3
Nov
2015

Perché al liberale non piace l’8 x mille, e cosa vorrebbe invece

La Corte dei Conti anche quest’anno ha puntato il dito contro le molte anomalie dell’8 per mille, la modalità di finanziamento che dal 1985 è a disposizione dei contribuenti italiani per destinare una parte dell’IRPEF a sostegno delle confessioni religiose o dello Stato.

La Corte ha molte ragioni, in primis quella di suscitare molti pesanti interrogativi su un meccanismo che è asimmetrico e di fatto sfuggito di mano. Interrogativi ai quali però la politica è sorda, per non urtare la gerarchia della Chiesa cattolica italiana che del meccanismo – per come funziona – è la maggior beneficiaria, incassando da anni oltre un miliardo l’anno e cioè l’80 e più per cento del totale delle risorse assegnate.

Ma la Corte ha anche un limite evidente: le sue osservazioni valgono nel limite delle leggi vigenti. Che sono leggi sbagliate o quanto meno superate, almeno dal punto di vista liberale. Leggi che andrebbero ripensate in un’unica ottica: accomunare in una sola disciplina di agevolazione fiscale – neutrale, senza distinzioni dettate da discrezionalità politica – le libere scelte di donazione dei contribuenti a favore dei confessioni religiose, terzo settore e partiti. Spezzando le anomalie che in Italia separano 8 per mille riservato alle Chiese, 5 per mille alla sussidiarietà sociale e culturale, e 2 per mille alle forze politiche.

La politica non ne ha però alcuna intenzione. E sinora ha fatto orecchie da mercante anche alle osservazioni della Corte, che già l’anno scorso erano tal quali a quest’anno. La prima anomalia dell’8 per mille è che solo per la Chiesa cattolica derivi dal Nuovo Concordato tra Italia e Vaticano del 1984, che sostituì a firma Craxi quello fascista del 1929. Il leader socialista lo sottoscrisse pensando ai voti dei cattolici. Invece il tempo era maturo per una legge generale sulla libertà di culto in Italia, che equiparasse tutte le confessioni lasciandole libere di sottoscrivere intese con lo Stato. Al contrario, per l’8 per mille è competente una commissione paritetica Stato-CEI per quanto riguarda la Chiesa cattolica, mentre altre confessioni – valdesi, israeliti, luterani, chiesa avventista eccetera – hanno sottoscritto semplici intese. Ed è nella commissione mista Stato-CEI, che la politica italiana proprio non se la sente di affrontare le contraddizioni rilevate dalla Corte dei conti.

E’ verissimo che le risorse si sono triplicate in pochi anni, mentre per esempio quelle del 5 per mille sono fissate ogni anno dal MEF a seconda dei saldi di bilancio dello Stato, impedendo al terzo settore di poter pianificare pluriennalmente bilanci a sostegno dei malati, del patrimonio culturale e della ricerca. E’ verissimo che il meccanismo della ripartizione di quote integrando coloro che non optano a favore di nulla finisce per premiare la Chiesa cattolica: un meccanismo che dovrebbe essere considerato incostituzionale, come sostengono alcune altre confessioni. E’ altrettanto vero che la legge che ha introdotto l’8 per mille nel 1985 comunque ne identificava tre aree di utilizzo esclusivo da parte delle confessioni, mentre nel rendiconto generalissimo annuale redatto dalla CEI si capisce che gli scopi a cui sono volti i fondi sono anche altri. Ed è ancora vero che lo Stato, per parte sua, si è impadronito per altri fini di spesa corrente del più delle risorse annuali che i contribuenti gli riservavano per interventi che dovrebbero essere anch’essi esclusivamente sociali. Come è vero che non si è adoperato per smascherare e punire, in numerosi CAF che redigono le dichiarazioni dei redditi dei contribuenti, i falsi comprovati nell’attribuzione alla Chiesa cattolica di molte dichiarazioni inoptate.

Se lo Stato non si dà da fare con campagne di promozione pubblica per la scelta a proprio favore, e se non raddrizza tutte queste storture evidenti dell’8 per mille, è per non irritare la CEI. Ragione in più, allora, per evitare interventi solo mirati alle gerarchie cattoliche, superando una volta per tutte il regime concordatario e approvando una sola legge generale sulla libertà religiosa (e sui relativi doveri essenziali delle confessioni). Un ordinamento davvero liberale non dovrebbe conoscere distinzioni nelle agevolazioni fiscali concesse ai diversi soggetti ai quali il cittadino contribuente può scegliere di donare: si tratti di religione, sussidiarietà sociale e culturale, o politica. Invece abbiamo un sistema che strapremia la Chiesa cattolica, e che ha introdotto a favore della donazione ai partiti sgravi fiscali multipli di quelli riservati a chi vuole finanziare di tasca propria le università, o i musei, o le misericordie che assistono anziani e malati. Un paese che conta a favore della confessione più forte anche e soprattutto chi non esprime alcuna scelta cioè la maggioranza, e che taglia invece le risorse da destinare a chi invece sceglie esplicitamente questa o quella onlus del terzo settore “civile”. Un paese, in sostanza, ipocrita: perché finge di rispettare la libera scelta di dono dei suoi cittadini, e in realtà la piega alle convenienze della politica.

1
Nov
2015

Metodo-Milano a Roma? Perché il liberale resta scettico

Esportare il modello-Milano a Roma e in tutta Italia? Lo slogan sembra diffondersi, all’indomani della chiusura di Expo e della nomina del prefetto di Milano, Paolo Francesco Tronca, a commissario di Roma dopo l’incredibile autodafè del sindaco Marino. E’ uno slogan che può sembrare ovvio e seducente, di fronte all’imminente Giubileo a Roma. Ma bisogna avere l’onestà liberale e non propagandistica di dirlo: attenti all’equivoco, perché c’è bisogno di altro.

L’EXPO è finito ieri con un ottimo bilancio. “l’Italia ha vinto la sfida”, ha detto alla cerimonia conclusiva il Capo dello Stato, Mattarella. E’ un fatto. Quando i ritardi nei lavori fecero dire ai più che la scommessa appariva in bilico, quando la scure degli scandali e delle indagini giudiziarie colpì anche progetti legati a Expo come quello delle cosiddette “Vie d’Acqua”, tutte le istituzioni milanesi, il governo nazionale e i manager di prima fila di EXPO, seppero serrare le fila. E il risultato c’è stato. Ventuno milioni di visitatori. Tutte le delegazioni internazionali, politiche e del mondo del business, unanimi nel riconoscere che non si aspettavano una prova così riuscita dall’Italia.

La vera chiave del metodo-Milano è stata una sola. Constatato che anche a Milano i ritardi delle procedure ordinarie dell’ancora vigente codice degli appalti si sommavano a quelli precedenti nelle decisioni di Regione e Comune, e che il malaffare era in agguato anche negli appalti lombardi, di fronte al baratro internazionale che sembrava aprirsi tutti hanno saputo convergere. Il governo ha messo soldi. I manager di EXPO, Regione e Comune hanno concordato comunque col governo di procedere in regime di deroga rispetto alle gare, ma spalancando a Raffaele Cantone e all’ANAC la porta preventiva di ogni aggiudicazione. I sindacati hanno siglato mesi prima la tregua su ogni sciopero. Quando l’inaugurazione fu bruttata dai black bloc, che misero a fuoco il centro di Milano, la reazione civile e istituzionale fu immediata e unanime.

Ma detto questo, valgono comunque quattro osservazioni.

La prima è che il prefetto Tronca, da solo, non avrebbe potuto ottenere nulla più a Milano del collega Gabrielli a Roma, se non avesse incontrato una convergenza assoluta di tutte le istituzioni, centrali e locali. Non è così a Roma, dove l’esperienza Marino tramonta nello scontro aperto tra governo e Pd da una parte ed ex sindaco dall’altro. E lo stesso vale per Napoli o Palermo e il resto del Sud. Forse è per questo ed è comunque apprezzabile, che il prefetto Tronca neo commissario a Roma abbia ieri cominciato a correggersi e a frenare, sulla replicabilità del modello-Milano anche altrove.

La seconda. EXPO è stato un successo, ma la sfida ha riguardato infrastrutturare e gestire al meglio un’area di 100 ettari. Sono un milione di metri quadrati, cioè un chilometro quadrato. Ma il Comune di Roma ha una superficie 1.285 volte superiore: pari alla somma di Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari e Cagliari insieme. A Roma per il Giubileo, per quanto gonfiate siano le cifre girate sull’attesa di pellegrini, è enormemente più complesso il compito di assicurare in poche settimane trasporti pubblici e raccolta d’immondizia efficienti, dopo decenni di malaffare e inefficienza, conflittualità diffusa e incuria civica. E la stessa cosa vale in tutto il Sud, verso il quale il governo non mostra la stessa forte disponibilità riservata a Milano, all’EXPO prima e ora all’utilizzo dell’area post EXPO.

La terza. Riguarda un tema scivoloso: la moralità pubblica. Sostenere la superiorità etica di Milano su Roma e sul Sud potrà piacere a molti, e molti dati come l’evasione IVA così attestano, ma comunque è un modo certo per sbagliare. Anche EXPO è stato realizzato in un regime di deroghe, e con le Procure addosso. Intanto, la riforma del codice degli appalti dopo 16 mesi ancora non è stata approvata dal parlamento (anche se per un liberale la riforma avrebbe dovuto disboscare molto di più le nome…). E il ruolo dell’ANAC non è ancora regola e non eccezione nella fase pre-appalti a Roma, dove la percentuale di gare affidate senza evidenza pubblica è rimasta maggioritaria anche sotto il sindaco Marino (anche se a un liberale l’ANAC sembra una foglia di fico…). In quella Roma dove ancor non conosciamo i nomi dei 101 funzionari pubblici collusi con il malaffare nell’amministrazione capitolina e delle municipalizzate, secretati nel rapporto della commissione d’indagine di prefetti e funzionari del MEF che precedette la relazione del prefetto Gabrielli.

Ma no, in realtà non c’è una superiorità morale del Nord sul Sud: le norme favorevoli alla malagestio pubblica sono le stesse.  In Italia c’è un problema generale di troppe regole vischiose che spalancano la porta ad affari impropri di chi le gestisce. Quando l’ex assessore ai Trasporti di Roma Esposito dice che funzionari e dipendenti del suo assessorato sono collusi, non è un prefetto super-commissario da solo a poter far pulizia. Cento centri di spesa pubblica all’ombra del solo Campidoglio e delle sue società partecipate sono ben altro problema, rispetto all’unica società che ha gestito EXPO. E in legge di stabilità non c’è l’ombra di una spending review né di una riduzione delle partecipate pubbliche, ovviamente.

La quarta osservazione, conclusiva. Dal successo di EXPO c’è da imparare. Ma i guai profondi di Roma e del Sud sono una sfida cento volte più complessa. Solo mobilitando per anni risorse incomparabilmente superiori, risorse istituzionali e civili, economiche e professionali, sarà possibile colmare il profondo fossato della fiducia aperto tra cittadini e cosa pubblica. Il miglior Giubileo possibile a Roma ha la forza di un simbolo. Ma la sfida a Roma e nel Sud non durerà sei mesi come a Milano, perché troppi sono gli anni degli errori commessi e da riparare. Il liberale resta scettico, insomma, e non crede ai miracoli.

30
Ott
2015

Elogio del cicciolo—di Luigi Mariani

Chiamateli grasei, gratu, siccioli, grassoli, lardinzi, grépòle, cicoli, o sfrizzoli… oppure, in italiano, ciccioli. I ciccioli sono a mio parere una delle cose più buone che esistano al mondo, nel senso che li mangio un paio di volte l’anno e poi passo il resto del tempo a rimpiangerli. Questo dipinge nel modo più efficace il mio rapporto affettivo con le carni e mi piace immaginare che in condizioni analoghe siano molti dei lettori.
Peraltro questo rapporto affettivo ce l’abbiamo impresso nel nostro DNA se pensiamo che l’80% del patrimonio genetico di noi europei discende dai popoli di cacciatori – raccoglitori che sopravvissero sul continente durante l’ultima era glaciale, trascorrendo la loro grama, gelida e pericolosissima esistenza a sognare pranzi pantagruelici a base di carne. Al riguardo ricordo con affetto un amico di famiglia che aveva passato gran parte della sua vita con pochi quattrini, mangiando poco e male e facendo mestieri umilissimi. Da vecchio divenne garzone di un pollivendolo che girava i mercati della mia provincia e così poteva finalmente permettersi (così almeno mi disse un volta che lo incontrai) di mangiare un pollo al giorno. Dato che di lì a poco morì, pensai che una tale dieta “estrema” l’avesse mandato al creatore in anticipo ma pensai anche che in quei mesi avesse toccato i cielo con un dito… Read More

30
Ott
2015

Rai Tivù: oltre il canone c’è di più—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

E’ stato recentemente pubblicato da IBL un interessante paper di Serena Sileoni, molto puntuale e chiaro, sulla proposta di inserimento del canone RAI nella bolletta dell’energia elettrica. Sottolineo in particolare, un passaggio: “Il canone, infatti, ha natura di imposta. (…) La bolletta, invece, riflette il prezzo di un servizio, pur gravato di una molteplicità di oneri tariffari. Nel primo caso, il tributo si paga solo per possedere una tv, a prescindere dall’usarla per vedere la Rai. Nel secondo caso, il pagamento è correlato al consumo di un servizio, il quale si trascina appresso una serie di finalità pubbliche (ma in qualche modo correlata al servizio stesso) quali il finanziamento delle fonti rinnovabili, lo smantellamento degli ex siti nucleari, la mutualità nei confronti delle famiglie in condizione di disagio economico e fisico, ecc”. Perciò, oltre alla pura erogazione di elettricità, in bolletta paghiamo anche quelli che vengono chiamati gli oneri generali di sistema, determinati per legge o decreto, a sostegno di interventi d’interesse generale. Read More

27
Ott
2015

L’infondata pretesa di AgEntrate di essere una Repubblica a parte

Sono passati 7 mesi, dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimi 767 dirigenti dell’Agenzia delle Entrate, circa un migliaio comprendendo le altre Agenzie tributarie, fortemente volute da Vincenzo Visco e nate dalla riforma Bassanini nel 1999.

In questi mesi, il problema si è avvitato fino all’esplosione dell’attuale, aperta e clamorosa conflittualità.Tanto da creare ora un problema di prima grandezza al governo, che già si trova alle prese con gli attacchi di chi sostiene che, elevando la soglia sull’utilizzo del contante, l’esecutivo smonta una trincea contro il riciclaggio e la lotta all’evasione.

Il sottosegretario al MEF Enrico Zanetti sostiene che, così continuando, la direttrice di AgEntrate Rossella Orlandi dovrà dimettersi. Lei ha replicato che non ci pensa nemmeno. Il MEF ha ieri ribadito fiducia alla Orlandi, ma ha prima diffuso una lunga nota che motiva il cambio di linea posto dal governo nella strategia antievasione. Di fatto, invitando AgEntrate una volta per tutte a stare al suo posto, e a non fomentare sui media dubbi politici sulle scelte tributarie del governo. Zanetti ha controreplicato che a questo punto chiederà un chiarimento direttamente a Renzi, quando tonerà dal Sud America.

In sintesi: un bel pasticcio. Istituzionale innanzitutto. Ma anche politico, perché l’Agenzia ha alzato il tiro proprio in occasione della legge di stabilità, come a invitare la minoranza Pd e le opposizioni a sostenerla. Cosa puntualmente avvenuta.

Ricapitoliamo le origini del contrasto. Bolliva da anni, Il problema dell’illegittimità di centinaia di funzionari delle Agenzie, elevati al ruolo dirigenziale per nomina dall’alto e con incarichi a tempo. Il Tar del Lazio lo aveva affidato al Consiglio di Stato, dopo la sanatoria del 2012 varata dal governo Monti. Il Consiglio di Stato lo sottopose alla Corte Costituzionale. Che si è espressa in maniera chiara: le Agenzie sono parte integrante della Pubblica Amministrazione, dunque dirigenti se ne può diventare solo per concorso.

AgEntrate masticò storto, di fatto confidando in una nuova sanatoria. E la direttrice Orlandi disse inopinatamente, all’indomani della sentenza, che i contribuenti non dovevano sprecare “tempo e denaro” a impugnare gli atti firmati da quei dirigenti illegittimi. Il governo giustamente non gradì. E decine di pronunzie delle Commissioni tributarie provinciali e regionali smentirono – non univo0camente, è vero, viva la libera interpretazione dei giudici nel paese pretesa “culla” del diriotto ! – la direttrice di AgEntrate. Il governo, adempiendo alla sentenza della Corte, negò la sanatoria, e dispose di tenere regolari concorsi aperti anche a centinaia di interni di ottimo livello, ma estranei alle cordate dei dirigenti-a-tempo di questi anni.

Nel frattempo, per non farsi mancar nulla, 400 di quei dirigenti hanno impugnato la perdita di retribuzione conseguente alla sentenza. E la resistenza di AgEntrate ha preso forme diverse. La denuncia pubblica che professionalità apicali delle Agenzie passano intanto al privato, depauperando la capacità di contrasto a evasione ed elusione perché lo Stato non li premia. La contrarietà ad accorpare le Agenzie ad altri dipendenti pubblici, visto che nella nuova tornata di contrattazione le aree della PA devono scendere da 12 a 4. Il tutto condito da argomenti squisitamente “politici”, che fanno scrivere ai media che l’Agenzia si sente accerchiata e delegittimata dalla politica tributaria governativa, a cominciare naturalmente dall’innalzamento della soglia al contante.

Bisogna riconoscere che Rossella Orlandi non ha creato la situazione all’origine del contrasto. E’ frutto di lunghi anni di singolare accondiscendenza politica, da parte di governi di sinistra, destra e tecnici. Di fatto, la politica ha finito per attribuire ad AgEntrate il ruolo improprio di stesura dei testi tributari, comprovato dal fatto che in centinaia di interrogazioni negli anni i rappresentanti del MEF rispondevano al Parlamento citando testualmente e dichiaratamente le valutazioni dell’Agenzia. Nonché il ruolo di interpretazione unica ex ante del diritto tributario vigente, affidato alle circolari sempre dell’Agenzia.

Il problema istituzionale che il governo deve sciogliere è dunque relativo al fatto che le agenzie tributarie non hanno, nel nostro ordinamento, uno status di autonomia e indipendenza dal governo simile a quello della magistratura, come di fatto le polemiche di questi mesi tentano di avvalorare. Corpi dell’esecutivo specializzati per funzione non possono credere di svolgere ruoli che sono prerogativa dell’indirizzo politico del governo: e non parliamo di “questo” governo, ma di qualunque governo. La lotta all’evasione non può essere intestata alle Agenzie come fossero una Repubblica separata, esse sono semplicemente delegate a condurla seguendo le direttive del governo e del parlamento. E si capisce dunque che al governo Renzi bruci dover ricordare per primo ad AgEntrate che sotto il suo impulso la strategia antievasione mira a ottenere maggiori risultati non più attraverso operazioni a tappeto stile-Cortina, ma con la maggiore adesione spontanea figlia del potenziamento dell’incrocio delle banche dati, della selezione degli accertamenti, della maggior cooperazione internazionale, bilaterale e in sede OCSE sul recupero dell’imponibile.

Ma c’è anche un evidente problema politico: la protesta di AgEntrate interviene a gamba tesa nel confronto che Renzi ha aperto in materia di lotta all’evasione tra due anime della sinistra. Non è un caso che Vincenzo Visco sia tra i più autorevoli critici della svolta in corso. E certo il governo non aveva messo in conto di ritrovarsi pezzi di Stato pronti a soffiare sul fuoco.

In ogni caso, non dimentichiamo che la scelta che il governo dovrà fare ha anche un aspetto di equità generale. Non è che il rispetto rigoroso della legge e delle procedure si può chiedere solo ai contribuenti, se lo Stato tributario per primo pretende eccezioni per sé, e per chi nomina dirigenti e firma gli atti da cui discendono le cartelle esattoriali.

27
Ott
2015

Arriva Netflix a Sanremo—di Nicola Saporiti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Nicola Saporiti.

Dal 22 Ottobre il colosso americano dei media “Netflix” ha iniziato ad offrire i propri servizi anche in Italia. È una notizia che mi incuriosisce molto, e non in quanto potenziale futuro utente: non sento infatti particolare necessità di vedere film “on demand” in streaming via internet, servizio per altro da tempo offerto in Italia da altre società. Dal punto di vista di genitore, la proiezione solo ad una certa ora della puntata quotidiana del cartone animato preferito di mio figlio mi regala una comoda scusa per spegnere il televisore e dirottarlo verso altre attività.

Sono invece molto curioso di scoprire come Netflix si adatterà ad operare nel mercato Italiano. Questa società è infatti nota per avere una cultura aziendale estremamente innovativa, copiata da molti nella Silicon Valley, che però è quanto di più stridente si possa immaginare con lo stereotipo italianissimo del “posto fisso” di lavoro.

NETFLIX nasce alla fine degli anni ‘90 nel classico garage californiano come servizio di noleggio videocassette con modalità innovativa: per competere con le diffusissime catene di negozi di videonoleggio, NETFLIX offre un servizio in abbonamento postale ad un costo fisso mensile. In pratica, con NETFLIX gli utenti possono per la prima volta ricevere quotidianamente, comodamente a casa, una nuova videocassetta di loro scelta, da restituire in buste pre-affrancate. Read More

25
Ott
2015

Governo-magistrati: 3 punti su cui i liberali perdono sempre

Ieri il ministro della giustizia Orlando ha risposto alle cannonate dei magistrati con un ramoscello d’ulivo, riconoscendo all’ANM un ruolo insostituibile di interlocuzione istituzionale. In altri tempi, si sarebbe detto che il suo è stato un discorso da perfetto democristiano. Mentre quello straordinario galantuomo che è Sabino Cassese, prima ancora che grande giurista ed ex giudice costituzionale, ha colto il punto centrale dello scontro tra magistratura e governo, riproposto in questi giorni al congresso dell’ANM con tanti saluti alle centinaia di magistrati che non sono iscritti a correnti e che non si riconoscono in polemiche di parte.

Al centro di tutto c’è uno dei nodi ancora non sciolti dei 12 punti di riforma della giustizia che il governo Renzi annunciò appena entrato in carica, nella primavera 2014. Ed è la riforma del Csm, l’organo di autogoverno dei magistrati da anni piegato agli accordi di ferro tra correnti della magistratura, che determinano come nei vecchi governi di pentapartito le nomine ai vertici degli uffici giudiziari, e salvano dalle azioni disciplinari gli amici di questo e di quello. Il CSM tenta di autoriformarsi prima che arrivi a farlo il governo, che tale riforma ha promesso, ma le sue proposte sono “timide e coporative”, scrive Cassese. Ha mille volte ragione.

Prima di arrivare al punto, ricordiamo per sommi capi quel che il governo ha fatto sulla giustizia. Su molti punti, scontando un’opposizione aperta dell’ANM. In effetti, il governo ha ragione, dal suo punto di vista, nel dire che non ha fatto poco. Dal 29 agosto 2014, quando fu varato il testo della riforma, ha ottenuto l’obbligatorietà del processo civile telematico (ma ancor oggi in molti tribunali si procede per atti cartacei), la riforma sempre nel civile delle procedure concorsuali delle imprese, il decreto sull’arretrato civile e su nuove forme di degiurisdinalizzazione, l’approvazione del ddl sull’antiterrorismo e i foreign fighters, di quello sull’anticorruzione con l’istituzione dell’ANAC e la modifica delle pene dei relativi reati, la riorganizzazione del ministero col dimezzamento delle direzioni generali, l’avvio delle notifiche penali informatizzate, il bando per reclutare altre duemila persone per l’ordinamento giudiziario e 340 magistrati.

Nel civile il contenzioso è sceso sotto i 5 milioni di cause, è raddoppiata la definizione entro l’anno delle cause alle sezioni specializzate del tribunale delle imprese. Su corruzione e criminalità, il governo ha visto approvate dal parlamento le sue proposte sull’introduzione del reato di autoriciclaggio, e sugli ecoreati. Le nuove norme sull’esecuzione della pena hanno ottenuto di far abbassare il sovraffollamento delle carceri dal 137% al 110% dei posti in organico.

Gli scontri più incandescenti con l’ANM sono avvenuti sulla riforma della responsabilità civile dei magistrati, che ha abolito di fatto solo il filtro del giudizio di ammissibilità da parte dei tribunali, e che comunque la magistratura associata ha considerato come un attentato alla propria libertà di giudizio. Un altro scontro al calor bianco sulla nuova disciplina del falso in bilancio, anch’essa approvata abolendo i precedenti tetti che la depenelizzavano, ma di cui comunque i magistrati hanno lamentato l’eccessiva rilassatezza. E infine scontro all’arma bianca sull’intervento ordinamentale in materia di ferie dei magistrati, per portarle da 30 a 45 giorni: una misura approvata ma che comunque i magistrati hanno trovato nella prassi il modo di aggirare, come abbiamo documentato in precedenza.

E’ ancora pendente l’esame del ddl di riforma del processo penale, e i magistrati sparano sulla revisione della disciplina delle intercettazioni, di cui discute il parlamento. Altra trincea di scontro sulla riforma delle prescrizioni, all’esame del Senato dopo 11 mesi impiegati dalla Camera per approvarne il testo. Anche in questo caso, malgrado l’aumento della metà dei termini per i reati di corruzione – il cui processo potrà durare fino a 12 anni, dodici! – e malgrado nuove ipotesi di sospensione dei termini per condanna non definitiva di primo o di secondo grado (per i quali la sospensione è pari rispettivamente a 2 anni ed 1 anno), nonostante la sospensione dei termini per le rogatorie all’estero, o in caso di ricusazione del legale da parte dell’imputato, la magistratura grida comunque che la riforma è fatta per non punire i delinquenti.

E infine la riforma del CSM, con le proposte avanzate dall’organo stesso e bocciate giustamente ieri da Cassese. A difesa del fatto che oggi un magistrato possa essere sindaco o presidente di Regione ed esercitare la funzione giurisdizionale in altra circoscrizione – se non lo sapevate, secondo le nostre leggi è del tutto possibile! –  o sia libero di farlo in aspettativa, per poi tornare magistrato.

E’ evidente che, per una mosca bianca liberale, per chi crede per esempio che la prescrizione serva a difendere il cittadino e il suo diritto a un celere processo e non lo Stato con le sue lentezze bizantine, in Italia viviamo oggi una doppia maledizione. Prima Berlusconi, con le sue leggi ad personam, ha dato man forte alla magistratura che ha identificato polemicamente tout court il garantismo con la difesa dai processi invece che nei processi, operata da Berlusconi premier. Poi, con la sinistra al governo, la riforma della giustizia finisce per occuparsi di tutto, ma – per non incorrere in scomuniche – non dei punti nodali e della sostanza vera dell’anomalia italiana.

Che è fatta di tre cose, inutile girarci intorno.

Primo: I magistrati che fanno politica non dovrebbero poter tornare magistrati, ma esser sospesi dai ruoli per poi, finita la carriera politica, esercitare al massimo il ruolo dell’avvocatura dello Stato (personalmente: sarei perché la scelta della politica inibisca qualunque rientro).

Secondo: le intercettazioni, di tutti i tipi, come sostiene il procuratore Carlo Nordio non dovrebbero aver valore di prova ma solo costituire elemento essenziale per elementi da provare fattualmente e circostanzialmente con indagini successive e nel fascicolo del processo, e in quanto tali dunque non dovrebbero costituire elemento probatorio né essere allegate ai fascicoli processuali.

Terzo: il CSM non dovrebbe poter procedere a nomine e carriere e sanzioni disciplinari con maggioranze costituite dai togati per correnti, e dunque andrebbe riformato per sezioni competenti per materia, in modo da evitare maggioranze come quelle che da decenni confondono l’autonomia della magistratura con l’attuazione ferrea degli accordi tra correnti.

Queste tre cose non ci sono, all’orizzonte. Non è neanche possibile parlarne. Figuriamoci poi della separazione delle carriere, tra magistratura inquirente e giudicante. Mentre gli Emiliano e i de Magistris e i Sabella dominano le cronache politiche, e i Sabelli – il presidente dell’ANM – agli occhi di molti – finiscono pe impersonare tutte le virtù di una giustizia che in realtà piegano a istanze corporative.

 

18
Ott
2015

Fame, cibo, domanda e offerta

Approfittiamo di quanto dichiarato dal Presidente della Repubblica alla giornata mondiale dell’agricoltura per una breve riflessione su fame e mercato. La dichiarazione di Mattarella è la seguente: «Siamo sicuri che per le produzioni agricole destinate a nutrire il pianeta possano valere le regole che valgono per altri beni e commodity? Non sfugge a nessuno il ruolo fondamentale svolto dalle grandi imprese internazionali nel campo della logistica, dei trasporti e della ricerca» ma «la regola aurea della domanda e dell’offerta non sembra aver portato in questo caso a un funzionamento ottimale del mercato, lasciando molti in condizioni di estraneità al processo di consumo dei beni».

Cerchiamo di capire se sia davvero così, seguendo un approccio prudentemente aristotelico, basato sulla fiducia che sia “la cosa stessa” a indicarci la via per la ricerca della verità. In altre parole, stiamo ai fatti.

Il report FAO 2015 ci informa che nel mondo ci sono ancora circa 795 milioni di persone che vivono il problema della fame. Sono tante, ma sono meno del miliardo di persone che vivevano la stessa situazione nel 1990. Un risultato notevole, soprattutto perché nel frattempo la popolazione mondiale è aumentata, da 5,3 miliardi del 1990 a 7,3 di oggi. Lo stesso report identifica nella crescita economica il principale fattore di successo nella lotta alla fame. Risulta cruciale, inoltre, aumentare la produttività e il reddito dei contadini. Sembra insomma che il mercato non sia così male.

Il ciclo di seminari dell’Istituto Bruno Leoni, “L’altro Expo”, aperto da Deirdre McCloskey (l’intervento si può ascoltare qui) ci mette a disposizione qualche dato sui risultati che il mercato, ovvero lo sforzo individuale e la cooperazione spontanea hanno consentito di raggiungere. Negli Stati Uniti durante l’’800 i contadini rappresentavano l’80% della popolazione, il cui lavoro sfamava loro stessi e il restante 20% degli americani. 4 persone riuscivano a sfamarne una quinta, non di più. Oggi i contadini sono il 2% della popolazione. Come è potuto succedere? Principalmente grazie al balzo nella produttività in ambito agricolo a cui si è aggiunto, negli ultimi decenni, la possibilità di incrementare gli scambi con il resto del mondo (che, per inciso, il TTIP favorirebbe ancor di più), per cui se gli italiani sono più bravi a fare il formaggio tanto vale consumarne un po’ del loro.

In un altro incontro dello stesso ciclo Matt Ridley ha presentato qualche grafico sulla produzione (e sulla produttività) agricola di grano e mais nel mondo che qui è utile riportare. In breve, i prezzi sono scesi (grafico 1) e i raccolti sono aumentati (grafico 2) insieme alla produttività della terra (grafico 3).

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Numeri impressionanti, sui quali si dovrebbe insistere per poter ridurre ancora il numero di persone che soffrono la fame. Più mercato, invece che meno. Non perché esso sia perfetto, quanto perché si tratta di un sistema che consente di imparare in fretta dagli errori. Come scriveva Hayek, “ogni tentativo di controllare i prezzi o le quantità di particolari beni priva la concorrenza del suo potere di realizzare un efficace coordinamento degli sforzi individuali, perché i cambiamenti di prezzo cessano di registrare tutti i cambiamenti rilevanti nelle circostanze e non forniscono più una guida affidabile alle azioni degli individui”. Precisamente quanto è accaduto nella Cina di Mao, in cui lo Stato controllava totalmente produzione e consumo di cibo, caso esemplare di cosa accade quando si impedisce a domanda e offerta di funzionare. Il risultato fu la grande carestia, tra il 1958-1962, che portò a 36 milioni di morti (mentre lo Stato cinese esportava grano).

Combattere la fame è una sfida nobile e importante. Per vincere questa sfida l’esperienza suggerisce che bisognerebbe confidare di più nell’efficacia della dinamica ricerca di equilibrio tra domanda e offerta; la stessa che ha consentito di aumentare la produzione di cibo e di sviluppare tecnologie per incrementare la produttività e migliorare la conservazione dello stesso (l’invenzione del frigorifero non è merito dello Stato) in modo da ridurre gli sprechi. Per fortuna i dati mostrano che i paesi in via di sviluppo lo stanno già facendo.

Twitter: @paolobelardinel

16
Ott
2015

Le tre scommesse che condannano a morte i tagli di spesa

E’ arduo poter esprimere opinioni su una legge di stabilità senza averne i testi e nemmeno le principali tabelle. Ci si può limitare solo ad alcune considerazioni generali. Che provo a organizzare in tre blocchi.

Il primo è sulle scommesse da cui parte il governo. Il secondo è su alcune delle tante misure annunciate. Il terzo è un giudizio politico.

LE SCOMMESSE. Si tratta di tre assunzioni più apodittiche, e cioè opinabile materia di fede, che ragionevolmente molto probabili.

La prima è che la grande frenata in corso nelle attese di crescita e dell’export mondiale – somma dell’effetto Cina, più crisi dei paesi ex emergenti, più difficoltà tedesche in Ue – abbia effetti in realtà molto contenuti sull’Italia, anche se in realtà dovrebbe trasmettersi proprio attraverso il canale dell’export che sin qui è stato quello più trainante del tossicchiante PIl italiano.

La seconda è che, se per caso non fosse così, a maggior ragione occorre una manovra fortissimamente pro-ciclica, dove il ciclo da assecondare diventa quello domestico, della ripresa di fiducia di famiglie e imprese, e dei primi segni di ripresa dei consumi in corso dall’estate.

La terza è che l’inflazione italiana nel 2016 sia almeno dell’1%, mentre tutti i segnali che provengono dall’euroarea attestano – vedi i dati di settembre – un ritorno nell’area negativa, e comunque un trendo così lontano dagli obiettivi del QE BCE da aver obbligato Draghi reiteratamente a dichiarare che Francoforte è pronto ad allungarlo e ispessirlo.

Dalla prima e seconda premessa discende la scelta di una manovra per oltre il 60% coperta in deficit, percentuale che potrebbe ulteriormente salire se dal 2,2% di deficit 2016 verremo autorizzati dalla Ue a raggiungere il 2,4% grazie alla cosiddetta “clausola 99” relativa all’emergenza profughi ( 3 miliardi che però, con un classico escamotage italiano, verrebbero utiolizzare non per i profughi ma per anticiopare i tagli IRES) . Dalla terza premessa dipende l’intera scommessa di invertire l’andamento crescente del debito pubblico nel 2016 malgrado un aumento del deficit prima contrattato in Europa: senza una netta crescita della componente nominale del PIL nel 2016, il debito infatti non scende ma sale.

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IL MIX DELLE MISURE

Da queste premesse dipendono alcune scelte di fondo.

La prima è una sconfitta bruciante per chi, come noi, è convito da anni che occorra una ridefinizione e generale del perimetro della spesa pubblica e delle sue priorità, che ne consenta un sostanziale alleggerimento per tagli delle tasse strutturali e sostenibili, e faciliti l’efficientamento di una PA ancora disastrosa. Muore infatti definitivamente, almeno in questa legislatura, l’idea della spending review che i governi sempre più stancamente dichiaravano solo a parole. Anche i pochi “tagli” annunciati ieri dal governo per il 2016 in realtà non lo sono affatto: i 5,8 miliardi provenienti da sanità, acquisti e ministeri sono infatti inferiori alla crescita tendenziale a legislazione vigente dei relativi capitoli di spesa prevista per il 2016. Ergo in tutti e tre i casi le minori risorse previste per il 2016 consentiranno a tutti e tre i capitoli di spesa di continuare a crescere, sia pur più lentamente del previsto, e senza incidere in nulla la “spesa storica”: a conferma, guardate le tabelle della nota di aggiornamento del DEF. Per favore evitiamo di parlare di “costi standard” per 1,5 miliardi nel 2016 di minori acquisti dovuti al troppo graduale passettino in avanti della quota CONSIP: quella è una blanda misura di efficientamento delle gare, i costi standard c’entrano zero. I tagli “reali” alla spesa vengono evitati perché contrari alla natura “domesticamente prociclica” della manovra. Non sono né necessari né tanto meno auspicabili, spiega oggi il consigliere economico del governo Marco Fortis. Addio interventi radicali sulle partecipate pubbliche locali: tra partita IMU-TASI da coprire e riaccentramento delle competenze a livello nazionale disposta dalla riforma della Costituzione, il governo sospende ogni ipotesi di serie dismissioni. Al netto delle convinzioni del governo, pesa drammaticamente su questo capitolo l’assenza da molti anni di una destra in grado di contrapporre strategie credibili. E tutto ciò proietta un’ombra ninacciosa: le clausole di salvaguardia fiscale vengono evitate così solo per il 2016, ma restano per decine di miliardi nel biennio successivo…

La seconda è nella parte più rilevante delle misure di sgravio fiscale annunciate, quelle alle quali il governo annette il più della forza propulsiva a breve per tornare a una crescita più vicina al 2% che all’,15%. A partire dalla conferma del taglio integrale di IMU-TASI su prima casa, si dice fieramente questa volta senza far rientrare analogo o maggior gettito dalla finestra a Comuni e Regioni come puntualmente avvenuto in passato. Non è una misura dagli elevati effetti sul PIL potenziale e sull’ouput gap, serve ad accrescere fiducia e propensione al consumo, riconosce lo stesso governo (ergo non cambio idea, era meglio devolvere i 5 mld all’abbattimento dell’IRAP). Continuando con l’energico rafforzamento degli incentivi fiscali agli investimenti lordi delle imprese attraverso il maxi ammortamento al 140% ai beni strumentali d’impresa tranne gli immobili (tra le migliori misure a mio giudizio della legge di stabilità, ne avevo scritto chiedendoli). E con le misure dedicate al lavoro autonomo la cui bontà potremo giudicare solo quando le vedremo scritte: la correzione del pasticcio fatto dal governo l’anno scorso sul regime dei minimi IVA estendendone l’applicazione a soglie di ricavi più alte, il cosiddetto Jobs Act per il lavoro autonomo (tutto da capire). Nonché la decisione di tenere comunque elevata la decontribuzione a tutti i nuovi contratti di lavoro, non più 8mila euro biennali ma comunque oltre 3mila biennali per poi scendere ulteriormente ed estinguerli al 2018. Il governo purtroppo non si fa nemmeno sfiorare dal dubbio che 10 miliardi triennali per aver ottenuto solo 91 mila contratti a tutele crescenti “netti” aggiuntivi in 8 mesi sia un vero falò di risorse. Il mix discende dalla tre scommesse iniziali: se fosse stato adottato un criterio di priorità per maggior apporto al PIL potenziale, come io preferirei, concentrando le risorse equivalenti al mancato intervento su IMU-TASI, al riservare gli incentivi fiscali solo a investimenti e contratti “aggiuntivi” e non più lordi, avrebbe significato poter disporre di 8-9 miliardi di ulteriore meno IRAP nel solo 2016. Cioè una spallata vigorosa nella direzione della sua totale cancellazione. Invece, niente. Ma alle grandi imprese va bene così, non illudetevi.

Il MIX politico. A queste celte di fondo se ne aggiunge poi una miriade che porta il marchio peculiare della politica renziana: misure alcune delle quali piacciono a destra e altre a sinistra, per imbastire una complessa strategia di consenso. Contemporaneamente dunque l’abolizione IMU-TASI e l’innalzamento del tetto al contante, che piacciono a destra. Insieme al canone Rai in bolletta e al potenziamento del fondo per la lotta alla povertà, che piacciono a sinistra. Uno schiaffo al sindacato sui contratti pubblici, solo 300milioni previsti per il rinnovo contrattuale, aspettando i decreti attuativi della riforma Madia. Ma insieme un occhietto strizzato a sinistra cosa il parlamento deciderà sui pre pensionamenti, al di là delle misure su opzione donna e prepensionati a part time annunciati in legge stabilità. E ancora una sterzata a destra, con le misure per le partite IVA.

Conclusione. Con la morte strutturale dei tagli di spesa e misure fiscali concentrate su effetti lordi a breve, ecco tornato tra noi, aggiornato ai tempi e alla funambolica capacità comunicativa di Renzi, un grande classico: il ciclo elettorale della finanza pubblica italiana. Il conto a chi verrà dopo.