Più forte Scaroni
La prima scossa si è avvertita sabato in Via Solferino, a Milano. Sul Corriere della sera un breve articolo di Gabriele Dossena spiegava che “sembrano stringersi i tempi per una progressiva uscita dell’Eni dal controllo di Snam Rete Gas“. Ieri una nuova scossa, dalle colonne romane della Staffetta Quotidiana, che ha confermato le indiscrezioni parlando di un obiettivo di riduzione del pacchetto azionario detenuto direttamente da Piazzale Mattei al di sotto del 20-30 per cento. Inoltre, Corriere e Staffetta alimentano la voce sull’intenzione di Snam di dismettere alcuni campi di stoccaggio – probabilmente quelli più prossimi alla scadenza delle concessioni – anche se quest’ultima notizia è stata smentita da una nota dell’azienda. Che sta succedendo?
Sta succedendo che Eni si trova, oggi, a pagare il conto di una troppo lunga resistenza contro la corrente della storia e del mercato. Sicché, in questo inizio di 2010, nel mezzo della recessione, grandina sul gruppo italiano e grandina sul valore del titolo, sceso dai circa 18,5 euro di inizio anno ai 16,50 di lunedì, e risalito a 17 proprio sulla scorta delle indiscrezioni su Snam. Lo stesso titolo di Snam si è impennato al diffondersi della notizia, salendo da 3,45 euro – valore attorno al quale oscillava da un po’ – fino ai 3,5 di adesso.
Grandina sulle partecipazioni ai gasdotti internazionali, messi nel mirino dalla Commissione europea a causa dei presunti comportamenti anticompetitivi. La soluzione individuata – la cessione al mercato dei gasdotti dal Nordeuropa, la vendita a un ente “amico” come la Cassa depositi e prestiti del Tag, il mantenimento degli attuali diritti di transito – non è del tutto soddisfacente, ma di certo innesca un movimento centrifugo che porta, fatalmente, il core business dell’azienda più lontano dalla gestione delle infrastrutture (a chi, contro questo argomento, cala la carta South Stream rivolgo una domanda: dal punto di vista dell’Eni, il business di South Stream sta nell’esercizio del gasdotto, o nella sua realizzazione? Cioè, il protagonista dell’eventuale operazione sarà Eni nel senso della oil company, Eni nel senso della utility, Eni nel senso del gestore di infrastrutture, o Eni nel senso di Saipem?). Grandina, analogamente e con insistenza maggiore, sul fronte regolatorio italiano, dove l’Autorità per l’energia non perde occasione per ricordare la propria posizione a favore dell’unbundling proprietario.
Grandina, infine, dagli azionisti, insoddisfatti dalla performance finanziaria del gruppo. Su tutti, il fondo attivista Knight-Vinke, che con le sue lettere ha sollevato un vespaio di polemiche e ha spinto il management dell’Eni a prendere posizione difensiva, salvo poi aggiustare progressivamente la posizione. Dal niet iniziale, senza se e senza ma, Paolo Scaroni è passato a riconoscere che l’integrazione verticale “non è un dogma” (qui la risposta soddisfatta di Eric Knight) fino, appunto, alle indiscrezioni odierne.
Se il piano illustrato da Corriere e Staffetta sarà confermato, di fatto si tratterà di un significativo passo verso le richieste del fondo americano. Mentre, infatti, sulla stampa si alternavano letture più o meno complottiste dell’operazione Knight, presentato ora come uno speculatore fesso (che avrebbe deliberatamente agito per distruggere il valore della sua partecipazione in Eni), ora come un agente dello Stato Imperialista delle Multinazionali, Scaroni e i suoi facevano i propri conti. Conti molto semplici che, secondo la maggior parte degli analisti, rispecchiano grosso modo l’analisi di Knight Vinke: la struttura anomala dell’Eni nasconde un valore che potrebbe emergere con una più razionale distinzione delle attività e allocazione del debito (che andrebbe messo sulle spalle della GasCo., cioè la parte utility dell’Eni, e della NetCo., cioè il gestore delle reti, e tolto dai piedi della OilCo., la compagnia petrolifera tradizionale che è il cuore pulsante dell’azienda). In questo modo, secondo Knight, potrebbero emergere fino a 50 miliardi di valore, con soddisfazione di tutti.
Con soddisfazione, in primis, di Knight, che ha in mano direttamente l’1 per cento dell’Eni, parla esplicitamente a nome di un altro 1 per cento in pancia al fondo Calpers, e dice di rappresentare una fetta di azionisti che complessivamente possiede un quarto del capitale sociale del gruppo. Facciamogli pure la tara e diciamo che, in realtà, solo la metà, ossia il 12,5 per cento, è d’accordo: questo ne farebbe comunque il secondo azionista, subito dopo il Tesoro che controlla direttamente il 20 per cento dell’Eni, e attraverso la Cdp un altro 10 per cento. Insomma: quella di Knight è una voce che non si può ignorare e alla quale i fatti e le decisioni di Scaroni sembrano, contro ogni aspettativa, dare ragione.
L’ho scritto e lo ripeto: l’anno prossimo scade il mandato di Scaroni. La sua poltrona appare solida ma, forse, non lo è così tanto, e forse lui stesso mira a un cambiamento. In ogni caso, sia che l’amministratore delegato dell’Eni voglia restare, sia che voglia andarsene, chiudere la gestione con un colpo di teatro gli darà fiche migliori che non passare per l’uomo della conservazione. Lasciare il controllo di Snam, se la cessione andrà a favore del mercato e non degli amici di amici, potrebbe essere la mossa con cui Scaroni rimescola le carte e crea valore. Per gli azionisti dell’Eni e per il suo stesso futuro.
Mi pare che due articoli citati siano stati evidentemente fraintesi.
Colitti sul “Sole 24 Ore” non dà dello “speculatore fesso” al fondo Knight-Vinke, ma afferma che, essendo ENI un asset strategico dell’Italia, la questione non va valutata solo dal punto di vista della speculazione borsistica ma anche degl’interessi strategici nazionali, e l’opinione di Colitti – molto più condivisibile di quella di Stagnaro, a mio parere – è che lo scorporo della rete indebolirà l’ENI come agente della politica estera italiana.
Il secondo articolo, quello di Vernole sul sito di “Eurasia”, sostiene che la campagna del fondo americano sarebbe ispirata dal governo degli USA – non da un fantomatico “Stato Imperialista delle Multinazionali” – e mirante ad indebolire la capacità d’azione dell’ENI in un momento in cui diverse sue scelte scontentato Washington.
Colitti scrive che “quello che io considero lo sfascio dell’azienda” non produrrà maggiori dividendi (“quando mai imprese più piccole hanno dato dividendi maggiori e più stabili di quelle grandi?”). Al contrario, “le società che propongono questo genere di operazioni fanno un sacco di soldi preparando le nuove entità ad entrare in Borsa a tutto vantaggio della miriade di consulenti, operatori finanziari, garanti che fluttuano intorno a questi piani di smembramento”. Poiché Knight-Vinke non è un advisor, ma ha in mano un pacchetto del valore di circa un miliardo di euro, se ne deve dedurre che, per procacciare consulenze a terzi, secondo Colitti il fondo è disposto a percepire meno dividendi in futuro. Cioè, è uno speculatore fesso.
A proposito del pezzo di Vernole: appunto.
forse quello che Colitti intendeva è che l’Eni senza il business delle infrastrutture del gas, perde una fetta sostanziale del suo DNA di utility favore di una “one off” monetaria che crea il presupposto per un dividendo sostanzioso per gli azionisti, ma che non sottointende alcuna scelta di investimento industriale. Infatti, dopo tale scorporo l’Eni risulterebbe più piccola, con un business più ciclico, con meno flessibilità finanziaria (è un plus notevole a livello finanziario avere un cuscino di cash flow stabile e sicuro come quello garantito da SRG). Ma soprattutto, perchè rinunciare all’integrazione verticale? Ceduto il TAG a CDP, ceduta una quota di Greenstream ai libici, ceduta Transitgas e Tenp, ceduta la Italgas a SRG, ceduti alcuni giacimenti gas a Gasplus, cedendo infine la quota di controllo di SRG al mercato quali sono i benefici per l’industria italiana, per i consumatori e per gli azionisti Eni che tengono Eni in portafoglio?
Grazie.