Perché non sempre è meglio prevenire che curare
Commentando su “L’Occidentale” la condanna inflitta a Madoff per la truffa colossale messi in piedi negli scorsi anni, Salvatore Rebecchini rileva giustamente che ora bisogna evitare
la facile ricetta che vuole regole più severe come soluzione del problema. Certamente una riflessione su eventuali fallacie del sistema si impone, ma la lezione più importante da trarre è che occorre massimizzare l’incentivo da parte degli investitori a verificare la reputazione dei soggetti a cui affidano i loro risparmi. Come d’altra parte occorre che i soggetti affidatari siano incentivati a promuovere e a investire in reputazione. Purtroppo il rischio di nuova e ulteriore regolamentazione è di obnubilare tali incentivi e indurre i soggetti all’acquiescenza, rifugiandosi nella più facile e meno onerosa strategia del tipo: “Adesso ci sono nuove regole e queste ci assicurano correttezza e onestà”.
Rebecchini riprende e opportunamente attualizza una lezione tenuta nei giorni scorsi da Jonathan Macey, persuaso che quanto più la regolazione invade lo spazio economico e sociale, quanto meno è avvertita la necessità di farsi una reputazione e – di conseguenza – di tenere comportamenti corretti: tali da dare effettive garanzie ai nostri interlocutori.
È un altro modo per dire che la moralità si sviluppa nelle società più libere e che la pretesa interventista di chi vuole prevenire ogni errore con una limitazione della libera iniziativa (e quindi con l’adozione di meccanismi regolatori) finisce per depotenziare quelle regole spontanee dell’interazione umana su cui maggiormente possiamo fare affidamento se vogliamo affrontare non del tutto disarmati la dimensione sempre strutturalmente aleatoria del futuro.
In talune circostanze si può affermare che “prevenire è meglio che curare”, ma questo non vale sempre. In particolare non vale dinanzi alla pretesa dei pianificatori della vita sociale di eliminare ogni rischio ed ogni errore attraverso una crescente compressione degli spazi di libertà.