Politiche industriali: la dottrina dei fatti – di Gerardo Coco
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Gerardo Coco.
Recentemente, il Ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha auspicato il ritorno a IRI e Mediobanca come modelli in grado di “organizzare e difendere il sistema” da piani antiscalate estere. Il Ministro è sempre stato ideologicamente incline a riservare allo Stato un ruolo di indirizzo dello sviluppo industriale includendolo tra le forze economiche decisive del sistema sociale. Tempo fa invitò il pubblico ad acquistare i titoli di stato come la “cosa più buona che ci sia”.Come dire che il risparmio, cioè il capitale, debba affluire allo Stato perché in grado di spenderlo meglio delle imprese private. Il sogno di molti politici in Europa è il ritorno ad un dirigismo economico in grande stile per sopperire alla incapacità dei privati di sostenere gli investimenti e creare occupazione. Essi pensano che in tempi di recessione la riesumazione della politica industriale sarebbe l’ideale per superare le emergenze economiche. Su questo tema è opportuno richiamare alla memoria il modello di pianificazione italiana a cui si è riferito il Ministro.
Nel dopoguerra l’Italia ebbe una politica industriale che si basò sull’Istituto della Ricostruzione Industriale (IRI) e sulle partecipazioni statali. L’obiettivo era di pianificare una serie di interventi finalizzati al salvataggio e al sostegno finanziario di singole grandi imprese. Con la creazione dell’IRI si affermò in Italia una forma di economia mista che non ha avuto eguali nei paesi occidentali. L’IRI era una conglomerata di proprietà dello stato, con una dotazione iniziale della Banca d’Italia e la facoltà di emissione di obbligazioni a garanzia statale per convogliare il risparmio ai fini dello sviluppo industriale. Questo sistema guidato da amministratori e manager pubblici di nomina politica rappresentò la politicizzazione dell’economia e fu travagliato da memorabili scandali, ai quali non rimase estraneo il settore privato (come testimoniano le vicende del banchiere Roberto Calvi e del finanziere Michele Sindona, finite tragicamente). L’IRI, che fu estinto nel 2000 e comprendeva 250 complessi industriali e finanziari, assorbì praticamente un quarto dell’intera raccolta bancaria prosciugando l’Italia di risparmi e capitali. La politica industriale, che dette origine ad una simbiosi tra potere politico, bancario e il capitalismo delle grandi famiglie consacrata nei “salotti buoni” dell’epoca, si fondò sulla massimizzazione dei debiti, sul salvataggio di gruppi industriali fallimentari, e fu il veicolo del finanziamento dei partiti politici. E’ in quest’epoca che nasce la “finanza corsara” appoggiata dai politici pigliatutto. Tutte le istituzioni furono contagiate da questo sistema di corruzione, in primis gli istituti bancari di diritto pubblico. Esempio paradigmatico di commistione dei vertici con i poteri politici dell’epoca che più che una casta rappresentava un sistema di clan, fu il dissesto del Banco di Napoli, una delle più antiche banche italiane, entrato poi nell’orbita di Banca Intesa. A causa delle ingenti sofferenze riportate grazie all’opera di “valorizzazione industriale” del Sud, lo storico istituto nel 1993 risultò insolvente e il salvataggio del governo costò 2.000 miliardi di vecchie lire. In realtà le risorse finanziarie bruciate nel corso di un decennio ammontarono al doppio cioè ad una cifra equivalente alla spesa sostenuta per entrare in Europa. Come spesso avviene in Italia, questo immane scandalo non impressionò più di tanto forse perché tutto il paese era diventato una bisca gigantesca a cui tutti si erano assuefatti. Di recente è stata rilanciata da Tremonti la Cassa Depositi e Prestiti come strumento di intervento a sostegno dell’economia. Attenzione: la storia non si ripete ma fa la rima, diceva Mark Twain.
Quanto agli istituti bancari privati come la vecchia Mediobanca di Enrico Cuccia a cui il Ministro si ispira per il rafforzamento di gruppi privati, fu definita un cimitero di elefanti decrepiti. Essa creò un sistema finanziario protetto per salvare e riesumare cadaveri industriali. Memorabile è il caso dell’industria chimica italiana (Montedison) salvata quattro volte e mai decollata. Ad ogni salvataggio il contribuente italiano pagò il conto. In compenso la grande industria chimica in Italia fu estinta.
Questo dunque, per sommi capi, è stato il profilo della politica industriale italiana, un intreccio fra affarismo politico, industriale e finanziario che si era posto l’obiettivo di esercitare un controllo oligarchico sull’economia. Ma fu un tentato omicidio a danno del mercato. Che sopravisse, ma la ferita è ancora aperta e sanguinante per la somma di questi infortuni: un immane debito pubblico. E’ superfluo spendere parole sul fatto che la politica industriale proprio perché “politica”, è sempre associata ad un regime fiscale punitivo per finanziare inefficienze e corruzioni sottraendo capitali all’industria privata scoraggiandone l’espansione, gli investimenti e l’occupazione.
Grazie alla politica industriale l’Italia ha dunque ha perso decenni di sviluppo industriale.
Ci si domanderà come sia riuscita a salvarsi dopo tante dissipatezze. Ad assorbire i danni e a difendere l’economia italiana contro “il colpo di stato economico”, perché questo è l’obiettivo della politica industriale, fu l’economia di mercato dell’imprenditoria minuta considerata dai politici come un retrobottega, la quale tenacemente e silenziosamente senza l’appoggio di salotti, di politici e di politica industriale creò il made in Italy il terzo marchio al mondo per notorietà dopo Coca-Cola e VISA e che designa quel processo di creazione artigianale e industriale che ha portato l’Italia a competere nel mondo ad onta degli orrori della politica industriale. Le piccole e medie imprese scamparono al massacro fiscale rifugiandosi nel sommerso e destinando i capitali sottratti allo stato predatore ad investimenti produttivi.
Fra i protagonisti “organici” al processo di pianificazione industriale bisogna naturalmente ricordare il sindacato, che con il suo strapotere e collettivismo egualitario rese impossibile la governabilità delle aziende costringendo l’elite imprenditoriale o alla fuga dei capitali o a accomodamenti con la politica per scaricare le perdite sul settore pubblico. Questo è l’unico “patto sociale” (tacito) che in Italia abbia veramente funzionato.
Si potrebbe osservare che la politica industriale sia fallita per le caratteristiche intrinseche alla società italiana e che in un contesto diverso di articolazione di potere il sistema avrebbe potuto funzionare. Non bisogna infatti dimenticare che, dalla fine degli anni ‘50, dopo la democrazia cristiana, il Partito Comunista fu il secondo partito politico ed il più forte dell’Europa occidentale con l’obiettivo dichiarato dell’abbattimento dello Stato borghese. Il capitalismo misto, nella forma di politica industriale, avrebbe rappresentato dunque una soluzione intermedia capace di attenuare l’ostilità al mercato di gran parte del ceto politico e, attraverso l’interventismo, garantire rapporti sociali ed economici meno conflittuali.
Ma è illusorio pensare che in un contesto sociale e culturale mutato la politica industriale possa funzionare.Essa si basa su un compito impossibile destinato a degenerare in arbitrio: quello di pensare di pianificare una struttura industriale ottimale.
Per aver successo, infatti, dovrebbe essere capace di identificare meglio del mercato quali industrie favorire per la crescita e quali escludere cioè sapere come e dove allocare capitale e lavoro meglio di quanto lo possa fare un regime di libera concorrenza. Il che è impossibile perché dovrebbe sostituirsi al processo imprenditoriale che può essere guidato solo dalle informazioni che rendono possibile l’uso efficiente delle risorse cioè quelle che provengono dal conto profitti e perdite. Alcune imprese crescerebbero a spese di altre e crescerebbero, come sappiamo, quelle legate al potere politico da cui la politica industriale direttamente emana e che non ha per guida l’efficienza, ma l’elettorato.
Il governo parlamentare trasformandosi in governo di lobbies falserebbe tutto il processo conoscitivo di mercato dirottando le risorse di capitale verso quelle incapaci di produrre ricchezza netta. Avrebbe luogo l’inefficienza economica permanente che significa consumare più risorse di quanto se ne producano.
Se non si crede alla teoria ci si attenga almeno all’esperienza e si consideri l’esito fallimentare del dirigismo economico in tutti quei paesi dove è stato applicato. Non si cerchi nulla dietro i fenomeni, essi stessi sono la dottrina, diceva Goethe. E la dottrina dei fatti ci dice che le politiche industriali rappresentano il dissesto programmato dell’industria attraverso la dissipazione di capitale per generazioni.
Caro Oscar, non ce la faccio più.
Oggi in ufficio è arrivata l’ ennesima raggomandata dell’ agenzia delle entrate con una sanzione di 6 (sei) euro.
Lo sconforto sta lasciando il posto alla rabbia per cui ho deciso di munirmi di forcone, pece, piume e una berlina (e non intendo un’ auto a tre volumi) per recarmi di fronte ad un ministero qualsiasi e aspettare.
Sono convinto che questi balzelli siano un metodo becero dello stato per fare cassa e c’ è l’ assurda pretesa che un cittadino, lavoratore e contribuente non si irriti.
Ho pensato ad una class action ma è sconsigliabile per le perdite di tempo/denaro e per la struttura organizzativa che dovrebbe comportare, l’ unica soluzione sarebbe una commissione d’ inchiesta su queste frodi statali ma la mia sfiducia è tale da pensare che un ladro non documenterà mai i suoi furti.
Spero che lei comprenda questo mio sfogo e che , nel caso, prepari un po’ di pece per solidarietà.
Sempre un suo fedele ascoltatore,
Mattia B.
non so che mestiere faccia il signor coco, e per altro non si capisce afftto quale tesi voglia sostenere : che non serve una politica industriale ? ma allora è più che accontentato : con berlusconi e tremonti di politica indutriale non se n’e’ vista nemmeno l’ombra e mi sembra che i numeri del paese negli ultimi dieci anni siano infatti tragici, per usare un eufemismo.
Però due perle vanno messe in risalto:
1)””Fra i protagonisti “organici” al processo di pianificazione industriale bisogna naturalmente ricordare il sindacato, che con il suo strapotere e collettivismo egualitario rese impossibile la governabilità delle aziende costringendo l’elite imprenditoriale o alla fuga dei capitali o a accomodamenti con la politica per scaricare le perdite sul settore pubblico.””
Chi come me è imprenditore, ha fatto il presidente di associazioni industriali, è stato in giunta di confindustria, non credo possa essere sospettato di filosindacalismo, ma da lì a dire che è stato il sindacato a costringere l’elite imprenditoriale alla fuga dei capitali o a scaricare le perdite private nel pubblico ce ne corre : quelle elite imprenditoriali portavano i soldi all’estero perchè fondamentalmente disoneste e i capitali frutto di nero e corruzione e scaricavano le perdite sul pubblico perchè politici e banchieri corrotti aspettavano solo quello per incassare tangenti : i carrozzoni pubblici venivano costituiti apposta per quello, come ammortizzatore sociale, ma la gente per bene non li usava.
2)””Non bisogna infatti dimenticare che, dalla fine degli anni ‘50, dopo la democrazia cristiana, il Partito Comunista fu il secondo partito politico ed il più forte dell’Europa occidentale con l’obiettivo dichiarato dell’abbattimento dello Stato borghese.””
Bene credo debba sapere che il partito comunista italiano non ha dedicato un minuto della sua attività ad abbattere lo stato borghese : ha piuttosto amministrato molto bene le regioni dove negli anni settanta e ottanta più prosperava l’impresa privata e la crescita delle pmi e lo sviluppo del capitalismo italiano.
Ci fosse un amministratore della lega con la cultura e l’attenzione alle imprese di certi sindaci comunisti che ho conosciuto…
Alla fine comunque la domanda e’ quali sarebbero le caratteristiche “liberali” della destra attualmente al potere? secondo me neanche mezza.Qui stiamo solo sprofondando nel più bieco qualunquismo e populismo sudamericano.
1) Strano tipo di imprenditore. Se la prende con Gerardo Coco perché sostiene una cosa ovvia, ovvero che sono gli imprenditori e non lo Stato a sapere dove è meglio investire e poi, non potendo fare altro, conferma che Coco aveva assolutamente ragione dato che i carrozzoni pubblici venivano costituiti “apposta per quello”, ovvero per finanziare gli industriali farabutti. Ora la domanda sorge spontanea: se la politica industriale è fatta distribuendo soldi alle industrie attraverso i carrozzoni pubblici, e i carrozzoni pubblici vengono fatti apposta per finanziare gli industriali farabutti, perché mai l’idea di Tremonti di ricostituire l’Iri non solo non le provoca un senso di orticaria, ma è l’unica iniziativa del governo attuale che sembra non voler criticare?
2) Le caratteristiche “liberali” della destra attualmente al potere sono paragonabili più o meno a quelle dei governi di sinistra che lo hanno proceduto, ovvero assolutamente nulle. Ma questo non è un buon motivo per dire che le sacrosante critiche ai “finanziamenti dei farabutti”, siano meno sacrosante perché a proporre la politica assistenziale è un governo di sinistra piuttosto che di destra. Tantomeno populiste. Il Governo migliore è quello che governa meno. Ce lo insegna non tanto Reagan o la Tatcher, ma il fallimentare Obama.
Articolo molto interessante, ma vorrei citare due “contro-esempi” per non renderlo schematico.
1) Il caso Olivetti, ditta privata di cui lo stato italiano si servì come fornitore privilegiato (vendeva a Poste, Ferrovie e PA dell’hardware ad un rapporto prezzo/qualità decisamente dannoso per l’erario) e quando finì di mungere la vacca, molti dipendenti licenziati, come ammortiizzatore sociale entrarono nella PA.
2) Nell’IRI non era tutto inefficienza. Vi sono stati “bojardi di stato” a loro modo geniali onesti e molto capaci. Ricordo solo Ettore Bernabei e Francesco Silvano. (E’ vero che c’è da domandarsi se costoro fossero stati al vertice di grandi aziende private….)
@Roberto Bera
1-Olivetti non deve il suo fallimento alle forniture alla PA, ma anche ad altre concause.
2- Non so chi fosse presidente dell’IRI all’epoca, ma Alfa Romeo si limitò a fare una joint venture con Nissan e produssero la ARNA. L’acquisizione degli stabilimenti Nissan da parte di Alfa Romeo (IRI) non era stata valutata di interesse. Poi i Francesi della Renault (RégieF.) mandarono in Giappone un certo Ghosn, e dopo un paio di anni, la Nissan passò sotto la Renault. Régie F. è l’equivalente francese della nostra IRI. Perciò all’epoca i Francesi seppero meglio degli Italiani come vedere il futuro!
@Michele Bendazzoli
proviamo a dare un senso alle parole:
1.coco scrive una serie di cose mal affastellate con l’intento di dimostrare che è meglio che uno stato NON abbia una politica industriale e per giustificare affermazioni apodittiche tira dentro di tutto: sindacati, PCI, Mediobanca, assegnando ad ognuno caratteristiche e colpe molto discutibili ed anche male assegnate.
Trovo che in un capitalismo senza capitali, che è la vera caratteristica del capitalismo all’italiana, il fatto di aver avuto non tanto una politica industriale quanto Enti come IRI o ENI non sia stato affatto negativo, in una prospettiva storica complessiva: se poi si vuole dedicare attenzione solo ai singoli scandali quelli non sono mancati, ma credo che il giudizio complessivo debba essere ben meditato.
2.Attenzione ci sono stati carrozzoni pubblici com EFIM quasi esclusivamente dediti al malaffare con la complicità di tanti imprenditori privati.
3.Raramente lo strumento è cattivo: il problema è come lo si usa.
4.In una nazione in cui si spacciano per imprenditori anche gli agenti di commercio, le partite iva e i taxisti, un pò di programmazione economica non fa male.
5.Dopodichè si può fare Politica Industriale in una logica di indirizzo , senza strumenti immediatamente operativi : questo è più che opportuno e non se ne vede traccia nella politica di tremonti, che anzi pensa a cose assolutamente obsolete e da evitare come la banca del sud o l’uso improprio della cassadepositi e prestiti: dirò di più a me qualunque iniziativa di tremonti fa venire l’orticaria.
6.Appurato che di caratteristiche liberali in questo governo non c’e’ traccia, credo sia un pò troppo pretendere che la sinistra sia più liberale della destra…anche se a ben vedere proprio la sinistra ha tentato un approccio ai problemi economici un poco più liberale, andando in parte contronatura e in parte facendo un pò di confusione.
7.Ma il problema non è la sinistra, è questa specie di destra populista e ignorante che non serve a nulla e quando fa, fa danno.
8. insegnamenti non ne ho visti arrivare nè da Thatcher,nè da Reagan e nemmeno da Obama.
9.concludo : nella tragica situazione economica odierna un governo che avesse un programma di politica industriale, di attrazione degli investimenti, di sviluppo di filiere economiche, di rorganizzazione fiscale in una logica di migliorare la competitività del sistema, sarebbe di gran lunga preferibile a questo papocchio targato berlusconi e tremonti.
@Giovanni Bravin
Infatti, io intendevo dire che Olivetti era una industria privata che lucrava con i soldi dell’erario e quando, per altre cause è fallita, lo stato si è ancora accollato i costi sociali del suo fallimento.
Inoltre, come eccezioni di boiardi di stato che si sono dimostrati capaci, non ho citato Ettore Massacesi, me ne guarderi bene!
Posto che a Gerardo Coco non serve una difesa da parte mia, dato che lo considero più bravo e competente di me, e quanto scrivo è solo una mia opinione riguardo ad alcuni punti di quanto scrive nei suoi commenti, cercherò anch’io di precisare anch’io il senso della parole che sono state scritte. Ad ogni buon conto sarà anche l’ultima , dato che non vorrei che l’articolo di Gerardo Coco fosse l’occasione per inserire fra i commenti, dei veri e propri articoli di replica che eventualmente, su Chicago Blog, c’è comunque la possibilità di pubblicare.
Coco fa una serie di affermazioni precise peraltro supportate da numeri che, o lei è in grado di smentire o abbia pazienza, non può classificare come “mal affastellate”. Dopo di che noto che lei, al contrario di Coco, ha un’opinione positiva sulla “politica industriale” portata avanti attraverso l’IRI (utilizzare i soldi delle tasse per salvare e sostenere finanziariamente aziende significa esattamente fare “politica industriale”, ovvero decidere su che settori e aziende puntare con i soldi di pantalone) ma anche qui: o le si impegna a portare cifre e argomentazioni che supportino la sua opinione (e in tal caso a mio avviso, un articolo a parte, meriterebbe la pubblicazione su Chicago Blog), oppure la sua resta un’opinione come la mia o quella di qualsiasi altra persona che si ritrova al bar a discutere di politica (senza peraltro che ci sia nulla di male a ritrovarsi al bar a discutere di politica).
Il problema è che l’uso che si fa dello strumento che, parlando fuori di metafora, sono sempre i soldi, il capitale, dipende dalle motivazioni di chi li utilizza: se i soldi li usa l’imprenditore, egli lo fa per portare guadagni alla sua azienda e farla crescere, se li usa un politico, o un amministratore sponsorizzato da un politico, lo fa per aumentare il numero di voti a suo favore. Almeno se crediamo che ogni individuo faccia i propri interessi e non che la casta sia in realtà che una semplice accolita di uomini convertiti sulla via della santità.
Se c’era una cosa che avevo apprezzato del precedente governo di sinistra, era stata il tentativo, pur fallito, di liberalizzare professioni come quelle dei tassisti, che per essere esercitate necessitano di un unico requisito: la patenta di guida. Programmare “un po’” attività economiche come quelle citate, ha portato solo all’aumento del costo del taxi, e alla loro penuria. Per quanto riguarda poi la presunta necessità di far aumentare le dimensioni delle aziende, mi limito a ricordare, come peraltro già fatto notare nell’articolo, che a salvare l’Italia dalla bancarotta “fu l’economia di mercato dell’imprenditoria minuta considerata dai politici come un retrobottega, la quale tenacemente e silenziosamente senza l’appoggio di salotti, di politici e di politica industriale creò il made in Italy il terzo marchio al mondo per notorietà dopo Coca-Cola e VISA e che designa quel processo di creazione artigianale e industriale che ha portato l’Italia a competere nel mondo ad onta degli orrori della politica industriale”.
Concordo, ma rilancio: il problema non è “solo” questa specie di destra populista e ignorante che sta al governo, ma la mentalità, condivisa da tutto l’agone politico e purtroppo anche da molti cittadini e imprenditori, che la soluzione possa arrivare tramite la politica, quando l’immane debito pubblico che ci grava sulle spalle, che pagheremo per generazioni e generazioni , e che è finanziato con un livello di tassazione che per i sfortunati che le tasse sono costrette a pagarle tutte, non ha eguali al mondo , e lì a dimostrare il contrario.
Per attrarre investimenti è molto facile, sarebbe sufficiente ridurre drasticamente il livello di tassazione e liberalizzare la possibilità di fare intrapresa. Ma per fare questo bisogna ridurre il debito pubblico, ovvero lo le spese, che invece è proprio il contrario dell’obiettivo che hanno i politici: aumentare le spese per “comprare” consenso.
@Michele Bendazzoli
guardi rinuncio.
non ho alcun interesse a discutere nel modo che lei propone, decontestualizzando in modo manicheo qualunque affermazione: è troppo banale e in gran parte inutile.
chi vuol capir, capisca.
Mi pare che criticare un articolo parlando di frasi “mal-affastellate” senza riuscire a smentirne nemmeno una e poi accusare me, che ho risposto citando l’intero suo messaggio, di decontestualizzare le sue affermazioni sia francamente un po’ troppo.
Vero invece che ho dovuto scrivere cose banali e scontate, i concetti interessanti li aveva espressi nell’articolo Gerardo Coco.
bellissimo articolo, anche troppo moderato. Al di là di tante chiacchere noi italiani dobbiamo fare una cosa soltanto: affamare la bestia con tutti i mezzi possibili, non c’è più tempo… vede Grecia, Spagna etc.