13
Nov
2013

Più del secondo figlio, conta se in Cina i comunisti aprono davvero a un pieno diritto di libera proprietà

I media italiani hanno deciso oggi di informare sul plenum del Partito Comunista Cinese dedicato alle riforme economiche puntando nei titoli all’apertura al “secondo figlio”, dopo che dal 1979 Pechino segue la linea del contenimento demografico. In effetti è un tema a forte presa popolare, e la demografia cinese è squilibrata poiché ad alcune coorti demografiche centrali – tipo quella tra i 50 e i 54 anni – mancano molti milioni di individui per effetto della Grande Carestia tra il 1958 e il 1962, nonché dei milioni di persone soppresse negli anni 1966-76 per effetto della Rivoluzione Culturale.

Ma l’importanza della nuova linea cinese sta altrove: nel fatto che si punta a una vera estensione del diritto fondamentale per ogni successiva idea evolutiva di libero mercato, il diritto di proprietà. Vedere per credere, naturalmente. Ma senza di questo dire “più mercato e meno Stato” è un ossimoro, con il partito comunista ferreamente al potere.

E’ vero, il comunicato diramato dal plenum è ancora troppo generico, persino i social network cinesi hanno protestato. Ma già dal tono e da alcuni passaggi del comunicato, emergono segnali di grande importanza.

Innanzitutto compare un aggettivo nuovo rispetto al gergo del PCC: si dice che nei prossimi anni il ruolo del mercato dovrà essere “decisivo”. Sinora, nel post Deng Xiao Ping, si era arrivati nei documenti ufficiali a dire che il mercato aveva un ruolo “basic”, ma mai “decisivo”. L’aggettivo apre la porta a una graduale revisione del meccanismo di controllo politico-amministrativo dei prezzi, che domina ancora vastissimi settori della seconda economia mondiale? Vedremo. La Cina oggi è salita al rango di secondo esportatore e terzo importatore, con un Pil che in un decennio è passato dal 15% planetario a superare il 20%.

Ma i passaggi  di potenziale  vera rottura sono altri. Innanzitutto quello in cui si annuncia di voler rivedere il sistema “a due livelli” di proprietà della terra, che sin qui inibiva – nella vastissima Cina rurale, estranea alle 19 aree a sviluppo speciale costiere – agli agricoltori il pieno diritto proprietario della terra, compresa la sua vendita. “Gli agricoltori devono partecipare ugualmente ai frutti della modernizzazione”, recita il comunicato.

Una successiva affermazione va al centro della questione su cui si gioca la sostenibilità del continuo processo di urbanizzazione avvenuto nell’ultimo quindicennio: 30 anni fa solo il 20% della popolazione cinese era urbanizzata, oggi il 48%. E questa migrazione è necessaria perché in 30 anni grazie ad essa il 40% della manodopera cinese si è spostata dall’agricoltura all’industria e ai servizi. Ebbene a questo proposito il comunicato del plenum annuncia un nuovo criterio di distinzione tra territorio urbano e rurale, consentendo alle città di espandersi più rapidamente e promettendo agli agricoltori un più alto risarcimento se la terra verrà espropriata a fini di sviluppo, oltre che di urbanizzazione.

Un mercato fondiario unificato tra città e campagne superererebbe la negazione stessa dell’idea di mercato sin qui mantenuta in oltre il 75% del territorio cinese. Significa anche la necessità di rivedere il sin qui vigente sistema di registrazione rigida della residenza per i lavoratori rurali, una vecchia eredità dello stalinismo. Ma fare davvero questo porta inoltre – altro passaggio importante della dichiarazione finale – ad aggiornare i livelli sin qui molto asimmetrici dei servizi pubblici tra città e campagne: vengono citati sanità, istruzione e pensioni. Senza servizi adeguati, non si diventa consumatori: ed è questo che serve alla Cina, che deve dipendere meno dal suo export e più dal suo mercato interno.

A deludere gli osservatori, sono invece le frasi dedicate alle grandi imprese che restano controllate dallo Stato. Qui il tono resta ispirato a grande prudenza. Si riconosce che i potenti monopoli di Stato hanno un rendimento economico medio pari alla metà dei gruppi privati delle zone speciali di sviluppo, ma attaccarli direttamente avrebbe significato minare alla base il potere dei militari e del partito. Si preferisce parlare di lotta alla corruzione e agli eccessi della burocrazia, e di graduali aperture per gli investimenti privati ​​e stranieri attraverso la deregolamentazione, già testata nelle zone di libero scambio .

Una forte delusione riguarda poi il silenzio su alcune materie che erano invece molto attese, perché “promesse” dai documenti preparatori del plenum: in particolare per ciò che riguarda un graduale passaggio verso forme di liberalizzazione del tasso d’interesse, e una disciplina più di mercato degli intermediari finanziari pubblici. Il cattivo credito, la pessima qualità degli asset bancari, un vastissimo “sistema bancario ombra”, rappresentano grandi minacce sul futuro della Cina, (meglio non immaginare che cosa avverrebbe nel mondo, in caso di default cinesi a catena). Affrontare questi nodi è premessa obbligata per immaginare una valuta cinese, lo yuan-renmimbi, liberamente fluttuante sui mercati, e non più sottoposta al controllo rigido e politico (ma sin qui sapiente) del suo troppo graduale apprezzamento sul dollaro, come avvenuto in questi anni.

Tuttavia è già molto, che la Cina si metta in moto con tanta ufficialità per un nuovo orizzonte entro il 2020, indicando alcuni dei più importanti terreni della sua persistente arretratezza. Se la paragoniamo all’estenuata mancanza di volontà e coraggio del nostro continente europeo, c’è molto da riflettere.

 

 

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