“Paradisi” fiscali: Obama spalanca la strada a Tremonti
In Italia il dibattito è stato lanciato “a freddo” dal Sole24ore un mesetto fa, rendendo concreta con tanto di titoli di apertura per quattro giorni di seguito l’indiscrezione tra addetti ai lavori che fino a quel momento non aveva mai trovato conferma: e cioè che l’Italia stava elaborando un nuovo maxi scudo fiscale per il rientro dei capitali, che se ne era parlato al G7 di Roma come conseguenza del “nuovo legal standard contro i paradisi fiscali”, e che in tale quadro Tremonti si sarebbe però mosso in un concerto europeo, per evitare la rampogne franco-tedesche scattate nel 2004-05, quando l’Italia ottenne la bellezza di quasi 80 miliardi di euro retrocessi alla base imponibile nazionale, con un’aliquota estremamente attraente pari al solo 2,5% delle somme rimpatriate, che significò un paio di miliardi di euro d’incassi immediati.
Fedele al suo estremo riserbo, che in materia fiscale e di provvedimenti di clemenza è ancor più giusto e obbligato, Tremonti sulla materia è sempre stato restio a dare qualsivoglia particolare aggiuntivo. Il provvedimento è tornato a materializzarsi come possibile copertura in occasione di nuovi stanziamenti straordinari del governo, dall’Abruzzo all’eventuale nuova estensione di ammortizzatori sociali, se le cose dovessero prendere una piega ancora peggiore rispetto agli 8 miliardi a tal scopo drenati in buona parte ai Fas regionali, ottenuti decentrandone l’utilizzo in maniera che le Regioni siano compartecipi del processo decisionale. In realtà le imprese sanno che il provvedimento è in cottura, visto che il Sole prese a parlarne ex abrupto perché Tremonti stesso sollevò en passant il tema incontrando con Berlusconi la Marcegaglia, il martedì successivo al convegno di Palermo in cui il vertice di Confindustria aveva levato un grido d’allarme chiedendo “soldi veri”. Il governo e il ministro non ne parlano per non suscitare allarme in Europa e non spiazzare il lavoro degli sherpa, che tentano di strappare ai franco-tedeschi un’aliquota sufficientemente bassa da rendere il provvedimento realmente efficace e vantaggioso per le casse pubbliche. Le imprese e i giornali non ne parlano neanche loro, per non evocare la facile accusa di voler dare una mano a chi ha portato capitali all’estero. In realtà tutti sanno che la misura sarebbe utile non solo all’Erario in futuro – più base imponibile – e al Tesoro subito – per fronteggiare la diminuzione del gettito da calo delle attività economiche – ma altresì alle imprese, visto che la richiesta convenuta dal governo è di riservare una finestra ancor più vantaggiosa al rientro di capitali che fosse volto all’investimento immediato nelle imprese, per meglio patrimonializzarle. Ma la convenzione generale è di parlarne il meno possibile.
Sennonché ha quasi del clamoroso, che nessuno in Italia si sia accorto che l’annuncio dato lunedì 4 maggio da Obama significa non solo che lo scudo ci sarà qui da noi e in Europa, ma che a questo punto converrà farlo presto e bene.
Che il Congresso Usa approvi davvero quanto annunciato da Obama, francamente si stenta a crederlo. Perché in Senato non basta neanche il sessantesimo senatore Specter passato dai repubblicani ai democratici pur di riassicurarsi l’elezione, per garantire la maggioranza a una misura che butta nel water 25 anni di politica fiscale Usa. Negli Usa, i profitti realizzati da controllate estere di imprese americane sono sottoposti a differimento d’imposta finché non reimpatriati. E’ questa misura, ripresa e rafforzata da Clinton dopo l’introduzione reaganiana, ad aver potentemente spinto la grande impresa Usa a due comportamenti positivi. Estendere il più possibile nel mondo il proprio radicamento in Paesi a minor prelievo, classicamente in via di sviluppo e non solo le Isole Cayman per partite finanziarie estero su estero. Essere estremamente rapide e flessibili nell’impiantare attività nei Paesi che modificavano il proprio regime fiscale in senso favorevole all’impresa, dall’Irlanda all’Est europeo per restare al contesto a noi più vicino. Per la sola General Electric nell’ultimo esercizio, sono quasi 80 miliardi di dollari di profitti che la casa madre non intende reimpatriare. Il che significa che continuerà a investirili all’estero, dando carburante alla crescita mondiale. La resistenza della Corporate America sarà durissima, alla misura annunciata da Obama: negare le deduzioni fiscali sull’intero ammontare dei profitti finché essi non vengano reimpatriati, con la scusa che altrimenti è troppo favorito chi opera all’estero rispetto alla piccola impresa. I 210 miliardi di prelievo che Obama mira ad incassare, non sono solo utili che gonfiano i risultati su cui si calcolano i premi ai manager. Sono benzina per il pianeta (e la forza dell’America nel mondo).
So che su questo argomento noi siamo minoranza. E’ facile alla politica oggi attaccare i “paradisi fiscali” come una minaccia e un insulto, per i poveri Paesi ad alto prelievo messi alle corde dalla crisi e dal calo del gettito per finanziare il loro costoso welfare, vieppiù appesantito dai nuovi disoccupati. In realtà, la difesa della concorrenza fiscale al ribasso costituisce per noi tutela del motore che ha indotto i paesi Ocse nell’ultimo venticinquennio ad abbassare di ben 16 punti l’aliquota legale (dunque quella media, non parlo di quella marginale) sul reddito delle persone giuridiche, pur accrescendo del 34% il prelievo complessivo per effetto della maggior crescita indotta. Senza l’Irlanda e la flat tax esteuropea che oggi tutti i Paesi ad alta spesa pubblica vorrebbero affossare una volta per tutte, perché sino a ieri era la riprova che si cresceva assai di più a basse tasse (e tornerà ad esserlo appena riparte il commercio internazionale), i sistemi politici ad alta intermediazione pubblica del reddito avrebbero avuto vita meno difficile, nel difendere le loro alte pretese dalla protesta di contribuenti e imprese vessati. Su questo tema, segnalo i papers più recenti degli amici del Cato Institute, “Obama Offshore Tax Plan Will Cost U.S. Companies Business and Jobs” di Daniel Griswold, “Tax Havens Should Be Celebrated, Not Persecuted” di Daniel J. Mitchell, “In Defense of Tax Havens” di Richard W. Rahn, “International Tax Competition”, che è il manuale fiscale per politici che vogliano liberarsi della mitologia eticista in materia di fisco comparato.
Ma in realtà, al di là della nostra contrarietà a una classe di politici che crede davvero ora di realizzare l’armonizzazione fiscale internazionale al rialzo, da anni predicata in Italia dai Padoa-Schioppa, Monti e Visco, quel che conta è che l’annuncio di Obama segna la direzione che verrà seguita da molti. Meglio allora farne tesoro. Anzi Tesoro, con la “ti” maiuscola. Dunque si sbrighi Tremonti, e resista ai franco-tedeschi che chiedono aliquote dell’8 se non del 10 o 12% sul reimpatriato, che renderebbero lo scudo fiscale assai meno incentivante e dunque efficace. In un mondo in cui Usa e Germania vanno all’assalto del santo segreto bancario dietro il quale milioni di contribuenti si difendevano dalle alte aliquote, all’Italia spetta non alzare le proprie tasse – per carità, la promessa era ancora una volta di abbassarle – bensì approfittarne al meglio.
Con una battuta di dubbio gusto (forse sarebbe meglio definirla razzista!) il ministro delle Finanze Steinbrueck ha paragonato Lussemburgo, Austria e Svizzera al Burkina Faso, chiamandoli trivialmente “Ouagadouogou”, il nome della capitale dello Stato africano. Che finezza, signor Ministro.