Per chi suona la voluntary disclosure?—di Edoardo Ferrazzani
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Edoardo Ferrazzani.
L’Agenzia delle Entrate ha dato il là e la banda ha iniziato a suonare. Lo farà per sei mesi, fino alla decorrenza dei termini per la presentazione della domanda di voluntary disclosure, il 15 settembre 2015. Il lungo corteo per l’accaparramento del risparmio in entrata dall’estero ha avuto dunque inizio.
Come noto il governo ha scelto di mettere i risparmiatori italiani con capitali all’estero con le spalle al muro: da una parte con l’introduzione della voluntary disclosure e del reato di autoriciclaggio – previsti dalla legge 186/2014 in materia di “Misure per l’emersione e il rientro dei capitali all’estero nonché per il potenziamento della lotta all’evasione fiscale” – e dall’altra con l’entrata in vigore dei recenti accordi in materia di desecretazione bancaria tra Italia e Svizzera e la creazione della white/black list tra i cosiddetti paradisi fiscali (infografia Il Sole 24 Ore).
Lo scorso 13 marzo infatti l’Agenzia delle Entrate ha finalmente diramato le linee guida per l’implementazione della voluntary disclosure con la circolare AG 10/E, che di fatto mette in moto, a tre mesi dall’approvazione della legge, l’intero processo di regolarizzazione tributaria.
Ben vengano ovviamente queste misure se l’obiettivo è colpire quei soggetti criminali che hanno investito e/o depositato all’estero proventi da attività illecite particolarmente odiose perpetrate sul territorio italiano, fermo restando la necessità di provare in sede giudiziaria che di ciò si sia effettivamente trattato. Tutt’altro discorso deve essere fatto invece per quei risparmiatori italiani che si vedranno costretti dagli istituti di credito o dalle SGR estere – di quei paesi in white list in accordo con il governo di Roma – ad autodenunciarsi, rei, nei decenni, di essersi rifugiati in paesi tributariamente più sostenibili e con sistemi legali più certi, quali tra gli altri Svizzera, Principato di Monaco o Liechtenstein, i tre hub di riferimento per i capitali italiani in Europa.
Come ricordato, la voluntary disclosure non è sola. In combinato disposto con l’introduzione dell’autoriciclaggio, l’arma potrebbe rivelarsi davvero efficace per il MEF.
Ma guardiamo da vicino il nuovo reato di autoriciclaggio. Chi l’autoriciclante? Ecco l’identikit del neo-soggetto criminale: “… chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa…” (ex. art. 648-ter 1, c.1 c.p.).
Bref, l’autore del reato presupposto, quello da cui provengono i proventi illeciti per intendersi, è anche autore del riciclaggio stesso. Pena alla reclusione da due a otto anni e multa da 5000 euro a 25000 euro per il soggetto che ne fosse ritenuto colpevole.
È bene rilevare che il tradizionale reato di riciclaggio sanziona non il soggetto che ha commesso il delitto da cui provengono i proventi illeciti – aka delitto fonte – ma l’estraneo a tale illecito il quale, pur consapevole della provenienza delittuosa dei proventi, collabora a un loro occultamento, parziale e/o totale impiego, etc.
E val la pena di ricordare inoltre che in origine, quando il reato di riciclaggio fu introdotto, nel lontano 1978, esso fu reso configurabile in presenza di solo quattro reati presupposti: estorsione, rapina a mano armata, sequestro di persona, traffico internazionale di stupefacenti. Nel 1993 quando la disciplina in materia fu rivista dal legislatore, anche sotto l’impulso della Convezione di Strasburgo del 8 nov. 1990, si giunse ad associare il reato di riciclaggio a qualsiasi delitto non colposo (a proposito di espansioni normative).
È ictu oculi evidente che l’introduzione del reato di autoriciclaggio abbia come finalità quella di dotare i funzionari dell’Agenzia delle Entrate – coloro che accerteranno, qualora il processo di voluntary disclosure non andasse in porto, l’esistenza dei presupposti per l’accusa di autoriciclaggio – di un grimaldello legale e psicologico da esercitare su presunti evasori e i loro legali (per evitare un coinvolgimento del professionista, sotto il profilo penale, nel mondo delle professioni si parla ormai di mandato “bifasico”: prima fase “voluntary disclosure sì, voluntary disclosure no” e qualora il cliente optasse per un tentativo, mandato vero e proprio, questo perché in presenza di mandato vero e proprio il professionista è spinto a comunicare a Ufficio Centrale per il Contrasto degli Illeciti Fiscali Internazionali dell’AG ogni manovra sospetta del proprio assistito, post 2010).
Lasciando da parte per un attimo le ragioni politiche dell’introduzione della voluntary disclosure, pare giusto analizzare alcuni aspetti problematici legati all’introduzione del reato di autoriciclaggio.
Sotto il mero profilo implementativo, sarà l’Agenzia delle Entrate a promuovere da una parte la collaborazione volontaria e dall’altra a sostenere l’iniziale onere finanziario e organizzativo di rilevazione del reato di autoriciclaggio, per poi spostare sulle Procure competenti la misurazione della fondatezza accusatoria rispetto a tale reato.
In termini di civiltà giuridica, la Commissione Fiandaca – una delle due commissioni, assieme a quella Greco, a essersi occupata nel 2013 in seno al Ministero di Grazia e Giustizia, di autoriciclaggio benché da prospettive diverse – colse alcuni aspetti problematici meritevoli di attenzione relative a questa nuova fattispecie. Oltre alla rottura con il principio del nemo tenetur se detegere, nessuno è tenuto ad accusarsi, vi potrebbe essere la rottura con il ne bis in idem, ovvero non si può essere puniti due volte per lo stesso reato, e una lesione del principio di proporzionalità della pena nel caso che il reato presupposto sia punito dal c.p. meno severamente rispetto al reato di autoriciclaggio. Non a caso la Commissione Fiandaca suggerì, non già la creazione di una nuova fattispecie, l’autoriciclaggio appunto, ma l’eliminazione dall’art. 648-ter c.p. della clausola di riserva che di fatto avrebbe finito per far ricadere la condotta di autoriciclaggio dentro la fattispecie del riciclaggio, proponendo pene a essa associate mitigate rispetto a quelle per il riciclaggio stesso. La Commissione Greco, d’altro canto, pur riconoscendo essenzialmente la validità delle rilevazioni della Relazione Fiandaca, perorò la creazione di una fattispecie autonoma, cosa puntualmente avvenuta.
Ovviamente è ancora presto per misurare l’impatto che tutta questa nuova legislazione avrà sul tentativo di recupero di imponibile per il governo e di gestito per banche e SGR. Ciò non toglie che sia possibile già rilevare quel che è sotto gli occhi di tutti ovvero quanto rimanga imperante in seno all’alta burocrazia internazionale e al ceto politico italiano, salvo rare eccezioni, la convinzione che alla crisi fiscale degli ultimi anni si debba rispondere non già con una sostanziale riduzione delle voci di spesa pubblica, tale da finanziare una riduzione della pressione fiscale in combinato con un realistico piano di abbattimento del debito pubblico, quanto bensì con un inasprimento di politiche di controllo al punto da contraddire il principio, come già autorevolmente detto, del nemo tenetur se detegere.