Per una disciplina unica del licenziamento individuale ingiusto
Le ipotesi di riforma dell’articolo 18 che sono circolate nei giorni scorsi convergono su un punto: distinguere tre diverse tipologie di licenziamento. Il licenziamento impugnato dal lavoratore e ritenuto ingiusto in sede giudiziaria verrebbe dunque sanzionato con tre diverse modalità: (1) se il giudice rileva discriminazione resterebbe l’obbligo di reintegro del lavoratore discriminato, (2) nel caso in cui il licenziamento sia stato motivato da ragioni disciplinari verrebbe data al giudice la facoltà di decidere tra il reintegro e un risarcimento e, infine, (3) se il licenziamento è stato motivato da ragioni economiche il giudice potrebbe soltanto notificare un risarcimento (il cui ammontare sarebbe già stabilito in funzione dell’anzianità). Nelle righe che seguono riassumo quali sono le conseguenze negative dell’articolo 18 e perché un intervento simile sarebbe poco efficace sulle stesse.
Gli effetti negativi dell’articolo 18.
In base alla ricerca che ho svolto recentemente, il maggiore danno creato dall’articolo 18 è quello di aver reso il licenziamento individuale quasi impossibile. O meglio, il datore di lavoro è liberissimo di licenziare un dipendente, sapendo però che questi potrebbe impugnare il licenziamento e iniziare una causa che potrebbe durare anni. Benché il processo del lavoro segua un iter più rapido rispetto al processo civile, una ricerca di Confartigianato del 2010 rivela che il tempo medio di risoluzione di un processo per licenziamento è pari a 696 giorni in Italia, mentre in Olanda ne bastano 19, in Spagna 80 in Francia 342. Il datore di lavoro inoltre potrebbe esitare ad effettuare il licenziamento per il timore che la giustizia sia un po’ più dalla parte del lavoratore. Una ricerca di Andrea Ichino mette in dubbio la totale imparzialità dei giudizi mostrando che la percentuale di sentenze favorevoli al lavoratore è superiore nelle regioni italiane dove il tasso di disoccupazione è superiore. E ancora: il datore di lavoro sa che se perde la causa viene costretto al reintegro del lavoratore –senza alternativa – e al pagamento del salario e contributi maturati per tutto il periodo del procedimento: a questo risarcimento non è previsto un tetto massimo. L’assenza di un massimale e l’impossibilità per il datore di lavoro di poter optare per un risarcimento monetario al posto del reintegro rappresentano due anomalie rispetto a come viene disciplinato in Europa il licenziamento individuale. Come ricordano Alessandra Del Boca e Paola Rota “anche le spese procedurali hanno un’asimmetria a favore del lavoratore: se il datore di lavoro vince, le spese giudiziali sono divise tra le parti. Se invece viene condannato deve sostenere anche le spese legali della controparte. Questo è un incentivo per il lavoratore a ricorrere alla via legale.”
Il costo economico di questo sistema non è banale ed è quasi impossibile da quantificare in termini monetari. Il costo economico per il datore di lavoro dell’articolo 18 va al di là dell’ammontare dei risarcimenti: è piuttosto un costo in termini di incertezza. Incertezza che grava sul datore di lavoro nel non poter gestire il rischio di licenziare un dipendente: non sapendo quanto potrebbe durarmi e costarmi un licenziamento non posso decidere in maniera ottimale se licenziare oppure no un dipendente sleale oppure inefficiente.
Inoltre questa incertezza non è compensata da un opposto vantaggio per il dipendente! Il lavoratore deve restare in attesa della sentenza per anni e se perde non ottiene alcun risarcimento. E questa impossibilità nel licenziamento individuale ha un costo economico più generale e ancora più difficile da quantificare: l’articolo 18 – rendendo il licenziamento individuale estremamente pericoloso per il datore di lavoro – mette il dipendente in posizione di comportarsi in maniera opportunistica.
Sarebbe ingenuo pensare che questi costi sul lavoro dipendente (aggravati da questo enorme costo atteso del licenziamento individuale) siano semplicemente costi che colpiscono tout court l’imprenditore. In realtà sono costi che gravano sul lavoratore dipendente e rendono più caro questo fattore produttivo: il risultato è quello di incentivare la sostituzione del lavoro dipendente con capitale o con lavoro autonomo.
Come intervenire sull’articolo 18
Sulla lunghezza del procedimento giuridico non è facile intervenire con successo; al massimo, si potrebbe permettere di fare un maggiore ricorso ad un arbitro, che però mi risulta essere piuttosto costoso in Italia. Si è anche parlato di creare una procedura rapidissima per il licenziamento; eppure già oggi al processo di lavoro è accordata una procedura più rapida. Perché non cercare piuttosto di far funzionare l’iter attuale? Mi risulta che a Torino e a Milano i tribunali siano già riusciti ad organizzarsi in maniera efficiente e che in quelle regioni normalmente un processo di lavoro duri pochi mesi. Al contrario al Sud anche i contenziosi sui licenziamenti durano anni.
L’intervento fondamentale dovrebbe essere il concedere sempre la possibilità al datore di lavoro di optare tra il reintegro e un risarcimento monetario. In secondo luogo, prevedere un tetto massimo per il valore del risarcimento. In questo modo il datore di lavoro saprebbe che un licenziamento può costare al massimo X. E questa X può essere anche una cifra grande: l’importante che sia ben determinata e elimini l’incertezza sul costo di un licenziamento che sussiste oggi.
I rischi di scomporre l’articolo 18, come ipotizzato dall’attuale riforma.
Non facciamoci illusioni: procedere ad un licenziamento individuale esclusivamente per motivi economici non sarà mai del tutto possibile. Occorrerà sempre ricorrere alla procedura di licenziamento collettivo che coinvolga almeno 5 dipendenti oppure prepararsi a pagare il risarcimento per licenziamento ingiusto. Questo perché, finché si continuerà a lasciare in mano ad un giudice – persona esterna all’impresa – la facoltà di stabilire se quel motivo economico che ha motivato il licenziamento individuale fosse reale oppure no, il datore di lavoro sarà sempre soggetto al rischio di veder definito il licenziamento ingiusto e questo – a causa dei giudizi influenzati anche dal livello di disoccupazione locale – sarà un evento molto frequente. L’importante, anche in questo caso, è che a questo risarcimento venga posto un tetto e l’imprenditore possa scegliere in maniera ottimale se sia più conveniente pagarlo oppure non licenziare un dipendente perché il costo di mantenerlo nell’organico è inferiore all’ammontare del risarcimento.
Il fatto che i licenziamenti economici non potranno mai essere consentiti da una nuova norma è reso evidente dal paradosso attuale creato dalla nozione di giustificato motivo oggettivo. Benché infatti l’articolo 18 preveda che un licenziamento sia giusto se motivato da oggettive ragioni economiche-organizzative, nella vaghezza di questa denominazione l’effetto della norma dipende da come essa è stata interpretata. A tale proposito la Corte di Cassazione (sentenza 10 maggio 2007 n. 10672) riconosce che “le ragioni, inerenti all’attività produttiva, possono, dunque, derivare, oltre che da esigenze di mercato, anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali che ne siano le finalità, e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti”. Questa interpretazione – che consentirebbe al datore di lavoro la libertà di licenziare un dipendente anche solo per diminuire i costi o aumentare i profitti – non è coerente però con la prassi giuridica che si è consolidata nel tempo. Nella giurisprudenza, infatti, si sono ben delineati due principi che restringono molto la libertà del datore di lavoro nel licenziamento individuale per motivi economici. Il primo di questi è il cosiddetto obbligo di repechage: se il datore di lavoro sopprime una figura professionale deve dar prova di non aver potuto ricollocare quel dipendente in una mansione equivalente (e a condizione che quest’ultima non sia “dequalificante”) nell’intera azienda, e non solo nella sede o nel reparto cui il medesimo lavoratore era addetto. Il secondo principio consolidatosi nella giurisprudenza è il divieto di sostituzione: in questo caso è ben evidente l’incoerenza con il principio enunciato dalla Corte di Cassazione e ricordato in precedenza. A causa di questo divieto, infatti, se il datore di lavoro volesse sostituire un dipendente con un altro più efficiente o meno costoso, gli è vietato di farlo.
Nel caso disciplinare il licenziamento è stato motivato da un comportamento del lavoratore che ha presumibilmente compromesso il rapporto di fiducia tra questo e il datore di lavoro. Le voci sulla futura riforma dicono che in tal caso spetterebbe al giudice scegliere tra un risarcimento e il reintegro. Nuovamente: dovrebbe essere data al datore di lavoro la facoltà di scegliere tra il risarcimento e un reintegro. Se il rapporto di fiducia sia ricucibile oppure no, dovrebbe stabilirlo il datore di lavoro.
Infine stabilendo una disciplina immutata nel caso in cui il giudice ravvisi una discriminazione che abbia portato al licenziamento si incorre in due rischi: il rischio che i licenziati cerchino di ottenere il reintegro cercando di far passare quel licenziamento come discriminatorio oppure che categorie potenzialmente discriminabili diventino iperprotette. Di nuovo, all’interno di quelle categorie iperprotette il dipendente sarebbe nella posizione di comportarsi in maniera opportunistica. Inoltre appare una norma alquanto inefficace: se si considera che in termini numerici le discriminazioni lavorative in Italia riguardano le donne (a causa dei costi per il datore di lavoro imposti sulla maternità), una norma simile avrebbe solo l’effetto di ridurre le assunzioni di donne. La discriminazione di genere si sposterebbe cioè dal momento del licenziamento a quello dell’assunzione.
Per una disciplina unica del licenziamento individuale ingiusto
Concludendo, tutte queste considerazioni portano a richiedere una disciplina unica, chiara e semplice, del licenziamento individuale. Una norma di due righe tipo: “Il risarcimento in caso di licenziamento ingiusto è stabilito in X giorni per ogni anno di anzianità con un massimo di Y mesi di salario”. In Spagna, ad esempio, queste variabile sono state fissate (con la riforma del lavoro del mese scorso) in 33 giorni per ogni anno di anzianità con un massimo di 24 mesi di salario. In secondo luogo, la riforma del lavoro potrebbe prevedere un sistema di sostegno al reddito e al reinserimento anche per chi perde il lavoro anche a seguito di un licenziamento individuale. L’importante è tenere distinti questi due aspetti: stabilire se c’è stato un licenziamento ingiusto (e in tal caso sanzionarlo) non dovrebbe essere confuso con il sostegno al reddito di un lavoratore che viene licenziato.
E ci mancherebbe! I minimarchionne d’ Italia sarebbero pronti a ritoccare al ribasso i compensi ad ogni mese, con la minaccia del licenziamento.
Sono d’accordo sull’analisi del problema, almeno in parte. Non mi convince dire che l’imprenditore reagisce all’art.18 rivolgendosi al lavoro autonomo o al lavoro di capitale: il lavoro autonomo, se è tale, non sostituisce il lavoro dipendente. Se è finto, non è consentito dalla nostra legislazione: che nessuno denunci è altro discorso. Inoltre il passaggio ad un’economia capital-intensive dovrebbe essere la regola, al di là di art.18 o meno, che anzi semmai non aiuta perché non consente il licenziamento per aumentare efficienza.
E non dimentichiamoci che la vera reazione è “tanto ormai i miei mercati sono all’estero, quindi emigro”.
Non sono per nulla d’accordo con le soluzioni proposte: il reintegro è una follia, deve essere tolto e basta, innanzitutto per il lavoratore, che vive una situazione orribile nel dover tornare a lavorare in un luogo in cui nessuno lo vuole. Mettiamo rimborsi monetari e mettiamoli fissi: 24 mesi per licenziamento economico/efficientamento, 12 mesi per licenziamenti disciplinari, un multiplo pesante (60? 72?) per licenziamenti discirminatori. E lasciamo che il giudice possa decidere solo quello.
Non mi piace per nulla che la buonuscita sia legata all’anzianità, perché istituzzionalizziamo ANCORA una volta un mercato a due velocità: chi è dentro da tanto ha tutti i vantaggi, dato che il suo licenziamento costerebbe di più. Già esiste questa follia dello scatto di anzianità che a parità di mensilità di buonuscita renderebbe più costoso il licenziamento di più anziani, se poi ci mettiamo anche un moltiplicatore otteniamo il risultato di avere imprese sempre più gerontocratiche. E questo è il VERO problema delle imprese oggi, che continuiamo a peggiorare.
Stante tutto ciò, però, per fare una riforma di questo tipo servono ammortizzatori sociali veri, seri, importanti, universali. Condizionati, imho, perché non credo sia efficace dare soldi pubblici senza pretendere nulla in cambio, ma sicuramente molto lontani da quelli odierni e da quelli che ci si prospettano dalle “voci” sulla riforma.
Incredibilmente non ci sono soldi per questo: e la cosa non ha senso rispetto all’imposizione fiscale e non ha senso soprattutto pensando che gli ammortizzatori sociali sono anticiclici e quindi soldi spesi davvero bene.
In tutto questo è assolutamente incomprensibile, se non con interessi di parte, la posizione dei sindacati che si mettono a difesa del posto di lavoro e non del lavoratore: non riesco a capire perché gente che chiama gli imprenditori “padroni” sia così attaccata ad una specifica azienda e uno specifico posto di lavoro.
“Benché il processo del lavoro segua un iter più rapido rispetto al processo civile, una ricerca di Confartigianato del 2010 rivela che il tempo medio di risoluzione di un processo per licenziamento è pari a 696 giorni in Italia, mentre in Olanda ne bastano 19, in Spagna 80 in Francia 342.”
D’accordo discutiamo della riforma dell’art.18,ma non dimentichiamoci che comunque un’impresa straniera per venire ad investire in Italia e di conseguenza venire a creare posti di lavoro (che cominciano a scarseggiare sempre di più)deve poter contare su tempi rapidi e certi per l’amministrazione della giustizia,procedimenti amministrativi chiari e semplici,infrastrutture funzionanti.oggi queste cose non ci sono e se può essere importante attualizzare questo articolo 18 da cui sembrano dipendere le sorti del Paese dall’altra parte mi aspetterei però interventi altrettanto rapidi e decisi sui soliti mali che affliggono il nostro Paese.
Mi associo: gli interberi sull’art 18 lasceranno un sacco di genteper strada visto che nessuno va investire dove c’è una pressione del 70% sulle imprese, burocrazia sovietica e incertezza del diritto
l’azienda con fatturato di n milioni contro il dipendente!!!!,
direi che lo squilibrio del sistema è forte, sarei anch’io per una maggiore equità, ad esempio le spese dovrebbero essere tutte a carico dell’azienda e che in ogni caso l’azienda deve un minimo, direi 24, di mensilità al lavoratore (se questo perde) , mentre se vince oltre alle 24 mensilità si aggiunge una percentuale del fatturato dell’azienda (esempio 5% ) come indennizzo e deterrente per il futuro.
il mondo va visto con le lenti a contatto se sei miope.
@Marco Tizzi
Mi domando : Come mai in CH funziona perfettamente tutto senza ARTICOLO 18 ? Nonostante crisi disoccupazione praticamente inesistente e in più una marea di frontalieri che lavorano ? ( ops. dimenticavo e senza il famigerato €) Sara anche banale la domanda ma è la realtà !
@Roberto Manzoni
Ci sono un’infinità di cose che andrebbero copiate dalla Svizzera e lo dico pur non essendo un liberista a spada tratta.
Al di là dell’Euro, perché comunque le monete vanno anche gestite, non basta avere la propria sovranità monetaria per diventare un Paese dove si sta bene.
Per quanto riguarda il lavoro sinceramente preferisco un sistema di ammortizzatori sociali condizionato, quello svizzero non lo è perché essendo fondamentalmente privato è un’assicurazione, ma sicuramente se potessi scegliere tra oggi e la Svizzera non avrei dubbi.
Questo governo tecnico, se aveva un minimo di senso, e per me non l’aveva, l’aveva per fare riforme serie e toste senza guardare in faccia a nessuno.
Non è successo, non succede, non succederà: i professori hanno sempre fatto molta fatica a mettere in pratica ciò che insegnano. Si tagliano le pensioni e si alzano le tasse. Wow.
Quindi la montagna partorirà il topolino e non andrà da Maometto.
Basterebbe un semplice copia e incolla dell’ordinamento sul lavoro della CONFEDERAZIONE . Funziona talmente male male che votano per non avere le ferie aggiuntive (referendum di sett scorsa ) e l’ultimo sciopero risale ai tempi di Carlo Codega !
Giannino stamattina ha citato l’illuminante articolo di Ricolfi su LA STAMPA . LEGGETELO !!!! Peccato che siamo in pochi con lo stesso idem sentire . Tutti presi dalla masochistica sindrome di stoccolma de ” la tassa è bella e giusta ” Il perchè e il per cosa si paga è assolutamente marginale / inutile . La tassa è bella a prescindere !
Il moloch STATO ti da servizi , quali ? Che mi frega dei suoi servizi , lasciami i soldi in tasca che i servizi che mi servono me li cercao io !!
Ne butto li 2 : 300.00’€ per il carnevale spesi dal comune di Milano è un servizio ? L’ufficio RIMOZIONE CAROGNE dell’ASL 1 di Napoli è un servizio ? . Per Dio, fucili caricati a sale grosso e fuoco a volontà su questo stato LADRO e oltretutto ASSASSINO !
@Roberto Manzoni
Leggiti la mia letterina oggi su il GIORNALE circa spead . E’ solo una raccolta di dichiarazioni, che però messe insieme rendono l’idea ( hanno fatto una piccola ,ma interessante correzione ,rispetto all’originale spedito , sarà forse per zerbinaggio ? )
@Marco Tizzi
Concordo con quanto scrive Marco: il reintegro è un’assurdità, anche in caso di discriminazione a danno del dipendente. Provate ad immaginare di dover continuare a lavorare in un’azienda dove, per qualsiaisi motivo, non vi vogliono, sarebbe un vero inferno, un vero ergastolo, che neppure per un omicidio lo danno più.
Si monetizzi tutto in modo congruo e si semplifichi l’iter, con ricorso ad arbitrato, e lasciamo i che i giudici si occupino d’altro.
Potremmo vederla così: lo Stato ha bisogno di risorse molte, moltissime. Perchè ha altissimi costi dovuti ad una moltiplicazione tutta italiana di ruoli, uffici, politici presenti in tutti i livelli e in molteplici situazioni societarie e istituzionali, costi dovuti ad un peso enorme della Pubblica Amministrazione, alla sicurezza e alla intoccabilità di fatto di questa, consolidatasi e lievitata nel tempo. Allora che si fa? Si recuperano le risorse con le tasse in vario modo, dirette, indirette, mascherate, ecc. Questo mette ancor più in crisi il sistema produttivo che già “non è sufficientemente competitivo ” e che occorre rendere più adatto a sostenere la crescita come si dice in tutte le salse e in tutti i media (o quasi). Quindi occorre dargli più mano libera e consentire di licenziare anche per motivi “economici” così se non ce la fa, l’azienda mette fuori un pò di gente. A me sembra giusto e lo dico senza ironia! Il sistema produttivo “deve” farsi carico del peso enorme e perchè no anche crescente se necessario della struttura Stato anche se Esso non ha evidentemente nessuna intenzione di ridurlo drasticamente, come la “sua” situazione economica richiederebbe! Si discute assai dell’art. 18 e vediamo che i sindacati sono molto attenti e sorvegliano che le modifiche non siano troppo penalizzanti per i lavoratori del settore produttivo che devono portare il peso della crescita , mentre quegli altri della P.A. non sono interessati art. 18 , loro poverini sono impegnatissimi a far funzionare la macchina pubblica!
@rccs
In realtà mi sembrerebbe difficile che ciò accada, rccs, in un Paese in cui i compensi per tante categorie sono fissati da una contrattazione collettiva e valida su tutto i territorio. No?
@Emilio Rocca
Beh, però la recente esperienza FIAT ha stabilito che i CCNL valgono solo fino a quando l’azienda lo vuole far valere, altrimenti esce dalla associazione e contratta quello che gli pare come gli pare.
Non dico sia ingiusto, fatto sta che invocare la contrattazione collettiva come strumento che possa evitare il fenomeno paventato da rccs mi pare oramai insufficiente.
@Giuseppe Ferrari
Hai perfettamente ragione Giuseppe. Per completezza però bisogna dire che i CCNL hanno un effetto anche nel caso in cui l’azienda esca dalla associazione. In sede giudiziaria infatti sono usati come riferimento per stabilire se la retribuzione sia equa. In questo modo, esiste pur sempre un limite a quanto un datore di lavoro possa “ridurre di mese in mese il compenso con la minaccia del licenziamento” – il fenomeno paventato da rccs. Oltre un certo limite il dipendente potrebbe fargli causa e il giudice continuerebbe a far riferimento ai CCNL.
Mi riferisco a questa sentenza della Cassazione:
“…è stato ripetutamente affermato da questa Corte che integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che[…]approfittando del mercato di lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie alle leggi e ai contratti collettivi”.
Caro Emilio, posto che un livellamento ai minimi sindacali è più “socialismo reale” di quanto mi auspico. Posto che sono anni che in questi ambienti (liberal, intendo) ci si straccia le vesti per i CCLN che sono brutti sporchi, superati e cattivi e non tutelano il lavoratore (che sarebbe tutelato meglio con contrattazione individuale di 3o, 4o, ennesimo livello). Hai mai dato un’occhiata ai compensi dei CCLN e all’ambiguità delle categorizzazioni che permettono a un professionista tecnico laureato di avere come minimo salariale 950 euro in busta?
@rccs
Mi scusi, mi spiega cosa c’è di male che un “professionista tecnico laureato” (cosa significa???) abbia un MINIMO di 950 euro al mese?
Magari non è capace di fare il suo lavoro. Magari non è capace di lavorare in un team. Magari non fa nulla dalla mattina alla sera. Magari gioca a Sudoku o passa la giornata su Facebook o a tacchinare le sue colleghe.
Piuttosto facciamo che la parte oltre quei 950 euro non sia tassata e vedrà che i salari si alzano.
@rccs
Infatti non intendevo difendere la contrattazione collettiva. Soltanto dire che mi sembra che nell’Italia di oggi eliminare il divieto di sostituzione individuale di un dipendente non porta automaticamente a consentire al datore di lavoro di “ricattarlo ogni mese per un compenso inferiore”.
@Marco Tizzi
Il problema è proprio il salario minimo stabilito per legge, che rappresenta la prima causa della disoccupazione.Andrebbe semplicemente abolito.
probabilmente sono tonta, ma proprio non capisco: visto che i tempi ‘giudiziari’ sono lunghi, allora bisogna eliminare l’art.18?
@Emilio Rocca #19: non vorrei scadere nello squallido, ma ci sono altre forme di ‘compenso’ o di ‘flessibilità’ che potrebbero essere richieste (intendevo la piena disponibilità a straordinari senza preavviso, a cosa avete pensato?!).