Clima: a Parigi il solito inutile rituale
La narrazione ha il sapore del déjà vu. Quasi un rituale che si ripete ogni anno dall’ormai lontano 1992. Parliamo della conferenza sul clima che si è aperta ieri a Parigi. Per molti è “l’ultima chance di salvare il Pianeta” (come a Copenhagen nel 2009). Dopo, come ha sostenuto il Presidente francese François Hollande, “sarà troppo tardi”. I freddi numeri ci raccontano però una realtà assai diversa: stando ad un’analisi dell’MIT, se gli impegni volontari presi dalla maggior parte dei Paesi che partecipano alla conferenza saranno rispettati – ed i dubbi sono più che legittimi non essendo previsti meccanismi sanzionatori per eventuali inadempienze – l’effetto in termini di riduzione della temperatura del Pianeta al termine di questo secolo sarà dell’ordine dei due decimi di grado. Ancor meno entusiasmante è la stima dell’ambientalista “scettico”, il danese Bjorn Lomborg, secondo il quale l’impatto di Parigi sarà al più di 0,17 °C e comporterà un costo complessivo dell’ordine di mille miliardi di dollari per anno.
L’aspettativa “salvifica” nei confronti del summit parigino sembra quindi aggiungersi ai numerosi falsi miti di cui si alimenta il dibattito pubblico sui cambiamenti climatici ma che non trovano riscontro negli stessi documenti dell’IPCC, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa dei cambiamenti climatici.
Al centro dei più recenti negoziati sul clima vi è l’obiettivo di contenere l’aumento di temperatura rispetto ai livelli pre-industriali entro i 2 °C (oggi siamo a circa + 0,9 °C ossia a poco meno di metà strada). E’ questa una soglia da non oltrepassare per nessuna ragione? No, la scelta sembra essere arbitraria e senza basi scientifiche. Nel più recente rapporto del Panel dell’ONU, le evidenze disponibili in merito agli impatti dei cambiamenti climatici vengono sintetizzate in un grafico che evidenzia come fino ad un aumento di 2-2,5 °C gli effetti positivi del riscaldamento sono grosso modo equivalenti a quelli negativi.
La ricaduta complessiva può essere paragonata a quella di un anno di recessione economica: lo stesso livello di benessere che, in assenza del riscaldamento, sarebbe raggiunto nel 2100, verrebbe traguardato l’anno successivo.
Ciò nondimeno, nel lunghissimo periodo, le conseguenze negative avrebbero il sopravvento rispetto a quelle positive. Ma, se guardiamo al presente, il problema ambientale più rilevante è, ancora sulla base dei dati forniti dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, quello dell’inquinamento atmosferico all’interno delle abitazioni dei Paesi più poveri. Inquinamento dovuto, non all’eccessivo uso ma alla indisponibilità di fonti fossili ed al ricorso a combustibili “naturali”. Il problema interessa quasi 3 miliardi di persone e si stima che porti ad un numero di morti premature pari a 4,3 milioni per anno (la concentrazioni di polveri sottili all’interno delle abitazioni è di circa 1.000 microgrammi/metrocubo ossia venti volte superiore a quella che si registra nell’atmosfera di una città dell’Europa occidentale). Per tutti costoro un maggior consumo di carbone e di gas avrebbe immediate ricadute positive.
Questo è il dilemma cui siamo di fronte. La riduzione dei consumi dei “ricchi” non potrebbe modificare, se non in misura molto modesta, le emissioni previste per questo secolo. Ad esempio, il peso dell’Europa sul totale della CO2 emessa a livello mondiale è già diminuito dal 20% del 1990 al 10% attuale e si ridurrà ulteriormente al 7% nel 2030. Circa tre quarti delle emissioni nei prossimi decenni verranno da Paesi a basso reddito. Imporre ad essi drastici tagli significa ostacolare quel processo di miglioramento delle condizioni economiche che ha portato negli ultimi tre decenni a straordinari risultati in termini di riduzione della povertà, della mortalità infantile, di incremento della speranza di vita e di miglioramento della capacità di difendersi dagli eventi climatici estremi. Il livello di benessere è assai più strettamente correlato al reddito che non al clima: Norvegia e Israele sono caratterizzati da climi assai diversi ma da analoghe condizioni di vita; Israele ed i Paesi arabi limitrofi condividono lo stesso clima ma sono separati da un ampio divario di sviluppo economico ed umano.
Peraltro, nei Paesi a reddito più elevato, a subire le conseguenze più negative dell’aumento dei costi dell’energia correlati alla incentivazione delle fonti rinnovabili sono state le persone meno agiate.
Le politiche di contrasto ai cambiamenti climatici attuate finora non hanno avuto né avranno in futuro alcun effetto apprezzabile sull’evoluzione del clima (solo l’1,5% dell’energia mondiale proviene da solare ed eolico). Da Parigi, come detto, non ci si può aspettare nulla di diverso. Come sottolinea l’Economist nel numero in edicola, sarebbe quindi auspicabile una drastica riduzione dei sussidi che i governi destinano alla incentivazione sia delle rinnovabili che delle fonti fossili. Una parte delle risorse così risparmiate potrebbe essere destinata ad attività di ricerca nel settore energetico al fine di sviluppare forme di produzione che siano al contempo a minor contenuto contenuto di carbonio, meno costose ed altrettanto affidabili di quelle oggi garantite dalle fonti fossili. Non sarebbe, neppure questo, un “pasto gratis”. Ma è un prezzo che può valer la pena pagare per evitare un improbabile ma grave rischio che potrebbe emergere nei prossimi secoli.