Produttività, produttività, produttività – di Nicolò Bragazza
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Nicolò Bragazza.
L’Italia non cresce ed è cosa ben nota. Basta dare un rapido sguardo ai dati ed il quadro si fa subito piuttosto allarmante: il declino prosegue da anni e anche quando l’economia ha mostrato segnali postivi, tuttavia questi erano sistematicamente inferiori rispetto a quelli degli altri paesi sviluppati.
Ma che cosa si è rotto nel nostro Paese da impedire, anche nei momenti in cui le altre economie si risollevano, una ripresa solida e duratura che abbia come combustili principali la crescita dei consumi e soprattutto degli investimenti?
La risposta è una ed una sola. Il problema del nostro paese è la crescita della produttività e questo è dovuto a molteplici fattori di natura regolamentare, alla situazione del sistema educativo, alla carenza di investimenti e certamente anche a trend comuni a tutto il mondo occidentale che sta sperimentando una frenata della crescita della produttività (su questo tema vedere questo articolo di Cochrane che elenca alcune possibili spiegazioni del problema).
In un paper preparato per la Commissione Europea “Italy’s Productivity Conundrum” uscito da pochi mesi si risponde alla domanda di cui sopra in modo molto chiaro e semplice attraverso un’analisi piuttosto estesa del sistema produttivo italiano. In particolare lo studio si propone di studiare la produttività media in Italia, la misallocazione dei fattori produttivi e l’impatto di quest’ultima sulla crescita della produttività negli ultimi due decenni, utilizzando una misura nota come TPFR (una variante della total productivity factor scelta per ragioni metodologiche che vanno oltre lo scopo di questo articolo) e ricorrendo alla metodologia sviluppata da Hsieh and Klenow.
Gli autori si propongono di analizzare la misallocazione e la produttivtà su diverse dimensioni, quali quella geografica, dimensionale e settoriale sia per il settore manifatturiero che per il non manifatturiero in modo da fornire un quadro completo di questi fattori e della rilevanza, distribuzione ed evoluzione della misallocazione (misurata attraverso la varianza della TPFR).
I risultati sono molto interessanti e pongono il lettore dinanzi ad un quadro piuttosto desolante sullo stato di salute del nostro sistema industriale e sulla sua capacità di generare crescita nel lungo periodo.
Riassumiamo brevemente I risultati per quanto riguarda il settore manifatturiero:
- la riduzione della TFPR (produttività) è elevata tra il 1995 e il 2013.
- il Sud ha una TFPR più bassa di tutte le altre aree, ma il Nord-Ovest ha aumentato in maniera drastica la propria misallocation tra il 1995 e il 2013 e in misura più rilevante tra il ’95 e il 2005.
- Le piccole e medie imprese, più produttive ad inizio degli anni ’90, hanno perso progressivamente TFPR fino ad essere superate in media dalle grandi aziende a metà anni ‘2000.
- La misallocazione è cresciuta indipendentemente dalla dimensione dell’impresa, ma principalmente tra quelle grandi.
Nel settore non-manifatturiero gli autori trovano le seguenti evidenze:
- Le imprese nel nord Ovest sono mediamente più produttive per tutto il periodo considerato, mentre nel Centro Italia la crisi economica ha creato un aumento drastico della misallocazione.
- Per quanto riguarda la dimensione delle imprese e in parallelo con quanto avvenuto sul versante manifatturiero, la misallocazione è cresciuta molto a partire dal 1995 e la differenza di produttività tra piccole imprese e grandi imprese si è prograssivamente ridotta fino ad annullarsi.
- Un dato interessante tra I settori è che il settore energetico, nonostante le liberalizzazioni, ha visto aumentare la misallocazione. Gli autori adducono come possibile spiegazione gli incentivi alle energie rinnovabili che hanno dirottato risorse su aziende poco efficienti.
Ma qual è l’impatto della misallocazione dei fattori produttivi sulla produttività aggregata?
Ammettendo che la produttività stagnante è stata accompagnata da un aumento marcato della misallocazione dei fattori produttivi, gli autori si chiedono: quanto sarebbe diversa la TFP nel 2013 se avessimo avuto una misallocatione costante sui livelli del 1995?
Il risultato è che nel 2013 TFP sarebbe stata del 18% più elevata del suo livello effettivo nel settore manifatturiero. La principale perdita di TFP aggregata sarebbe da imputarsi all’aumento della misallocatione tra le grandi aziende e quelle del Nord Ovest.
Nel settore non manifatturiero i risultati sono ancora più allarmanti: con una misallocation costante ai livelli del 1995, la TFP aggregata sarebbe del 67% più elevata nel 2013.
I risultati nel manifatturiero e nel non manifatturiero sarebbero imputabili principalmente dalla misallocazione dei fattori produttivi nelle grandi aziende.
Tra gli altri risultati del paper i seguenti meritano certamente menzione:
- Le imprese di proprietà del governo sono meno efficienti di quelle a gestione famigliare del 10%, mentre quelle di proprietà di un gruppo o di entità estere sono più produttive rispettivamente del 5% e del 6% di quelle a conduzione famigliare. Perciò alla base del problema vi è anche un problema di governance delle imprese italiane.
- La cassa integrazione è principalmente usata da imprese poco produttive (protegge il posto di lavoro e non il lavoro, sfavorendo la riallocazione per impieghi più produttivi dell’input lavoro).
- Credit constrained firms sono meno produttive ma non necessariamente vi è una relazione tra essere credit constrained e misallocazione dei fattori produttivi.
- Le aziende con “relazioni privilegiate” con le banche sembrano essere in media meno produttive e la relazione sembra particolamente evidente tra le grandi imprese e tra quelle del Nord Ovest. Tuttavia non è statisticamente significativa la relazione tra “relazioni con le banche” e la misallocazione dei fattori (questo non significa, tuttavia, che il sistema bancario non abbia il suo ruolo nell’allocare male il capitale: vedere per esempio il paper di Caballero, Hoshi and Kashyap sullo zombie lending)
- Le imprese che più che hanno a che fare con il pubblico in termini di fatturato sembrano essere più produttive e meno colpite dalla misallocazione dei fattori produttivi. Una possibile spiegazione, suggeriscono gli autori, potrebbe essere quella che il settore pubblico garantisce alle proprie controparti maggiori rendimenti e minor rischio.
- L’innovazione, misurata con il valore degli intangible assets, che tiene conto anche di R&D, è associata a maggiore TFPR. La misallocazione è più pronunciata entro i campioni delle imprese con una maggiore quota di intangible assets.
Facciamo un passo indietro e cerchiamo di fornire un quadro per le decisioni di policy: come ridurre la misallocazione delle risorse e aumentare la produttività dell’economia?
Affinchè i fattori produttivi siano meglio allocati è necessario che ne sia libero il trasferimento e l’impiego, in modo che domanda e offerta di fattori produttivi possano incrociarsi ai prezzi di mercato prevalenti (salario reale di equilibrio e costo del capitale di equilibrio) che, in teoria, in assenza di qualsiasi tipo di frizione, dovrebbero uguagliarsi tra tutte le imprese a parità di caratteristiche. La produttività, oltre che dell’effetto della misallocazione, risente di altri due fattori in maniera diretta: della quantità e qualità del capitale fisico e del capitale umano.
Per aumentare direttamente la produttività è invece necessario che il capitale fisico venga mantenuto e accresciuto e che il capitale umano sia adatto alle esigenze del sistema produttivo.
Fatte queste premesse è ora possibile stabilire quali policy possano in concreto favorire l’obiettivo di ridurre la misallocazione dei fattori produttivi e aumentare la produttività. Alcune di queste vengono elencate anche nel paper di cui sopra e lo scopo è ovviamente quello di ristabilire un equilibrio concorrenziale nel mercato dei fattori produttivi.
- Riduzione dei tempi dei processi civili per assicurare un funzionamento più rapido ed efficiente del mercato e attirare gli investimenti esteri. Inoltre favorire il ricorso a strumenti alternativi di risoluzione delle controversie.
- Riforma della legislazione fallimentare in modo da liberare le risorse dalle imprese in difficoltà in modo più rapido ed efficiente e possano essere così dirottate su imprese più produttive. Alcuni provvediemti sono stati approvati nel corso degli ultimi anni, ma gli effetti saranno misurabili col tempo.
- Favorire lo sviluppo del private equity e del venture capital per ridurre l’intermediazione bancaria tradizionale con i problemi annessi (zombie lending, relational banking, scarso sostegno alla imprese nelle fasi di seed e start-up), per sostenere le imprese nelle fasi iniziali e di espansione dell’attività e per rendere i mercati delle distressed securities e delle ristrutturazioni aziendali più efficienti e competitivi. In generale, questi operatori possono essere incentivati con i provvedimenti di cui al punto 1 e al punto 2.
- Aumentare la flessibilità del mercato del lavoro. In questo senso, gli autori del paper sopra citato trovano che le imprese che fanno più ricorso alla Cassa Integrazione sono meno produttive. Questo è dovuto principalmente al fatto che la Cassa Integrazione protegge il posto di lavoro e sfavorisce la mobilità di questo fattore produttivo.
- Riforma del sistema educativo per migliorare il matching tra domanda e offerta di lavoro. Molte imprese incontrano crescenti difficoltà nel trovare candidati con le skills richieste per le posizioni aperte e questo problema può essere risolto soltanto riformando in profondità il sistema educativo e favorendo l’immigrazione di high skill workers.
- ridurre e/o eliminare buona parte dei sussidi alle imprese che spesso creano distorsioni nell’allocazione dei beni produttivi. Nel paper di cui sopra vengono citati i sussidi alle rinnovabili come possibile spiegazione alla grande crescita della misallocazione nel settore energetico nonostante le privatizzazioni (anche qui parziali).
- Privattizzazione delle aziende pubbliche previa ristrutturazione ed eventuale modifica del quadro regolamentare del settore di riferimento per favorire la concorrenza e quindi la crescita nel lungo periodo.
Per avere un’idea dei provvedimenti concreti da adottare, consiglio di dare un’occhiata qui.
Negli ultimi anni qualcosina si è mossa nel nostro Paese anche se gli sforzi risultano ancora insufficienti. La situazione economica del nostro Paese è precaria e c’è chi addirittura paventa il rischio di una leggera contrazione del PIL nel terzo trimestre di quest’anno. Per ristabilire la crescita nel medio termine e ridurre il peso del debito è necessario, quindi, migliorare tutti i punti elencati in precedenza.
La produttività è un concetto tanto elementare quanto fondamentale e come tale dovrebbe essere al centro dell’agenda di qualsiasi governo con un piano radicale per ristabilire le condizioni essenziali affinché sia possibile investire e liberare risorse male utilizzate o addirittura inutilizzate affinché possano essere impiegate in maniera più produttiva e permettere al Sistema Paese di tornare competitivo sui mercati internazionali.