7
Apr
2015

Prima che esca, 4 conti sul DEF per capire di che tasse morire

Tra oggi e venerdì, è atteso il varo da parte del governo di tre documenti essenziali di politica economica: il DEF, il documento che fissa gli obiettivi e le ipotesi macro sottostanti per la prossima legge di stabilità 2016 e per il triennio successivo; il PNR, Piano nazionale delle riforme, che aggiorna gli interventi strutturali più importanti dell’agenda governativa e la loro stima sull’innalzamento del prodotto potenziale italiano; la Nota di aggiornamento del Patto di stabilità e crescita europea, cioè la valutazione dell’impatto che le nuove manovre del governo avranno rispetto agli obiettivi concordati con la Ue di riduzione del deficit e di rientro del debito pubblico.

Sono tre moduli programmatici molto attesi, perché in questo 2015 siamo al primo anno di ripresa del PIL dal calo che era tornato a metà 2011, dopo gli abissi registrati dal 2008 fino a metà 2009. Ma è sbagliato credere che il ritorno alla crescita semplifichi le cose. Molti sono i vincoli davanti al governo, e i più pesanti li ha decisi lui stesso, nella legge di stabilità 2015. A partire dalle tre clausole di garanzia di aumento delle tasse tra 2016 e 2018, per complessivi 72 miliardi. Il primo gradino che scatterebbe nel 2016 riguarda oltre 16 miliardi, di cui 12,8 dal solo aumento dell’aliquota ordinaria IVA dal 22% al 24% (che potrebbe poi salire fino al 25,5% nel 2018). Cerchiamo ora di fissare solo alcuni punti essenziali, per capire come giudicare le decisioni che assumerà il governo.

Allo stato delle cose, l’impegno dell’Italia è di chiudere il deficit pubblico al 2,6% del PIL in questo 2015, per scendere all’1,8% nel 2016. Significa circa 10 miliardi di minor deficit, l’anno prossimo. Aggiungiamoci, per tenerci stretti, la necessità di finanziare le riforme almeno più essenziali che identificano sin qui le scelte di fondo più incisive del governo: il bonus 80 euro anche per il 2016, la decontribuzione anche nel 2016 dei nuovi contratti a tempo indeterminato, la riforma della scuola. Il bonus 80 euro, quand’anche non lo si estendesse rispetto agli attuali percettori come il governo ha più volte promesso, vale circa 10 miliari di euro. La decontribuzione ai contratti di lavoro stanziata per il 1015 vale 1,8 miliardi: per molti non basterà, ma diciamo che almeno 2 miliardi servono anche nel 2016. Quanto alla scuola, l’impegno del governo nel 2016 vale 3 miliardi. Queste sole tre riforme, dunque, necessitano di 15 miliardi almeno di copertura, che sommati ai 10 miliardi di minor deficit portano il conto – spannometrico, ma è per semplificare – a circa 25 miliardi. Se, come il governo ha dichiarato la settimana scorsa, l’intento prioritario è di non far scattare il primo scaglione delle clausole di salvaguardia fiscale, a cominciare dagli oltre 12 miliardi del solo aumento previsto dell’IVA, ecco che il conto delle misure da finanziare sale a circa 37 miliardi di euro se si intende eliminare solo l’aumento IVA, a 41 poi se si conferma la volontà di evitare qualunque aumento di tasse.

Prima di immaginare come sia possibile farlo senza effetti recessivi, spostiamoci a considerare un’altra colonna: quella dei fattori “esogeni”, cioè derivanti dagli impegni europei, e dall’andamento intanto sottostante del PIL.

Con ogni probabilità, il governo potrebbe mirare a contrattare con Bruxelles un abbattimento della metà della soglia di riduzione del deficit 2016, spostandolo verso l’alto dall’1,8 al 2,2 o 2,3% del PIL, in ragione del fatto che la bassa crescita italiana comparata con quella degli altri partners europei anche quest’anno ci valga un’interpretazione “corretta per il basso ciclo” del nostro obiettivo nel 2016 di disavanzo pubblico e di avanzo primario. L’azzeramento del deficit strutturale (cioè sempre corretto per il ciclo), slitterebbe per l’Italia dal 2017 al 2018: ciò che la Francia ha già ottenuto a dicembre scorso. In questo caso, la riduzione del deficit 2016 scenderebbe da 10 a 5 miliardi, e di conseguenza da 41 a 36 miliardi scenderebbe l’ammontare complessivo delle misure da finanziare con la legge di stabilità per il 2016.

Quanto alle riforme confermate nel PNR (e finanziate in legge di stabilità), il governo potrebbe puntare a valutarne come effetto positivo una riduzione pluriennale della differenza tra andamento del PIL reale e PIL potenziale pari a un terzo di quella attuale (su come si misura econometricamente questa differenza c’è una discussione aperta tra Italia e Bruxelles). Tale riduzione, se accolta da Bruxelles, con molto ma molto ottimismo potrebbe valere fino ad altri 4 miliardi di bonus, facendo scendere il conto complessivo da 36 a 32.

Quanto alla crescita del PIL, sappiamo che non possiamo contare in questo 2015 su una significativa crescita nominale cioè dell’inflazione, e il governo ha già fatto sapere che non andrà oltre un aumento delle stime di crescita reale dal +0,6% precedente al +0,7%, per immaginare invece un 2016 molto più positivo, che salirebbe dal +1% precedente verso il +1,5%, e magari anche con un’inflazione che torni verso l’1,5-1,8%. E’ ovvio che più si è ottimisti sulle stime di crescita 2016, più l’effetto è positivo sugli incassi pubblici anche ad aliquote invariate, in un Paese in cui il totale delle entrate pubbliche 2014 è salito al record del 48,1% del PIL. Diciamo che il governo potrebbe far scendere, per maggiori entrate da crescita senza variazioni di aliquote pari a mezzo punto di PIL, la sua stima ottimistica di conto complessivo da finanziare da 32 a 25 miliardi. Restiamo lontani dai 20 miliardi di cui parlano i giornali. E in ogni caso gli aumenti di entrate da crescite future, in un paese a bassa crescita e alto debito, diventano poste molto scivolose da farsi approvare in sede comunitaria.

Diciamo dunque che, anche nella più ottimistica delle ipotesi, il governo deve indicare e assumere decisioni intorno almeno a 25 miliardi di nuove coperture, se non vuole che i suoi conti ballino troppo. Che rinunci al bonus 80 euro, alla decontribuzione dei contratti o all’incremento di risorse per la scuola, sarebbe un clamoroso e inaccettabile voltafaccia. Di conseguenza la domanda diventa: quante di queste risorse è realistico immaginare verranno da programmi di riduzione della spesa?

Se il governo, 13 mesi fa, avesse fatti propri gli obiettivi e le misure indicate dal commissario Carlo Cottarelli, i conti tornerebbero già: perché gli interventi proposti allora, se applicati immediatamente, avrebbero tagliato la spesa pubblica di 7 miliardi nel 2014 e di 18 miliardi nel 2015 in corso, per poi salire a 34 miliardi di minor spesa nel 2016. Ma il governo ha lasciato il piano Cottareli nel cassetto, e Renzi ha anzi detto a Pasqua al Messaggero che non erano poi idee geniali.

Eppure, è di lì che devono ripartire Gutgeld e Perotti,i due nuovi incaricati della revisione della spesa: ancora una volta esterni al MEF mentre invece l’indicazione degli interventi su spesa e tasse dovrebbe essere la responsabilità politica più alta del premier e del ministro Padoan, poiché l’esperienza da Giarda in avanti ha insegnato che la politica lascia a esterni l’indicazione dei tagli, per poi più agevolmente cambiarli e ridurli al lumicino trattando con i soggetti che dai tagli proposti sono investiti.

Al momento, nessuno immagina che possano venire misure di taglio superiori ai 10 miliardi, sommando qualche miliardino in meno dall’attuale struttura delle agevolazioni fiscali e ai sussidi alle imprese, più nuovi taghli alle Autonomie, ma lasciando da parte il ricalcolo delle pensioni retributive elevate, come gli interventi radicali che Cottarelli aveva indicato sui costi della politica (700 milioni), come il taglio di 1,5 miliardi dei trasferimenti a Fs, o il risparmio di almeno 2 miliardi sulle partecipate locali (che il governo sin qui ha deciso di non toccare, per evitare scontri con Regioni e Comuni alle quali ha tagliato 4,3 miliardi e 800 alle Province nella legge di stabilità per il 2015). Ma il governo può sempre stupirci, e smentire chi si aspetta poco.

Bisogna dunque sperare che Renzi questa volta prenda il timone in mano. Per evitare tre rischi. Il primo:  che il governo abbracci uno scenario nel quale si scongiura l’aumento dell’IVA, ma si recuperano poi nuove entrate aggiuntive comunque, per esempio attraverso una local tax che facesse ulteriormente salire la pressione fiscale locale sul mattone già ascesa oltre i 50 miliardi nel 2014, di cui oltre la metà come componente patrimoniale a carico delle famiglie. Il secondo: che il governo spinga troppo verso l’alto le sue attese di crescita – reali e nominali – poi destinate a sgonfiarsi, ricollocandoci sul mesto record del paese europeo che più ha barato sulla crescita attesa per ben 14 punti di PIl  tra i vari governi succedutisi dal 2008 a oggi (verdi articolo di Enrico Marro sul Corriere di stamane). Il terzo: che il governo chieda in Ue deficit aggiuntivi oltre quelli che abbiamo già indicato, sovrastime degli effetti a breve delle sue riforme, e via contnuando in un negoziato sfibrante che inizia a maggio di quest’anno per continuare fino a fine dicembre.

Noi la pensiamo diversamente. Per rafforzare l’esile ripresa, l’obiettivo dovrebbe essere non quello di non far salire le entrate, ma di diminuirle enrgicamente rispetto al 2014, su lavoro e imprese. E per far questo i tagli di spesa devono essere finalmente energici e decisi. A meno di scommettere tutto sull’azzardo di riaprire il conflitto con l’Europa. Per poi ritrovarsi con gli antieuro naturalnmente più forti, visto che la rirpesa italiana resterebbe mefiticamente asfittica. Molti sarebbero pronti a seguire questa strada. A noi, nei giorni in cui sulla tenuta della Grecia continuano ad accumularsi nubi pesanti, non appare una scelta responsabile.

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