Precari e merito: i due criteri su cui preoccuparsi della sbandierata “buona scuola”
Tra pochi giorni sapremo in concreto qual è il punto di caduta della “buona scuola”, la riforma alla quale giustamente Matteo Renzi, il ministro Giannini e l’intero governo annettono grande importanza. E’ persino inutile dire che hanno ragione, visto che la formazione del capitale umano è una componente essenziale del recupero del gap nazionale che abbiamo accumulato in termini di produttività e competitività. Le graduatorie PISA sull’arretratezza della preparazione data agli studenti italiani in materie essenziali, a cominciare da quelle matematico-scientifiche fino alla comprensione elemntare ed elaborazione di testi, è lì da anni a dimostrarlo.
MA degli annunci ormai è meglio on fidarsi. Un giudizio sarà possibile, dopo tanti mesi di preparazione, solo a testi presentati e letti. Il governo sottolinea i fondi mobilitati, un miliardo quest’anno e tre a cominciare dal 2016, il nuovo ruolo dei dirigenti scolastici per dare più vigore all’autonomia di ogni istituto, l’introduzione del tutor e del mentor: vedere per credere. Ma due criteri di fondo, dice il governo, dovrebbero rappresentare la svolta: il merito e la valutazione. Fermiamoci allora a questo, ferrati dalla lezione – anche sotto questo governo – che il diavolo si nasconde nei dettagli.
Perché merito e valutazione sono essenziali? Semplice, purtroppo. Perché al di là delle novità nei programmi e materie, del 5 per mille promesso anche per le scuole, del diritto allo studio potenziato (che però è di competenza delle Regioni…) e di tanti altre novità che giudicheremo, proprio il merito e la valutazione sono due crinali attraverso i quali giudicare l’intera riforma. Per capire una cosa: se per la prima volta da decenni si guarda alla scuola e al sistema formativo adottando il punto di vista prioritario delle necessità di chi la frequenta e delle loro famiglie, o se invece si continua a privilegiare l’ottica a cui la cattiva Italia pubblica ci ha abituato da decenni, e cioè che si interviene sulla scuola innanzitutto pensando a chi ci lavora dentro, insegnanti e personale tecnico ATA.
Il governo innalza fieramente la bandiera “mai più precari nella scuola”. In effetti, siamo tanto per cambiare inadempienti con l’Europa, che da anni minaccia sanzioni visto che abbiamo accumulato nella scuola, per ragioni clientelari, 180mila precari a tempo in diverse forme. Uno dei pilastri della riforma è la piena assunzione nei ruoli dei 146 mila precari delle cosiddette graduatorie a esaurimento. Il governo dice che 120 mila di loro verranno messi a ruolo dal prossimo settembre. Vedremo come davvero sarà disciplinato questo delicato tema. Innumerevoli studi – per ultimo quello pubblicato la scorsa settimana dalla Fondazione Agnelli – comprovano che quei 146mila o 120 mila che siano rappresentano un problema. Sono geograficamente squilibrati: troppi al Sud, che per le proiezioni sulla popolazione scolastica dovrebbe scendere dal 40% dell’organico attuale al 37% nel 2025; e pochi al Nord, che invece dovrebbe salire dal 40 al 42%. Sono troppi in materie per cui i posti in organico non sono previsti tanto numerosi, e pochi nelle materie in cui gli organici sono carenti, come matematica e scienze. E sono inoltre anche composti da chi per anni non ha insegnato, o non ha mai insegnato per niente. Mentre chi ha seguito intanto il percorso abilitante per prove spendendo di tasca propria – i 10 mila del cosiddetto Tfa – non sarebbero premiati. E’ evidente che una sanatoria generale risponde solo al problema (grave) di ordine sociale di questa vasta fascia di lavoratori pubblici. Ma la qualità della scuola è un altro paio di maniche, chiede criteri selettivi.
Quanto alla valutazione, la proposta originaria del governo messa in consultazione ipotizzava un salario di merito valutato a livello d’istituto. Su questo i sindacati hanno innalzato le barricate. Il governo continua a dire che il merito avrà un ruolo essenziale sia nella valutazione sia nella retribuzione. Ma quanto è emerso sino ad oggi fa pensare che purtroppo si potrebbe scendere di parecchio sul totale del compenso, estendendo ultyeriormente la sua fascia di attribuzione. I sindacati chiedono voce in capitolo: perché di mezzo naturalmente c’è il blocco pluriennale dei contratti pubblici, e l’egualitarismo che il mero criterio delll’anzianità ha sempre premiato. Già si era partiti da un salario di merito aggiuntivo che doveva toccare comunque almeno a due terzi dei docenti di ogni istituto – un criterio pessimo, una valutazione seria si fa per punti e non per quote. Il rischio è di approdare a metodi ancora più indigeribili.
Uno dei pilastri di una “buona scuola” è sicuramente un serio e attendibile sistema di valutazione dei docenti. Serve una valutazione fondata su principi allineati ai migliori standard internazionali, come abbiamo più volte ricordato, e per essere credibile andrebbe affidata per la maggior parte a valutatori terzi, rispetto ai docenti e ai dirigenti scolastici alla testa degli istituti. Le anticipazioni del decreto in arrivo nulla dicono sinora in concreto del metodo con cui si procederà alla valutazione, tranne ribadire che dovrebbe spettare ai singoli istituti ( e già non ci siamo).
Vedremo quanto la vincerà l’anzianità, e quanto l’assunzione di massa indistinta ancora una volta si spiegherà soprattutto con criteri di premio elettorale futuro. Sarebbe una grande occasione persa. Perché prima del promesso prossimo concorso nazionale, con una popolazione studentesca che dal 2014 al 2024 per demografia scende da 9,8 a 9,7 milioni, passeranno vent’anni. Ma, naturalmente, il governo già sin d’ora nelle sue anticipazioni lo promette per il 2016 o 2017. Tanto, c’è chi paga…
Come si può pensare di premiare il merito in un sistema chiuso e, di fatto, monopolistico? Solo se le famiglie possono liberamente scegliere le scuole, le scuole possono assumere o licenziare, espandersi o contrarsi nel numero di classi, solo potendo aprirne di nuove – qualora esistesse una domanda potenziale non soddisfatta – e chiudere quelle non all’altezza, solo in queste condizioni, in un “mercato” libero, si può premiare davvero il merito!
Chi deve esprimere la valutazione (finale) sul merito di una scuola? I clienti/utenti o qualche asettica (e ridicola) commissione di burocrati?
In un sistema come l’attuale, l’attribuzione di potere discrezionale rischia (e il rischio si concretizzerà) di diventare elemento di distorsione e clientelismo!