddove il decile più ricco spende, rispettivamente, il 14%, lo 0.1% e lo 0.9%. È stato sostenuto che l’aspetto “fiscale” della tassa potrà pure essere regressivo, ma quello “sostanziale” sarà invece progressivo: poiché i più poveri consumano maggiormente alimenti e bevande “non salutari”, dovrebbero essere costoro a ricevere beneficio dalla riduzione del consumo di questi prodotti, presuntivamente conseguente all’aumento del loro costo. Ma la correlazione tra incremento degli oneri fiscali e diminuzione del consumo è ben lontana dall’essere dimostrata e sembra che, più della tassazione, possano, invece, fare i costumi sociali e culturali. Un esempio, su tutti. Tra il 1974 e il 2013, il numero di fumatori inglesi si è dimezzato, ma, ad oggi, chi guadagna meno di 10.000 £ in un anno ha il doppio delle probabilità di essere un fumatore rispetto a chi ne guadagna 40.000: due dati solo apparentemente contraddittori. Nella fascia temporale menzionata si sono verificati due eventi rilevanti: da una parte, è quasi raddoppiato il peso delle accise sul tabacco; dall’altra, è notevolmente cresciuta la consapevolezza degli effetti dannosi provocati dal fumo. Quale dei due fattori è stato quello davvero determinante? Benché sia assai lontano dall’essere conclusivo, il fatto che gli alimenti, le bevande e gli altri prodotti non salutari siano consumati in misura massicciamente maggiore tra i più poveri (e, si assume, anche meno informati) anziché tra i più ricchi (e più consapevoli) sembra confermare che lo strumento “culturale” può fare molto più di quello “fiscale”.
Del resto, non è neanche facile predire in che modo i consumatori reagiranno all’aumento del costo dei prodotti che hanno sempre consumato. Accrescere il prezzo di una bottiglia di Coca-Cola può essere utile nel caso in cui, al posto di questa, si compri una bottiglia d’acqua: ma la soda-tax inglese colpisce selettivamente solo alcune tipologie di bevande e nessun alimento; quindi, come è stato notato, nel caso in cui, al posto della Coca-Cola, si comprerà una barretta di cioccolato, un pezzo di torta, un gelato o un milk-shake, l’effetto benefico della tassa non si produrrà o si produrrà in misura nettamente inferiore. La soluzione potrebbe essere allora un’imposta che colpisca, genericamente e indistintamente, qualsiasi bene edibile? Ragionando teoricamente si potrebbe essere tentati di rispondere in maniera affermativa, ma, in pratica, la situazione è un po’ più complessa… Si pensi, ad esempio, a quanto avvenuto in Danimarca: nel 2013, essa ha introdotto un’onnicomprensiva fat-tax, che, dopo neanche un anno dalla sua entrata in vigore, è stata però abolita, visto che, nel frattempo, i danesi avevano cominciato ad acquistare burro, gelati e bevande gassate nelle vicine (e tax free) Svezia e Germania, con ricadute negative per l’economia locale.
Si deve poi tenere in considerazione il profilo fondamentale dell’approvazione popolare rispetto a simili imposte, che si intreccia con la sensibilità individuale maturata sul tema innanzitutto come consumatori. A Cook County, un’area suburbana di Chicago, la soda-tax fu introdotta per volere del consiglio comunale con un margine ristretto (9-8), ma ha incontrato un’opposizione immensa tra i cittadini ed è stata per questo rapidamente abolita (stavolta con un margine di 15 a 1: secondo i sondaggi, quasi il 79% degli elettori non avrebbe votato per la rielezione di un consigliere comunale che avesse sostenuto quella tassa). All’opposto (non solo geografico), a Berkeley, in California, un referendum propositivo finalizzato all’introduzione dell’imposta in parola è stato vinto con il 76% dei consensi: un anno dopo l’entrata in vigore della corrispondente legge, il consumo delle bevande zuccherate è sceso del 9.6%. Il dato è importante, ma viene da chiedersi se il rapporto causa-effetto sia stato fatto oggetto di corretta lettura: il consumo di quei prodotti è diminuito in forza dell’imposta introdotta o l’imposta è stata introdotta (voluta da una maggioranza così ampia) proprio perché gli elettori-consumatori avevano già radicalmente modificato le proprie abitudini alimentari? D’altro canto, chi vota per l’introduzione di una soda-tax è convinto che una bevanda zuccherata non sia salutare e quindi, con ogni probabilità, eviterà accuratamente di includerla nella propria dieta.
La soda-tax è probabilmente tra gli esempi pratici più noti di teoria del nudge, di cui presenta tanto gli aspetti “positivi” (ha un dichiarato fine di promozione del benessere individuale; non obbliga a tenere un comportamento, ma si limita a suggerirlo), quanto quelli “negativi”: primo su tutti, quello di rischiare di indirizzare la “spinta gentile” lì dove non serve. E cioè, come già anticipato, far pensare che un’imposta sia più utile, anche solo nell’immediato, rispetto al mutamento dei fattori socio-culturali. Del resto, come nel caso del fumo, anche rispetto ai prodotti “non salutari” i gusti dei consumatori sono da tempo in fase di cambiamento. Dal canto loro, le imprese, com’è ovvio, faranno a gara nel ridurre la quantità di zucchero presente nei propri prodotti non certo per sfuggire a una tassa (visto che essa può essere scaricata sull’utenza finale), ma per soddisfare la nuova domanda dei propri clienti (c’è chi, come Coca-Cola, sta già lavorando alla promozione di una versione “no sugar” della propria celebre bibita). Ancora una volta, allora, si tratta di avere più fiducia nel progresso spontaneo e incrementale piuttosto che nelle virtù taumaturgiche di una legge.
Segnalo sull’argomento il parere positivo della rivista medica The Lancet, che cita a sostegno il precedente del Messico:
http://www.ilfattoalimentare.it/sugar-tax-funziona-lancet.html
http://www.thelancet.com/series/Taskforce-NCDs-and-economics