Paul Samuelson: grande un tempo, poi meno
Con Paul Samuelson, morto a 94 anni, scompare uno dei più grandi economisti del secolo scorso. Nessun altro ha venduto cinque milioni di copie di un manuale, come Samuelson con il suo “Economia”, per 50 anni aggiornato dopo la prima edizione, del 1948. Almeno 40 milioni di laureati in economia in tutto il mondo, si calcola, hanno studiato sul suo manuale. E nessun premio Nobel per l’economia, fu il primo americano a riceverlo nel 1970, ha mai esercitato un’influenza così profonda non solo sulla sua materia, ma sul dibattito pubblico americano e mondiale come Samuelson è stato capace di fare. Negli anni ’60 e ’70 l’unico a contendergli il primato fu Galbraith, ma Samuelson da primo grande allievo di Schumpeter lo eclissò, collaborando con John Kennedy “perché l’economia in mano ai politici è cosa troppo seria, per lasciarla a Galbraith”, come ebbe a dire. Non c’è stata praticamente grande testata americana, dal New York Times a Newsweek, per cui non abbia scritto. Come giudicarlo, in questo ricordo che non è per tecnici ma magari per chi non lo ha mai conosciuto? Grande all’inizio e per decenni. Poi, un po’ meno. Anzi: parecchio meno. Almeno questa è la mia opinione.Difficile incasellare in formule decenni di attività poliedrica di un vero guru della vita pubblica, come è stato Samuelson. Proviamoci comunque. Distinguendo tre aspetti. Il suo contributo teorico più rilevante, tra i tanti. La sua evoluzione nel tempo. Infine, il suo giudizio sulla politica economica, negli ultimi anni e nella crisi attuale.
Nella storia del pensiero economico, Samuelson resterà per quella che di solito si definisce “sintesi neoclassica”. La realizzò nel 1947 con la sua opera più profonda, I Fondamenti dell’Analisi economica. Suo obiettivo era unire il meglio di Keynes e della sua Teoria Generale, incentrata sul ruolo essenziale della domanda pubblica per equilibrare il ciclo economico, con il meglio della teoria marginalista di Marshall e degli austriaci, nell’analisi dell’equilibrio tra domanda e offerta e nell’interpretazione degli impulsi all’azione nel mercato di individui e imprese. A tal fine, Samuelson fece un salto in avanti nelle formalizzazioni matematiche applicate alla teoria economica. Dopo di lui, l’economia diventò una volta per sempre una disciplina nella quale se non c’è la formalizzazione di un problema sub specie di analisi matematica, allora semplicemente quello non è un problema economico. Applicò i principi della termodinamica all’equilibrio del mercato. Innestandovi la curva di Phillips sulla relazione tra inflazione e disoccupazione, Samuelson divenne l’economista di riferimento del grande balzo americano negli anni Sessanta. Ma rimase inascoltato, di fronte alle conseguenze dei deficit pubblici accumulati per via del Vietnam. E apparentemente sembrò perdere ai punti, quando Milton Friedman a nome del monetarismo di Chicago profetò l’avvento della stagflazione, cioè della somma di inflazione e recessione, che si sarebbe manifestata con gli shock petroliferi.
Ma Samuelson anche in un altro campo, la teoria delle scelte pubbliche, si differenziò fortemente dai liberisti. Per questi ultimi, l’essenziale è che individui e imprese abbiano buone informazioni dai regolatori, per far funzionare bene i mercati. Per Samuelson come per il suo amico Kenneth Arrow, valeva invece prioritariamente cioè che per gli offertisti vale comunque ma sotto alcune condizioni si può attenuare: cioè il principio dell’impossibilità di scelte razionali, sotto la contraddittoria pressione di informazioni incomplete e influenze improprie. Di conseguenza, per la politica e per i regolatori pubblici – della moneta e dei mercati – secondo Samuelson continuavano a valere obblighi d’intervento assai più incisivi che per i liberisti i quali ispirarono Reagan prima, con le sue deregulation, e Bush padre e figlio poi (meno gli ultimi due, in ogni caso: molto ma molto meno).
Anche per questo, Samuelson fino a poche settimane fa, nelle innumerevoli interviste che ha continuato a rilasciare sulla terribile crisi apertasi col fallimento di Lehman Brothers, è stato uno dei più sferzanti critici dei vent’anni alle nostre spalle. A suo giudizio, lo Stato aveva abdicato ad almeno tre ruoli fondamentali, dei quali Samuelson si era convinto negli anni della sua gioventù, quando la grande crisi del 29 aveva sprofondato milioni di americani nella miseria. Lo Stato deve impedire differenze di reddito troppo elevate attraverso il welfare, diceva. Lo Stato deve impedire che banche e intermediari realizzino una redditività del capitale finanziario troppo a lungo maggiore di quella dell’economia reale, aggiungeva prendendosela coi bonus miliardari dei banchieri. E state attenti alla Cina, perché si stancherà presto di comprare i titoli pubblici di un’America troppo squilibrata nella finanza privata e pubblica, ripeteva negli ultimi mesi.
Era dichiaratamente scettico verso alcuni nuovi filoni di ricerca degli ultimi decenni, dalla Neuroeconomy di Kahneman all’istituzionalismo di Douglas North, e tanto meno gli piaceva la scuola delle aspettative razionali di Bob Lucas e Thomas Sargent, che pure molto gli dovevano in gioventù – e sempre glie lo hanno riconosciuto – per i suoi approfondimenti sulla scuola austriaca. Insomma, Samuelson era finito negli ultimi tempi per diventare un paladino del ritorno allo Stato come elemento riequilibatore, come in tutto l’Occidente avviene da un anno a questa parte. Questa, la sua rivincita. La speranza è che i politici sappiano anche ricordare le tante prediche di Samuelson contro i loro eccessi, ora che si accumulano i deficit pubblici. Perché “la storia ha dimostrato che i capitalisti vanno carichi di ottimismo anche al loro funerale”, ripeteva Samuelson. E dunque dagli errori dei politici, a volte, i buoni economisti servono a metterci in guardia più di quanto possa fare chiunque altro. Più di quanto facesse lo stesso Samuelson, negli ultimi tempi. Esaltava Obama, infatti, e sposava le posizioni di Krugman: che afferma di essere il suo miglior erede…
La carriera di intellettuale pubblico di Paul Samuelson ci lascia un grande insegnamento sul potere delle idee – e sull’influenza nel lungo periodo che esse riescono ad esercitare (non solo sulla classe politica, ma soprattutto “formando” altri intellettuali, originatori e ripetitori di idee a loro volta). La sua riedizione in salsa autobiografia della celeberrima frase di Keynes è di lampante chiarezza, oltre ad essere molto spiritosa: “I don’t care who writes a nation’s laws — or crafts its advanced treatises — if I can write its economics textbooks”.
Mah, io francamente non mi sento di celebrarlo, dato che lo considero, coerentemente con quanto dite, uno dei principali autori, sostenitori e “diffusori” delle teorie economiche sballate che tanti danni hanno fatto e stanno ancora facendo. A cominciare proprio dalla crisi e dai modi in cui affrontarla.
Per rendere il mio commento un po’ meno banale, tuttavia, farei notare che l’aver promosso in tal modo l’utilizzo della matematica (che peraltro io amo) e dei modelli in campo economico non è stata affatto una cosa buona come potrebbe sembrare.
In primis perchè l’economia rimane una scienza sociale, fatta da scelte ed interazioni di una sterminata moltitudine di individui, e tentare di catturare tutto questo in modelli e curve che si muovono è riduttivo, perchè non permette di comprendere tali fenomeni non solo nel loro complesso, ma proprio nella loro origine, nella loro natura primaria.
Col risultato che l’apparenza di una comprensione della realtà migliore, più fine e precisa, si traduce in una comprensione peggiore, fuorviante, limitata.
Magari con troppa attenzione a dettagli insignificanti mentre sfuggono completamente i driver principali. Cosa che, personalmente, riscontro nella teoria economica mainstream di cui Samuelson è in qualche modo un padre.
In secondo luogo perchè associamo alla matematica, ai numeri, l’idea di certezza. Ci fidiamo dei numeri, perchè non mentono e sono universali.
Usare tecniche matematico-statistiche senza rendersi profondamente conto dei loro limiti, però, porta ad un ingiustificato eccesso di fiducia nei modelli stessi. Teorie che appaiono più solide, più robuste, perchè suffragate da una modellizzazione che utilizza equazioni e numeri, ma che in realtà godono di tali virtù solo nella misura in cui sono corrette le ipotesi alla base. Ipotesi che magari sfuggono, a cui non si pensa.
Col risultato che ci si fida di teorie e concetti di cui non ci si dovrebbe fidare, proprio perchè “abbellite” da oggetti matematici complicati.
Ecco, sinceramente trovo che negli ultimi decenni la scienza economica si sia preoccupata enormemente di tali addobbi estetici, complicandosi da un punto di vista matematico, ma senza aggiungere granchè alla comprensione della realtà. Anzi, distaccandosi sempre più dalla stessa, perchè troppo presa dagli esercizi stilistici fini a sè stessi dei modelli.
Arrivando al punto di ignorare le smentite che, puntuali, arrivavano dalla realtà. Per le teorie sostenute da Samuelson, tali smentite sono arrivate molto spesso, anche se troppe volte in tanti fanno finta di non vederle.
Per carità. D’accordissimo con Davide. Ricordare come le idee siano influenti non significa dire che siano influenti solo le idee buone.
Certamente, non intendevo dire questo. So come la pensate 😉
D´accordissimo con Davide, anzi direi di piu´, penso che si debba avere il coraggio intellettuale di giudicare l´opera di Samuelson attraverso una coraggiosa lettura della storia, che come diceva Von Mises, dev´essere interpretata attraverso una corretta base teorica.
E questa lettura non puo´che essere impietosa nei confronti della errata sintesi dell´economica politica di Samuelson, soprattutto considerando come gli scritti di Von Mises ed Hayek fossero ben presenti al premio Nobel americano.
Ed e´proprio la storia dei nostri giorni, la grande depressione, che testimonia una delle conseguenze di tale sintesi economica
Ah, Galbraith non sarebbe persona seria? Ma se ha coniato l’aforisma economico per eccellenza: “economics is extremely useful as a form of employment for economists”!
E non è solo una frase ad effetto. Ricollegandomi a quanto scritto da Davide, io ne riconosco il valore eminentemente pratico.
Io mi permetto di dissentire con alcuni di voi (per quello che può valere la mia opinione), soprattutto con chi vede nell’ampio uso della modellistica un po’ di perdita di dimensione umana della disciplina. Io sono anzi di parere opposto: trovo che l’aver fatto dell’economia una scienza ad alto contenuto di “numeri” l’ha resa molto più applicabile e quindi utile. Togliere i modelli significherebbe a mio modesto avviso, rinunciare a descrivere i comportamenti umani nel modo più corretto finora conosciuto. Da studente tutti i giorni lotto nel vero senso della parola con questi modelli e faccio fatica ad immaginare una alternativa valida che non sia un mero trattato di filosofia politica. Di critiche alla scienza fine a se stessa se ne possono anche fare, su Samuelson non saprei che dire visto che conosco bene solo i suoi lavori sul commercio internazionale, però ecco attribuire le schifezze dell’ultima crisi alle teorie sviluppate dagli economisti della sintesi neoclassica mi pare un po’ eccessivo…a Modigliani verrebbe un colpo al cuore se fosse ancora vivo. Casomai se dovessimo tirare le orecchie a qualcuno, beh scriverlo su un blog che si chiama Chicago forse non é opportuno!
In ogni caso credo che 60 anni di prosperità nel mondo (occidentale) si debbano in piccola parte anche al lavoro di questo signore…non credete?
Ossequii
David Henderson sul WSJ di oggi: http://online.wsj.com/article/SB10001424052748704869304574595823818190240.html
Nel 1989, a un mese dall’avvio di un processo che porterà al crollo dei regimi comunisti europei, a pagina 837 dell’ultima (tredicesima) edizione di “Economics” Paul Samuelson ha avuto perfino il coraggio di elogiare l’efficienza dell’economia pianificata sovietica.
Ho la sensazione che la libertà, il benessere e la civiltà dell’Occidente debbano davvero poco a lezioni come questa.
@Elia: no, non credo. Credo che si sia avuta un po’ di prosperità nel mondo occidentale nonostante il lavoro di signori come questo.
E’ grazie a signori come questo, ad esempio, che abbiamo sottosegretari “economisti” che se ne vanno allegramente in tv a dire, letteralmente, che ogni punto in più di tassi di interesse tenuto dalla Bce ci costa un punto in termini di Pil.
E’ grazie a signori come questo che abbiamo quel signore alla guida della Fed che ha continuato l’opera del suo predecessore nello sfasciare il sistema economico dalle fondamenta, e continua tutt’oggi a farlo.
La maggior parte degli insegnamenti di questo signore, e di quelli come lui, hanno contribuito nei decenni a distruggere quanto di buono ci fosse nell’economia occidentale. In parte riuscendoci.
In parte riuscendo a portare anche in occidente la citata pianificazione in stile sovietico, che ci sta letteralmente rovinando, economicamente ed umanamente.
Sono stato anch’io studente, ed anch’io ho studiato i modelli che serviva studiare. Ogni tanto chiedevo ai professori: ma è empiricamente verificato? Risposta, nel 90% dei casi: no. Li studiavo lo stesso, ma dopo qualche anno mi rendo conto di quanto poco valore aggiunto abbiano dato.
Meglio un po’ di filosofia politica intrisa di buon senso che pretendere di imprigionare la realtà in qualche modello che funziona solo sulla carta, o che dice una parte della verità talmente piccola dal risultare totalmente fuorviante (vedasi la curva di Phillips, giusto per rimanere su qualcosa citato qui). Col risultato di distruggere la realtà (manco fossimo delle cavie in laboratorio) cui si va ad incidere sulla base di tali assunti.
Ciò non vuol dire ovviamente che tutta la modellistica e la matematica applicata all’economia sia da buttare.
Ma vuol dire che non è fisica, non è meccanica classica, non ci sono gravi che accelerano a 9.81 m/s^2, ma persone con la loro testa e conseguenze di medio-lungo termine che non si possono talvolta prevedere. E che sono fondamentali, perchè non saremo “tutti morti” nel lungo termine. Noi viviamo nel lungo termine, pagando il prezzo delle decisioni miope prese tempo fa.
Se andrai avanti a studiarla, peraltro, vedrai che ci saranno da un lato i matematici-statistici seri, che passeranno la maggior parte del tempo a farti capire che i risultati non sono belli ed utili quanto sembrano a prima vista, e dall’altro i “praticoni”, che diranno che sì in teoria è vero che così non va bene, però in pratica fanno tutti così, quindi chissenefrega.
Di recente mi sono messo a studiare alcuni argomenti mortalmente noiosi di politica economica.
Allo stato attuale la politica economica sembra essere fatta in questo modo:
1. Si prende un insieme di equazioni che modellizzano in maniera beceramente semplicistica quello che si suppone essere il sistema economico.
2. Si calcola l’equilibrio stazionario dell’insieme di equazioni.
3. Si linearizzano le equazioni intorno all’equilibrio stazionario.
4. Si stimano i coefficienti del modello in modo da fittare le dinamiche osservate del sistema economico con le dinamiche stimate dal modello linearizzato.
5. Si analizzano le politiche economiche sul modello linearizzato così ottenuto.
Credo (spero) che esistano anche delle analisi di policy che non si basino sulla linearizzazione (ma che io sappia una tale evenienza renderebbe impossibile la modellizzazione con i VAR e terribilmente difficoltosa la calibrazione del modello) e sul calcolo dell’qeuilibrio stazionario (che si avrebbe solo nell’improbabile caso di economia in equilibrio di lungo termine, dopo decenni di assenza di innovazioni rilevanti). Non so neanche se si faccia sul serio attenzione al fatto che il modello non è stazionario e calibrarlo su dati passati può essere del tutto fuorviante se la struttura economica sottostante cambia improvvisamente.
Al di là di queste due sfighe, io porrei l’attenzione al problema (1): il fatto che il modello di partenza è una banale semplificazione del modello reale, dove la maggior parte degli effetti rilevanti delle politiche è trascurata per ipotesi. Ad esempio, non mi è ben chiaro se nei modelli neokeynesiani con habit persistence e price rigidity c’è spazio anche per fenomeni fondamentali sul piano macroeconomico come il moral hazard implicato dalle politiche interventiste (gli agenti scontano le prospettive di essere aiutati).
Date le premesse, che la modellizzazione matematica abbia migliorato le policies è del tutto impensabile.
Io sono ingegnere e studio queste cose da poco. Non mi ci sono messo con diligenza e forse quando finirò di studiare i DSGE scoprirò che qualcuno ha pensato a queste cose.
Però, la maggior parte dei modelli che leggo traggono conclusioni di policy da modelli che fanno ridere i polli.
Come ingegnere posso dire che se qualcuno osasse progettare un cellulare, un aereo o un edificio nel modo in cui gli economisti analizzano le politiche economiche, nessuno viaggerebbe, comunicherebbe e abiterebbe con gli strumenti moderni.
Spero di sbagliarmi, ma i policymakers che usano i modelli neokeynesiani sono apprendisti stregoni che confondono il mondo dei sogni dell’economia matematica con la realtà, e adottano per manipolare l’economia reale ciò che va bene in modelli formali che sono pateticamente irrealistici.
Chiudo con una battuta di uno storico economico, Hughes, che parlava delle differenti interpretazioni della storia economica tra i vari economisti: “se io ottenessi dal mio medico la stessa quantità di opinioni differenti sulle mie malattie, chiamerei immediatamente il prete e il notaio”. 🙂
“abiterebbe con” fa ridere un po’ come espressione. era una licenza poetica involontaria. 🙂
Aggiungo una cosa. Samuelson non era un fesso. Pare infatti abbia detto:
“When I was 20 . . . I expected that the new econometrics would enable us to narrow down the uncertainties of our economic theories. We would be able to test and reject false theories. We would be able to infer new good theories. . . [I]t has turned out not to be possible to arrive at a close approximation to indisputable truth [and] it seems objectively to be the case that there does not accumulate a convergent body of econometric findings, convergent on a testable truth.”
Se il padre dell’economia moderna ha capito che il paradigma empirista-positivista ha fallito completamente, c’è speranza che anche gli altri economisti prima o poi ci arriveranno. La filosofia sottostante la visione della teoria economica dei Samuelson e dei Friedman è morta da decenni. Bisogna solo accettarlo.
Aggiungo altre due sfighe dell'”evidence-driven policymaking”:
(1) In economia è evidente solo l’effetto di breve termine, quindi basare le politiche su “ciò che si vede” equivale a difendere politiche miopi (bias keynesiano).
(2) In economia la maggior parte delle grandezze è inosservabile o non quantificabile, la maggior parte delle informazioni sullo stato del sistema è ignoto, ogni evento è dato dal sovrapporsi di molteplici cause, quindi l’imputazione causale è quasi sempre impossibile e raramente converge verso una spiegazione condivisa, quindi basare le politiche sui “fatti” significa sempre semplificare troppo, basarle sui propri pregiudizi, e dare troppo peso a “ciò che si vede”.
Il fatto che non esistano soluzioni a questi problemi ha due conseguenze: che le politiche economiche sarnno sempre terribilmente inefficienti, e che chi ha una visione di lungo termine non riuscirà mai a dimostrare di aver ragione perché gli effetti di lungo termine sono spesso invisibili.
Tutto questo, abbinato alle distorsioni standard del processo di decisione politica (vedere solo il breve termine, nascondere i costi, concentrare i benefici verso le lobby), crea una miscela esplosiva di imbecillità mutuamente rinforzantesi tra economisti e politici, il tutto seppellito da una miriade di equazioni funzionali e modelli vettoriali autoregressivi.
bene, dire che sono molto soddisfatto, perché iniziamo a trarre dalla realtà – anche dalla morte di samuelson, in questo caso – spunti per confronti sostanziali. Direi a pietro che può un tantino rassicurarsi: i buoni economisti di ogni scuola conoscono i limiti della formalizzazione modellistica – al di là dell’accanimento accademico tra contrapposti capicordata e discepoli, ma questo capita per ogni disciplina del mondo accademico, per questo dico che bisogna invece diffidare dei politici che ne assumono solo tesi e conseguenze generiche come “scusa” per le loro assai spesso maldestre politiche…
Carlo sul S. e il comunismo ha assolutamente ragione: diciamo che l’apparente efficienza del ministro della produzione – tema di un famoso saggio di F. Barone a inizio 900, aitempi della grande scuola italiana – anche su S. esercitava più fascino per il sostantivo che per l’aggettivo, anche se per grazia di Dio 8(e con centinaia di milioni di vittime) è stato quest’ultimo a prevalere (Tremonti della Cina attuale dice ancor oggi il contrario, però…)
Voler applicare a tutti i costi formule matematiche all’economia è come applicare formule matematiche al matrimonio. La crisi finanziaria in cui ci troviamo ora e figlia diretta di questa pretesa dove l’applicazione di modelli ha fatto prendere alle banche rischi oltre il buonsenso, senza dimenticare il fallimento del fondo LTCM alcuni anni fa gestito dai migliori produttori di formule applicate alla matematica del tempo.
Visto che però nelle scuole e nelle università italiane si insegna solo questo, mi permetto di segnalare questo link interessante al corso di economia di Jesús Huerta de Soto, uno dei principali esponenti della scuola austriaca in europa http://www.juandemariana.org/videos/114/
Io vorrei essere chiaro su una cosa: critico il cortocircuito tra economia matematica e politica economica, che trascura sistematicamente il “knowledge problem” hayekiano, e non l’economia formale in sé. Ci sono cose che si capiscono solo risolvendo equazioni e cose che si capiscono solo senza usare equazioni: un buon economista deve sapere entrambe le cose.
Il problema che volevo sottolineare è che un’infinità di paper (ad esempio tutti quelli che ho letto sulle varie “optimal monetary policy”, che comuqnue non sono molti) commettono sistematicamente e letteralmente gli errori che sottolineavo. C’è un’infinità di paper dove si propone una policy in funzione di un’analisi che trascura tutto tranne l’effetto studiato dall’autore del paper: questo è irresponsabile.
D’accordo quasi su tutto, Pietro.
Solo una domanda: ma Friedman che c’entra??
Non mi pare certo uno che sia caduto in tali errori, nè uno che abbia “suggerito” alla politica di intervenire nel sistema economico sulla base di questa o di quella supposta “evidenza”.
Mi pare che in linea di massima abbia suggerito esattamente il contrario, cioè di non immischiarsi in certe faccende.
A cominciare proprio dalla politica monetaria, nonostante oggi si leggano accostamenti improbabili tra le politiche monetarie viste e Friedman (a cominciare proprio da Samuelson, in un articolo di qualche tempo fa che definire disonesto è poco – ricordo anche l’ottima replica di Carlo Lottieri).
Accostamenti che trovo assolutamente ingenerosi: io trovo più convincente e “solida” la visione austriaca in materia, ma Friedman raccomandava assolutamente di non praticare le politiche discrezionali ed i magheggi cui assistiamo da almeno 15 anni (negli Usa) in esagerata misura.
Friedman non ha mai fatto gli errori di cui sopra, c’entra solo in maniera estremamente lata in riferimento ad un articolo che fece la storia dell’autocoscienza filosofica degli economisti: “la metodologia dell’economia positiva”, del 1953. Parlando di metodologia, mi sono venuti in mente gli esempi più lampanti di un modo di vedere l’economia che era erroneo 50 anni fa come lo è tuttora.
Chi scrive che le politiche monetarie di Friedman hanno qualcosa a che fare con Greenspan e Bernanke ha qualche problema di comprendonio o di onestà intellettuale. Se si fosse seguito Friedman, non sarebbe successo nulla di tutto ciò che sta succedendo.
Per Peter64: non sono propriamente d’accordo (non me ne volere) su quello che dici e cerco di spiegarmi meglio che posso: prima di tutto vorrei precisare che mi sto specializzando in una università straniera e garantisco che l’uso della matematica (soprattutto in macroeconomia) é più massiccio che mai, quindi questo succede un po’ in tutte le università del mondo credo. Poi, continuo a non capire come la modellistica possa essere ritenuta un problema da molti di voi: certo le leggi matematiche non simulano alla perfezione i comportamenti umani ma ne possono dare una buona approssimazione…anzi se vogliamo, nei modelli finora usati forse, non c’era abbastanza complessità visto che non hanno saputo, non dico prevedere ma neanche considerare l’eventualità di una crisi come quella scorsa; mi verrebbe quasi da dire che c’è bisogno di rendere i modelli econometrici più completi, inserendo tra gli altri gli effetti della finanza globale, il moral hazard ecc, il che non farebbe altro che aumentare la dose di matematica. Non credo sinceramente che le cause scatenati della crisi risiedano nei modelli…o meglio in parte può essere cosi’ ma I veri fattori sono altri (magari l’amministrazione Bush e I suoi advisors li potrebbero spiegare meglio di tutti noi messi insieme).
Qualsiasi buon economista (a patto che metta il naso fuori dal proprio studio ogni tanto) non avrà difficoltà nel riconoscere i limiti della teroia economica, ma come scrive Blanchard nel suo ottimo libro di macroeconomia undergraduate, di strada per la teoria economica ce n’è da fare ancora molta; però intendiamoci: come la immaginereste una scienza tanto complessa senza l’uso di complessi strumenti matematici? io francamente non saprei dare una risposta. Ammettiamo anche che la programmazione lineare e non, la statica comparata ecc, non siano gli strumenti migliori che abbiamo, ma per ora abbiamo questi e poi tanto male finora non é andata (consideriamo dal dopo Guerra ad oggi). Se non é arrivato un altro ’29 lo dobbiamo anche agli studi che son stati fatti (anche da gente come Samuelson). Sono d’accordo che di nefandezze ce ne sono state e ce ne sono tante nelle teorie che studiamo (anche in medicina c’era chi usava la lobotomia…tanto per citare un esempio) ma non sarei cosi’ rigoroso nei giudizi.
Ultima battuta sulla finanza: nella teoria della finanza non c’é nessun strumento matematico che protegga al 100% dal rischio perché la finaza di fatto si occupa di limitarlo il rischio, non lo può eliminare. Puoi essere un mago nel prezzare le opzioni o nel prevedere gli andamenti degli indici ma il rischio te lo tieni sempre e comunque. Il LTCM fu l’esempio piú clamoroso: un hedge fund (strano nome per fondi speculativi) gioca col rischio tutti i giorni e ogni tanto si scotta anche lui…anche se ha I premi nobel che lo aiutano. I loro modelli hanno funzionato bene (veramente bene) finchè non sono inciampati nella casualità (ingordigia?). Una piccola massima per concludere “a blindfolded monkey throwing darts at a newspaper’s financial pages could select a portfolio that would do just as well as one carefully selected by experts”.
Ah dimenticavo i complimenti per il livello della discussione. Spero di esserne all’altezza.
Ossequi
Elia Berdin:
Io distinguerei la teoria economica dalla politica economica. Una cosa è parlare di modelli come espressione di un qualche principio economico, e un’altra di modelli come strumenti per prevedere la dinamica dell’economia.
Ci sono dei limiti nell’economia teorica formale nel senso che le teorie attuali non sono in grado di esprimere idee e concetti che nel 1930 erano moneta comune e che ora sono stati dimenticati. Però la derivata è positiva e magari nel 2050 qualche economista riuscirà a esprimere in equazioni tutto ciò che è stato detto e scritti di economia teorica a partire da Aristotele. Tralascio questo fatto perché mi pare ovvio, però dubito che se facessi un sondaggio tra i giovani economisti appena dottorati sarebbero d’accordo con me. Magari da vecchi mi daranno ragione, con l’esperienza, come Samuelson pare abbia ammesso i problemi del suo paradigma nella mia citazione precedente.
Veniamo ai modelli. Ho 4 argomenti che secondo sono forti, e sono anche ovvi al punto di essere banali.
(1) Gli esseri umani sono creativi; nessun modello può esserlo: nessun modello può prevedere come gli esseri umani reagiranno ai fatti che si presenteranno di fronte ai loro occhi. Questo limite alla prevedibilità è ineliminabile, non è questione di complessità dei modelli.
(2) La realtà è complessa, molto più dei modelli. Quindi gli elementi di complessità della realtà non modellabili rappresentano un limite inferiore al potere di ogni modello. E’ l’equivalente econometrico dell’eterogeneità non osservata. Un buon modello teorico deve essere semplice per dare insight; un buon modello teorico è quindi pessimo sul piano statistico.
(3) Se rendiamo il modello molto complesso, il numero di parametri esplode. Siccome il modello è fittato sui dati storici, cioè su una sola realizzazione di un processo stocastico, l’avere tanti parametri significa non poterli stimare. Esiste quindi un limite intrinseco alla possibilità di rendere i modelli isomorfi alla realtà.
(4) L’idea che la complessità die modelli aiuti il loro potere predittivo è incompatibile con la teoria economica contemporanea: sarebbe come fare profitti battendo sistematicamente il mercato. Qualsiasi modello predittivo verrebbe inglobato nelle aspettative degli operatori, e quello che rimane (come dimostrato da Samuelson) è il limite ultimo: il rumore bianco, l’incarnazione pura dell’imprevedibile.
Per questi e per i motivi precedenti, ritengo che l'”evidence driven economic policy” tenda spontaneamente a creare disastri, perché è evidente solo ciò che è visibile, ma come Bastiat insegnava nel XIX secolo, l’economista è colui che vede ciò che non è visibile. Per le cose visibili abbiamo i demagoghi: ci vorrebbe un po’ di divisione del lavoro.
PS Se non abbiamo avuto una grande depressione è solo perché finora non abbiamo avuto dementi come Hoover o Roosevelt al potere. Gli economisti non hanno alcun merito in ciò, visto che anzi hanno fallito (tranne un paio di tizi come Phelps, Friedmn, Hayek, Lucas) a prevedere la stagflazione anche se era teoricamente ovvia (erano accecati dal keynesismo) e hanno fallito (tranne rare eccezioni: Rajan, Roubini, gli austriaci) nel vedere l’enorme massa di distorsioni che si stava accumulando negli anni della mitologica “Grande Moderazione”. Stavolta non hanno fallito per motivi teorici: hanno fallito per motivi di economia applicata, confondendo come al solito la stabilità dei prezzi con la sostenibilità della crescita. Certi errori non muoiono mai. Credo che se c’è una cosa che questa crisi insegni è che i modelli di ciclo economico reale e quelli neokeynesiani vanno cambiati alla radice. In sostanza, l’economia neoclassica è giunta a biforcarsi in due tronconi che sono entrambe strade chiuse: un record.
PPS Il sunto dei miei commenti precedenti è che per rendere applicabile un modello si fanno tante di quelle porcate e si aggiungono tante di quelle ipotesi improbabili da renderlo inutile (esempio: i modelli AS/AD neokeynesiani dove tutto è ricondotto a price rigidity e habit persistence: prendono il 2% della realtà e ci analizzano le policy); il risultato è disastroso, sul piano econometrico, per via delle ipotesi extra, e sul piano teorico per il fatto di trascurare moltissime cose importanti.
per Elia, premesso che anch’io spero di essere all’altezza della discussione dato che sono un semplice promotore finanziario con alle spalle solo qualche corso di macroeconomia base ai tempi dell’università ed ho scoperto la scuola austriaca qualche anno fa soprattutto per merito del sito http://www.usemlab.com (non me ne voglia Oscar Giannino se sul suo blog posto il link a un altro sito ma se vuole ha tutto il diritto di bannarmi), vorrei replicare senza polemica.
Tu dici
E’ proprio questo il problema: nel mondo la scuola austriaca è considerata pochissimo!
Semplificando al massimo la differenza principale tra questa scuola e l’economia diciamo neoclassica è proprio qui: l’economia austriaca parte dall’individuo, dall’iniziativa imprenditoriale dal libero mercato e dalla proprietà privata con un approccio allo studio dell’economia economia logico e dinamico. L’approccio neoclassico è invece un approccio statico che viene reso dinamico “spazializzando” il tempo ma tralasciando la creatività dell’azione umana e dell’individuo. Citando Huerta de Soto “nel mondo delle scienze naturali la probabilità è oggettiva e raggiungibile per approssimazione in maniera asintotica. Nel mondo dell’azione umana invece ogni atto creativo di scoperta imprenditoriale varia di forma radicale e non convergente. Abbiamo di continuo sorprese. Atti che rivoluzionano in modo imprevedibile il mondo della conoscenza soggettiva.” http://www.usemlab.com/index.php?option=com_content&view=article&id=392:corso-di-economia-con-huerta-de-soto-iv&catid=21:scuola-austriaca-di-economia&Itemid=51. Tu stesso dici che “I loro modelli hanno funzionato bene (veramente bene) finchè non sono inciampati nella casualità (ingordigia?).” I modelli inciampano perchè per quanto accurati e meticolosi possano essere hanno a che fare con il comportamento di individui che ad un certo punto cambiano atteggiamento oppure succede qualcosa che fa cambiare il modo di pensare. E questo cambiamento non è prevedibile. Ad esempio, semplificando al massimo, prendiamo ad il problema del debito greco e di un eventuale default. Da quanto si sente in giro l’entità del debito greco non sarebbe tale da generare sulla carta gravissimi problemi al sistema. Se però il default modificasse il modo di pensare della gente della strada per il quale i Bot sono l’investimento più sicuro del mondo e i soldi che ha in tasca non sono altro che debito creato dalla banca centrale qualche problema ci sarebbe anche per il modello più sofisticato che possa esistere.
Caro Pietro, mi piacciono molto le sue osservazioni e riflessioni, che ovviamente condivido.
Aggiungerei una possibilità al numero 3): anzichè evitare di stimare i parametri, li stimano sfruttando la possibilità di far venire i risultati che vogliono. Per poi mostrare alla massa ed ai politici che le loro ipotesi del tutto arbitrarie, ed i loro parametri decisi in egual modo, fittano benissimo la realtà. Lo dice la “scienza”, resa più solida da presunte dimostrazioni pseudo-matematiche.
Ovviamente tutto ciò da un punto di vista matematico-statistico non ha senso, ma è necessario avere una discreta padronanza della materia per potersene rendere conto.
IMHO questo limite è più evidente nel mondo anglosassone, dove l’attenzione dedicata ai noiosi aspetti teorici è minore che altrove, specialmente nelle facoltà economiche.
Un bel programma econometrico, con tutti gli strumenti ed i test già preinstallati, e chissenefrega se li usano senza aver capito che le ipotesi sottostanti non sono rispettate. In realtà, con la certezza di rispettare le ipotesi, potrebbero usare ben poco di tutto l’armamentario che usano.
Ne approfitto per dire che molte delle sue osservazioni “tecniche” sono riferibili anche ai modelli sul clima: il clima è un sistema estremamente complesso ed in larga parte sconosciuto (benchè manchi il fattore umano); se si fa un modello estremamente complesso, ricadiamo negli stessi inconvenienti. O i parametri non sono stimabili, o si può far venire quello che si vuole, anche se le conclusioni in realtà non hanno valore. Se lo si fa semplice, non si sta descrivendo la realtà, ma un’idea preconcetta.
E poi pretendono di costringere il mondo a cambiare sulla base di questa supposta “evidenza scientifica”.