14
Apr
2016

Prepensionati in part time a esborso pubblico: ma perché, quando zero finora per povertà?

Il cantiere delle pensioni italiane non si ferma mai, l’instabilità di orientamenti della politica è sempre alla ricerca di nuovi interventi. Che, come effetto, alimentano una percezione pubblica di totale insicurezza in milioni di italiani. Ieri è stato approvato il decreto attuativo di una delle due misure previdenziali previste nella legge di stabilità 2016, relativo al prepensionamento anticipato in forma di part time. Lo dichiaro subito: non sono per nulla d’accordo. Non capisco proprio, con un governo che non ha ancora fatto nulla per la povertà (potrei aggiungere: né per i giovani disoccupati, numeri alla mano della somma di Jobs ASct e decontribuzione sullo stock occupati 2016 su 2015)), come e perché si trovino fondi pubblici per far passare chi un lavoro ce l’ha a tempo indeterminato a un part time, pagandogli i contributi figurativi come se restasse a tempo pieno e assicurandogli retribuzione aggiuntiva esentasse. Proprio non lo capisco, è solo un’ulteriore conferma che politica e sindacato hanno in mente che sta relativamente meglio, rispetto a chi sta sicuramente peggio.

Ma prima di capirne significato e impatto, serve una premessa, sui numeri previdenziali complessivi.

Tutti ripetono che la spesa previdenziale italiana è stata messa in sicurezza come in nessun paese europeo. In realtà la spesa previdenziale annua è di 4 punti di Pil superiore alla media europea: noi siamo sopra il 16%, e a legislazione invariata nei prossimi 4 anni la spesa crescerà di ulteriori 20,5 miliardi, passando dai 261,9 previsti nella Nota Def per il 2016 ai 282,4 del 2019. A farla crescere, essenzialmente la demografia dell’Italia: cresce la longevità ma non il tasso di partecipazione al lavoro e l’occupazione. Sono queste le cifre che dovrebbero essere costantemente ricordate, da sindacati e  partiti che chiedono incessantemente di tornare ad abbassare i tetti previdenziali in graduale salita, disposti dalla riforma Fornero. Viene sollevato ripetutamente l’argomento che prepensionare servirebbe a creare automaticamente posti di lavoro per i giovani: quando non funziona affatto così, perché in presenza di alta inoccupazione le imprese continuano a preferire lavoratori le cui abilità sono già formate, cioè non i giovani. Persino a fronte dell’elevatissima decontribuzione offerta alle imprese nel 2015 per i contratti a tutele crescenti, a giovarsene sono stati gli over cinquantenni con oltre 280mila occupai aggiuntivi, mentre tra i 35 e 49 anni abbiamo perso 206 mila occupati in Italia, se raffrontiamo fine febbraio 2016 con lo stesso mese del 2015, e per i più giovani la variazione è stata inferiore alle 20mila unità. Da qui al 2050 la spesa previdenziale non scenderà mai sotto il 15% del Pil, come ha scritto la Ragioneria Generale dello Stato nell’ultimo Rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo di sistema pensionistico e socio-sanitario, presentato a luglio scorso.

Abbiamo sin qui speso oltre 12 miliardi per i 7 interventi di salvaguardia dei cosiddetti esodati, finendo per comprendere in 180mila soggetti tutelati sempre più over 55enni disoccupati di lungo periodo, in realtà non direttamente colpiti dalla riforma Fornero. E in legge di stabilità 2016 il governo ha giustamente respinto le proposte – forti anche nel Pd – di abbassare per tutti l’età pensionabile, accogliendo invece la proroga della cosiddetta opzione donna, per risolvere il problema di un requisito pensionabile che nel 2016 sarebbe salito per le dipendenti del settore privato di 22 mesi nel solo 2016, e poi il part-time incentivato di cui appunto ieri è stata approvata la norma attuativa.

In realtà, si tratterà di un regime sperimentale per al più 15-20mila soggetti, finanziato infatti con soli 60 milioni di euro per il 2016 (il titolo di Repubblica stamane sui 400mila soggetti ai quali sarebbe riservato è, mi spiace dirlo, un’asinata: con che soldi?) . Riservato ai dipendenti privati – non pubblici,né autonomi – con almeno 20 anni di contributi, che maturino entro fine 2018 il requisito anagrafico previsto dalla legge Fornero e cioè che abbiano a fine 2015 almeno 63 anni e 7 mesi di età. Le donne non escluse, come tutti ripetono, a loro si è già provevduto: le nate nel 1951 potevano già andare in pensione, e idem dicasi per quelle della classe ’52 in questo 2016 grazie a una deroga alla Fornero. Per la classe femminile 1953, il requisito Fornero si raggiunge solo nel 2019, quindi solo per loro nulla da fare. Questi soggetti potranno andare in part time agevolato con riduzione d’orario fino al 60%, con l’erogazione in busta paga da parte dell’impresa in maniera esentasse dell’equivalente che sarebbe stato versato dall’azienda come contributi se il rapporto fosse prestato a tempo pieno, e contributi figurativi versati anch’essi dallo Stato (quindi: versati per finta, coperti in deficit) come se il contratto restasse invariato. I contributi figurativi sono a carico statale, ed è su questi che scatta il tetto dei 60 milioni. I primi che sottoscriveranno accordi di questo genere ne avranno diritto: finita la dote prevista nel bilancio pubblico, il diritto non sarà più esercitabile ( a Repubblica hanno deciso di non accorgersene).

Quel che si può prevedere, dunque, è che a beneficiarne saranno poche migliaia di dipendenti, per lo più di grandi gruppi che saranno i più lesti. Insomma, è l’ennesimo intervento a latere. Che farà però scaldare i motori alle richieste che puntualmente verranno riavanzate al governo da destra e sinistra nel prossimo autunno, per abbassare radicalmente per tutti di 2-3 anni i tetti previsti dalla legge Fornero.

Il governo ha promesso che qualcosa farà. Ma le diverse proposte sin qui dibattute, quella dell’onorevole Damiano come quella del presidente Inps Boeri, sono tutte caratterizzate dall’aggravare nel breve il deficit previdenziale. Il responsabile economia del Pd Taddei e il sottosegretario Nannicini, che a palazzo Chigi ha in mano i dossier di finanza pubblica, ripetono sempre che l’intervento dovrà essere a parità di deficit, cioè con tagli agli assegni proporzionati all’anticipo previdenziale. E la decisione finale sarà presa solo quando, di qui a 6 mesi, sarà un po’ più chiaro il quadro della crescita europea e del deficit aggiuntivo complessivo accordatoci.

Quel che non entra in testa a politica e sindacato è che col sistema contributivo la flessibilità d’uscita è sì coerente  benvenuta, ma bisogna accettare assegni più bassi quanto prima si accede alla pensione rispetto ai tetti previsti dalla Fornero, cioè a parità attuariale della rendita spalmata in più anni generata dal montante versato. E’ molto difficile pensare che nel prossimo autunno questa idea venga accettata, visto che sindacati, destra e sinistra pensano ai consensi immediati e non all’equilibrio di bilancio previdenziale (ogni anno: poco meno di 100 miliardi vengono all’Inps dalla fiscalità generale). In quel caso, saranno i giovani, come sempre, a pagarne le conseguenze: perché saranno loro a dover pagare ancora coi loro scarsi contributi – funziona così il sistema a ripartizione – le pensioni accordate in anticipo a soggetti rispetto ai quali i giovani non avranno mai una pensione equivalente.  Il resto, lo metteremo noi contribuenti.

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