17
Feb
2011

Per crescere di più, aiutare ad aiutarsi chi fa di più: 1) il made in Italy

Uno dei luoghi comuni dello sviluppo italiano, è che per crescere di più occorre dare una mano al made in Italy. Moda, alimentari, scarope, legno e mobili, macchine e manifattura, associati all’eccelenza italiana sui mercati. Aziende di tipo diverso, che in alcuni casi sono cresciute ma rimanendo nella storia fedeli a controllo e conduzione rigorosamente personale o di famiglia e che stanno sotto i 100 milioni di euro di fatturato come Missoni, oppure che hanno diversificato e hanno accolto il mercato nel loro capitale e che fatturano miliardi, da Benetton ad Autogrill, da Barilla a Ferrari, a Piaggio.Ma ciò che spesso nel nostro dibattito pubblico si stenta a capire, è che tali eccellenze non sono eccezioni che galleggiano su un mare di mediocrità. Avere la precisa dimensione di che cosa pesi e che cosa conti davvero il made in Italy, di quanto diffuso sia la suo reticolo nella stratigrafia delle imprese italiane e nei suoi risultati complessivi, aiuterebbe tutti a comprendere quali siano davvero, le priorità dell’economia nel nostro Paese in un mondo che, dalla grande crisi mondiale, esce profondamente trasformato. Grazie alla forza del motore asiatico in grande espansione, e al fatto che la Cina non ne rappresenta solo la prima motrice in termini di consumi in espansione oltre che leader in termini di produzione industriale, ma che resterà anche per anni titolare della scelta di quali debiti pubblici e privati del mondo avanzato comprare e sostenere, grazie alle sue riserve valutarie e finanziarie accumulate con un tasso di risparmio che resta superiore al 50% del reddito disponibile. Ma che cosa è oggi davvero, il made in Italy?

Se l’Italia resta la seconda potenza industriale ed esportatrice europea, dopo la Germania, e la quinta potenza manifatturiera mondiale come prima della crisi mentre tutti i Paesi avanzati hanno perso posizione con l’eccezione tedesca, è vero che lo dobbiamo “anche” e proprio alle specializzazioni associate al made in Italy. “Anche”, però. Lo dobbiamo di più alle caratteristiche di fondo della nostra economia, che da un quindicennio ha visto indebolirsi sempre di più il contributo della domanda interna al suo andamento complessivo, oltre il 70% della crescita a breve italiana dipende dalle performance dell’export.

Nel 2010, le esportazioni italiane sono cresciute del 15% rispetto all’anno precedente. Ma siamo ancora 10 punti sotto la media 100 a cui eravamo nel precrisi. In particolare, a dimostrazione che la crescita è trainata dai Paesi emergenti, la dinamica del nostro export è stata ulteriormente sostenuta in queste aree del mondo, segnando un +16,5%. Performance positive si sono registrate praticamente in tutti i settori, con picchi significativi nella chimica (+26%), l’elettronica (+18%) e nella siderurgia (+20%). Queste cifre indicano che la specializzazione dell’export italiano sta mutando: sono settori come quello delle macchine industriali a “tirare” di più. I settori tradizionali del made in Italy sono andati comunque bene, con gli articoli in pelle cresciuti del 17%, l’abbigliamento di oltre l’11% e l’alimentare di circa il 10%. Ma gli andamenti comparati mostrano che il made in Italy tradizionale in alcuni settori – vedi il legno e il settore dei mobili – pur difendendosi sono sottoposti più di altri a una dura competizione di prezzo e di minor valore aggiunto da parte dei concorrenti asiatici, e non solo.

La conseguenza da trarne è che occorrerebbe incoraggiare la tendenza di fondo che vede il made in Italy affermarsi sempre più in settori dei beni di investimento e nei settori a più alto valore aggiunto ed alta intensità di innovazione e ricerca. In una parola: occorrerebbe liberare risorse – per esempio con minore imposizione fiscale e maggiori incentivi automatici all’investimento tecnologico – perché le produzioni italiane, siano esse appartenenti ai settori cosiddetti “tradizionali” o a quelli “ad alto contenuto di conoscenza”, siano sui mercati esteri sempre più sinonimo di “qualità”. E’ una tendenza che si legge già dal 2006 nelle serie produttive italiane, perché è da allora che abbiamo riportato stabilmente in attivo la bilancia tecnologica e siamo in considerevole recupero per numero di imprese manifatturiere High Tech in Europa. E’ una tendenza che non riguarda solo le 5 mila medie imprese del campione Mediobanca del cosiddetto ”quarto capitalismo italiano”, ma che si estende alle circa 15 mila che hanno propri diretti insediamenti produttivi esteri, e alle oltre 200mila che in filiera lavorano per la loro fornitura.

Lo scenario che vediamo delinearsi è tuttavia quello di un’economia internazionale che procede a due velocità: i mercati emergenti saranno ancora per diversi anni in forte espansione, mentre quelli industrializzati seguiranno con ritmi di crescita più moderati. Con la crisi sono cambiate le abitudini dei consumatori occidentali, che sembrano ora più restii ad indebitarsi e più votati al risparmio ma, al contempo, maggiormente attenti alla qualità del prodotto, almeno nelle fasce alte della domanda. Nei mercati emergenti accade invece il processo inverso: una nuova classe benestante si leva ancora più forte dalla crisi, con un potere d’acquisto in continuo e rapido aumento.

E’ qui che le imprese italiane possono trovare nuove opportunità di crescita. Nel 2015 ci saranno nel mondo oltre 120 milioni di ricchi in più rispetto al 2009. Un terzo di questo incremento verrà dalla sola Cina. Una nuova classe media sta crescendo anche in realtà a noi vicine geograficamente come Russia e Turchia, paesi in cui il made in Italy è già noto come sinonimo di qualità ed eccellenza. La ripresa è in atto e le nostre imprese devono essere pronte a coglierne le opportunità, dovunque si trovino nel mondo: non vi è migliore strategia per alimentare la crescita di un grande Paese esportatore come l’Italia. Diversificare l’offerta è una strategia efficace e il nostro sistema produttivo si sta dimostrando in grado di coprire vari segmenti di domanda. Non è un caso che tra 2009 e 2010 la distanza media coperta dalle merci esportate dall’Italia sia cresciuta del 40% rispetto alla media del quindicennio precedente, passando da 2500 chilometri circa a oltre 4mila.

Questa tendenza va però incoraggiata e sostenuta, perché sarà sempre più la chiave del successo sui mercati globali. Da qui discende l’assoluta importanza di sostenere gli investimenti in ricerca ed innovazione. L’innovazione, di processo, di prodotto, tecnologica, nel management, nella distribuzione, negli strumenti di finanziamento ed in ogni aspetto della vita aziendale è l’elemento fondamentale per la competitività di un sistema produttivo. In particolare per quello italiano, oggetto – purtroppo – di persistente imitazione e contraffazione, l’innovazione di prodotto è anche un antidoto efficace per distanziare i contraffattori. Dobbiamo essere in grado – prima dei nostri “competitor” – di percepire e comprendere in anticipo le dinamiche nei nuovi mercati potenziali, assicurare una nostra presenza stabile e prevenire i bisogni dei consumatori.

Essendo la nostra una realtà manifatturiera composta prevalentemente da PMI, un’efficace politica di internazionalizzazione non può – inoltre – prescindere dalla necessità di rafforzare la struttura dimensionale delle nostre imprese. In Italia il 20,5% dell’export totale è realizzato da piccole imprese, il doppio del 9,8% della Francia e più del quadruplo del 4,6% della Germania. Del 20,5% italiano, il 16% viene da imprese nella fascia tra 10 e 49 dipendenti, il 4% da aziende addirittura fino a 9 dipendenti.

Lavorare per l’export è una scelta che a lungo andare “obbliga” a risultati migliori rispetto a chi si rivolge al mercato interno, dove meno stringenti sono le condizioni di concorrenza. Per ogni classe dimensionale di aziende, ecco così che il valore aggiunto, gli investimenti, le retribuzioni per addetto e la quota profitti di chi esporta in media è superiore dal 15 al 25%.

Ma se questa è la strada da continuare a battere con energia, già oggi e malgrado tutte le difficoltà alcuni esempi del peso del made in Italy nella geografia italiana sono impressionanti. La provincia di Milano esporta da sola come l’intero Israele, per oltre 35 miliardi l’anno. Torino, coi suoi 15 miliardi circa, vale come l’intera Grecia. Vicenza, coi suoi 12, pesa da sola come la Tunisia. Bergamo, che sta intorno a 10, fa più dell’intero Ecuador. Modena, più dell’intera Croazia.

Se dall’addensamento territoriale passiamo al peso comparato per valore e fatturato del made in Italy, scopriamo che il settore del legno da solo vale più dell’intero trasporto aereo in Italia, che gli alimentari continuano a battere l’intero settore informatico e del software, che i prodotti in metallo e macchine contano più delle telecomunicazioni. E che le macchine elettriche valgono più del fatturato di tutti gli studi professionali di avvocati e notai italiani.

Ecco, tenere in mente un po’ di queste cifre è un modo per capire meglio due cose.

La prima è che le storie di successo del made in Italy – classicamente le griffes della moda italiana – valgono poco se caomparate ai molti potenziali emuli pronti a seguirne le orme in settori molto diversi.

La seconda è che perché ciò avvenga davvero bisogna essere più esigenti, con se stessi innanzitutto ma anche con la politica e l’intero Paese, perché lavorare di più e meglio resta la vera prima sfida e i suoi tempi sono quelli del mercato, non c’è alcun muro che cui protegga e chi non corre perché non ha più fame perderà solo posizioni.

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5 Responses

  1. Congratulazioni.
    In particolare mi piace perchè quando si parla di innovazione: il luogo comune è pensare solo all’innovazione di prodotto o al massimo di processo. Assolutamente non si pensa all’innovazione di management e penso che questo sia un punto debole dell’Italia. Tra l’altro chissà perchè le aziende piccole, cioè spesso legate ad un padre-padrone, vanno bene, quelle grandi, quando il management diventa un fattore critico, le cose si complicano.
    Grazie ad un intervento nel mio blog ho “vinto” una copia del libro Management 3.0 di J.Appelo, che ho iniziato a leggere.
    Ma tutto ciò per me resta solo un hobby.
    Sarei onorato, avendo un suo contatto, poter continuare il dialogo con lei, su questi temi. (il mio evidentemente ce l’ha)
    Distinti saluti.

  2. Riccardo Poli

    Complimenti per l’articolo. Alla luce di questo articolo, il debito pubblico italiano è allettante per un risparmiatore cinese? Dovrebbe comprarne una quota?
    Grazie

  3. armando

    uno dei punti deboli delle imprese italiane e dato dal fatto che devono incassare subito mentre le straniere offrono pagamenti dilazionati

  4. Caro Giannino e’ vero, il motore dell’Italia e’ e rimarra’ l’export. Bisogna pertanto sostenere e favorire l’eccellenza del “Made in Italy” che, come ella fa giustamente notare, non e’ solo appannaggio della moda, del fashion business e simili, seppur importanti, ma anche di una ampia gamma di prodotti ad alto contenuto tecnologico ed alto valore aggiunto. Aggiungerei inoltre che dovremmo aumentare l’export di cultura tramite una gestione innovativa del nostro patrimonio culturale ed attivita’ di marketing mirato.
    Per mantenere ed incrementare le nostre eccellenze e’ chiaramente necessario investire in ricerca, sviluppo dei prodotti ed innovazione ma tutto cio’, nell’immediato, costa, richiede cioe’ investimenti.
    Dove reperire le risorse necessarie?
    Alcune risposte le offro nel mio pamphlet “Se Gesu’ fosse Tremonti…” commentabile sul blog:
    http://www.segesufossetremonti.blogspot.com,
    ora ne aggiungo una: in questi giorni stiamo imparando dalla sinistra che le donne non sono uguali agli uomini bensi’sono migliori, piu’ preparate culturalmente, professionalmente, piu’ volitive, piu’ orgogliose, piu’ determinate, insomma PIU’ in tutto, tra l’altro e’ vero che vivono piu’ a lungo degli uomini ed allora mi domando:
    vuoi vedere che magari e’ possibile l’approvazione bi-partisan ( termine orribile che uso solo per intenderci in fretta) di una legge che equipari l’eta’ pensionabile delle donne impiegate nella Pubblica Amministrazione a quella degli uomini?

  5. Neri Bruno

    CaroGiannino, io Le credo quando dice che i mercati emergenti sono una opportunità per la nostra esportazione e per il made in italy. Purtroppo però la realtà dice che la bilancia commerciale italiana nel 2009 ha avuto un negativo di 4,7 miliardi e nel 2010 di 27 miliardi,attendiamo con terrore il 2011. Non Le sorge il dubbio che la disparità nel costo della manodopera possa vanificare totalmente lqueste opportunità poichè contemporaneamente distrugge le nostre produzioni tradizionali? Il made in italy e le cosiddette produzioni tecnologiche non sono forse(quantitativamente)una nicchia,o poco più,rispetto al volume totale?E ancora: anche ammesso di poter riconvertire in questo senso le nostre produzioni(non sò con quali investimenti) noi potremmo in questo modo sopravvivere e salvarci perchè solo noi sappiamo fare queste cose, solo noi e non loro(o almeno meglio di loro) ? Temo che questo sia un peccato di superbia e soprattutto di stupidità che ci porterà al disastro.Ma non vediamo cosa sanno fare i cinesi, gli indiani, nel campo della elettronica, energia solare ,informatica ecc. ecc.? Temo che un riequilibrio potrà avvenire solo quando un cinese avrà la stessa retribuzione di un italiano ovvero quando gli italiani impoveriti dalla disoccupazione non avranno più i soldi per comprare i prodotti di importazione. Una domanda:i trattati di libero scambio internazionale hanno una scadenza e vanno rinnovati, o sono ad aeternum? Mi scusi , e se ha tempo ci dica qualche parola di conforto, grazie Neri Bruno

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