Per una breve storia del capitalismo nelle campagne italiane
Parlando dell’opportunità di liberalizzare il mercato agricolo e liberarlo dalle insopportabili pastoie della Pac, una delle obiezioni che mi sento più spesso rivolgere è quella secondo la quale il mercato non si adatta all’agricoltura. All’agricoltura europea, e in particolare a quella italiana, fatta di aziende poco estese e poco competitive, sarebbe estranea la mentalità capitalistica, e la sussistenza garantita dalla Pac è il “meno peggio” a cui il settore può ambire, soprattutto nel mondo globalizzato contemporaneo. Ora, io ritengo questa idea profondamente sbagliata, per molte ragioni. La prima delle quali è il fatto che il capitalismo non solo non è estraneo alle campagne, ma addirittura nelle campagne è nato e si è sviluppato, molto tempo prima della rivoluzione industriale. E proprio nelle campagne dell’Italia centrale e settentrionale, in particolare, tra il XV e il XVI secolo.
Dato che questo era il tema della mia tesi di laurea (purtroppo mai presentata) in storia moderna, provo, quindici anni dopo, a tornare sull’argomento, sperando che la memoria non si sia troppo arrugginita, e scusandomi se non offro riferimenti bibliografici adeguati: i testi a cui faccio riferimento sono finiti sugli scaffali più alti della libreria, e nelle file posteriori…
Partiamo da una premessa. Il sistema feudale del basso medioevo è stato destrutturato da molti fattori: il primo politico, con le città che hanno preso progressivamente il posto dei borghi feudali nel controllo (e nel possesso) del territorio. Nelle guerre tra fazioni che portavano un signore a prevalere sugli altri la popolazione aveva il suo ruolo e veniva per lo più ripagata con l’affrancamento dal servaggio. La servitù personale era già un fenomeno in estinzione al tempo delle signorie. Un altro socio-economico, costituito dal processo, abbastanza frequente nel corso di tutto il Medio Evo, ma aggravato dalle grandi guerre europee, di “carestia-epidemia-carestia”. Alla fine del ‘300 l’Europa era in piena crisi demografica.
Come apparivano le campagne italiane in questo momento? In molte zone d’Italia la carne di cervo costava meno di quella di bue, segno che le foreste ancora dominavano il paesaggio, così come le paludi nelle zone pianeggianti. Il pascolo era tornato ad essere predominante rispetto alla cerealicoltura, così come nel resto d’Europa, segno evidente dello spopolamento delle aree agricole. Allo stesso tempo la crisi monetaria che aveva portato al fallimento le banche fiorentine e l’interruzione di molte vie commerciali verso l’Oriente, a cominciare da quella Mongola, avevano sottratto opportunità ai nuovi ceti mercantili cittadini.
La storiografia in genere individua questo momento come l’inizio di un declino, in cui l’investimento fondiario, divenuto l’unico possibile, sottrasse energia e dinamismo all’economia della penisola marginalizzandola progressivamente rispetto a quella del resto d’Europa. Secondo me la realtà fu un’altra. L’investimento fondiario da parte delle élites urbane ha innescato un processo che ha portato nuova linfa e nuovo vigore all’economia, senza la quale quel fenomeno rivoluzionario e tipicamente italiano conosciuto come Rinascimento non avrebbe potuto avere luogo.
Oggi si considerano i terreni agricoli dei “beni rifugio”, ma lo stesso non si poteva dire all’epoca. L’agricoltura era (e ha continuato a essere per secoli) il motore dell’economia, e occupava la maggior parte della popolazione europea, molto più dell’artigianato e del commercio. Investire per la prima volta capitali veri nell’acquisto di terreni agricoli, investendo anche in fondi marginali da bonificare e deforestare, ridefinire i rapporti di produzione attraverso contratti individuali tra prestatori d’opera e datori di lavoro, portare innovazioni nelle modalità produttive e negli strumenti di produzione, quando fino a quel tempo il titolo di possesso era d’origine feudale e includeva la terra, i beni e le persone, è stato un passaggio di fondamentale importanza. Definire questo processo una “rifeudalizzazione”, come hanno fatto molti storici, non tiene conto della sostanza stessa del fenomeno.
C’è un dipinto tardorinascimentale conservato a Palazzo Ricci a Montepulciano e riportato da Emilio Sereni nella sua Storia del paesaggio agrario italiano. Offre un panorama della città completamente diverso dai paesaggi toscani trecenteschi di Simone Martini, punteggiati di rocche e castelli separati da un paesaggio brullo. Qui si vedono campi ordinati, delimitati da confini di proprietà netti, che seguono le linee dei pendii secondo una sistemazione razionale, e soprattutto con un casale su ogni proprietà, segno della diffusione della mezzadria. Le coltivazioni sono quelle arboree e arbustive che hanno reso celebre Montepulciano, la vite e l’olivo. In realtà è un paesaggio molto più simile a quello attuale che a quello del secolo precedente. E’ un paesaggio frutto di un lavoro di sistemazione e bonifica (avvenne lo stesso e in misura maggiore nella Pianura Padana e in Veneto) volto a massimizzare le rese, e in cui si ricercano produzioni innovative (risale alla stessa epoca la piantata interfilare padana e il nuovo legame tra agricoltura e tessile). E’ un agricoltura in cui la mano d’opera lavora, e spesso risiede, sul fondo grazie a contratti stipulati tra persone libere (la mezzadria nell’Italia centrale, le soccite e le affittanze al nord). E’ un’agricoltura capitalistica, ed è stata, fino alla grande crisi del ‘600 e allo spostamento definitivo del baricentro europeo dal Mediterraneo all’Atlantico, il motore del Rinascimento e della modernità.
Bell’artico, con spunti interessanti.