Chi protegge i consumatori digitali?
Diceva Milton Friedman che spesso le persone chiedono ai governi di proteggere i consumatori, mentre un problema molto più urgente sarebbe proteggere i consumatori dai governi. Specialmente in Europa, la protezione dei consumatori è uno dei capisaldi della (supposta) tutela dei più deboli dai soprusi del mercato.
Interminabili procedure autorizzative, licenze, ordini professionali, autorità indipendenti, oscure normative tecniche su metodi e standard produttivi, garanzie obbligatorie, atti notarili sono tutte facce della stessa medaglia: proteggere l’agnellino consumatore dal lupo capitalista.
La giustificazione, dietro alla montagna di tempo, energie e risorse destinate alla ‘protezione’ del consumatore, è la sua (presunta) ignoranza. La visione dominante è che non tutti siano in grado di comprendere le caratteristiche di un prodotto o di un servizio, e pertanto sia compito del governo farlo per loro, aiutandoli a identificare quei produttori e fornitori che rispettano sufficienti standard di qualità e sicurezza. Né del resto – si dice – il mercato avrebbe ragione di pensarci da sé: il costo necessario a testare, identificare, interpretare e comunicare ai consumatori le caratteristiche di beni e servizi sarebbe di gran lunga superiore al conseguente ritorno economico. Trattasi, insomma, di un fallimento del mercato, cui i governi sono tenuti a porre rimedio.
A ben vedere, la storia è piena di esempi in cui i mercati, quando non asfissiati da regole bizantine, ovviassero al problema, generando meccanismi di assicurazione e facendo dell’informazione una vera e propria commodity. Giornali specialistici, gossip, pubblicità e passaparola hanno contribuito egregiamente a formare la ‘reputazione’ di prodotti, servizi e operatori economici, e così a orientare le scelte dei consumatori. Ci sono, poi, servizi in cui produttori e consumatori interagiscono raramente, ed è pertanto più difficile che si formi una reputazione: si pensi ai medici o agli avvocati divorzisti. L’esistenza di intermediari che facciano da ‘ponti di fiducia’ tra consumatore e produttore, come consorzi e studi legali affermati, altro non è che una risposta a quella domanda di ‘garanzie’.
Nel tempo, questa serie di funzioni è stata via via assorbita dai governi, su pressione delle diverse categorie professionali coinvolte. È interessante e abbastanza emblematico come la richiesta di tutela pubblica sia arrivata quasi sempre da rappresentanti dell’offerta del prodotto o servizio in questione, e non dai consumatori. Basta un filo di logica, infatti, per capire che la stragrandissima maggioranza delle tutele potrebbe benissimo reggersi su un sistema di certificazione facoltativo: chi lo desidera ottiene il bollino governativo, chi non lo desidera può operare sul mercato ugualmente, a parità di condizioni. E invece no: la tutela si è spesso tramutata nel monopolio pubblico della scelta di chi può lavorare e chi no.
Negli ultimi anni, tuttavia, il paradigma sta entrando in crisi. Non certo per la forza contrattuale dei consumatori, sempre troppo diluita per avere la meglio sull’aggressività delle corporazioni organizzate. Ma grazie a un alleato silenzioso: internet. La possibilità di scambiare quasi gratis e in tempo reale informazioni, opinioni, desideri ed esperienze letteralmente su qualsiasi cosa ha creato, piano piano, un patrimonio di conoscenza sulla bontà di prodotti e servizi inevitabilmente più completo, preciso e aggiornato di qualsiasi agenzia o sistema di certificazione. Jimmy Wales ha fondato Wikipedia sulla base del pensiero sulla conoscenza diffusa di Hayek, ma è internet, più in generale, ad essere un prodotto 100% hayekiano.
Il web non ha creato solo un patrimonio inestimabile e prima inimmaginabile di informazioni su prodotti e servizi. Ha anche trovato il modo di ovviare al problema della reputazione, per rendere possibili e sicuri gli scambi a distanza. Agli inizi, eBay chiedeva alle persone di ‘valutare’ le controparti delle loro transazioni: rendendo pubbliche queste valutazioni, gli utenti potevano così farsi un’idea dell’affidabilità di tutti gli altri. Oggi, i sistemi di creazione della reputazione sono alla base di molti dei giganti del web, da Amazon a Uber. Per completare l’opera, internet sta pian piano iniziando a erodere, come onde sugli scogli, le terze parti, a partire da banche e notai. La blockchain – la tecnologia che sostiene bitcoin – si sta rivelando incredibilmente efficace e sicura nel vagliare la legittimità di scambi di denaro, pur in assenza di un ente centrale che metta il bollino (intascandosi il costo della transazione). Miracoli dell’intelligenza distribuita e della cooperazione volontaria.
Le nuove generazioni sono sempre più intolleranti ai mostri burocratici che i loro genitori, negli ultimi quarant’anni, hanno messo in piedi per ‘proteggerli’. I consumatori digitali si sentono sempre più protetti dalla tecnologia, e sempre meno dai parlamenti. Una ragione in più per tutelare l’autonomia di internet dall’ingerenza della politica: probabilmente, se fosse ancora tra noi, Milton Friedman aggiornerebbe il suo aforisma: oggi, per proprietà transitiva, difendere l’indipendenza di internet significa sempre di più tutelare i consumatori.
Twitter: @glmannheimer
Da far leggere nelle (stataliste e corporative) scuole italiane.
Faccio presente solo un punto che manca nell’esposizione di G.L.M.. Esiste una fascia di popolazione che reputa verità assoluta qualsiasi cosa che legga in internet, comprese le bufale più improbabili.
Bisognerebbe ricordarsi quindi l’importanza di un’ “educazione” volta a far risvegliare lo spirito critico degli utenti, e a insegnarli l’importanza del fact checking.
Nel primo paragrafo il termine “supposta”, affiancato alla pseudo-protezione dei consumatori, è piuttosto azzeccato.
Un esempio di trionfo del mercato (che hayekianamente si autoregola): la bolla dei mutui ipotecari USA del 2008 e Grande Recessione a seguire.
La bolla dei mutui USA é stato un chiaro fallimento degli enti regolatori e di controllo posti a “tutela” dei consumatori e non del mercato in quanto tale.
@Franco ha scelto l’esempio sbagliato, dato che si riferisce ad un “mercato regolato”, dove il regolatore ha pasticciato decidendo chi salvare. Tutto molto lontano dalle idee di Hayek. Qualunque sia la sua professione , Franco, lei sa che se vuole impedire l’ingresso di altri concorrenti, la strada migliore è elaborare qualche regola, certo, la si veste col pretesto della tutela del consumatore, e poi si seduce l’ente di controllo, chiedendo per esso più potere
@Edoardo Il mercato “in quanto tale” nn esiste e’ pura astrazione teorica. Il compito dell’ economia e’ spiegare struttura e funzionamento del mercato reale.
@Riccardo Nn sempre,nn necessariamente. Affidabilita e sicurezza di prodotti e servizi a disposizione del consumatore moderno sono frutto anche di regolamentazione (e relative sanzioni). Il mercato da solo nn basta,la regolamentazione da sola nn serve. La verita sta (come sempre) nel mezzo