Profumo, Passera e la grande banca
Ci sono due modi di guardare all’apparente crisi di fine estate dei due amministratori delegati delle due maggiori banche italiane. La prima è quella di perdersi nel filo di Arianna delle considerazioni di ordine personale, che tanto vanno per la maggiore nella stampa retroscenista, e non solo in quella politica. E così si sono lette fior di illazioni, su che cosa abbia spinto davvero o quali benedizioni abbiano indotto il Corriere della sera a pubblicare per due giorni di seguito articoli intorno agli investimenti alberghieri della famiglia Passera. E analogamente si sono sprecate le strizzate d’occhio, intorno al mormorio delle fondazioni azioniste raccolte insieme al presidente di Unicredit Dieter Rampl, nel protestare per aver appreso dai giornali che il fondo sovrano della Libia aveva aggiunto un altro due per cento buono di capitale alla quota di poco sotto al 5% già detenuta dalla banca centrale del Paese guidato dal finalmente amicissimo dell’Italia, il colonnello Gheddafi. Senonché chi scrive qui non intende inseguire considerazioni personalistiche. Hanno sicuramente il loro peso, per carità. Perché alla testa di grandi banche lo stile personale del numero uno operativo investe inevitabilmente il modello gestionale, il rapporto con gli azionisti, la scelta della prima cerchia del management alla testa delle diverse unità di business, e la modalità attraverso la quale essi trasmettono valori e procedure dell’istituto nelle attività di cui sono responsabili, a scendere fino all’ultimo sportello. Ma il primario giudizio su questo spetta agli organi e agli azionisti della banca. Tocca a noi tentare di capire invece se le polemiche tardoestive siano anche figlie di peculiarità sistemiche, quelle di cui ci occupiamo qui.
In una certa misura, la risposta è affermativa. Vediamo perché.
Nel caso di Intesa, il modello duale di governance bancaria mostra di non essere sempre automaticamente capace di impedire che, tra chi svolge la propria funzione apicale di gestione, e chi invece quella di sorveglianza, non possano insorgere anche talora equivoci. Nel caso specifico, non riguardano scelte istituzionali o operative della banca, ma le esternazioni personali dell’amministratore delegato, e la sua partecipazione a delibere che in realtà, anche volendo essere cattivi a oltranza nel maneggiare i criteri del conflitto d’interesse, configurano al massimo un caso di opportunità, non di rigorosa osservanza trasgredita. Ma anche se non innanzitutto l’opportunità è una categoria molto delicata, quando si tratta di apparire a prova di bomba di fronte al sospetto del conflitto d’interesse, a proposito della presenza di un fratello dell’ad nella società alberghiera operata da Intesa, quando in parallelo per le operazioni alberghiere della famiglia primari istituti bancari avevano messo a disposizione fior di capitali poi non utilizzati, ma investiti – del tutto legittimamente perché qui non siamo ostili al vantaggio fiscale comparato, su cui tanti demagogicamente ecepiscono in Italia – in Lussemburgo.
Nel caso di Unicredit, il problema è un altro. E’ una questione che questa volta non ha a che vedere con i colpi che ad Alessanro Profumo sono venuti dal guidare la banca più internazionalizzata d’Italia, più esposta in Paesi colpiti da crisi e bolle come l’Europa orientale, e insieme più avanti nell’aver adottato il modello originate to distribute più severamente colpito dalla crisi del modello d’intermediazione anglosassone. Oltre ad aver sottostimato all’inizio della crisi la necessità di ricapitalizzarsi. Tutto questo appartiene ormai al passato, come del resto confermato dagli stress test bancari europei – molto discutibili in verità, ma più per la tutela usata alle banche tedesche – di qualche settimana fa.
Il problema che riemerge in Unicredit è un altro. Ed è di grande attualità non solo da noi, ma anche nell’Europa dei salvataggi bancari che da noi per fortuna non sono stati necessari, e in cui gli istituti che devono smobilizzare le quote di capitale pubblico d’emergenza pubblico sono alla ricerca di nuovi azionisti dotati di cospicui capitali. Che cosa è davvero oggi una banca nazionale? Basta che fondi sovrani e banche centrali estere ne diventino primo azionista, sommando quote che in teoria però sono distinte, perché sia giusto suonare l’allarme dell’attentato alla sovranità? Spetta all’amministatore delegato avvisare davvero preventivamente le fondazioni azioniste e il presidente, di una quota acquisita sul mercato da un investitore estero nel capitale della banca? Oppure sono gli azionisti, che a quel punto saltano in groppa all’occasione per mandare un segnale all’amministratore delegato che, però con la corretta governance poco o nulla hanno a che vedere? A me pare la seconda, e a voi che leggete?
Sarebbe stato più utile leggere analisi e opinioni intorno a questi tempi più generali, piuttosto che sulle ombrosità personali e inclinazioni politiche vere o attribuite ai due banchieri. Perché è inutile immaginare che gli sviluppi che si producono nei due maggiori istituti di credito italiano non imprimano di sé l’intero sistema bancario nazionale. Eppure, i tanti che hanno sprecato molte pagine per dire che era la Lega in crescita elettorale, e dunque in ascesa nelle indicazioni di amministratori delle fondazioni bancarie, ad attentare a Unicredit e Intesa, su questi aspetti sistemici hanno preferito quasi sempre tacere. Così va per lo più l’informazione su questi temi, in Italia. A conferma che la banca, la grande banca, conta ed è temuta assai più della politica.
Eh gia’, se brucia tanto alla Lega che Gheddafi controlli la “sua” banca (gia’, eravamo sfuggiti alla statalizzazione delle banche e il partito che 15 anni fa voleva la secessione, le liberalizzazioni e tante altre belle cose, adesso vuole controllare tutte le aziende del nord..), perche’ non aumentano le quote delle Fondazioni bancarie loro amiche? Troppo facile voler comandare senza metterci i quattrini…
@Luciano: s’immagini quanto è stato facile per Unicredit.
Il problema è un altro. Quello che dobbiamo chiederci è se sia opportuno mettere i risparmi di centinaia di migliaia di famiglie nelle mani di un ex(?) terorrista il cui paese è ben lontano dall’avere uno standard “occidentate” in tema di diritti umani. Chi investe non è una compagnia privata occidentale ma un governo straniero che oggi fa molti affari con il nostro; ma domani? Ci stiamo puntando una pistola alla tempia da soli? Gheddafi ha capito che per la sua rivoluzione “verde” può ottenere di più con i petrodollari che con le bombe sugli aerei.