25
Giu
2010

Proprietà e libertà. Sì, ma quali?

It lies in the essence of owning that all rights belong to the owner except insofar as they belong to another person as a result of some acts performed by the owner M.N. Rothbard

Il diritto di ciascuno non vive nel vuoto, ma interagisce con le pretese degli altri alla ricerca obbligata di un equilibrio F.M. Nicosia

Il grande pregio della corposa monografia sulla proprietà data alle stampe ormai dieci anni or sono da Ugo Mattei è senza dubbio quello di aver contribuito a spezzare il recinto della diffidenza verso l’analisi economica del diritto nel nostro paese. Troppo a lungo, infatti, dottrina e giurisprudenza italiane hanno fondato la loro attività di ricerca sulla “regola migliore”, entro gli stretti confini della forma codicistica. Il contributo della Economic Analysis of Law -di casa Oltreoceano, ben poco qui da noi- ha di certo portato una ventata d’aria fresca, cambiando in parte il paradigma con il quale il giurista italico guarda alle norme e alla loro evoluzione.

Una è la tesi centrale del volume. L’Occidente è spaccato a metà tra sistemi di common law e di civil law. Inutile dire che lo sia quindi anche il modo di intendere la proprietà. Alla concezione tipica del diritto romano, corroborata poi dalle codificazioni napoleoniche e dalla pandettistica tedesca, di una proprietà come dominium, semplice controllo materiale e fisico di un soggetto su un oggetto usque ad inferos usque ad sidera, si contrappone una visione più sfumata e complessa, per certi versi immateriale dell’essere proprietari, riassumibile nell’espressione bundle of sticks. La proprietà è insomma un mazzo di prerogative, che possono essere fatte circolare disgiuntamente le une dalle altre (la proprietà del terreno non necessariamente deve ricomprendervi anche il sottosuolo; la proprietà del bosco a fini di legnatico non deve necessariamente ricomprendere quelli di caccia e così via). Tale tradizione, a ben vedere, non è del tutto estranea al panorama continentale, se si pensa a tutto quel florilegio di istituti, tipici dell’era medievale e poi spazzati via con un tratto di penna dalla Rivoluzione francese.

Tale bipartizione, di grande aiuto nel mettere a fuoco la staticità dell’assetto proprietario del nostro codice (si pensi ai rapporti di vicinato), scade invece nell’aporia, quando manca di segnare lo spartiacque “hayekiano” tra liberalismo di stampo anglosassone e liberalismo continentale. Il binomio proprietà-libertà viene infatti attaccato quale stolido assioma, creato da quel “matrimonio infausto tra naturalismo e positivismo statalista” che fu la Rivoluzione francese. In realtà, benché il paradigma proprietario della common law sia diverso da quello continentale, ciò non significa che in quel fascio di facoltà, poteri, soggezioni e obblighi il binomio proprietà-libertà non possa comunque trovare una sua conferma. Lo ricorda anche Carlo Lottieri nella sua cristallina introduzione al volume Il diritto dei proprietari: una concezione liberale della giustizia, edito da Facco/Rubbettino: la proprietà definisce l’ordine dei titoli legittimi. Null’altro. Il problema nell’assunto di Mattei è insomma a monte, nell’idea di una libertà liberale intesa come assoluta (la licenza di Hobbes) e di una proprietà liberale intesa come monade. In realtà, la riflessione libertaria- Rothbard su tutti- è la prima a ribaltare tale visione macchiettistica, riconoscendo la proprietà come limite. Un limite alla libertà altrui e un limite alla propria. In questo consiste il tanto vituperato “binomio”, che recupera così quella tara di dimensione relazionale, più volte lamentata da Mattei.

In conclusione, è vero che i diritti di proprietà non sono mai definiti una volta per tutte e che quindi pretendere di delimitare a priori le reciproche interferenze tra sfere proprietarie è spesso un atto ingegneristico sterile, d’altro canto è altrettanto vero che tale caleidoscopio di fasci e prerogative non può che trovare molti limiti in sé stesso (si pensi alla figura del residual claimant), senza quindi sfociare in un novero imprecisato, quasi “relativista” di pretese; come, ad esempio, quella del ladro che pretende di entrare in casa mia o quella del lavoratore che pretende di avere una qualche proprietà sul suo posto di lavoro. In parole povere, dire che la proprietà non è una monade non equivale  a dire che “tutto va bene”. A differenza delle cavillose norme sulle distanze, il divieto di immissio in alienum non può essere in sé e per sé derubricato a segno distintivo di quella concezione giusnaturalistica, “volta a concepire un sistema di proprietari titolari di diverse monadi non comunicanti”. Il divieto di immissio in alienum è corollario del concetto di proprietà privata. Se buttiamo a mare quello, buttiamo a mare la proprietà, sia quella “fisicista” continentale, sia quella “immateriale” anglosassone. A condividere in parte questo nichilismo di fondo v’è però anche l’approccio efficientista (e falsamente wertfrei) della Scuola di Chicago e del teorema di Coase, uno dei cui presupposti è l’irrilevanza della distribuzione dei titoli di proprietà. Allo stesso modo, il movimento delle enclosures nell’Inghilterra del XVIII secolo fu dettato da pure motivazioni di efficienza, che spesso si riverberarono in ingiustificate e brutali espropriazioni. Altro che liberalismo. In nessun conto fu tenuto l’homestead- il “preuso” si direbbe oggi qui da noi- dei piccoli coltivatori e allevatori delle campagne inglesi.

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2 Responses

  1. michele penzani

    …Certo che applicare tali approcci al problema odierno dei diritti d’autore in rete…

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