13
Nov
2015

Recupero da evasione? Di tutto, di più—di Carlo Amenta

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Carlo Amenta.

Per anni il dibattito politico sul tema dell’imposizione fiscale ha spesso evitato un’analisi seria: il politico medio di qualsiasi formazione politica, invece di concentrarsi sul difficile compito di tagliare la spesa per tagliare le tasse, ha sempre agitato il mantra del “pagare meno, pagare tutti”. E’ il recupero dall’evasione il Sacro Graal di una classe dirigente incapace di fare scelte difficili: tagliare la spesa significa anche procedere a licenziamenti di personale pubblico inefficiente e presente in numero superiore alle esigenze e non solo tagliare spese di manutenzione ed acquisti di carta igienica e detersivi. L’incentivo ultimo del politico è sempre il consenso ed il taglio dei posti di lavoro raramente ne porta, oltre a far venire meno la prassi clientelare diffusa su tutto il territorio nazionale in maniera inversamente proporzionale al PIL pro-capite regionale. Read More

11
Nov
2015

Tributo a Roberto Perotti, e del perché si torni al deficit

Roberto Perotti si è dimesso da commissario alla spending review in coerenza al suo carattere. E’ tignoso ma riservato, misuratissimo nei toni e nei giudizi. Ha solo detto di aver formalizzato la sua decisione sabato a Renzi, perché non si sentiva più utile. Nessuno dal governo gli ha dedicato una parola. Un addio britannico, freddo anzi algido. E’ la freddezza di chi ha toccato con mano l’inconciliabile distanza tra l’approccio che come studioso Perotti ha sostenuto per anni, e per il quale immaginava di essere chiamato a collaborare dal premier, rispetto invece all’impostazione scelta in concreto per la legge di stablità da palazzo Chigi e dal ministro Padoan. Anzi, soprattutto da Renzi, che ha in corso un processo di accentramento degli indirizzi economici a palazzo Chigi spodestandone il MEF, processo che tra poche settimane avrà esito nell’istituzione formale di una vera cabina di regia alla presidenza del Consiglio.

Gli amici l’avevano detto, a Perotti: ma chi te lo fa fare, lo sai come sono fatti i politici, non ti faranno mai applicare davvero quel che scrivi mettendo a nudo i multipli vergognosi con cui sono i pagati rispetto al resto del mondo i politici e i dirigenti pubblici italiani, o gli ambasciatori o le strutture di Camera e Senato e Quirinale. Ma lui aveva accettato comunque. Per servizio civile, diceva.

E’ finita com’è finita. Con lo stesso esito riservato dalla politica negli anni a Carlo Cottarelli, a Enrico Bondi, a Piero Giarda. E’ finita la grande ubriacatura dei tecnici, ha detto ieri il premier Renzi, la politica ha ripreso solidamente le redini del paese. Infatti si vede: si torna a far salire il deficit rispetto agli obiettivi, e la si presenta come una virtù. E’ l’eterna cattiva abitudine della politica italiana a esser tornata, e la novità è che Renzi ne va molto fiero.

Diciamo allora che ci sono due modi per tentare di spiegare l’inutile arrabbiatura che si è preso Perotti in questi mesi. Il primo è ricordare le mille difficoltà che si oppongono a tagliare davvero la spesa. Il secondo: capire meglio a cosa davvero pensino Renzi e Padoan, e perché credono sia giusto.

La spesa pubblica italiana, checché dicano i suoi difensori che ne scorporano questa o quella voce per farla apparire in linea con quella degli altri paesi, è dannatamente elevata: nel 2015 è al 50,8% del PIL, rispetto al 47,4% della media Ue, al 43,5% della Germania, al 43,4% della Spagna. Con entrate pubbliche totali pari al 49% del PIL per non far troppo debito aggiuntivo, il fardello della finanza pubblica italiana è piombo nelle ali della crescita.

Sappiamo da decenni grazie a Max Weber e James Buchanan che la PA non è fatta per tagliarsi le spese ma per farle crescere, perché è da esse che misura il proprio ruolo e potere. Perciò i burocrati pubblici hanno inventato la tecnica di contabilità che usiamo in Italia, che fa figurare come tagli di spesa riduzioni dell’aumento tendenziale della medesima per l’anno prossimo inferiori al suo aumento reale previsto: così gli statalisti possono urlare contro il rigore, i governi dire che sono rigorosi, ma l’effetto è che la spesa pubblica cresce comunque, e PA e politica sono contenti insieme. Tanto, a pagare è il contribuente-somaro. Agli studiosi è nota come legge di Wagner: la spesa pubblica tende a crescere sempre, con un tasso tanto superiore quanto più sale il reddito procapite.

Sappiamo inoltre che vale la legge del ciclo elettorale della spesa. Il politico non tocca comparti “sensibili” di spesa quanto più si avvicinano le elezioni. Per questo i poverissimi contenimenti dell’andamento della spesa pubblica tendenziale previsti in legge di stabilità si riducono a 8,7 miliardi nel 2016 (3,6 mld a carico delle Regioni, metà della parte restante sono minor spesa per investimenti, il resto quisquilie), a fronte però di 5,4 miliardi di maggior spesa prevista. Mentre la manovra in quanto tale è in deficit aggiuntivo per un punto di Pil, rispetto a quanto ci eravamo impegnati con l’Europa.

I dossier su cui aveva lavorato Perotti erano numerosi: il disboscamento delle detrazioni e deduzioni fiscali a questa e quella lobby che valgono 180mld di minori entrate annue, le spese dei ministeri, l’accorpamento e l’omologazione dei 12 comparti della pubblica amministrazione, le partecipate pubbliche e le 12 mila piccole Iri del socialismo municipale. Ma per Renzi toccare ciascuna di queste contsituencies avrebbe resto la legge di stabilità un Vietnan. E ha deciso di risparmiarselo, ovviamente.

Oltre a questo, però, che riguarda Renzi e il suo calcolo elettorale, c’è dell’altro. In Padoan vive anche un’impostazione teorica diversa dalle bassezze dei politicastri. Ma, a veder bene, ancor più di sinistra. Dacché è ministro, i DEF inviati a Bruxelles sono un’accanita contestazione di come si calcola l’output gap di un paese, la differenza tra l’andamento del suo PIL e quanto si potrebbe davvero ricavare dal miglior uso dei diversi fattori della produzione. E’ un punto centrale che divide il dibattito mondiale del dopo crisi.

Studiando oltre un centinaio di crisi fiscali e finanziarie sovrapposte nel corso degli ultimi 150 anni, economisti come Carmen Reinhart e Ken Rogoff ne hanno dedotto che in molti casi la via migliore per uscire dalle crisi è affrontarne le cause con correzioni energiche al limite dello shock, abbattendo l’eccesso di debiti pubblici, bancari e privati, spesa e tasse, perché in quel caso la ripartenza è più rapida e solida: vedi il caso in corso dell’Irlanda per fare un esempio, che oggi cresce al 5% annuo senza aver alzato la sua aliquota sulle imprese al 12,5%.

A questa impostazione se ne oppone un’altra, che accusa il rigore di errori micidiali. Può essere vero che impugnando l’accetta si riparte, sostiene, ma così facendo ci si riprende dalla base di un prodotto potenziale molto più basso, cioè si sacrifica lavoro, reddito, consumi e investimenti non destinati facilmente a tornare. E’ la tesi della cosiddetta “stagnazione secolare”, sostenuta da Larry Summers e Paul Krugman. La loro ricetta è: bisogna seguire politiche monetarie ancor più lasche di quelle sinora messe in opera, fregarsene del deficit e del debito pubblico perché ci deve pensare il banchiere centrale a sostenerli e renderli comunque solvibili, bisogna spendere spandere e investire perché solo così si evitano guai peggiori. Perché ormai la piena occupazione è coerente a tassi naturali d’interesse molto più bassi che in passato, ed è con politiche monetarie e di bilancio no convenzionali – cioè lasche e dispendiose – che bisogna combattere stasi dell’innovazione e declino demografico.

Ecco, con Renzi-Padoan la strada imboccata dalla legge di stabilità è quella Summers-Krugman. In realtà si tratta del Keynes della vulgata deficista, che dimentica quel che Keynes aveva scritto prima del 1936 sull’errore di politiche monetarie troppo accomodanti. Non si scelgono dunque i tagli fiscali alle imprese e al lavoro con cui si ripartirebbe prima, ma quelli sulla prima casa che servono alla fiducia cioè al consenso. Non si incentivano contratti di lavoro e investimenti “addizionali”, ma quelli lordi a cominciare dunque da quelli che si sarebbero fatti comunque: ancora una volta perché la fiducia viene anteposta all’arido calcolo di cosa alzi più il PIL davvero nel breve termine. Tanto ci pensa Mario Draghi a salvarci il fondoschiena, pensano i politici che tornano alla virtù del deficit e del torchio monetario.

Con tutto questo, davvero Roberto Perotti non c’entrava nulla. Vedremo come andrà: ma attenti che la crescita mondiale è al ribasso, l’effetto petrolio è quasi svanito, e anche san Mario Draghi può molto, ma i miracoli in eterno di sicuro non riescono neanche a lui.

9
Nov
2015

Come governare e cambiare un Paese. Appunti dall’advisor di Blair—di Lorenzo Castellani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Lorenzo Castellani.

Per la politica contemporanea delle democrazie liberali soddisfare le aspettative dei cittadini rappresenta il principale problema. Ciò che muove una contestazione, elettoralmente considerevole in Europa e negli Stati Uniti, verso le forze politiche di governo è la sensazione che, nonostante il cambio di colore dei governi, le democrazia restino oramai un potere vuoto. Read More

5
Nov
2015

La Mosca al naso e le riforme virtuali—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Zzz quel sibilo noioso, insistente, e poi sembra che smetta, forse è uscita dalla stanza, invece no zzz è sempre lì e ti si posa sul naso, e la scacci ma lei è ancora lì. Ma la mosca in questo caso è una legge. Insopportabile come una mosca vera. La legge n. 252 del 1974, meglio conosciuta come “legge Mosca”: “Regolarizzazione della posizione assicurativa dei dipendenti dei partiti politici, delle organizzazioni sindacali e delle associazioni di tutela e rappresentanza della cooperazione”. Una delle leggi più dispendiose e deleterie in tema di privilegi assegnati a politici e sindacalisti.
Giovanni Mosca, padre della legge, una volta intervistato disse: “La legge era giusta, non mi sono mai pentito. Read More

3
Nov
2015

Perché al liberale non piace l’8 x mille, e cosa vorrebbe invece

La Corte dei Conti anche quest’anno ha puntato il dito contro le molte anomalie dell’8 per mille, la modalità di finanziamento che dal 1985 è a disposizione dei contribuenti italiani per destinare una parte dell’IRPEF a sostegno delle confessioni religiose o dello Stato.

La Corte ha molte ragioni, in primis quella di suscitare molti pesanti interrogativi su un meccanismo che è asimmetrico e di fatto sfuggito di mano. Interrogativi ai quali però la politica è sorda, per non urtare la gerarchia della Chiesa cattolica italiana che del meccanismo – per come funziona – è la maggior beneficiaria, incassando da anni oltre un miliardo l’anno e cioè l’80 e più per cento del totale delle risorse assegnate.

Ma la Corte ha anche un limite evidente: le sue osservazioni valgono nel limite delle leggi vigenti. Che sono leggi sbagliate o quanto meno superate, almeno dal punto di vista liberale. Leggi che andrebbero ripensate in un’unica ottica: accomunare in una sola disciplina di agevolazione fiscale – neutrale, senza distinzioni dettate da discrezionalità politica – le libere scelte di donazione dei contribuenti a favore dei confessioni religiose, terzo settore e partiti. Spezzando le anomalie che in Italia separano 8 per mille riservato alle Chiese, 5 per mille alla sussidiarietà sociale e culturale, e 2 per mille alle forze politiche.

La politica non ne ha però alcuna intenzione. E sinora ha fatto orecchie da mercante anche alle osservazioni della Corte, che già l’anno scorso erano tal quali a quest’anno. La prima anomalia dell’8 per mille è che solo per la Chiesa cattolica derivi dal Nuovo Concordato tra Italia e Vaticano del 1984, che sostituì a firma Craxi quello fascista del 1929. Il leader socialista lo sottoscrisse pensando ai voti dei cattolici. Invece il tempo era maturo per una legge generale sulla libertà di culto in Italia, che equiparasse tutte le confessioni lasciandole libere di sottoscrivere intese con lo Stato. Al contrario, per l’8 per mille è competente una commissione paritetica Stato-CEI per quanto riguarda la Chiesa cattolica, mentre altre confessioni – valdesi, israeliti, luterani, chiesa avventista eccetera – hanno sottoscritto semplici intese. Ed è nella commissione mista Stato-CEI, che la politica italiana proprio non se la sente di affrontare le contraddizioni rilevate dalla Corte dei conti.

E’ verissimo che le risorse si sono triplicate in pochi anni, mentre per esempio quelle del 5 per mille sono fissate ogni anno dal MEF a seconda dei saldi di bilancio dello Stato, impedendo al terzo settore di poter pianificare pluriennalmente bilanci a sostegno dei malati, del patrimonio culturale e della ricerca. E’ verissimo che il meccanismo della ripartizione di quote integrando coloro che non optano a favore di nulla finisce per premiare la Chiesa cattolica: un meccanismo che dovrebbe essere considerato incostituzionale, come sostengono alcune altre confessioni. E’ altrettanto vero che la legge che ha introdotto l’8 per mille nel 1985 comunque ne identificava tre aree di utilizzo esclusivo da parte delle confessioni, mentre nel rendiconto generalissimo annuale redatto dalla CEI si capisce che gli scopi a cui sono volti i fondi sono anche altri. Ed è ancora vero che lo Stato, per parte sua, si è impadronito per altri fini di spesa corrente del più delle risorse annuali che i contribuenti gli riservavano per interventi che dovrebbero essere anch’essi esclusivamente sociali. Come è vero che non si è adoperato per smascherare e punire, in numerosi CAF che redigono le dichiarazioni dei redditi dei contribuenti, i falsi comprovati nell’attribuzione alla Chiesa cattolica di molte dichiarazioni inoptate.

Se lo Stato non si dà da fare con campagne di promozione pubblica per la scelta a proprio favore, e se non raddrizza tutte queste storture evidenti dell’8 per mille, è per non irritare la CEI. Ragione in più, allora, per evitare interventi solo mirati alle gerarchie cattoliche, superando una volta per tutte il regime concordatario e approvando una sola legge generale sulla libertà religiosa (e sui relativi doveri essenziali delle confessioni). Un ordinamento davvero liberale non dovrebbe conoscere distinzioni nelle agevolazioni fiscali concesse ai diversi soggetti ai quali il cittadino contribuente può scegliere di donare: si tratti di religione, sussidiarietà sociale e culturale, o politica. Invece abbiamo un sistema che strapremia la Chiesa cattolica, e che ha introdotto a favore della donazione ai partiti sgravi fiscali multipli di quelli riservati a chi vuole finanziare di tasca propria le università, o i musei, o le misericordie che assistono anziani e malati. Un paese che conta a favore della confessione più forte anche e soprattutto chi non esprime alcuna scelta cioè la maggioranza, e che taglia invece le risorse da destinare a chi invece sceglie esplicitamente questa o quella onlus del terzo settore “civile”. Un paese, in sostanza, ipocrita: perché finge di rispettare la libera scelta di dono dei suoi cittadini, e in realtà la piega alle convenienze della politica.

1
Nov
2015

Metodo-Milano a Roma? Perché il liberale resta scettico

Esportare il modello-Milano a Roma e in tutta Italia? Lo slogan sembra diffondersi, all’indomani della chiusura di Expo e della nomina del prefetto di Milano, Paolo Francesco Tronca, a commissario di Roma dopo l’incredibile autodafè del sindaco Marino. E’ uno slogan che può sembrare ovvio e seducente, di fronte all’imminente Giubileo a Roma. Ma bisogna avere l’onestà liberale e non propagandistica di dirlo: attenti all’equivoco, perché c’è bisogno di altro.

L’EXPO è finito ieri con un ottimo bilancio. “l’Italia ha vinto la sfida”, ha detto alla cerimonia conclusiva il Capo dello Stato, Mattarella. E’ un fatto. Quando i ritardi nei lavori fecero dire ai più che la scommessa appariva in bilico, quando la scure degli scandali e delle indagini giudiziarie colpì anche progetti legati a Expo come quello delle cosiddette “Vie d’Acqua”, tutte le istituzioni milanesi, il governo nazionale e i manager di prima fila di EXPO, seppero serrare le fila. E il risultato c’è stato. Ventuno milioni di visitatori. Tutte le delegazioni internazionali, politiche e del mondo del business, unanimi nel riconoscere che non si aspettavano una prova così riuscita dall’Italia.

La vera chiave del metodo-Milano è stata una sola. Constatato che anche a Milano i ritardi delle procedure ordinarie dell’ancora vigente codice degli appalti si sommavano a quelli precedenti nelle decisioni di Regione e Comune, e che il malaffare era in agguato anche negli appalti lombardi, di fronte al baratro internazionale che sembrava aprirsi tutti hanno saputo convergere. Il governo ha messo soldi. I manager di EXPO, Regione e Comune hanno concordato comunque col governo di procedere in regime di deroga rispetto alle gare, ma spalancando a Raffaele Cantone e all’ANAC la porta preventiva di ogni aggiudicazione. I sindacati hanno siglato mesi prima la tregua su ogni sciopero. Quando l’inaugurazione fu bruttata dai black bloc, che misero a fuoco il centro di Milano, la reazione civile e istituzionale fu immediata e unanime.

Ma detto questo, valgono comunque quattro osservazioni.

La prima è che il prefetto Tronca, da solo, non avrebbe potuto ottenere nulla più a Milano del collega Gabrielli a Roma, se non avesse incontrato una convergenza assoluta di tutte le istituzioni, centrali e locali. Non è così a Roma, dove l’esperienza Marino tramonta nello scontro aperto tra governo e Pd da una parte ed ex sindaco dall’altro. E lo stesso vale per Napoli o Palermo e il resto del Sud. Forse è per questo ed è comunque apprezzabile, che il prefetto Tronca neo commissario a Roma abbia ieri cominciato a correggersi e a frenare, sulla replicabilità del modello-Milano anche altrove.

La seconda. EXPO è stato un successo, ma la sfida ha riguardato infrastrutturare e gestire al meglio un’area di 100 ettari. Sono un milione di metri quadrati, cioè un chilometro quadrato. Ma il Comune di Roma ha una superficie 1.285 volte superiore: pari alla somma di Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari e Cagliari insieme. A Roma per il Giubileo, per quanto gonfiate siano le cifre girate sull’attesa di pellegrini, è enormemente più complesso il compito di assicurare in poche settimane trasporti pubblici e raccolta d’immondizia efficienti, dopo decenni di malaffare e inefficienza, conflittualità diffusa e incuria civica. E la stessa cosa vale in tutto il Sud, verso il quale il governo non mostra la stessa forte disponibilità riservata a Milano, all’EXPO prima e ora all’utilizzo dell’area post EXPO.

La terza. Riguarda un tema scivoloso: la moralità pubblica. Sostenere la superiorità etica di Milano su Roma e sul Sud potrà piacere a molti, e molti dati come l’evasione IVA così attestano, ma comunque è un modo certo per sbagliare. Anche EXPO è stato realizzato in un regime di deroghe, e con le Procure addosso. Intanto, la riforma del codice degli appalti dopo 16 mesi ancora non è stata approvata dal parlamento (anche se per un liberale la riforma avrebbe dovuto disboscare molto di più le nome…). E il ruolo dell’ANAC non è ancora regola e non eccezione nella fase pre-appalti a Roma, dove la percentuale di gare affidate senza evidenza pubblica è rimasta maggioritaria anche sotto il sindaco Marino (anche se a un liberale l’ANAC sembra una foglia di fico…). In quella Roma dove ancor non conosciamo i nomi dei 101 funzionari pubblici collusi con il malaffare nell’amministrazione capitolina e delle municipalizzate, secretati nel rapporto della commissione d’indagine di prefetti e funzionari del MEF che precedette la relazione del prefetto Gabrielli.

Ma no, in realtà non c’è una superiorità morale del Nord sul Sud: le norme favorevoli alla malagestio pubblica sono le stesse.  In Italia c’è un problema generale di troppe regole vischiose che spalancano la porta ad affari impropri di chi le gestisce. Quando l’ex assessore ai Trasporti di Roma Esposito dice che funzionari e dipendenti del suo assessorato sono collusi, non è un prefetto super-commissario da solo a poter far pulizia. Cento centri di spesa pubblica all’ombra del solo Campidoglio e delle sue società partecipate sono ben altro problema, rispetto all’unica società che ha gestito EXPO. E in legge di stabilità non c’è l’ombra di una spending review né di una riduzione delle partecipate pubbliche, ovviamente.

La quarta osservazione, conclusiva. Dal successo di EXPO c’è da imparare. Ma i guai profondi di Roma e del Sud sono una sfida cento volte più complessa. Solo mobilitando per anni risorse incomparabilmente superiori, risorse istituzionali e civili, economiche e professionali, sarà possibile colmare il profondo fossato della fiducia aperto tra cittadini e cosa pubblica. Il miglior Giubileo possibile a Roma ha la forza di un simbolo. Ma la sfida a Roma e nel Sud non durerà sei mesi come a Milano, perché troppi sono gli anni degli errori commessi e da riparare. Il liberale resta scettico, insomma, e non crede ai miracoli.

30
Ott
2015

Elogio del cicciolo—di Luigi Mariani

Chiamateli grasei, gratu, siccioli, grassoli, lardinzi, grépòle, cicoli, o sfrizzoli… oppure, in italiano, ciccioli. I ciccioli sono a mio parere una delle cose più buone che esistano al mondo, nel senso che li mangio un paio di volte l’anno e poi passo il resto del tempo a rimpiangerli. Questo dipinge nel modo più efficace il mio rapporto affettivo con le carni e mi piace immaginare che in condizioni analoghe siano molti dei lettori.
Peraltro questo rapporto affettivo ce l’abbiamo impresso nel nostro DNA se pensiamo che l’80% del patrimonio genetico di noi europei discende dai popoli di cacciatori – raccoglitori che sopravvissero sul continente durante l’ultima era glaciale, trascorrendo la loro grama, gelida e pericolosissima esistenza a sognare pranzi pantagruelici a base di carne. Al riguardo ricordo con affetto un amico di famiglia che aveva passato gran parte della sua vita con pochi quattrini, mangiando poco e male e facendo mestieri umilissimi. Da vecchio divenne garzone di un pollivendolo che girava i mercati della mia provincia e così poteva finalmente permettersi (così almeno mi disse un volta che lo incontrai) di mangiare un pollo al giorno. Dato che di lì a poco morì, pensai che una tale dieta “estrema” l’avesse mandato al creatore in anticipo ma pensai anche che in quei mesi avesse toccato i cielo con un dito… Read More

30
Ott
2015

Rai Tivù: oltre il canone c’è di più—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

E’ stato recentemente pubblicato da IBL un interessante paper di Serena Sileoni, molto puntuale e chiaro, sulla proposta di inserimento del canone RAI nella bolletta dell’energia elettrica. Sottolineo in particolare, un passaggio: “Il canone, infatti, ha natura di imposta. (…) La bolletta, invece, riflette il prezzo di un servizio, pur gravato di una molteplicità di oneri tariffari. Nel primo caso, il tributo si paga solo per possedere una tv, a prescindere dall’usarla per vedere la Rai. Nel secondo caso, il pagamento è correlato al consumo di un servizio, il quale si trascina appresso una serie di finalità pubbliche (ma in qualche modo correlata al servizio stesso) quali il finanziamento delle fonti rinnovabili, lo smantellamento degli ex siti nucleari, la mutualità nei confronti delle famiglie in condizione di disagio economico e fisico, ecc”. Perciò, oltre alla pura erogazione di elettricità, in bolletta paghiamo anche quelli che vengono chiamati gli oneri generali di sistema, determinati per legge o decreto, a sostegno di interventi d’interesse generale. Read More

27
Ott
2015

L’infondata pretesa di AgEntrate di essere una Repubblica a parte

Sono passati 7 mesi, dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimi 767 dirigenti dell’Agenzia delle Entrate, circa un migliaio comprendendo le altre Agenzie tributarie, fortemente volute da Vincenzo Visco e nate dalla riforma Bassanini nel 1999.

In questi mesi, il problema si è avvitato fino all’esplosione dell’attuale, aperta e clamorosa conflittualità.Tanto da creare ora un problema di prima grandezza al governo, che già si trova alle prese con gli attacchi di chi sostiene che, elevando la soglia sull’utilizzo del contante, l’esecutivo smonta una trincea contro il riciclaggio e la lotta all’evasione.

Il sottosegretario al MEF Enrico Zanetti sostiene che, così continuando, la direttrice di AgEntrate Rossella Orlandi dovrà dimettersi. Lei ha replicato che non ci pensa nemmeno. Il MEF ha ieri ribadito fiducia alla Orlandi, ma ha prima diffuso una lunga nota che motiva il cambio di linea posto dal governo nella strategia antievasione. Di fatto, invitando AgEntrate una volta per tutte a stare al suo posto, e a non fomentare sui media dubbi politici sulle scelte tributarie del governo. Zanetti ha controreplicato che a questo punto chiederà un chiarimento direttamente a Renzi, quando tonerà dal Sud America.

In sintesi: un bel pasticcio. Istituzionale innanzitutto. Ma anche politico, perché l’Agenzia ha alzato il tiro proprio in occasione della legge di stabilità, come a invitare la minoranza Pd e le opposizioni a sostenerla. Cosa puntualmente avvenuta.

Ricapitoliamo le origini del contrasto. Bolliva da anni, Il problema dell’illegittimità di centinaia di funzionari delle Agenzie, elevati al ruolo dirigenziale per nomina dall’alto e con incarichi a tempo. Il Tar del Lazio lo aveva affidato al Consiglio di Stato, dopo la sanatoria del 2012 varata dal governo Monti. Il Consiglio di Stato lo sottopose alla Corte Costituzionale. Che si è espressa in maniera chiara: le Agenzie sono parte integrante della Pubblica Amministrazione, dunque dirigenti se ne può diventare solo per concorso.

AgEntrate masticò storto, di fatto confidando in una nuova sanatoria. E la direttrice Orlandi disse inopinatamente, all’indomani della sentenza, che i contribuenti non dovevano sprecare “tempo e denaro” a impugnare gli atti firmati da quei dirigenti illegittimi. Il governo giustamente non gradì. E decine di pronunzie delle Commissioni tributarie provinciali e regionali smentirono – non univo0camente, è vero, viva la libera interpretazione dei giudici nel paese pretesa “culla” del diriotto ! – la direttrice di AgEntrate. Il governo, adempiendo alla sentenza della Corte, negò la sanatoria, e dispose di tenere regolari concorsi aperti anche a centinaia di interni di ottimo livello, ma estranei alle cordate dei dirigenti-a-tempo di questi anni.

Nel frattempo, per non farsi mancar nulla, 400 di quei dirigenti hanno impugnato la perdita di retribuzione conseguente alla sentenza. E la resistenza di AgEntrate ha preso forme diverse. La denuncia pubblica che professionalità apicali delle Agenzie passano intanto al privato, depauperando la capacità di contrasto a evasione ed elusione perché lo Stato non li premia. La contrarietà ad accorpare le Agenzie ad altri dipendenti pubblici, visto che nella nuova tornata di contrattazione le aree della PA devono scendere da 12 a 4. Il tutto condito da argomenti squisitamente “politici”, che fanno scrivere ai media che l’Agenzia si sente accerchiata e delegittimata dalla politica tributaria governativa, a cominciare naturalmente dall’innalzamento della soglia al contante.

Bisogna riconoscere che Rossella Orlandi non ha creato la situazione all’origine del contrasto. E’ frutto di lunghi anni di singolare accondiscendenza politica, da parte di governi di sinistra, destra e tecnici. Di fatto, la politica ha finito per attribuire ad AgEntrate il ruolo improprio di stesura dei testi tributari, comprovato dal fatto che in centinaia di interrogazioni negli anni i rappresentanti del MEF rispondevano al Parlamento citando testualmente e dichiaratamente le valutazioni dell’Agenzia. Nonché il ruolo di interpretazione unica ex ante del diritto tributario vigente, affidato alle circolari sempre dell’Agenzia.

Il problema istituzionale che il governo deve sciogliere è dunque relativo al fatto che le agenzie tributarie non hanno, nel nostro ordinamento, uno status di autonomia e indipendenza dal governo simile a quello della magistratura, come di fatto le polemiche di questi mesi tentano di avvalorare. Corpi dell’esecutivo specializzati per funzione non possono credere di svolgere ruoli che sono prerogativa dell’indirizzo politico del governo: e non parliamo di “questo” governo, ma di qualunque governo. La lotta all’evasione non può essere intestata alle Agenzie come fossero una Repubblica separata, esse sono semplicemente delegate a condurla seguendo le direttive del governo e del parlamento. E si capisce dunque che al governo Renzi bruci dover ricordare per primo ad AgEntrate che sotto il suo impulso la strategia antievasione mira a ottenere maggiori risultati non più attraverso operazioni a tappeto stile-Cortina, ma con la maggiore adesione spontanea figlia del potenziamento dell’incrocio delle banche dati, della selezione degli accertamenti, della maggior cooperazione internazionale, bilaterale e in sede OCSE sul recupero dell’imponibile.

Ma c’è anche un evidente problema politico: la protesta di AgEntrate interviene a gamba tesa nel confronto che Renzi ha aperto in materia di lotta all’evasione tra due anime della sinistra. Non è un caso che Vincenzo Visco sia tra i più autorevoli critici della svolta in corso. E certo il governo non aveva messo in conto di ritrovarsi pezzi di Stato pronti a soffiare sul fuoco.

In ogni caso, non dimentichiamo che la scelta che il governo dovrà fare ha anche un aspetto di equità generale. Non è che il rispetto rigoroso della legge e delle procedure si può chiedere solo ai contribuenti, se lo Stato tributario per primo pretende eccezioni per sé, e per chi nomina dirigenti e firma gli atti da cui discendono le cartelle esattoriali.