1
Dic
2015

Clima: a Parigi il solito inutile rituale

La narrazione ha il sapore del déjà vu. Quasi un rituale che si ripete ogni anno dall’ormai lontano 1992. Parliamo della conferenza sul clima che si è aperta ieri a Parigi. Per molti è “l’ultima chance di salvare il Pianeta” (come a Copenhagen nel 2009). Dopo, come ha sostenuto il Presidente francese François Hollande, “sarà troppo tardi”. I freddi numeri ci raccontano però una realtà assai diversa: stando ad un’analisi dell’MIT, se gli impegni volontari presi dalla maggior parte dei Paesi che partecipano alla conferenza saranno rispettati – ed i dubbi sono più che legittimi non essendo previsti meccanismi sanzionatori per eventuali inadempienze – l’effetto in termini di riduzione della temperatura del Pianeta al termine di questo secolo sarà dell’ordine dei due decimi di grado. Ancor meno entusiasmante è la stima dell’ambientalista “scettico”, il danese Bjorn Lomborg, secondo il quale l’impatto di Parigi sarà al più di 0,17 °C e comporterà un costo complessivo dell’ordine di mille miliardi di dollari per anno.

L’aspettativa “salvifica” nei confronti del summit parigino sembra quindi aggiungersi ai numerosi falsi miti di cui si alimenta il dibattito pubblico sui cambiamenti climatici ma che non trovano riscontro negli stessi documenti dell’IPCC, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa dei cambiamenti climatici.

Al centro dei più recenti negoziati sul clima vi è l’obiettivo di contenere l’aumento di temperatura rispetto ai livelli pre-industriali entro i 2 °C (oggi siamo a circa + 0,9 °C ossia a poco meno di metà strada). E’ questa una soglia da non oltrepassare per nessuna ragione? No, la scelta sembra essere arbitraria e senza basi scientifiche. Nel più recente rapporto del Panel dell’ONU, le evidenze disponibili in merito agli impatti dei cambiamenti climatici vengono sintetizzate in un grafico che evidenzia come fino ad un aumento di 2-2,5 °C gli effetti positivi del riscaldamento sono grosso modo equivalenti a quelli negativi.

La ricaduta complessiva può essere paragonata a quella di un anno di recessione economica: lo stesso livello di benessere che, in assenza del riscaldamento, sarebbe raggiunto nel 2100, verrebbe traguardato l’anno successivo.

Ciò nondimeno, nel lunghissimo periodo, le conseguenze negative avrebbero il sopravvento rispetto a quelle positive. Ma, se guardiamo al presente, il problema ambientale più rilevante è, ancora sulla base dei dati forniti dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, quello dell’inquinamento atmosferico all’interno delle abitazioni dei Paesi più poveri. Inquinamento dovuto, non all’eccessivo uso ma alla indisponibilità di fonti fossili ed al ricorso a combustibili “naturali”. Il problema interessa quasi 3 miliardi di persone e si stima che porti ad un numero di morti premature pari a 4,3 milioni per anno (la concentrazioni di polveri sottili all’interno delle abitazioni è di circa 1.000 microgrammi/metrocubo ossia venti volte superiore a quella che si registra nell’atmosfera di una città dell’Europa occidentale). Per tutti costoro un maggior consumo di carbone e di gas avrebbe immediate ricadute positive.

Questo è il dilemma cui siamo di fronte.  La riduzione dei consumi dei “ricchi” non potrebbe modificare, se non in misura molto modesta, le emissioni previste per questo secolo. Ad esempio, il peso dell’Europa sul totale della CO2 emessa a livello mondiale è già diminuito dal 20% del 1990 al 10% attuale e si ridurrà ulteriormente al 7% nel 2030. Circa tre quarti delle emissioni nei prossimi decenni verranno da Paesi a basso reddito. Imporre ad essi drastici tagli significa ostacolare quel processo di miglioramento delle condizioni economiche che ha portato negli ultimi tre decenni a straordinari risultati in termini di riduzione della povertà, della mortalità infantile, di incremento della speranza di vita e di miglioramento della capacità di difendersi dagli eventi climatici estremi. Il livello di benessere è assai più strettamente correlato al reddito che non al clima: Norvegia e Israele sono caratterizzati da climi assai diversi ma da analoghe condizioni di vita; Israele ed i Paesi arabi limitrofi condividono lo stesso clima ma sono separati da un ampio divario di sviluppo economico ed umano.

Peraltro, nei Paesi a reddito più elevato, a subire le conseguenze più negative dell’aumento dei costi dell’energia correlati alla incentivazione delle fonti rinnovabili  sono state le persone meno agiate.

Le politiche di contrasto ai cambiamenti climatici attuate finora non hanno avuto né avranno in futuro alcun effetto apprezzabile sull’evoluzione del clima (solo l’1,5% dell’energia mondiale proviene da solare ed eolico). Da Parigi, come detto, non ci si può aspettare nulla di diverso.  Come sottolinea l’Economist nel numero in edicola, sarebbe quindi auspicabile una drastica riduzione dei sussidi che i governi destinano alla incentivazione sia delle rinnovabili che delle fonti fossili. Una parte delle risorse così risparmiate potrebbe essere destinata ad attività di ricerca nel settore energetico al fine di sviluppare forme di produzione che siano al contempo a minor contenuto contenuto di carbonio, meno costose ed altrettanto affidabili di quelle oggi garantite dalle fonti fossili. Non sarebbe, neppure questo, un “pasto gratis”. Ma è un prezzo che può valer la pena pagare per evitare un improbabile ma grave rischio che potrebbe emergere nei prossimi secoli.

28
Nov
2015

Il bonus è un malus—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

I 550mila italiani che compiono diciotto anni potranno usufruire di una carta, un bonus di 500 euro per poter partecipare a iniziative culturali, come i professori.

L’ironia sulla politica dei bonus è ormai diventata uno sport nazionale, e va benissimo, ma sarebbe bene passare dalla satira comica ma un po’ ambigua alla Petrolini agli strali diretti e in toni gravi, perché la questione è serissima. Un antico adagio delle mie zone recita “piuttosto che niente è meglio piuttosto”, e questo motto popolare insieme ad uno dei più grandi filosofi italiani, Massimo Catalano, hanno sicuramente ispirato la politica economica del premier: è meglio un bonus cultura di 500 € a Natale o nessun bonus per tutto l’anno? A 18 anni con il bonus avrei fatto certamente un pieno di concerti. Ma amici meno frivoli di me a 18 anni lavoravano nei ristoranti per poi aprire il loro ristorante, imparavano i mestieri, di elettricista o estetista o liutaio, per poi aprire le loro botteghe: 1000 di lire li avrebbero voluti sì, certo, come primo mattone della loro futura attività. Read More

27
Nov
2015

Quel 64,8 % di tasse sulle imprese è il triste primato della miope Italia—di Francesco Bruno

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco Bruno.

“Più grande è la fetta presa dallo Stato, più piccola sarà la torta a disposizione di tutti”. Citando Margaret Thatcher, è evidente che allo Stato Italiano continui a star bene che la torta si sia ormai ridotta a poco più  di un bignè, come conferma l’ultimo rapporto Paying Taxes.

Il Paying Taxes è un report realizzato annualmente e congiuntamente dal colosso del consultino PricewaterhouseCoopers (PwC) e dalla World Bank che analizza principalmente tre indicatori con cui hanno a che fare le imprese di 189 Paesi: Total Tax Rate (carico fiscale complessivo sulle imprese), Time to comply (le ore impiegate dalle imprese per adempiere i loro obblighi fiscali) e Tax Payments (il numero di versamenti effettuati ogni anno). Read More

25
Nov
2015

Quanto è triste il canone in bolletta

Sono trascorsi quasi cinque anni da quando Paolo Romani, da poco nominato ministro dello Sviluppo Economico, in un’intervista al Corriere della Sera (25 novembre 2015) nel parlare dei vari provvedimenti allo studio annunciò anche la riforma del canone Rai: «A tutti i titolari di un contratto di fornitura di elettricità, siano essi famiglie o pubblici esercizi o professionisti, verrà chiesto di pagare il canone, perché, ragionevolmente, se uno ha l’elettricità ha anche l’apparecchio tv. Chi non ha la televisione dovrà dimostrarlo e solo in quel caso non pagherà». Read More

22
Nov
2015

Sei tesi per dire no al salvataggio bancario odierno

Il decreto legge odierno di salvataggio di 4 tra le banche commissariate da Bankitalia, salvataggio in fretta e furia prima che entrino in vigore le norme europee sulla risoluzione delle crisi bancarie, mi vede tra i pochi fortissimamente critici. Sono in assoluta minoranza, rispetto al coro di sostegno unanime con cui il provvedimento è stato annunciato. E tra chi critica, meno ancora coloro che lo dicono in pubblico, per non rischiare la berlina. Desidero allora spiegare alcune delle ragioni della mia forte opposizione.

Ci sono due modi per farlo: il più serio sarebbe una lunga disamina dei coefficienti perduranti di bassa patrimonializzazione del sistema bancario ITA – e in particolare delle banche di cui parliamo ora – quando dal 2008 era chiaro a tutti che il patrimonio obbligatorio e i buffer aggiuntivi di capitale per affrontare i rischi dovevano salire; nonché dell’esplosione dei crediti deteriorati nel sistema italiano (tutto, tranne che una sorpresa, in un paese iperbancocentrico e a forte conduzione del credito secondo logiche relazionali invece che di merito); nonché sull’improvvisa tardiva emersione di molti episodi di malagestio bancaria in tutta Italia, per anni misteriosamente non colti dal radar di decine e decine di ispezioni Bankitalia e poi affiorati quando la vigilanza diventava della BCE. Ma ci vorrebbe un libro: un estesissimo e argomentato libro sulle collusioni – purtroppo – degli azionisti bancari, della politica, e purtroppo anche del regolatore in questi anni. Che non riguardano solo Mps o la Popolare di Vicenza, ma tre quarti d’Italia.

Il secondo modo è andare dritti al punto, con poche affermazioni motivate ma di fondo, giusto per far riflettere chi ne abbia voglia. Su almeno sei enormi bubbole contate in questi anni, insieme, da sistema bancario e politici (e non smentite con la forza dovuta dal regolatore). Scelgo ora questa seconda strada.

Primo: il sistema più sano al mondo. Quante volte lo avete letto sui giornali italiani, che c’era un motivo di fondo perché in ITA non c’erano crisi sistemiche bancarie come in Spagna, Paesi Bassi, Regno Unito, Irlanda: e cioè che avevamo i miglior sistema bancario del mondo? Non era affatto vero. Era vero che avevamo meno bolla immobiliare degli spagnoli e degli anglosassoni. Ma sommavamo rischio di credito e rischio sovrano, vista la crescente mole di titoli pubblici in pancia alle banche, e ancor più nel post 2011. E vista la perdita di PIL eravamo comunque condannati a una massiccia esplosione di NPL (oltre 200bn di crediti deteriorati oggi, oltre 340 se li valutiamo in maniera più realistica, sommando quelli che nei bilanci bancari non rientrano ancora nella definizione “ristretta”). In un sistema troppo poco patrimonializzato, con azionisti scarsi di capitale fresco da immettere, gonfio di costi fissi (mattoni e dipendenti) non brutalmente razionalizzabili nella crisi, con un margine d’intermediazione tendente a zero, ROE e ROI negativo. E regole non scritte ma diffuse, di troppo credito agli “amici degli amici”.

Secondo: le banche italiane non hanno bisogno di aiuti. Questa seconda bubbola è stata raccontata quando sono partiti i piani di salvataggio-ristrutturazione bancaria sotto l’ombrello europeo con fondi anticipati e vigilanza rigorosa comunitaria nel post 2011, come in Spagna. Già allora era evidentissimo che qualcosa di analogo, su scala minore forse ma di analogo, era necessario all’Italia. Ci fu chi riservatamente segnalò e argomentò l’esigenza ai premier Monti e Letta. In entrambi i casi, si decise di soprassedere. Quirinale e Bankitalia, oltre naturalmente all’ABI, non volevano scatenare polemiche di facile presa politica, sul fatto che i governi d’emergenza avrebbero rappresentato in Europa il nostro paese come gravato da un grave problema sistemico. Un errore grave, quello di ver messo polvere sotto il tappeto per evitare la sorveglianza europea: pagato da famiglie e imprese con la gravissima restrizione di credito ancora in corso. Errore la cui gravità è stata confermata quando, entrata in vigore la vigilanza comune Bce sui maggiori istituti nazionali, improvvisamente sono emerse sistematicamente debolezze patrimoniali, con la necessità di aumenti di capitale a raffica tra metà 2013 e 2014 e 2015, senza che per questo evitassimo di risultare con diverse banche a rischio comunque elevato negli stress test BCE.

Terzo: noi non siamo come i tedeschi, che salvano le loro banche violando le regole. Vero, i tedeschi hanno ottenuto con le ragioni della forza eccezioni serie e travi per le loro scassate Landesbanken politiche, hanno fatto pasticci inenarrabili come con la fusione Commerz-Dresden, hanno continuato a far leve finanziarie suicide come in Deutsche Bank, oggi alla resa dei conti. Ma il motivo per cui l’Italia non ha mai alzato la voce a Bruxelles contro questi salvataggi preferenziali, fuori dal naso e dall’occhio di una sorveglianza europea, è ben diverso da quello raccontato sui media: il motivo è che al momento giusto ci riservavamo di fare la stessa cosa.

Quarto: il silenzio di un anno sulla bad bank all’italiana. Gli osservatori più scafati delle vicende creditizie italiane sapevano da inizio 2015, che Bankitalia-governo-Abi si muovevano a Bruxelles per far passare nel corso dell’anno una versione italica di aiuti al sistema bancario, per consentirgli di cedere gran parte dei NPL senza però farlo a prezzi troppo bassi cioè di mercato (perché se no, come al solito, sarebbero state necessarie ricapitalizzazioni….). E comunque prima che entrasse in vigore il comune meccanismo previsto dalla direttiva europea varata a seguito della crisi cipriota prima e greca poi, quella che entra in vigore il primo gennaio 2016 e che è conosciuta come bail-in (con il coinvolgimento, nella risoluzione delle crisi, primariamente degli azionisti, poi degli obbligazionisti meno tutelati, fino ai depositanti oltre i 100 mila euro). Ma, per 10 mesi, sui media il silenzio su questo tentativo è stato pressoché assoluto. Ogni tanto usciva qualche dettaglio sul coinvolgimento di CDP o addirittura di Sace. Tutti coloro che hanno fonti a Bruxelles sapevano che alla Commissione Europea si era esterrefatti, di fronte al tentativo italiano di usare aiuti di Stato quando ormai c’era la doppia cornice della vigilanza comune BCE sui maggiori istituti di ogni paese, nonché della direttiva bail-in. Puntualmente, il penoso tentativo italiano è andato a scontrarsi con un no scontato: che il MEF ha ammesso solo la settimana scorsa, con una secca nota che non dava altre spiegazioni sul merito vero delle proposte avanzate. E sui media è partito il coro imbeccato dal sistema bancario, contro “i burocrati dell’Europa che su permettono di obiettare all’Italia che non ha mai chiesto aiuti”.

Quinto: il silenzio sul monito europeo nella vicenda Tercas. Lo stesso silenzio è stato riservato alle dure obiezioni europee espresse 9 mesi fa all’intervento di salvataggio nella banca teramana operata coinvolgendo il Fondo interbancario dei depositi, con la pretesa che fosse uno strumento “privato”. Quell’intervento non era privato perché orchestrato da Bankitalia, privo di un valido conto dei costi-benefici comparato, tale da giustificarne il ricorso rispetto a un’operazione condotta invece sul mercato e con criteri di mercato, e inoltre il Fondo serve a tutelare i depositanti delle banche, non gli azionisti. Tutti noi che seguiamo le vicende bancarie abbiamo in mano il documento europeo: ma nessuno quasi ne ha scritto, e fino a 2 settimane fa i media italiani continuavano a ripetere che per le 4 banche su cui si interviene oggi si sarebbe adoperato il Fondo interbancario. Invece ora bisogna cambiare retrospettivamente anche il modo in cui si è operato in Tercas. Che pena.

Sesto: il pasticcio attuale. La collusione ABI-governo-Bankit solo negli ultimi giorni ha dovuto prender atto che l’errore di non aver voluto un intervento sistemico vigilato dalla UE nel 2011-2012 non ha costituito base per vedersi approvata alla fine una scappatoia “nazionale”, all’ultimo secondo utile prima dell’entrata in vigore del bail-in. Ergo l’Italia la settimana scorsa ha recepito di corsa il sistema europeo di risoluzione delle crisi bancarie – che era stato apposta ritardato fino all’ultimo – con un’apposita unità costituita in Bankitalia. Si dirà a questo punto: bene caro Giannino, hai comunque ottenuto quel che vuoi, azionisti e obbligazionisti subordinati sono colpiti nelle 4 banche in cui si interviene. Ma non diciamo fesserie: il punto è che traccheggiando per anni abbiamo alimentato all’inverosimile l’aspettativa di salvataggi per tutti, rendendo sempre più comatosa la situazione di molte banche che si trovavano in condizione-limite, e che non sarebbero giunte a questo se regolatori e politica non avessero alimentato aspettative impossibili. In ogni caso, il salvataggio degli istituti delle Marche, Etruria, Chieti e Ferrara avviene ora con una modalità che rispetta le regole nuove e comuni solo per modo di dire. Primo: gli aiuti di Stato restano, vengono quantificati in 400 milioni nello stesso comunicato immediato rilasciato  della Commissione UE.  E in ogni caso la valutazione dei NPL delle 4 banche è fatta ” a tavolino”, non dal mercato. Poiché poi il finanziamento annuale del fondo – 500 milioni a carico dell’intero sistema bancario – ancora non è disponibile poiché occorreranno mesi per le delibere di ogni istituto, ed ecco che allora sono alcuni grandi banche italiane a metter capitale nelle 4 banche ognuna divisa tra good e bad bank, e poi quando sarà il Fondo subentrerà. Ma avremo impegnato più di 4 annualità del Fondo che serve alla risoluzione di tutte le crisi bancarie italiane: cosa faremo per le altre banche commissariate da Bankitalia? E perché mai – se non per un obbligo “di sistema” ordinato da politica e Bankit – devono metter soldi in banche fallite che non si vuol far fallire chi, come Unicredit, ha dovuto ora ora varare il secondo piano industriale in pochi mesi con tagli e cessioni sanguinosi? Ma dove sta scritto che non deve fallire mai nessuna banca, neanche le banche più piccole ergo senza rischi sistemici nonché peggio amministrate? Perché domani si dirà che l’intervento è a spese zero per i contribuenti, visto che le banche recupereranno 1 dei 3,2 miliardi dell’intervento varato oggi attraverso gravi fiscali cioè appunto a spese dei contribuenti? E che segnale è mai quello odierno, verso le fusioni sinora bloccate da solite questioni territorial-politiche tra grandi popolari investire dalla (buona, per me)  riforma voluta dal governo: non è ovvio che le frenerà ulteriormente? E verso le quasi 400 BCC, che anch’esse avrebbero bisogno di una vera e propria ondata di fusioni e ripatrimonializzazioni?

Si fa quel che si è deciso oggi per evitare la paura dei depositanti, si dice: l’Italia della ripresa non ne ha bisogno e deve evitarla a tutti i costi.  Siete sicuri che sia così? Oppure è  per evitare che la gente inizi sul serio a farsi i conti e a guardare i bilanci bancari, per capire dove mettere i propri soldi, e di quali azioni e obbligazioni bancarie disfarsi? Chiedetevelo, prima di liquidare le mie sei tesi come “fesserie liberiste”.

Oggi siamo a un altro capitolo di una lunga storia di errori e omissioni, bubbole e collusioni. Ripeto: il conto lo hanno durissimamente pagato imprese e famiglie. Mi rendo conto, è più facile dar la colpa all’Europa. Ma non sta né in cielo né in terra: la colpa è di un sistema collusvo che non ha saputo e voluto guardare in faccia alla realtà, e non ha preferito famiglie e imprese agli azionisti bancari, e ai loro intrecci troppo stretti con la politica locale e nazionale.

22
Nov
2015

La “giungla” delle 11 mila partecipate pubbliche nel report ISTAT—di Francesco Bruno

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco Bruno.

“10.964 unità”, è questa la cifra indicata nel report pubblicato dall’Istat lunedì 16 novembre sulle società che presentavano una forma di partecipazione pubblica in Italia nel 2013. Per fare un semplice e banale paragone con i partner dell’Eurozona, la Francia (che in quanto a intervento dello Stato nell’economia sa il fatto suo) ne conta circa un migliaio. Read More

19
Nov
2015

Sicurezza: falso che spendiamo poco, vero che spendiamo male

In questi giorni il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti ha posto il tema della necessità di rinunciare anche a dei diritti sin qui tutelati, dalla privacy alla piena libertà di spostamento, in nome della tutela della vita e della sicurezza. Per me da liberale va detto un chiaro e secco no al Grande Fratello del controllo remoto pubblico esteso a tutti, senza filtri giurisdizionali e tutele. Non mi va giù poi poi l’idea che a teorizzare la necessità di limitazioni generali della libertà sia chi nella realtà ha la responsabilità di aver messo in piedi un sistema pubblico italiano che sulla sicurezza spende molto – a differenza di quel che si crede, e come lamentano i politici a caccia di voti –  e spende MALISSIMO, come i numeri che richiamo sotto palesemente mostrano. A maggior ragione se vogliamo difendere le nostre libertà bisogna invece spendere MEGLIO: in tecnologie e uomini, hardware e software, per filtrare e analizzare e concentrare le informazioni laddove servono. Ora che le maglie del patto di stabilità europeo si sono allentate sotto la travolgente richiesta francese ( e Renzi ci è saltato subito sopra, ma il patto di stabilità che ormai fa acqua da tutte le parti merita un PS a parte), è innanzitutto questo il settore che il governo deve potenziare.

Se esaminiamo le spese di sicurezza dell’Italia in termini comparati, notiamo due evidenti contraddizioni.

La prima è che per le forze di polizia spendiamo in realtà non poco, anzi più della media europea. Eurostat certifica che a fronte di una media dell’euroarea dell’1,7% di PIL di spesa in sicurezza e ordine pubblico, l’Italia spende il 2%: rispetto all’1,6% di Germania e Francia. Se pensiamo ai bilanci delle sole forze dell’ordine, l’Italia spende l’1,2% del PIL rispetto allo 0,9% della Francia e allo 0,7% della Germania. Spendiamo di più, ma spendiamo peggio: ed è il solito pluridecennale problema dei troppi diversi corpi di sicurezza italiani, carabinieri, polizia, guardia di finanza, forestali, e via proseguendo. Ci hanno sbattuto la testa inutilmente tutti i commissari alla spending review susseguititi negli anni, ma la politica non riesce a compiere scelte energiche. Troppe incrostazioni storiche, competenze sovrapposte, rivalità nel procurement dei mezzi, e contrapposte tutele politiche a tutela dei diversi e troppi corpi dello Stato.

Seconda contraddizione: nella difesa spendiamo meno. Siamo allineati alla media dell’eurozona pari all’1,2% del PIL, ma la Francia sta all’1,8% e il Regno Unito al 2,3%. Ma anche qui spendiamo peggio. Se ci fermiamo alla sola funzione difesa ristretta – depurata dei costi dei carabinieri e di ciò che sta a carico del bilancio del ministero ma non costituisce appunto la funzione difesa vera e propria – si scende allo 0,8% del PIL. I tagli di spesa alle forze armate sono stati di quasi il 10% in termini reali in 10 anni. I costi per l’acquisizione di nuovi velivoli e piattaforme navali sono a carico ormai quasi sempre del MISE ma, malgrado i pesanti impegni di questi anni su teatri operativi del massimo impegno e rischio come Iraq e Afghanistan, i fondi di esercizio sono stati dimezzati. A carico delle forze armate resta il bilancio previdenziale del settore, restano troppi dipendenti civili, e troppe migliaiaia di sottufficiali non operativi. Ce la possiamo sognare, l’operatività dei francesi e dei britannici. E del resto alla politica italiana è sempre andato bene così: pronta a gonfiarsi il petto logorando uomini e mezzi in missioni “di pace” che in realtà lo erano a parole, ma usando la difesa come bancomat per smentire ogni volontà interventista.

E veniamo al terzo punto, quello oggi più decisivo contro il terrorismo jihadista: l’intelligence. Com’è ovvio sono riservate le spese di AISI e AISE, le due costole esterna e interna dei servizi italiani. La stima è intorno agli 8-900 milioni di euro. Per avere un’idea degli ordini di grandezza, l’altroieri il cancelliere dello scacchiere britannico Osborne ha annunciato un aumento della dotazione annuale di MI5 e MI6 pari a 1,9 miliardi di sterline con 1900 nuovi addetti, mentre per la sicurezza tecnologica affidata al GCHQ, l’equivalente della NSA americana che dai satelliti ai computer sorveglia le comunicazioni mondiali, il Regno Unito spende circa 4 miliardi di sterline. Le cifre dicoo che siamo dei nani, nella comunità delle grandi reti di intelligence mondiale. E paghiamo quattro soldi chi, nel campo della cyber-security, nel mondo privato ha invece retribuzioni stellari.

Ecco: invece di farci raccontare dai magistrati che occorre limitare le nostre libertà  perché ce ne siamo prese troppe, invece di ascoltare i politici che spacciano per spese antiterrorismo quelle devolute a un welfare maltravestito in organici pletorici e pluralità di sovrapposti corpi dello Stato, cerchiamo di batterci invece per avere una cultura e uan comunità dell’intelligence all’altezza delle tecnologie e competenze dei nostri tempi.

PS. Quanto al patto di stabilità europeo, di fatto a mio avviso siamo in presenza di un decesso seppur non dichiarato.  Già si era capito di fronte all’inesistenza di margini di flessibilità del fiscal compact rispetto alle spese pubbliche addizionali necessarie per affrontare l’esplosione del fenomeno dei profughi, che le regole europee non tengono conto di imprevedibili ma gigantesche circostanze straordinarie che possono abbattersi sui paesi membri (sulla furbata renziana di chiedere l’attivazione di una clausola di flessibilità per l’imigrazione per usarla invece ad altri scopi, meglio stendere un pietoso velo). Se si aggiunge che i metodi per calcolare gli effetti del ciclo restano ancora tecnicamente aperti a letture diverse – per il governo italiano nel 2016 l’Italia rispetta la regole del rientro del debito, per Bruxelles non avverrà che nel 2017 o 2018, come si legge nella pagella emessa l’altroieri, con cui si rinvia ad aprile 2016 il giudizio sulla legge di stabilità– si comprende che in realtà il fiscal compact tanto temuto è diventata di fatto una coperta tirata da troppe parti. Inoltre, il visto di piena conformità già concesso intanto da Bruxelles al budget della Francia, che nel 2016 terrorismo a parte prevede comunque di restare a un deficit pubblico del 3,3-3,4% del PIL, rende chiaro che le obiezioni all’Italia lasceranno il tempo che trovano, visto che nel nostro caso il deficit programmato è nell’ordine dell’1% di PIL inferiore. Personalmente aggiungo: purtroppo, lasceranno il tempo che trovano. Perché condivido dalla prima all’ultima parola i rilievi critici mossi d Bruxelles al governo Renzi: aver abbandonato di fatto una qualunque strategia ambiziosa di revisione della spesa, aver destinato ai tagli IMU-TASi quanto era meglio concentrare su sgravi a imprese-lavoro, nonché l’indifferenza sostanziale a un gigantesco debito pubblico che potrebbe presto tornare a rivelarsi assai più caro, se guardiamo ai rischi finanziari potenziali di un mondo che rallenta, in cui la FED rialza i tassi, e con i BRICS piantati ma indebitato in dollari.

 

18
Nov
2015

Dal Fiscal Compact allo Shit Happens

È ormai un vero proprio mito quello dei governi che, privati della loro irreprensibile sovranità, altro non sarebbero ormai che burattini nelle mani di eurocrati senza pietà. In politica economica, la violazione per eccellenza dei diritti umani perpetrata da parte della citata eurocrazia si chiama Fiscal Compact. Vittima dell’efferata oppressione bacchettona, la “flessibilità”: in altre parole, la possibilità di spendere soldi di cui non si dispone, in misura ancora maggiore di quanto già non si sia fatto e si continui a fare.

In principio fu la flessibilità preventiva. Lo dice chiaro, il famigerato Patto di stabilità e crescita: se i suoi conti più recenti non presentano deficit eccessivi e se dimostra un impegno concreto e verificabile per il miglioramento dei suoi conti pubblici, un Paese è libero di chiedere una proroga nel processo di avvicinamento al pareggio di bilancio strutturale. In altre parole, può allargare le maglie del deficit e richiedere un po’ di “flessibilità” in più.

Dal punto di vista della flessibilità ex post, invece, il Fiscal Compact non lascia spazio a interpretazioni: non si sgarra. O meglio, non si dovrebbe poter sgarrare. O meglio ancora, se circostanze eccezionali possono eccezionalissimamente giustificare richieste sul fronte delle entrate (cioè essenzialmente se, per qualche ragione, le imposte riscosse risultano ben al di sotto delle aspettative), sulle spese non si sgarra.

La conclusione logica, dunque dovrebbe essere quella di riformulare i capitoli della spesa pubblica, o meglio ancora ridurla drasticamente. Ma si sa: la spending review fa perder voti, molto meglio la spending deppiù. E allora ecco che monta la protesta, riassumibile nel mantra “basta austerity, ora ci vuole la crescita”. Ed ecco che dalla bacchetta magica spunta la richiesta del più classico degli scambi di ostaggi: noi ti diamo un po’ di flessibilità, ma tu in cambio fai le riforme.

Solo che poi, mentre fai le riforme, ecco esplodere la crisi migratoria. E come potremo mai fronteggiarla con una spesa pubblica che copre la metà del nostro Pil? C’è bisogno di risorse aggiuntive, da cui la nuova rivendicazione sui tavoli di Bruxelles. Che, ancora una volta, chiude un occhio con fare paterno.

Poi, nel bel mezzo dell’estate, mentre inizia a buttar giù le prime bozze della legge di Stabilità, l’esecutivo se ne esce con un’idea: gli investimenti devono restare fuori dal Fiscal Compact. E allora ecco che arriva la richiesta di flessibilità per gli investimenti. E via con la deroga. Poco importa se, nell’anno corrente, di investimenti la Commissione dice di non averne visti, né noi siamo riusciti a spendere quasi 9 miliardi di fondi strutturali. Servono margini, e margini saranno.

Infine, tragicamente, i fatti di Parigi. La lotta al terrorismo, si dice, ha bisogno di risorse. Hollande solleva subito il tema, e il nostro governo a ruota. Vorrete mica risparmiare sulla nostra sicurezza, dopo quello che è successo? Come se i decenni di manovre in deficit e di accumulo del nostro mostruoso debito pubblico fossero colpa della Commissione europea o di chissà chi altro. La spesa pubblica aumenterà ancora, come ha sempre fatto. E già me le immagino, le polemiche che monteranno se qualcuno, a Bruxelles, batterà ciglio. E così via, di emergenza in emergenza, di deroga in deroga, senza soluzione di continuità. Ignari del fatto che le spese di oggi sono le tasse di domani (e che la spending review di oggi è il tesoretto di domani), nessuno chiede conto al governo del fatto che quegli ottocento miliardi che spende già non bastino per fare le riforme, per il welfare, per gli investimenti o per la sicurezza. Ce ne siamo fatti una ragione, ma almeno smettiamo di chiamarlo Fiscal Compact: d’ora in poi, chiamiamolo Shit Happens.

Twitter: @glmannheimer