Pizza che fattura versus pizza che fa cultura—di Gemma Mantovani
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.
L’on. Pecoraro Scanio passerà alla storia per questa sua epica battaglia? Sarà colui che tramuterà in arte il fare la pizza napoletana, facendo diventare questa arte patrimonio immateriale dell’umanità? Nella petizione si sottolinea che “La falsificazione dei prodotti alimentari made in Italy, fenomeno denominato ‘italian sounding’, si allarga a macchia d’olio, producendo enormi danni alla nostra economia e, secondo le ultime stime Coldiretti, costerebbe all’Italia 300.000 posti di lavoro”. L’“immateriale” idea di pizza nella poetica dei nostri politici ecosostenibili e no global è sicuramente avvalorata dal fatto che il business della pizza in Italia non è stato minimamente in grado di creare i numeri reali, in ricavi ed in posti di lavoro diretti e legati all’indotto che, invece, hanno saputo realizzare altri. Già, perché le più grandi catene di pizzerie nel mondo sono tutte straniere e tra queste le prime 5 sono Pizza Hut, Domino Pizza, Papa John’s Pizza, Little Caesars Pizza, Papa Murphy International. Ma non fraintendete è tutt’altro che un’accusa: a chi scrive piacciono anche le invenzioni gringhe come la pizza pepperoni o la pizza California con ananas e salsiccia. Si aggiunga che le più grandi catene di ristoranti di cucina italiana e che offrono anche pizza sono l’americana Olive Garden, fondata nel 1982, con oltre ottocento ristoranti e in Europa, precisamente tedesca, c’è Vapiano, catena di fast food all’italiana nata tredici anni fa che oggi conta 150 ristoranti in 29 diversi paesi del mondo, sparsi su cinque continenti (geniale la pizza vitello tonnato!). Lo stesso discorso si potrebbe fare per i mobili: alzi la mano chi non ha in casa almeno un pezzo svedese e così nell’abbigliamento, i nordici si sono ramificati massivamente con outfits che sanno coniugare prezzi bassi e, bisogna dirlo, un certo buon gusto.
Questo è forse il risultato di anni di politica che si riempie la bocca con la demagogia della “protezione”: proteggerci dagli assalti del cibo e dei prodotti tutti del nemico straniero – ma la protezione è chiusura, è giocare in difesa, è mettersi all’angolo, è escludersi dai mercati del mondo. All’inizio dell’articolo “I trivellatori di Stato” (“Luigi Einaudi contro i trivellatori di Stato” ed. IBL Libri) Einaudi ironicamente cita questo episodio, siamo nell’anno 1911: “Sui giornali si legge una notizia graziosissima: che una reale commissione d’inchiesta nominata per rimediare alla crisi vinicola (…) aveva proposto l’istituzione di degustatori di Stato per distinguere i vini sofisticati da quelli legittimi”. Ci attendiamo concorsi pubblici per degustatori di Stato di pizza napoletana, per proteggerci e mettere al bando quelle non fatte a regola d’arte! Chissà, forse avremmo avuto bisogno di una politica di apertura e non di protezione che facilitasse e agevolasse, allentando la pressione della burocrazia e quella fiscale per liberare le energie e favorire gli investimenti, per realizzare progetti imprenditoriali grandi e solidi. E invece dobbiamo esultare dello status di arte della pizza napoletana, con tanto di protocollo – disciplinare di esecuzione, in compagnia delle altre pratiche culturali individuate dall’Unesco come, ad esempio, l’antico metodo Qvevri di vinificazione georgiano, il rituale mongolo di addestramento dei cammelli e la cultura slovacca della cornamusa…