25
Nov
2015

Quanto è triste il canone in bolletta

Sono trascorsi quasi cinque anni da quando Paolo Romani, da poco nominato ministro dello Sviluppo Economico, in un’intervista al Corriere della Sera (25 novembre 2015) nel parlare dei vari provvedimenti allo studio annunciò anche la riforma del canone Rai: «A tutti i titolari di un contratto di fornitura di elettricità, siano essi famiglie o pubblici esercizi o professionisti, verrà chiesto di pagare il canone, perché, ragionevolmente, se uno ha l’elettricità ha anche l’apparecchio tv. Chi non ha la televisione dovrà dimostrarlo e solo in quel caso non pagherà». Read More

22
Nov
2015

Sei tesi per dire no al salvataggio bancario odierno

Il decreto legge odierno di salvataggio di 4 tra le banche commissariate da Bankitalia, salvataggio in fretta e furia prima che entrino in vigore le norme europee sulla risoluzione delle crisi bancarie, mi vede tra i pochi fortissimamente critici. Sono in assoluta minoranza, rispetto al coro di sostegno unanime con cui il provvedimento è stato annunciato. E tra chi critica, meno ancora coloro che lo dicono in pubblico, per non rischiare la berlina. Desidero allora spiegare alcune delle ragioni della mia forte opposizione.

Ci sono due modi per farlo: il più serio sarebbe una lunga disamina dei coefficienti perduranti di bassa patrimonializzazione del sistema bancario ITA – e in particolare delle banche di cui parliamo ora – quando dal 2008 era chiaro a tutti che il patrimonio obbligatorio e i buffer aggiuntivi di capitale per affrontare i rischi dovevano salire; nonché dell’esplosione dei crediti deteriorati nel sistema italiano (tutto, tranne che una sorpresa, in un paese iperbancocentrico e a forte conduzione del credito secondo logiche relazionali invece che di merito); nonché sull’improvvisa tardiva emersione di molti episodi di malagestio bancaria in tutta Italia, per anni misteriosamente non colti dal radar di decine e decine di ispezioni Bankitalia e poi affiorati quando la vigilanza diventava della BCE. Ma ci vorrebbe un libro: un estesissimo e argomentato libro sulle collusioni – purtroppo – degli azionisti bancari, della politica, e purtroppo anche del regolatore in questi anni. Che non riguardano solo Mps o la Popolare di Vicenza, ma tre quarti d’Italia.

Il secondo modo è andare dritti al punto, con poche affermazioni motivate ma di fondo, giusto per far riflettere chi ne abbia voglia. Su almeno sei enormi bubbole contate in questi anni, insieme, da sistema bancario e politici (e non smentite con la forza dovuta dal regolatore). Scelgo ora questa seconda strada.

Primo: il sistema più sano al mondo. Quante volte lo avete letto sui giornali italiani, che c’era un motivo di fondo perché in ITA non c’erano crisi sistemiche bancarie come in Spagna, Paesi Bassi, Regno Unito, Irlanda: e cioè che avevamo i miglior sistema bancario del mondo? Non era affatto vero. Era vero che avevamo meno bolla immobiliare degli spagnoli e degli anglosassoni. Ma sommavamo rischio di credito e rischio sovrano, vista la crescente mole di titoli pubblici in pancia alle banche, e ancor più nel post 2011. E vista la perdita di PIL eravamo comunque condannati a una massiccia esplosione di NPL (oltre 200bn di crediti deteriorati oggi, oltre 340 se li valutiamo in maniera più realistica, sommando quelli che nei bilanci bancari non rientrano ancora nella definizione “ristretta”). In un sistema troppo poco patrimonializzato, con azionisti scarsi di capitale fresco da immettere, gonfio di costi fissi (mattoni e dipendenti) non brutalmente razionalizzabili nella crisi, con un margine d’intermediazione tendente a zero, ROE e ROI negativo. E regole non scritte ma diffuse, di troppo credito agli “amici degli amici”.

Secondo: le banche italiane non hanno bisogno di aiuti. Questa seconda bubbola è stata raccontata quando sono partiti i piani di salvataggio-ristrutturazione bancaria sotto l’ombrello europeo con fondi anticipati e vigilanza rigorosa comunitaria nel post 2011, come in Spagna. Già allora era evidentissimo che qualcosa di analogo, su scala minore forse ma di analogo, era necessario all’Italia. Ci fu chi riservatamente segnalò e argomentò l’esigenza ai premier Monti e Letta. In entrambi i casi, si decise di soprassedere. Quirinale e Bankitalia, oltre naturalmente all’ABI, non volevano scatenare polemiche di facile presa politica, sul fatto che i governi d’emergenza avrebbero rappresentato in Europa il nostro paese come gravato da un grave problema sistemico. Un errore grave, quello di ver messo polvere sotto il tappeto per evitare la sorveglianza europea: pagato da famiglie e imprese con la gravissima restrizione di credito ancora in corso. Errore la cui gravità è stata confermata quando, entrata in vigore la vigilanza comune Bce sui maggiori istituti nazionali, improvvisamente sono emerse sistematicamente debolezze patrimoniali, con la necessità di aumenti di capitale a raffica tra metà 2013 e 2014 e 2015, senza che per questo evitassimo di risultare con diverse banche a rischio comunque elevato negli stress test BCE.

Terzo: noi non siamo come i tedeschi, che salvano le loro banche violando le regole. Vero, i tedeschi hanno ottenuto con le ragioni della forza eccezioni serie e travi per le loro scassate Landesbanken politiche, hanno fatto pasticci inenarrabili come con la fusione Commerz-Dresden, hanno continuato a far leve finanziarie suicide come in Deutsche Bank, oggi alla resa dei conti. Ma il motivo per cui l’Italia non ha mai alzato la voce a Bruxelles contro questi salvataggi preferenziali, fuori dal naso e dall’occhio di una sorveglianza europea, è ben diverso da quello raccontato sui media: il motivo è che al momento giusto ci riservavamo di fare la stessa cosa.

Quarto: il silenzio di un anno sulla bad bank all’italiana. Gli osservatori più scafati delle vicende creditizie italiane sapevano da inizio 2015, che Bankitalia-governo-Abi si muovevano a Bruxelles per far passare nel corso dell’anno una versione italica di aiuti al sistema bancario, per consentirgli di cedere gran parte dei NPL senza però farlo a prezzi troppo bassi cioè di mercato (perché se no, come al solito, sarebbero state necessarie ricapitalizzazioni….). E comunque prima che entrasse in vigore il comune meccanismo previsto dalla direttiva europea varata a seguito della crisi cipriota prima e greca poi, quella che entra in vigore il primo gennaio 2016 e che è conosciuta come bail-in (con il coinvolgimento, nella risoluzione delle crisi, primariamente degli azionisti, poi degli obbligazionisti meno tutelati, fino ai depositanti oltre i 100 mila euro). Ma, per 10 mesi, sui media il silenzio su questo tentativo è stato pressoché assoluto. Ogni tanto usciva qualche dettaglio sul coinvolgimento di CDP o addirittura di Sace. Tutti coloro che hanno fonti a Bruxelles sapevano che alla Commissione Europea si era esterrefatti, di fronte al tentativo italiano di usare aiuti di Stato quando ormai c’era la doppia cornice della vigilanza comune BCE sui maggiori istituti di ogni paese, nonché della direttiva bail-in. Puntualmente, il penoso tentativo italiano è andato a scontrarsi con un no scontato: che il MEF ha ammesso solo la settimana scorsa, con una secca nota che non dava altre spiegazioni sul merito vero delle proposte avanzate. E sui media è partito il coro imbeccato dal sistema bancario, contro “i burocrati dell’Europa che su permettono di obiettare all’Italia che non ha mai chiesto aiuti”.

Quinto: il silenzio sul monito europeo nella vicenda Tercas. Lo stesso silenzio è stato riservato alle dure obiezioni europee espresse 9 mesi fa all’intervento di salvataggio nella banca teramana operata coinvolgendo il Fondo interbancario dei depositi, con la pretesa che fosse uno strumento “privato”. Quell’intervento non era privato perché orchestrato da Bankitalia, privo di un valido conto dei costi-benefici comparato, tale da giustificarne il ricorso rispetto a un’operazione condotta invece sul mercato e con criteri di mercato, e inoltre il Fondo serve a tutelare i depositanti delle banche, non gli azionisti. Tutti noi che seguiamo le vicende bancarie abbiamo in mano il documento europeo: ma nessuno quasi ne ha scritto, e fino a 2 settimane fa i media italiani continuavano a ripetere che per le 4 banche su cui si interviene oggi si sarebbe adoperato il Fondo interbancario. Invece ora bisogna cambiare retrospettivamente anche il modo in cui si è operato in Tercas. Che pena.

Sesto: il pasticcio attuale. La collusione ABI-governo-Bankit solo negli ultimi giorni ha dovuto prender atto che l’errore di non aver voluto un intervento sistemico vigilato dalla UE nel 2011-2012 non ha costituito base per vedersi approvata alla fine una scappatoia “nazionale”, all’ultimo secondo utile prima dell’entrata in vigore del bail-in. Ergo l’Italia la settimana scorsa ha recepito di corsa il sistema europeo di risoluzione delle crisi bancarie – che era stato apposta ritardato fino all’ultimo – con un’apposita unità costituita in Bankitalia. Si dirà a questo punto: bene caro Giannino, hai comunque ottenuto quel che vuoi, azionisti e obbligazionisti subordinati sono colpiti nelle 4 banche in cui si interviene. Ma non diciamo fesserie: il punto è che traccheggiando per anni abbiamo alimentato all’inverosimile l’aspettativa di salvataggi per tutti, rendendo sempre più comatosa la situazione di molte banche che si trovavano in condizione-limite, e che non sarebbero giunte a questo se regolatori e politica non avessero alimentato aspettative impossibili. In ogni caso, il salvataggio degli istituti delle Marche, Etruria, Chieti e Ferrara avviene ora con una modalità che rispetta le regole nuove e comuni solo per modo di dire. Primo: gli aiuti di Stato restano, vengono quantificati in 400 milioni nello stesso comunicato immediato rilasciato  della Commissione UE.  E in ogni caso la valutazione dei NPL delle 4 banche è fatta ” a tavolino”, non dal mercato. Poiché poi il finanziamento annuale del fondo – 500 milioni a carico dell’intero sistema bancario – ancora non è disponibile poiché occorreranno mesi per le delibere di ogni istituto, ed ecco che allora sono alcuni grandi banche italiane a metter capitale nelle 4 banche ognuna divisa tra good e bad bank, e poi quando sarà il Fondo subentrerà. Ma avremo impegnato più di 4 annualità del Fondo che serve alla risoluzione di tutte le crisi bancarie italiane: cosa faremo per le altre banche commissariate da Bankitalia? E perché mai – se non per un obbligo “di sistema” ordinato da politica e Bankit – devono metter soldi in banche fallite che non si vuol far fallire chi, come Unicredit, ha dovuto ora ora varare il secondo piano industriale in pochi mesi con tagli e cessioni sanguinosi? Ma dove sta scritto che non deve fallire mai nessuna banca, neanche le banche più piccole ergo senza rischi sistemici nonché peggio amministrate? Perché domani si dirà che l’intervento è a spese zero per i contribuenti, visto che le banche recupereranno 1 dei 3,2 miliardi dell’intervento varato oggi attraverso gravi fiscali cioè appunto a spese dei contribuenti? E che segnale è mai quello odierno, verso le fusioni sinora bloccate da solite questioni territorial-politiche tra grandi popolari investire dalla (buona, per me)  riforma voluta dal governo: non è ovvio che le frenerà ulteriormente? E verso le quasi 400 BCC, che anch’esse avrebbero bisogno di una vera e propria ondata di fusioni e ripatrimonializzazioni?

Si fa quel che si è deciso oggi per evitare la paura dei depositanti, si dice: l’Italia della ripresa non ne ha bisogno e deve evitarla a tutti i costi.  Siete sicuri che sia così? Oppure è  per evitare che la gente inizi sul serio a farsi i conti e a guardare i bilanci bancari, per capire dove mettere i propri soldi, e di quali azioni e obbligazioni bancarie disfarsi? Chiedetevelo, prima di liquidare le mie sei tesi come “fesserie liberiste”.

Oggi siamo a un altro capitolo di una lunga storia di errori e omissioni, bubbole e collusioni. Ripeto: il conto lo hanno durissimamente pagato imprese e famiglie. Mi rendo conto, è più facile dar la colpa all’Europa. Ma non sta né in cielo né in terra: la colpa è di un sistema collusvo che non ha saputo e voluto guardare in faccia alla realtà, e non ha preferito famiglie e imprese agli azionisti bancari, e ai loro intrecci troppo stretti con la politica locale e nazionale.

22
Nov
2015

La “giungla” delle 11 mila partecipate pubbliche nel report ISTAT—di Francesco Bruno

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco Bruno.

“10.964 unità”, è questa la cifra indicata nel report pubblicato dall’Istat lunedì 16 novembre sulle società che presentavano una forma di partecipazione pubblica in Italia nel 2013. Per fare un semplice e banale paragone con i partner dell’Eurozona, la Francia (che in quanto a intervento dello Stato nell’economia sa il fatto suo) ne conta circa un migliaio. Read More

19
Nov
2015

Sicurezza: falso che spendiamo poco, vero che spendiamo male

In questi giorni il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti ha posto il tema della necessità di rinunciare anche a dei diritti sin qui tutelati, dalla privacy alla piena libertà di spostamento, in nome della tutela della vita e della sicurezza. Per me da liberale va detto un chiaro e secco no al Grande Fratello del controllo remoto pubblico esteso a tutti, senza filtri giurisdizionali e tutele. Non mi va giù poi poi l’idea che a teorizzare la necessità di limitazioni generali della libertà sia chi nella realtà ha la responsabilità di aver messo in piedi un sistema pubblico italiano che sulla sicurezza spende molto – a differenza di quel che si crede, e come lamentano i politici a caccia di voti –  e spende MALISSIMO, come i numeri che richiamo sotto palesemente mostrano. A maggior ragione se vogliamo difendere le nostre libertà bisogna invece spendere MEGLIO: in tecnologie e uomini, hardware e software, per filtrare e analizzare e concentrare le informazioni laddove servono. Ora che le maglie del patto di stabilità europeo si sono allentate sotto la travolgente richiesta francese ( e Renzi ci è saltato subito sopra, ma il patto di stabilità che ormai fa acqua da tutte le parti merita un PS a parte), è innanzitutto questo il settore che il governo deve potenziare.

Se esaminiamo le spese di sicurezza dell’Italia in termini comparati, notiamo due evidenti contraddizioni.

La prima è che per le forze di polizia spendiamo in realtà non poco, anzi più della media europea. Eurostat certifica che a fronte di una media dell’euroarea dell’1,7% di PIL di spesa in sicurezza e ordine pubblico, l’Italia spende il 2%: rispetto all’1,6% di Germania e Francia. Se pensiamo ai bilanci delle sole forze dell’ordine, l’Italia spende l’1,2% del PIL rispetto allo 0,9% della Francia e allo 0,7% della Germania. Spendiamo di più, ma spendiamo peggio: ed è il solito pluridecennale problema dei troppi diversi corpi di sicurezza italiani, carabinieri, polizia, guardia di finanza, forestali, e via proseguendo. Ci hanno sbattuto la testa inutilmente tutti i commissari alla spending review susseguititi negli anni, ma la politica non riesce a compiere scelte energiche. Troppe incrostazioni storiche, competenze sovrapposte, rivalità nel procurement dei mezzi, e contrapposte tutele politiche a tutela dei diversi e troppi corpi dello Stato.

Seconda contraddizione: nella difesa spendiamo meno. Siamo allineati alla media dell’eurozona pari all’1,2% del PIL, ma la Francia sta all’1,8% e il Regno Unito al 2,3%. Ma anche qui spendiamo peggio. Se ci fermiamo alla sola funzione difesa ristretta – depurata dei costi dei carabinieri e di ciò che sta a carico del bilancio del ministero ma non costituisce appunto la funzione difesa vera e propria – si scende allo 0,8% del PIL. I tagli di spesa alle forze armate sono stati di quasi il 10% in termini reali in 10 anni. I costi per l’acquisizione di nuovi velivoli e piattaforme navali sono a carico ormai quasi sempre del MISE ma, malgrado i pesanti impegni di questi anni su teatri operativi del massimo impegno e rischio come Iraq e Afghanistan, i fondi di esercizio sono stati dimezzati. A carico delle forze armate resta il bilancio previdenziale del settore, restano troppi dipendenti civili, e troppe migliaiaia di sottufficiali non operativi. Ce la possiamo sognare, l’operatività dei francesi e dei britannici. E del resto alla politica italiana è sempre andato bene così: pronta a gonfiarsi il petto logorando uomini e mezzi in missioni “di pace” che in realtà lo erano a parole, ma usando la difesa come bancomat per smentire ogni volontà interventista.

E veniamo al terzo punto, quello oggi più decisivo contro il terrorismo jihadista: l’intelligence. Com’è ovvio sono riservate le spese di AISI e AISE, le due costole esterna e interna dei servizi italiani. La stima è intorno agli 8-900 milioni di euro. Per avere un’idea degli ordini di grandezza, l’altroieri il cancelliere dello scacchiere britannico Osborne ha annunciato un aumento della dotazione annuale di MI5 e MI6 pari a 1,9 miliardi di sterline con 1900 nuovi addetti, mentre per la sicurezza tecnologica affidata al GCHQ, l’equivalente della NSA americana che dai satelliti ai computer sorveglia le comunicazioni mondiali, il Regno Unito spende circa 4 miliardi di sterline. Le cifre dicoo che siamo dei nani, nella comunità delle grandi reti di intelligence mondiale. E paghiamo quattro soldi chi, nel campo della cyber-security, nel mondo privato ha invece retribuzioni stellari.

Ecco: invece di farci raccontare dai magistrati che occorre limitare le nostre libertà  perché ce ne siamo prese troppe, invece di ascoltare i politici che spacciano per spese antiterrorismo quelle devolute a un welfare maltravestito in organici pletorici e pluralità di sovrapposti corpi dello Stato, cerchiamo di batterci invece per avere una cultura e uan comunità dell’intelligence all’altezza delle tecnologie e competenze dei nostri tempi.

PS. Quanto al patto di stabilità europeo, di fatto a mio avviso siamo in presenza di un decesso seppur non dichiarato.  Già si era capito di fronte all’inesistenza di margini di flessibilità del fiscal compact rispetto alle spese pubbliche addizionali necessarie per affrontare l’esplosione del fenomeno dei profughi, che le regole europee non tengono conto di imprevedibili ma gigantesche circostanze straordinarie che possono abbattersi sui paesi membri (sulla furbata renziana di chiedere l’attivazione di una clausola di flessibilità per l’imigrazione per usarla invece ad altri scopi, meglio stendere un pietoso velo). Se si aggiunge che i metodi per calcolare gli effetti del ciclo restano ancora tecnicamente aperti a letture diverse – per il governo italiano nel 2016 l’Italia rispetta la regole del rientro del debito, per Bruxelles non avverrà che nel 2017 o 2018, come si legge nella pagella emessa l’altroieri, con cui si rinvia ad aprile 2016 il giudizio sulla legge di stabilità– si comprende che in realtà il fiscal compact tanto temuto è diventata di fatto una coperta tirata da troppe parti. Inoltre, il visto di piena conformità già concesso intanto da Bruxelles al budget della Francia, che nel 2016 terrorismo a parte prevede comunque di restare a un deficit pubblico del 3,3-3,4% del PIL, rende chiaro che le obiezioni all’Italia lasceranno il tempo che trovano, visto che nel nostro caso il deficit programmato è nell’ordine dell’1% di PIL inferiore. Personalmente aggiungo: purtroppo, lasceranno il tempo che trovano. Perché condivido dalla prima all’ultima parola i rilievi critici mossi d Bruxelles al governo Renzi: aver abbandonato di fatto una qualunque strategia ambiziosa di revisione della spesa, aver destinato ai tagli IMU-TASi quanto era meglio concentrare su sgravi a imprese-lavoro, nonché l’indifferenza sostanziale a un gigantesco debito pubblico che potrebbe presto tornare a rivelarsi assai più caro, se guardiamo ai rischi finanziari potenziali di un mondo che rallenta, in cui la FED rialza i tassi, e con i BRICS piantati ma indebitato in dollari.

 

18
Nov
2015

Dal Fiscal Compact allo Shit Happens

È ormai un vero proprio mito quello dei governi che, privati della loro irreprensibile sovranità, altro non sarebbero ormai che burattini nelle mani di eurocrati senza pietà. In politica economica, la violazione per eccellenza dei diritti umani perpetrata da parte della citata eurocrazia si chiama Fiscal Compact. Vittima dell’efferata oppressione bacchettona, la “flessibilità”: in altre parole, la possibilità di spendere soldi di cui non si dispone, in misura ancora maggiore di quanto già non si sia fatto e si continui a fare.

In principio fu la flessibilità preventiva. Lo dice chiaro, il famigerato Patto di stabilità e crescita: se i suoi conti più recenti non presentano deficit eccessivi e se dimostra un impegno concreto e verificabile per il miglioramento dei suoi conti pubblici, un Paese è libero di chiedere una proroga nel processo di avvicinamento al pareggio di bilancio strutturale. In altre parole, può allargare le maglie del deficit e richiedere un po’ di “flessibilità” in più.

Dal punto di vista della flessibilità ex post, invece, il Fiscal Compact non lascia spazio a interpretazioni: non si sgarra. O meglio, non si dovrebbe poter sgarrare. O meglio ancora, se circostanze eccezionali possono eccezionalissimamente giustificare richieste sul fronte delle entrate (cioè essenzialmente se, per qualche ragione, le imposte riscosse risultano ben al di sotto delle aspettative), sulle spese non si sgarra.

La conclusione logica, dunque dovrebbe essere quella di riformulare i capitoli della spesa pubblica, o meglio ancora ridurla drasticamente. Ma si sa: la spending review fa perder voti, molto meglio la spending deppiù. E allora ecco che monta la protesta, riassumibile nel mantra “basta austerity, ora ci vuole la crescita”. Ed ecco che dalla bacchetta magica spunta la richiesta del più classico degli scambi di ostaggi: noi ti diamo un po’ di flessibilità, ma tu in cambio fai le riforme.

Solo che poi, mentre fai le riforme, ecco esplodere la crisi migratoria. E come potremo mai fronteggiarla con una spesa pubblica che copre la metà del nostro Pil? C’è bisogno di risorse aggiuntive, da cui la nuova rivendicazione sui tavoli di Bruxelles. Che, ancora una volta, chiude un occhio con fare paterno.

Poi, nel bel mezzo dell’estate, mentre inizia a buttar giù le prime bozze della legge di Stabilità, l’esecutivo se ne esce con un’idea: gli investimenti devono restare fuori dal Fiscal Compact. E allora ecco che arriva la richiesta di flessibilità per gli investimenti. E via con la deroga. Poco importa se, nell’anno corrente, di investimenti la Commissione dice di non averne visti, né noi siamo riusciti a spendere quasi 9 miliardi di fondi strutturali. Servono margini, e margini saranno.

Infine, tragicamente, i fatti di Parigi. La lotta al terrorismo, si dice, ha bisogno di risorse. Hollande solleva subito il tema, e il nostro governo a ruota. Vorrete mica risparmiare sulla nostra sicurezza, dopo quello che è successo? Come se i decenni di manovre in deficit e di accumulo del nostro mostruoso debito pubblico fossero colpa della Commissione europea o di chissà chi altro. La spesa pubblica aumenterà ancora, come ha sempre fatto. E già me le immagino, le polemiche che monteranno se qualcuno, a Bruxelles, batterà ciglio. E così via, di emergenza in emergenza, di deroga in deroga, senza soluzione di continuità. Ignari del fatto che le spese di oggi sono le tasse di domani (e che la spending review di oggi è il tesoretto di domani), nessuno chiede conto al governo del fatto che quegli ottocento miliardi che spende già non bastino per fare le riforme, per il welfare, per gli investimenti o per la sicurezza. Ce ne siamo fatti una ragione, ma almeno smettiamo di chiamarlo Fiscal Compact: d’ora in poi, chiamiamolo Shit Happens.

Twitter: @glmannheimer

13
Nov
2015

Recupero da evasione? Di tutto, di più—di Carlo Amenta

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Carlo Amenta.

Per anni il dibattito politico sul tema dell’imposizione fiscale ha spesso evitato un’analisi seria: il politico medio di qualsiasi formazione politica, invece di concentrarsi sul difficile compito di tagliare la spesa per tagliare le tasse, ha sempre agitato il mantra del “pagare meno, pagare tutti”. E’ il recupero dall’evasione il Sacro Graal di una classe dirigente incapace di fare scelte difficili: tagliare la spesa significa anche procedere a licenziamenti di personale pubblico inefficiente e presente in numero superiore alle esigenze e non solo tagliare spese di manutenzione ed acquisti di carta igienica e detersivi. L’incentivo ultimo del politico è sempre il consenso ed il taglio dei posti di lavoro raramente ne porta, oltre a far venire meno la prassi clientelare diffusa su tutto il territorio nazionale in maniera inversamente proporzionale al PIL pro-capite regionale. Read More

11
Nov
2015

Tributo a Roberto Perotti, e del perché si torni al deficit

Roberto Perotti si è dimesso da commissario alla spending review in coerenza al suo carattere. E’ tignoso ma riservato, misuratissimo nei toni e nei giudizi. Ha solo detto di aver formalizzato la sua decisione sabato a Renzi, perché non si sentiva più utile. Nessuno dal governo gli ha dedicato una parola. Un addio britannico, freddo anzi algido. E’ la freddezza di chi ha toccato con mano l’inconciliabile distanza tra l’approccio che come studioso Perotti ha sostenuto per anni, e per il quale immaginava di essere chiamato a collaborare dal premier, rispetto invece all’impostazione scelta in concreto per la legge di stablità da palazzo Chigi e dal ministro Padoan. Anzi, soprattutto da Renzi, che ha in corso un processo di accentramento degli indirizzi economici a palazzo Chigi spodestandone il MEF, processo che tra poche settimane avrà esito nell’istituzione formale di una vera cabina di regia alla presidenza del Consiglio.

Gli amici l’avevano detto, a Perotti: ma chi te lo fa fare, lo sai come sono fatti i politici, non ti faranno mai applicare davvero quel che scrivi mettendo a nudo i multipli vergognosi con cui sono i pagati rispetto al resto del mondo i politici e i dirigenti pubblici italiani, o gli ambasciatori o le strutture di Camera e Senato e Quirinale. Ma lui aveva accettato comunque. Per servizio civile, diceva.

E’ finita com’è finita. Con lo stesso esito riservato dalla politica negli anni a Carlo Cottarelli, a Enrico Bondi, a Piero Giarda. E’ finita la grande ubriacatura dei tecnici, ha detto ieri il premier Renzi, la politica ha ripreso solidamente le redini del paese. Infatti si vede: si torna a far salire il deficit rispetto agli obiettivi, e la si presenta come una virtù. E’ l’eterna cattiva abitudine della politica italiana a esser tornata, e la novità è che Renzi ne va molto fiero.

Diciamo allora che ci sono due modi per tentare di spiegare l’inutile arrabbiatura che si è preso Perotti in questi mesi. Il primo è ricordare le mille difficoltà che si oppongono a tagliare davvero la spesa. Il secondo: capire meglio a cosa davvero pensino Renzi e Padoan, e perché credono sia giusto.

La spesa pubblica italiana, checché dicano i suoi difensori che ne scorporano questa o quella voce per farla apparire in linea con quella degli altri paesi, è dannatamente elevata: nel 2015 è al 50,8% del PIL, rispetto al 47,4% della media Ue, al 43,5% della Germania, al 43,4% della Spagna. Con entrate pubbliche totali pari al 49% del PIL per non far troppo debito aggiuntivo, il fardello della finanza pubblica italiana è piombo nelle ali della crescita.

Sappiamo da decenni grazie a Max Weber e James Buchanan che la PA non è fatta per tagliarsi le spese ma per farle crescere, perché è da esse che misura il proprio ruolo e potere. Perciò i burocrati pubblici hanno inventato la tecnica di contabilità che usiamo in Italia, che fa figurare come tagli di spesa riduzioni dell’aumento tendenziale della medesima per l’anno prossimo inferiori al suo aumento reale previsto: così gli statalisti possono urlare contro il rigore, i governi dire che sono rigorosi, ma l’effetto è che la spesa pubblica cresce comunque, e PA e politica sono contenti insieme. Tanto, a pagare è il contribuente-somaro. Agli studiosi è nota come legge di Wagner: la spesa pubblica tende a crescere sempre, con un tasso tanto superiore quanto più sale il reddito procapite.

Sappiamo inoltre che vale la legge del ciclo elettorale della spesa. Il politico non tocca comparti “sensibili” di spesa quanto più si avvicinano le elezioni. Per questo i poverissimi contenimenti dell’andamento della spesa pubblica tendenziale previsti in legge di stabilità si riducono a 8,7 miliardi nel 2016 (3,6 mld a carico delle Regioni, metà della parte restante sono minor spesa per investimenti, il resto quisquilie), a fronte però di 5,4 miliardi di maggior spesa prevista. Mentre la manovra in quanto tale è in deficit aggiuntivo per un punto di Pil, rispetto a quanto ci eravamo impegnati con l’Europa.

I dossier su cui aveva lavorato Perotti erano numerosi: il disboscamento delle detrazioni e deduzioni fiscali a questa e quella lobby che valgono 180mld di minori entrate annue, le spese dei ministeri, l’accorpamento e l’omologazione dei 12 comparti della pubblica amministrazione, le partecipate pubbliche e le 12 mila piccole Iri del socialismo municipale. Ma per Renzi toccare ciascuna di queste contsituencies avrebbe resto la legge di stabilità un Vietnan. E ha deciso di risparmiarselo, ovviamente.

Oltre a questo, però, che riguarda Renzi e il suo calcolo elettorale, c’è dell’altro. In Padoan vive anche un’impostazione teorica diversa dalle bassezze dei politicastri. Ma, a veder bene, ancor più di sinistra. Dacché è ministro, i DEF inviati a Bruxelles sono un’accanita contestazione di come si calcola l’output gap di un paese, la differenza tra l’andamento del suo PIL e quanto si potrebbe davvero ricavare dal miglior uso dei diversi fattori della produzione. E’ un punto centrale che divide il dibattito mondiale del dopo crisi.

Studiando oltre un centinaio di crisi fiscali e finanziarie sovrapposte nel corso degli ultimi 150 anni, economisti come Carmen Reinhart e Ken Rogoff ne hanno dedotto che in molti casi la via migliore per uscire dalle crisi è affrontarne le cause con correzioni energiche al limite dello shock, abbattendo l’eccesso di debiti pubblici, bancari e privati, spesa e tasse, perché in quel caso la ripartenza è più rapida e solida: vedi il caso in corso dell’Irlanda per fare un esempio, che oggi cresce al 5% annuo senza aver alzato la sua aliquota sulle imprese al 12,5%.

A questa impostazione se ne oppone un’altra, che accusa il rigore di errori micidiali. Può essere vero che impugnando l’accetta si riparte, sostiene, ma così facendo ci si riprende dalla base di un prodotto potenziale molto più basso, cioè si sacrifica lavoro, reddito, consumi e investimenti non destinati facilmente a tornare. E’ la tesi della cosiddetta “stagnazione secolare”, sostenuta da Larry Summers e Paul Krugman. La loro ricetta è: bisogna seguire politiche monetarie ancor più lasche di quelle sinora messe in opera, fregarsene del deficit e del debito pubblico perché ci deve pensare il banchiere centrale a sostenerli e renderli comunque solvibili, bisogna spendere spandere e investire perché solo così si evitano guai peggiori. Perché ormai la piena occupazione è coerente a tassi naturali d’interesse molto più bassi che in passato, ed è con politiche monetarie e di bilancio no convenzionali – cioè lasche e dispendiose – che bisogna combattere stasi dell’innovazione e declino demografico.

Ecco, con Renzi-Padoan la strada imboccata dalla legge di stabilità è quella Summers-Krugman. In realtà si tratta del Keynes della vulgata deficista, che dimentica quel che Keynes aveva scritto prima del 1936 sull’errore di politiche monetarie troppo accomodanti. Non si scelgono dunque i tagli fiscali alle imprese e al lavoro con cui si ripartirebbe prima, ma quelli sulla prima casa che servono alla fiducia cioè al consenso. Non si incentivano contratti di lavoro e investimenti “addizionali”, ma quelli lordi a cominciare dunque da quelli che si sarebbero fatti comunque: ancora una volta perché la fiducia viene anteposta all’arido calcolo di cosa alzi più il PIL davvero nel breve termine. Tanto ci pensa Mario Draghi a salvarci il fondoschiena, pensano i politici che tornano alla virtù del deficit e del torchio monetario.

Con tutto questo, davvero Roberto Perotti non c’entrava nulla. Vedremo come andrà: ma attenti che la crescita mondiale è al ribasso, l’effetto petrolio è quasi svanito, e anche san Mario Draghi può molto, ma i miracoli in eterno di sicuro non riescono neanche a lui.

9
Nov
2015

Come governare e cambiare un Paese. Appunti dall’advisor di Blair—di Lorenzo Castellani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Lorenzo Castellani.

Per la politica contemporanea delle democrazie liberali soddisfare le aspettative dei cittadini rappresenta il principale problema. Ciò che muove una contestazione, elettoralmente considerevole in Europa e negli Stati Uniti, verso le forze politiche di governo è la sensazione che, nonostante il cambio di colore dei governi, le democrazia restino oramai un potere vuoto. Read More

5
Nov
2015

La Mosca al naso e le riforme virtuali—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Zzz quel sibilo noioso, insistente, e poi sembra che smetta, forse è uscita dalla stanza, invece no zzz è sempre lì e ti si posa sul naso, e la scacci ma lei è ancora lì. Ma la mosca in questo caso è una legge. Insopportabile come una mosca vera. La legge n. 252 del 1974, meglio conosciuta come “legge Mosca”: “Regolarizzazione della posizione assicurativa dei dipendenti dei partiti politici, delle organizzazioni sindacali e delle associazioni di tutela e rappresentanza della cooperazione”. Una delle leggi più dispendiose e deleterie in tema di privilegi assegnati a politici e sindacalisti.
Giovanni Mosca, padre della legge, una volta intervistato disse: “La legge era giusta, non mi sono mai pentito. Read More