11
Dic
2015

Banche e bail in: la prova delle colpe di Bankit e Consob

Personalmente, sono attonito da quel che sta avvenendo nella vicenda della “risoluzione” delle 4 banche italiane avviata per decreto legge dal governo. E’ senza precedenti storici la durezza dello scontro frontale con l’Unione europea avviato tre giorni fa dall’audizione in parlamento di Bankitalia. E’ senza precedenti la dura smentita immediatamente venuta a via Nazionale dalla Commissione. E’ senza precedenti il rilievo da Bruxelles che le banche italiane vendano ai loro correntisti e clienti retail prodotti finanziari riservati per rischio agli investitori istituzionali. Ma invece di occuparsi del merito della vicenda, per capire se abbiano ragione i regolatori nazionali e quali siano le loro responsabilità, le reazioni dominanti sui media italiani sono tutte ispirate a una specie di giusta rivalsa contro una perfida Europa che vuole metterci sotto. Leggo sull’editoriale di oggi del Corriere della sera che “non ci si può illudere di affrontare il problema (cioè le banche fallite) facendone pagare il conto maggiore a risparmiatori e azionisti nella grande maggioranza, riteniamo, alquanto ignari”. Gesù prega per noi, se siamo al punto di dover spiegare al primo giornale d’Italia che gli azionisti sono investitori che partecipano a un capitale di rischio, e non depositanti.

Ma poiché per toccare tutte le questioni venute al pettine servirebbe un libro e non un articolo, mi fermo solo su alcuni punti.

Abbiamo appreso da Bankitalia in parlamento che via Nazionale era per posticipare l’attuazione del meccanismo di risoluzione europeo – il cosiddetto bail in – almeno fino al 2018. E che ne chiedeva l’applicazione solo per le obbligazioni subordinate bancarie emesse successivamente alla sua entrata in vigore. Questa seconda richiesta è molto singolare: è ovvio che le procedure di risoluzione si applichino alle diverse componenti del capitale in essere, non a quelle “a venire”. La prima spiega invece perché Bankitalia, insieme all’ABI, abbiano ripetuto e fatto scrivere a tutti i giornali italiani per tutto il 2015 che depositanti e obbligazionisti della banche italiane – anche di quelle commissariate – non dovevano preoccuparsi: perché sarebbe stata varata una bad bank italiana con il consenso europeo per smaltire la mole di 340mld di credito deteriorato in pancia alle banche italiane, e perché alla ricapitalizzazione delle commissariate avrebbe pensato il Fondo Interbancario di tutela dei depositi. Peccato che, a chiunque si occupasse di tali cose, risultasse evidente sin da inizio anno che non ci sarebbe stata né l’una né l’altra cosa. Perché la Ue non avrebbe autorizzato una bad bank attraverso cessioni dei crediti deteriorati effettuata a un prezzo diverso da quello bassissimo praticato dal mercato rispetto ai valori di libro, per di più a un veicolo ad hoc a garanzia pubblica di CDP. E perché l’intervento già deliberato a fine 2014 su Tercas dal Fondo Garanzia Depositi aveva ottenuto già nel febbraio scorso una dura critica da parte europea, per la stessa ragione e cioè per aiuti di Stato. La memoria di allora della Commissione è molto chiara, e non configura una bocciatura piena come Bankitalia ha invece detto due giorni fa al parlamento: dice invece che si può usare il Fondo garanzia depositi – malgrado esista per tutelare i depositanti e non gli obbligazionisti – se e solo se non configura aiuti di Stato, e cioè se il suo intervento è giustificato da una congrua valutazione di analisi costi-benefici che dimostri inequivocabilmente che sarebbe più onerosa una qualunque altra soluzione praticata da soggetti di mercato a prezzi di mercato. Come e perché Bankitalia dimentichi tutto ciò e addossi alla Ue la responsabilità di aver escluso a tavolino una soluzione per la quale Bruxelles aveva indicato la condizione nella quale poteva essere attuata, per me resta un amaro mistero. Sta di fatto che per queste ragioni dai vertici del regolatore bancario e dell’associazione bancaria per tutto l’anno e fino a pochi giorni prima dell’intervento del governo è stato detto ad azionisti, obbligazionisti e correntisti bancari di non preoccuparsi. Sulla base di valutazioni rivelatesi completamente infondate.

In realtà abbiamo sempre saputo che dal primo gennaio sarebbe entrato in vigore il bail in. Ma ecco che sulle 4 maggiori commissariate scatta in pochi giorni un’operazione di emergenza, per evitare che ricada nella piena vigenza della direttiva europea che parte da gennaio, e che Bankitalia non condivide. La sorpresa di decine di migliaia di obbligazionisti subordinati dei 4 istituti esplode, ed ecco che in poche ore la colpa viene riversata da Bankitalia e dal governo sulle spalle dell’Europa. Ancor oggi non sappiamo molte cose essenziali, dell’operazione. Chi ha davvero effettuato la scelta dei crediti deteriorati passati alla bad bank? Chi ne ha giudicato la qualità dei collaterali e delle garanzie escutibili? Le 4 banche commissariate? La vigilanza di via Nazionale? Il Fondo di Risoluzione bancario, creato a via Nazionale e che in teoria dovrebbe essere indipendente e separato dalla vigilanza? Ma come avrebbe potuto farlo, se era stato creato solo un paio di giorni prima? Chi ha deciso insomma l’abbattimento dell’83% del valore di cessione dei NPL alla bad bank rispetto a quelli di libro? Bankitalia dice che è stata Bruxelles a imporlo. Esiste un documento che lo certifichi, e che abbia dunque impedito un giudizio per classi e qualità dei crediti?

A sapere con certezza che il bail in scatta tra pochi giorni c’era anche la politica italiana: visto che al parlamento europeo sinistra e destra l’hanno votato, e persino la Lega si è solo astenuta. Chi l’ha votato, dovrebbe per elementare dovere spiegare perché il bail in è meglio del bail out, e perché ci siamo arrivati. E’ meglio perché nei fallimenti bancari separa i soldi pubblici dei contribuenti dal doversi far carico di sanare le banche, accollandone l’onere alle banche stesse: cioè in primis agli azionisti, e poi in gradienti diversi a chi è più vicino a vantare crediti assimilabili al capitale della banca; ergo in primis gli obbligazionisti subordinati, poi quelli ordinari, e infine quando e solo se davvero necessario fino ai depositanti, per le somme superiori ai 100mila euro. E ci siamo arrivati proprio perché, fino al 2013, molti paesi europei hanno fatto invece massicciamente uso di finanza pubblica. Ora il ridicolo è che l’Italia è stata tra coloro che vi ha fatto meno ricorso – i tedeschi per quasi il 6% del PIL, noi per neanche mezzo punto, praticamente nel solo caso MPS – eppure oggi protesta brutalmente chiedendo di poterlo fare a propria volta, a regole cambiate: dopo aver concorso alla nuova direttiva che serve proprio a impedire quel che oggi politica e media in Italia sembrano invocare.

Ma veniamo al punto che, minoritariamente, è a nostro giudizio quello centrale. I regolatori italiani – Bankitalia per la vigilanza, e Consob che è responsabile della trasparenza e correttezza nell’emissione e sottoscrizione di titoli – hanno davvero la coscienza a posto? O per caso siamo in presenza di una colossale emissione di cortine fumogene, e per questo scatta la parola d’ordine “è colpa dell’Europa a guida tedesca?”. E’ un punto che non trovate sviluppato a dovere, sui media italiani. Ha un aspetto sostanziale, e uno formale.

Cominciamo da quello sostanziale. E’ vero o no, che c’è stato chi per anni ha tentato di attirare l’attenzione sul credito relazionale praticato massicciamente nel sistema bancario italiano, sui sovraffidamenti a soci e amministratori, sulle improprie reti collusive che aggiravano le norme sulle parti correlate, sulla disinvoltura con cui tramite incentivi alla rete di sportelli ai correntisti, e a chi chiedeva prestiti e mutui, si piazzavano azioni e obbligazioni delle stesse banche, azioni talora a valori non di mercato ma fissati stellarmente dagli stessi cda, titoli attraverso i quali il management di popolari e credito cooperativo si eternava al comando? Oppure c’è stato chi sollevava il problema, ma è stato sempre tacitato come un reietto provocatore, perché avevamo le banche più sane e prive di rischi al mondo, come ancora ha incredibilmente affermato Padoan l’altro ieri? E’ vero o no, che il più degli aumenti di capitale nel sistema bancario italiano è scattato tra fine 2013 e 2014, quando ormai si approssimava entro pochi mesi la vigilanza comune BCE sulle maggiori banche? E’ vero o no, che in molti dei commissariamenti adottati c’erano tutti gli elementi per farli scattare con uno o due o più anni di anticipo, a cominciare dalla BPEL che fino a metà 2014 Bankitalia ha tentato di dare invece alla Popolare di Vicenza, quando, già 2 presidenti prima del commissariamento, Fornasari era stato eletto alla guida della banca grazie a un voto illegittimo, espresso a maggioranza da un socio sovraffidatario? In piccolo ho maturato la mia amara e personalissima opinione su queste domande, a cominciare da quando diversi anni fa fa fu chiuso un giornale che dirigevo dopo aver scritto di ciò che non tornava nel patrimonio di vigilanza di un certo istituto bancario, dal quale aveva rilevanti affidamenti l’allora mio editore. E’ il motivo per il quale ho deciso di diventare un free lance e campare facendo anche altro, stufo di avere liste appese davanti agli occhi di chi “è meglio non disturbare”. L’intreccio di soci e affidamenti bancari, valori stimati all’attivo e al passivo di entrambe le parti, è il vero reticolo dell’economia italiana. Questo spiega, del resto, l’atteggiamento maggioritariamente compiacente dei media italiani.

Veniamo al punto formale. L’accusa europea sulla vendita disinvolta da parte delle banche italiane ai propri clienti retail di prodotti finanziari il cui rischio dovrebbe vederli obbligatoriamente destinati a investitori istituzionali. Ricordate i tango bond argentini? Costarono all’Italia un punto di Pil di risparmio, cifra di poco superata poi dal crac Parmalat. Nel caso argentino, eravamo l’unico paese al mondo a concentrare tanti titoli rischiosi tra risparmiatori retail. E’ rimasto questo vizio alle banche italiane, oppure no? La mia risposta – evidentemente da alieno, forse vivo in un altro mondo rispetto alla realtà che vedo difesa dai media italiani – è che no, quel vizio non è stato abbandonato. Lo testimoniano pile di lettere e mail che ricevi ogni giorno da chi ti descrive come è stato invitato a sottoscrivere questa o quella obbligazione, a cominciare dai dipendenti bancari stessi, per continuare coi depositanti, e con chi alla richiesta di un prestito si è visto proporre- imporre titoli o azioni della banca stessa.

E’ ben per questo, che siamo stati per anni il paese OCSE con la più alta percentuale di obbligazioni bancarie nel portafoglio delle famiglie: un comodo canale di raccolta diretta. Nella relazione annuale Consob potete osservarne l’evoluzione anno per anno: la raccolta diretta bancaria è scesa da oltre 1500 miliardi nel 2009, di cui circa 900 mld fatta da depositi e oltre 500mld di obbligazioni, fino a ridursi intorno ai 1430 mld a fine 2013 (sono dati dell’ultima relazione) con oltre 350mld di obbligazioni. Se passiamo dal totale delle obbligazioni vendute dalle banche a quelle bancarie in senso stretto, quelle piazzate dalle banche a clienti retail hanno sempre rappresentato da 4 a 5 volte l’ammontare di emissioni annue piazzate a investitori istituzionali: per esempio nel 2014 92,4 miliardi al retail e 25 mld agli istituzionali, nel 2013 113 mld al retail a 22mld agli istituzionali; nel 2011 addirittura 189mld al retail e 26,5mld agli istituzionali. Se parliamo delle obbligazioni subordinate che sono interessate al bail in, la stima più aggiornata di quelle circolanti oggi emesse dalle banche italiane risale a poche settimane fa. Si tratta di 286 titoli di cui 141 non quotati, per una raccolta di 71,25 miliardi (13,3 dei quali per bond non scambiati in Borsa). Oltre alle 4 banche “risolte” che oggi vedono gli investitori colpiti insorgere, badate che solo tra Veneto Banca e Popolare di Vicenza si tratta di oltre 1,6 miliardi, e di oltre 6 miliardi per la sola MPS.

A questo punto, il domandone: erano rispettate le norme sull’informativa da rendere all’investitore, da parte delle banche? È per favore evitiamo di ripetere che tra banca e cliente vige un rapporto fiduciario: è una scemenza. Quando la banca vende un titolo di cui essa stessa è emittente e non mera collocatrice, è ovvio che sia in conflitto d’interesse. E dunque le norme – la MIFID e i suoi aggiornamenti e interpretazioni avvenuti nella crisi di questi anni- pretendono che il conflitto d’interesse si possa superare solo con informative rafforzate a vantaggio della piena consapevolezza del cliente stesso: non una firmetta su un pacco di moduli. Per classi di rischio degli asset proposti, le banche sono tenute a una vera e propria profilazione del rischio cliente, di come ha allocato il resto del suo portafoglio. E quando dopo il 2013 divenne chiaro che si andava al bail in, diventò evidente che le subordinate bancarie “salivano” come coefficiente di rischio, e ciò comportava simmetrie rafforzate nell’informativa bancaria al cliente.

Leggiamo alcune istruttive righe dall’ultima versione delle Comunicazioni Consob sulla distribuzione di prodotti finanziari complessi, aggiornata secondo ESMA:

“Le obbligazioni subordinate sono da considerarsi “strumenti complessi” anche se non incorporano particolari strutture?

La presenza della mera clausola di subordinazione non implica ex se la riconduzione delle obbligazioni in esame nell’alveo dei prodotti a complessità molto elevata. Peraltro le obbligazioni subordinate sono considerate strumenti complessi ai fini dell’Opinion ESMA del 7 febbraio 2014. In tale prospettiva, in linea con le indicazioni fornite nella citata Opinion “MiFID practices for firms selling complex products”, gli operatori dovranno comunque prestare la massima attenzione alle fasi di distribuzione delle obbligazioni subordinate nei confronti della clientela al dettaglio.”

Leggiamo invece che cosa scrive ABI in un report di molto precedente, nel dicembre 2013, quando è già chiaro che si andrà al bail in, che alle banche italiane non piace. E se ne spiega il perché: leggete le pagine da 27 in avanti sulla stima di aumento del costo di funding bancario che ciò comporta per gli istituti, visto che all’aumentato rischio corrisponderanno cedole più elevate, e inoltre un aggravio ulteriore di costo aggiuntivo a seconda della solidità delle diverse banche emittenti. Ma non vi sfugga soprattutto la nota a pagina 28 che qui riprendo:

“ Accanto a queste si possono anche aggiungere altre problematiche, quali:

-obblighi di informativa in fase di offerta: l’applicabilità dal bail-in deve essere menzionato nel prospetto di offerta al pubblico

-limitazioni della platea dei possibili sottoscrittori: in particolare secondo le norme del MIFID, se venisse confermata la maggiore rischiosità delle obbligazioni soggette a bail-in, queste potrebbero non risultare più adeguate per alcuni clienti retail (che in Italia rappresentano i maggiori sottoscrittori di titoli)”.

Ecco la smoking gun: già a fine 2013 era evidentissimo alle banche italiane che le obbligazioni subordinate bancarie NON potevano essere proposte ai clienti retail. Parole che rendono vieppiù incredibile che SOLO ORA Bankitalia affermi che per il futuro bisognerà adottare tale limitazione.

Ed ecco perché penso che le polemiche contro Bruxlles siano una cortina fumogena. Vedo tracce evidenti di coscienza sporca dei regolatori, Bankit e Consob, conniventi con la contrarietà delle banche ad accrescere il proprio costo di raccolta. Ecco il vero problema italiano fatto riesplodere dalle proteste degli obbligazionisti delle 4 banche colpiti nel portafoglio, investitori ai quali si sventola davanti agli occhi il drappo rosso dei perfidi burocrati europei mentre le colpe stanno in Italia. Naturalmente sarà che sono alieno eh, visto che quasi tutti la pensano diversamente…

 

9
Dic
2015

Giubileo: per Roma meglio low cost dei miliardi del 2000

Scusate se volo basso, ma come contribuente penso che per inquadrare i numeri del Giubileo bisogna partire dai dati di fatto. Cioè dai più recenti aggiornamenti della scassata finanza pubblica romana. Nella generale disattenzione dei media, infatti,  lo scorso 4 dicembre il commissario per Roma Fabrizio Paolo Tronca ha messo nero su bianco di aver già riscontrato nei conti ereditati dall’ex sindaco Marino 20 milioni di deficit 2015 superiore al previsto, 60 milioni ulteriori di debito fuori bilancio non trasmessi ai revisori contabili, e di aver dovuto iscrivere ben 148,7 milioni al fondo “crediti di dubbia esigibilità” tra quelli vantati invece come crediti esigibili da Marino. Queste sole ultime cifre fanno capire che Roma ha più che mai bisogno di una drammatica sterzata di efficienza nell’amministrazione ordinaria del Campidoglio, all’ATAC e all’AMA.  Su 4800 vigili urbani, 1300 ancor oggi a Giubileo iniziato rifiutano la disponibilità extra-turno, esattamente la ragione che portò al disastro della scorsa notte di Capodanno quando fioccarono io certificati di malattia.  La moratoria-scioperi per il Giubileo è stata appena sottoscritta, e già oggi FIOM ha dichiarato 7 giorni di astensione dal lavoro per la manutenzione delle carrozze della metro. Per raddrizzare i guai profondi della Capitale ovviamente il commissario farà quel che potrà, ma il più deve venire da chi vince le prossime elezioni, ergo non si vedrà nulla di concreto fino al prossimo autunno nella migliore delle ipotesi.

In questo quadro, meglio un Giubileo il più possibile low cost. E’ un bene che sia così non solo perché papa Bergoglio così lo vuole, ma anche per i guai ordinari e straordinari che investono Roma e l’Italia. Guai per risolvere i quali altro che la misericordia, ci vorrebbe. Tutto sommato, dunque, meglio che questo Giubileo straordinario sia voluto dal papa come fruibile in tutti i vescovadi del mondo, piuttosto di quello del 2000 che metteva Roma al centro di tutto.

Diamo un occhio retrospettivo al Grande Giubileo del 2000, e immediatamente salta all’occhio che le risorse pubbliche finora stanziate dall’Italia sono nell’ordine di grandezza di un quindicesimo di quelle di allora. Per il Giubileo del 2000 un primo comitato misto tra istituzioni nazionali e Campidoglio iniziò a lavorare quasi ben sei anni prima. Si è trattato allora di oltre 3 miliardi di euro odierni di spesa, a conti fatti. Meno di quanto era stato annunciato nella prima conferenza programmatica del Giubileo 2000 che si tenne al Teatro Argentina ben 5 anni prima, nel maggio 1995. Ancora nel 1996 l’allora sindaco Rutelli annunciò trionfalmente la bellezza di 17 mila miliardi di lire in vista dell’evento. Il parlamento, con le legge 651 del 1996 e la 270 del 1997, destinò alla fine fino a 6mila miliardi di lire per il Giubileo 2000. La Capitale del 2000 lanciava un piano ambiziosissimo di grandi opere definite «indispensabili»: 400 nuovi chilometri di binari ferroviari, sette linee metropolitane, sottopasso di Castel Sant’Angelo, ricopertura della via Olimpica nel tratto relativo a Villa Doria Pamphilj, chiusura e riconversione del carcere di Regina Coeli, depurazione integrale delle acque dei bacini del Tevere. E molto altro.

Dei 3 miliardi di euro stanziati per il 2000 (traduciamo l’ammontare da lire in euro per chiarezza), circa 1,3 era direttamente concentrato nella supervisione diretta del Comune di Roma, altri 700 milioni sempre a Roma erano destinati, ma a carico esecutivo di enti statali. Il resto era destinato a progetti extra-romani.  Il bilancio finale fu, come sempre in Italia, del tutto contraddittorio. Quello a fine evento tratto dal sindaco Rutelli – che era stato nominato dal governo di allora commissario straordinario dell’evento – dichiarava il 95,6% di progetti realizzati. Su 821 interventi per 1,7 miliardi di euro attuali, ne erano stati finanziati 801 dei quali 563 risultavano completati, 94 non completati ma fruibili, 43 completabili a scadenze più lunghe, 76 né completati né fruibili: e su di essi calò la scure del ministero delle Infrastrutture, con conseguente contenzioso con il Campidoglio che ne chiese negli anni il rifinanziamento (quasi sempre spuntandola, ma naturalmente a costi lievitati).

Roma guadagnò il finanziamento all’estensione del raccordo anulare e del collegamento stradale Roma-Fiumicino, il parcheggio sotterraneo del Gianicolo (realizzato però dal Vaticano), alcune tratte ferroviarie urbane, il potenziamento dei pronto soccorso ospedalieri, il sottopasso di Castel Sant’Angelo. Ma, negli anni successivi al 2000 le cronache romane resteranno dominate da innumerevoli esempi di opere giubilari non terminate, e da accuse di aver disperso a fini di consenso molte delle risorse finanziarie in rivoli e rivoletti. Non si vide compiuta la linea C della metropolitana né il più delle nuove linee tramviarie promesse, né il passante viario Nord-Ovest. La costruzione dell’Auditorium era indietrissimo, fu inaugurato solo a fine 2002. L’impianto che doveva aumentare ed efficientare lo smistamento bagagli a Fiumicino doveva essere a carico degli azionisti privati, e invece venne pagato coi fondi per il Giubileo ma non entrò in funzione per l’evento…

In compenso, Roma e l’Italia intera conobbero però nel 2000 una bonanza economica che non si risolse negli investimenti pubblici. A Roma si contarono circa 30 milioni di pellegrini, con un aumento stellare del 23% sull’anno precedente e un beneficio sulla ricettività locale – alberghi, ristoranti etc – pari a un miliardo di euro odierni per la sola area romana. Nel 2000 le strutture ricettive italiane registrarono 78,747 milioni di arrivi e 331,4 milioni di presenze, con una crescita di arrivi del 6% e del 7,4% delle giornate di presenza. Gli stranieri crebbero dell’8,1% negli arrivi e arrivarono a 137 milioni di presenze, ben 25 milioni di giornate più degli anni precedenti, con un aumento della spesa complessiva da stranieri in Italia dell’8%. Il fatturato lordo complessivo di alberghi e turismo italiani grazie al Giubileo 2000 superò quelli che oggi sarebbero 70 miliardi, raggiungendo il 6% del PIL di allora. I soli alberghi di Roma e provincia registrarono 14,7 milioni di ospiti. Anche per tutto questo, nel 2000 il Pil italiano crebbe quasi del 3%: quell’anno l’Italia andò meglio della Germania.

Veramente altri tempi, se pensate ai 200 milioni in tutto sinora stanziati per il Giubileo della Misericordia dal governo Renzi, con il decreto legge di metà novembre per il quale il premier ha atteso che fosse travolto Marino (al quale palazzo Chigi ricorda sempre però di aver concesso altri 110 milioni a inizio 2015). Dagli oltre 800 progetti del 2000, i cantieri per il Giubileo 2016 sono in tutto oggi 23. Percorsi viari sull’asse stazione Termini- san Pietro e principali basiliche, potenziamento nell’ordine del possibile dei collegamenti con Fiumicino, rinforzi dei presìdi sanitari. Ma poi soprattutto, sicurezza: perché oggi è il terrore dell’ISIS, a gravare come grande minaccia per la quale molte migliaia di turisti e pellegrini hanno già annullato le prenotazioni a Roma. Come è stato ieri confermato dalle limitate presenze alle cerimonie pontificali di inaugurazione.

Nessuno sa dire quante presenze in più di pellegrini davvero si realizzeranno per il Giubileo della Misericordia. E già il prefetto di Roma Franco Gabrielli si è trovato a dover rispondere piccato al presidente del Pontificio Consiglio per l’Evangelizzazione, monsignor Rino Fisichella, che ha lamentato il macroscopico ritardo dell’avvio dei pur limitati cantieri che dal Campidoglio al Vaticano erano stati preannunciati. Ma è meglio così. Roma deve rimettersi in piedi e ci impiegherà anni, non è proprio ilcaso di rimpiangere i miliardi pubblici del 2000.

 

4
Dic
2015

Per chi “giù le mani da pensioni”: ricchezza giovani -60%, anziani +60%

Prima il rapporto Ocse. Poi quello Istat. Infine ieri i dati Bankitalia. In pochi giorni, un diluvio di dati aggiornati sulle pensioni degli italiani, e su come sta cambiando il reddito e la ricchezza nel nostro paese. Ognuno sceglie tra i dati quello che più si adatta alla propria tesi. C’è chi comprensibilmente grida allo scandalo, perché nel 2014 il 40,3% dei pensionati ha percepito un reddito da pensione inferiore ai mille euro mensili. C’è chi invece scuote la testa, perché continuiamo a essere un paese con le più elevate entrate contributive per finanziare le pensuioni correnti dopo Grecia e Spagna, e al contempo dove tra i 60 e i 64 anni il tasso di occupazione resta al 26% rispetto al 45% media OCSE, ma con la più elevata età di ingresso nel lavoro, sia per uomini sia per donne.

Così si rischia di perdere di vista il problema più essenziale. Da vent’anni, stiamo aggravando a livelli pazzeschi lo squilibrio intergenerazionale. Ed è l’effetto di come siamo intervenuti sulle pensioni. Per tutti, parla il dato nel rapporto Bankitalia di ieri sulle famiglie italiane. Molti scimmiottando Piketty si riempiono la bocca di diseguaglianza netta in crescita tra ricchi e poveri in quanto tale, e invece Bankitalia li sconfessa. Tra 2012 e 2014, per effetto della crisi immobiliare dovuta alla sberla fiscale sul mattone, la diseguaglianza nella distribuzione dei patrimoni si è fortemente attenuata, il quinto di italiani più ricchi ha perso molto più di quelli più poveri, e il coefficiente di Gini è sceso in 2 anni da 64 a 61 ( guardate fig 12 e 13). Al contrario, il baratro vero che si è aperto è quello della diseguaglianza tra le generazioni (andate a fig.6). Tra il 1995 e il 2014 la ricchezza netta media delle famiglie con a capo chi ha meno di 34 anni è scesa verticalmente, da 100 a 40. Quella con capofamiglia sopra i 65 anni è salita invece da 100 a 160. Vent’anni fa la ricchezza media delle famiglie anziane era di poco inferiore a quella delle “giovani”. Oggi, è tre volte e mezzo superiore. Un dato devastante: ecco il paese “non per giovani”

Perché? Essenzialmente (anche se non solo, concorrono anche le norme sul mercato del lavoro e il nostro sistema della fomazione pubblica inadeguato all’occupabilità dei giovani) per le due riforme strutturali delle pensioni, la Dini nel 1995 e la Fornero a fine 2011. Buone riforme nel complesso ma una troppo diluita nel passaggio pluridecennale da retributivo a contributivo; l’altra, assunta per l’emergenza creatasi dopo anni di colpevole sottovalutazione, rapidisissima invece nell’innalzare l’età pensionabile. Ma abbiamo lasciato intanto il sistema a ripartizione, in base al quale le pensioni in essere sono pagate da chi lavora oggi. La ripartizione funziona bene quando il PIL cresce, e in assenza di riforme o troppo lente o troppo rapide. Ma quando ci sono discontinuità forti, il sistema a ripartizione diventa uno “schema Ponzi”, una catena di sant’Antonio con vittime e privilegiati: in cui chi fatica di più a ottenere un lavoro perché non ha professionalità formate adeguate, chi non ha continuità contributiva perché è precario, chi non avrà mai in ogni caso pensioni elevate come quelle retributive, si trova a pagare il reddito corrisposto a chi invece il lavoro lo ha ottenuto con molti minori problemi, è andato in pensione presto, e per decenni incasserà un assegno tarato sulla sua ultima retribuzione.

Quando Tito Boeri pone il problema dei giovani attuali che solo a 75 otterranno -forse – una pensione pari anche solo al 40% del reddito che avevano faticosamente conquistato, indica in termini di giustizia sociale (ma anche crescita) il problema numero uno del nostro paese. Quello tra generazioni. Pensateci: destiniamo oltre il 17% del PIl a pensioni così distorte, e un quarto all’istruzione, il 4,6% del PIL nel 2014. La proporzione dice tutto.

Affrontare questo disastro postula politici seri. Che dimentichino che sul totale degli elettori gli anziani sono maggioranza rispetto ai giovani (l’età media è oggi a 45 anni in Ita). Che rimettano mano alle pensioni facendo pagare meno contributi a chi ha meno anzianità di lavoro per alzarli poi nel tempo, nel mentre intervengono su chi ha assegni-regalo retributivi superiori ai 5mila euro, sproporzionati rispetto ai contributi versati. In 20 anni abbiamo già ridotto i giovani a meno di un terzo di ricchezza degli anziani. Continuiamo così, e li condanneremo dal purgatorio all’inferno.

3
Dic
2015

C’è un giudice a Bellinzona. ILVA nazionalizzata dai pm ormai a picco

Notizia numero uno: a fine ottobre 2015 l’Italia è uscita dalla lista dei primi 10 produttori mondiali di acciaio, segnando anche quest’anno un meno 8,6%. E’ l’effetto diretto del continuo declino dell’ILVA pubblica a Taranto, l’azienda espropriata senza indennizzo ai Riva a seguito della vicenda giudiziaria iniziata nel 2012.

Seconda notizia: in Svizzera, il tribunale federale di Bellinzona ha respinto su tutta la linea la richiesta avanzata dalla magistratura italiana di trasferire alla disponibilità dei commissari pubblici dell’ILVA 1,2 miliardi detenuti dagli eredi Riva su conti UBS. Per i giudici elvetici, è illegittimo espropriare fondi privati prima che venga emessa qualunque sentenza sui Riva indagati, in assenza di garanzie esplicite sulla loro tutela patrimoniale in caso di proclamata innocenza. Inoltre, era manifesto che la richiesta italiana fosse volta ad altro fine: non la sanzione per ipotesi di reato ancora da accertare, ma la devoluzione immediata al risanamento ambientale dell’ILVA ormai pubblica.

Terza notizia: la Commissione europea è ormai pronta a formalizzare la contestazione all’Italia per aiuti di Stato all’ILVA, per non meno di 1,8 miliardi a seguito dei due ultimi decreti riservati all’acciaeria di Taranto. I concorrenti dell’un tempo profittevole e temibile gruppo siderurgico italiano stringono d’assedio Bruxelles da ormai due anni, perché il dossier venga aperto.

Aridi fatti messi in fila: il bilancio dell’immane distruzione di valore, occupazione, export e gettito fiscale realizzata da una rinazionalizzazione per via giudiziaria che non ha eguali in alcun paese del mondo, tranne le autocrazie in cui le imprese vengono confiscate a discrezione.

Lasciamo ad altri – cioè ai sindacati e a qualche sostenitore del governo – dar torto ai giudici svizzeri: in base anche alla più elementare concezione liberale del diritto penale e di proprietà, hanno mille volte ragione.

Ma ormai questionare sul passato non ha molto senso: le procure hanno creato un fatto compiuto. E la domanda diventa un’altra. Come ne esce il governo? Stanzia altri denari del contribuente? Chiude l’impianto, che dà lavoro a 12 mila persone e oltre 22 mila con l’indotto, in una delle aree più colpite dalla crisi al Sud? O ha un’altra alternativa? L’Europa intanto dà quasi per scontato che, anche quei 2milioni di tonnellate annue che Taranto si è ridotta a produrre, presto scompariranno. E così diminuirà l’eccesso di produzione continentale. Cinesi e indiani, già da 2 anni, commossi ringraziano.

2
Dic
2015

Art.18 anche agli statali: il governo sbaglia, la Cassazione no

E’ una questione di equità, fortemente sentita da milioni di italiani. Da un anno e mezzo a questa parte, quando si mise in moto il Jobs Act e fino ai suoi decreti attuativi tra fine 2014 e inizio 2015, tante volte lo ripetemmo: sarebbe stato meglio esplicitamente decidere che la nuova disciplina valesse per i dipendenti privati come per i pubblici. A cominciare dalla revisione dell’articolo 18, sulla rescissione dei contratti che abolisce la reintegra giudiziale tranne che per i licenziamenti illegittimi, e regola con indennità quelli economici e per giustificato motivo soggettivo.

Già la riforma si applica solo ai nuovi assunti, distinguendo le coorti di lavoratori per anagrafe. Dunque era l’occasione almeno di parificare tra pubblico e privato tutele e diritti, indennità e doveri. Il governo alla fine si decise per il no. Ma non lo scrisse in legge. La novità è che la Corte di Cassazione ha invece emanato una sentenza chiara, per la quale l’articolo 18 riformato si applica automaticamente anche ai dipendenti pubblici. Ma ecco che, dopo poche ore, arriva la contronovità: il ministro Madia annuncia che il governo metterà per iscritto nel Testo unico del pubblico impiego che no, la riforma non si applica ai dipendenti pubblici.

Perché il governo Renzi non si adegua a una limpida sentenza della Corte di Cassazione, e decide in poche ore di ribaltarla? Per capirlo, facciamo un passo indietro sul terreno del diritto. La tesi affermata dalla Corte di Cassazione è secca. La Corte si è pronunciata sul licenziamento di un pubblico dipendente siciliano. Richiesta esplicitamente di chiarire se l’articolo 18 riformato valga anche per i pubblici dipendenti o, nel dubbio, di sottoporre la questione alla Corte Costituzionale, la Cassazione ha ritenuto che la risposta fosse univoca, senza alcun bisogno di un giudizio di costituzionalità. Il Testo Unico del pubblico impiego, il decreto legislativo 165 del 2001 con il quale è avvenuta la cosiddetta “privatizzazione” delle modalità contrattuali pubbliche, è inequivoco secondo la Cassazione: lo Statuto dei lavoratori, “con le sue successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”. “E’ innegabile”, scrive la Corte, “che il nuovo testo dell’articolo 18 riguardi anche gli statali, anche a prescindere dalle iniziative di armonizzazione previste dalla riforma”. Ovviamente, sicomme non sono comprese nell’applicazione delle modalità contrattuali ex dlgs 165 dl 2001, l’unica eccezione che continua a valere è per docenti universitari, magistrati e comparto militari-sicurezza.

Ma se questa è la sentenza, perché il governo dice il contrario? Bisogna rifarsi a numerose sentenze della Corte costituzionale, in materia di equiparazione tra lavoro pubblico e privato.

Leggiamo alcuni brani della sentenza della Corte Costituzionale numero 146 del 2008. “Malgrado la progressiva assimilazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni con quello alle dipendenze dei datori di lavoro privati, sussistono ancora differenze sostanziali che rendono le due situazioni non omogenee. Questa Corte in più occasioni ha ammesso la possibilità di una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite «della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali» (sentenza n. 275 del 2001). La pubblica amministrazione, infatti, «conserva pur sempre – anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato – una connotazione peculiare», essendo tenuta «al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa» (sentenza n. 82 del 2003)”. La Corte costituzionale respinse con quella sentenza del 2008 la pretesa di estendere automaticamente un trattamento dal privato al pubblico, “in nome delle specificità irriducibili del lavoro pubblico per il quale rileva l’articolo 97 della Costituzione”. Numerose sentenze delle sezioni civili nonché riunite della Corte di Cassazione sono ispirate alla medesima linea, la perdurante “non omogeneità” del lavoro pubblico e privato.

Si direbbe dunque che la Cassazione è andata contro questa giurisprudenza, allora. Ma non è così. Se rileggete le sentenze della Corte costituizionale, esse affermano “la possibilità” di una disciplina differenziata tra lavoro pubblico e privato. Cioè aprono alla possibilità che, se governo e parlamento ritengono, possano e debbano spiegare in legge su cosa e perché intendono differenziare il regime dei dipendenti pubblici da quelli privati. Ed eccoci al punto: né quando l’articolo 18 fu riformato dal ministro Fornero, né nella legge delega del Jobs Act, né nei suoi decreti attuativi relativi anche all’articolo 18, mai è stato scritto nei testi di legge che essi si riferivano ai soli lavoratori privati. Il governo Renzi lo ha affermato in interviste, ma ha preferito evitare di sancirlo per legge. Perché? Il motivo è presto detto: era diviso. Nel Pd c’era chi come il senatore Ichino sosteneva automaticamente l’applicazione del nuovo articolo 18 ai dipendenti pubblici, per le stesse ragioni addotte dalla Cassazione. E la stessa cosa, nella maggioranza, sostengono il sottosegretario al MEF Enrico Zanetti e i parlamentari di Scelta Civica. Al contrario molti altri esponenti del Pd, come Damiano o Baretta, erano per la tesi contraria, oltre alla maggior parte della minoranza del partito.

Ora che la Cassazione ha messo i puntini sulle i, per il governo si apriva un bivio. O adeguarsi senza battere ciglio, anche approfittando del fatto che molti degli oppositori Pd di allora sono intanto usciti dal partito. Oppure rinculare, e decidere di tutelare i lavoratori pubblici. E il governo sceglie questa seconda strada. Ritiene di avere già abbastanza problemi col rinnovo dei contratti pubblici – obbligati dalla Corte costituzionale, dopo 5 anni di blocco – e per il quale non ha soldi da stanziare (solo 300 milioni, che a mala pena coprono l’indennità di vacanza contrattuale). E dunque Renzi preferisce non aprire un altro fronte. I nuovi sessantamila assunti a ruolo nella scuola avrebbero iniziato a protestare subito.

Ma è un grande peccato. Un errore vero e grande. Non solo la reintegra giudiziale che resterà per i lavoratori pubblici tra gli italiani è incomprensibile e impopolare, a maggior ragione con i numerosi casi scandalosi che puntualmente avvengono anche a fronte di licenziamenti per macroscopiche mancanze disciplinari finché non si arriva al giudizio della Cassazione (anche se le norme disciplinari non prevedono di doverlo attendere). Inoltre, escludere dal lavoro pubblico il contratto a tutele crescenti è un errore anche perché consentirebbe di vagliare meglio la professionalità dei nuovi ingressi, concorso o non concorso vinto per accedere al ruolo. Ma soprattutto perché il fronte sindacale non è affatto unitario, nel difendere l’inapplicabilità ai lavoratori pubblici delle stesse regole del privato. Ieri a radio24, il segretario della funzione pubblica Cisl Faverin si è detto pronto alla piena parificazione tra pubblico e privato: il che significa non solo articolo 18, ma anche basta con le sospensioni unilaterali da parte dei governi dei contratti. Non cogliere né l’umore profondo degli italiani, né disponibilità sindacali a ragionare in modo nuovo, è un segno che la carica di innovazione tende a esaurirsi.

1
Dic
2015

Clima: a Parigi il solito inutile rituale

La narrazione ha il sapore del déjà vu. Quasi un rituale che si ripete ogni anno dall’ormai lontano 1992. Parliamo della conferenza sul clima che si è aperta ieri a Parigi. Per molti è “l’ultima chance di salvare il Pianeta” (come a Copenhagen nel 2009). Dopo, come ha sostenuto il Presidente francese François Hollande, “sarà troppo tardi”. I freddi numeri ci raccontano però una realtà assai diversa: stando ad un’analisi dell’MIT, se gli impegni volontari presi dalla maggior parte dei Paesi che partecipano alla conferenza saranno rispettati – ed i dubbi sono più che legittimi non essendo previsti meccanismi sanzionatori per eventuali inadempienze – l’effetto in termini di riduzione della temperatura del Pianeta al termine di questo secolo sarà dell’ordine dei due decimi di grado. Ancor meno entusiasmante è la stima dell’ambientalista “scettico”, il danese Bjorn Lomborg, secondo il quale l’impatto di Parigi sarà al più di 0,17 °C e comporterà un costo complessivo dell’ordine di mille miliardi di dollari per anno.

L’aspettativa “salvifica” nei confronti del summit parigino sembra quindi aggiungersi ai numerosi falsi miti di cui si alimenta il dibattito pubblico sui cambiamenti climatici ma che non trovano riscontro negli stessi documenti dell’IPCC, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa dei cambiamenti climatici.

Al centro dei più recenti negoziati sul clima vi è l’obiettivo di contenere l’aumento di temperatura rispetto ai livelli pre-industriali entro i 2 °C (oggi siamo a circa + 0,9 °C ossia a poco meno di metà strada). E’ questa una soglia da non oltrepassare per nessuna ragione? No, la scelta sembra essere arbitraria e senza basi scientifiche. Nel più recente rapporto del Panel dell’ONU, le evidenze disponibili in merito agli impatti dei cambiamenti climatici vengono sintetizzate in un grafico che evidenzia come fino ad un aumento di 2-2,5 °C gli effetti positivi del riscaldamento sono grosso modo equivalenti a quelli negativi.

La ricaduta complessiva può essere paragonata a quella di un anno di recessione economica: lo stesso livello di benessere che, in assenza del riscaldamento, sarebbe raggiunto nel 2100, verrebbe traguardato l’anno successivo.

Ciò nondimeno, nel lunghissimo periodo, le conseguenze negative avrebbero il sopravvento rispetto a quelle positive. Ma, se guardiamo al presente, il problema ambientale più rilevante è, ancora sulla base dei dati forniti dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, quello dell’inquinamento atmosferico all’interno delle abitazioni dei Paesi più poveri. Inquinamento dovuto, non all’eccessivo uso ma alla indisponibilità di fonti fossili ed al ricorso a combustibili “naturali”. Il problema interessa quasi 3 miliardi di persone e si stima che porti ad un numero di morti premature pari a 4,3 milioni per anno (la concentrazioni di polveri sottili all’interno delle abitazioni è di circa 1.000 microgrammi/metrocubo ossia venti volte superiore a quella che si registra nell’atmosfera di una città dell’Europa occidentale). Per tutti costoro un maggior consumo di carbone e di gas avrebbe immediate ricadute positive.

Questo è il dilemma cui siamo di fronte.  La riduzione dei consumi dei “ricchi” non potrebbe modificare, se non in misura molto modesta, le emissioni previste per questo secolo. Ad esempio, il peso dell’Europa sul totale della CO2 emessa a livello mondiale è già diminuito dal 20% del 1990 al 10% attuale e si ridurrà ulteriormente al 7% nel 2030. Circa tre quarti delle emissioni nei prossimi decenni verranno da Paesi a basso reddito. Imporre ad essi drastici tagli significa ostacolare quel processo di miglioramento delle condizioni economiche che ha portato negli ultimi tre decenni a straordinari risultati in termini di riduzione della povertà, della mortalità infantile, di incremento della speranza di vita e di miglioramento della capacità di difendersi dagli eventi climatici estremi. Il livello di benessere è assai più strettamente correlato al reddito che non al clima: Norvegia e Israele sono caratterizzati da climi assai diversi ma da analoghe condizioni di vita; Israele ed i Paesi arabi limitrofi condividono lo stesso clima ma sono separati da un ampio divario di sviluppo economico ed umano.

Peraltro, nei Paesi a reddito più elevato, a subire le conseguenze più negative dell’aumento dei costi dell’energia correlati alla incentivazione delle fonti rinnovabili  sono state le persone meno agiate.

Le politiche di contrasto ai cambiamenti climatici attuate finora non hanno avuto né avranno in futuro alcun effetto apprezzabile sull’evoluzione del clima (solo l’1,5% dell’energia mondiale proviene da solare ed eolico). Da Parigi, come detto, non ci si può aspettare nulla di diverso.  Come sottolinea l’Economist nel numero in edicola, sarebbe quindi auspicabile una drastica riduzione dei sussidi che i governi destinano alla incentivazione sia delle rinnovabili che delle fonti fossili. Una parte delle risorse così risparmiate potrebbe essere destinata ad attività di ricerca nel settore energetico al fine di sviluppare forme di produzione che siano al contempo a minor contenuto contenuto di carbonio, meno costose ed altrettanto affidabili di quelle oggi garantite dalle fonti fossili. Non sarebbe, neppure questo, un “pasto gratis”. Ma è un prezzo che può valer la pena pagare per evitare un improbabile ma grave rischio che potrebbe emergere nei prossimi secoli.

28
Nov
2015

Il bonus è un malus—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

I 550mila italiani che compiono diciotto anni potranno usufruire di una carta, un bonus di 500 euro per poter partecipare a iniziative culturali, come i professori.

L’ironia sulla politica dei bonus è ormai diventata uno sport nazionale, e va benissimo, ma sarebbe bene passare dalla satira comica ma un po’ ambigua alla Petrolini agli strali diretti e in toni gravi, perché la questione è serissima. Un antico adagio delle mie zone recita “piuttosto che niente è meglio piuttosto”, e questo motto popolare insieme ad uno dei più grandi filosofi italiani, Massimo Catalano, hanno sicuramente ispirato la politica economica del premier: è meglio un bonus cultura di 500 € a Natale o nessun bonus per tutto l’anno? A 18 anni con il bonus avrei fatto certamente un pieno di concerti. Ma amici meno frivoli di me a 18 anni lavoravano nei ristoranti per poi aprire il loro ristorante, imparavano i mestieri, di elettricista o estetista o liutaio, per poi aprire le loro botteghe: 1000 di lire li avrebbero voluti sì, certo, come primo mattone della loro futura attività. Read More

27
Nov
2015

Quel 64,8 % di tasse sulle imprese è il triste primato della miope Italia—di Francesco Bruno

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco Bruno.

“Più grande è la fetta presa dallo Stato, più piccola sarà la torta a disposizione di tutti”. Citando Margaret Thatcher, è evidente che allo Stato Italiano continui a star bene che la torta si sia ormai ridotta a poco più  di un bignè, come conferma l’ultimo rapporto Paying Taxes.

Il Paying Taxes è un report realizzato annualmente e congiuntamente dal colosso del consultino PricewaterhouseCoopers (PwC) e dalla World Bank che analizza principalmente tre indicatori con cui hanno a che fare le imprese di 189 Paesi: Total Tax Rate (carico fiscale complessivo sulle imprese), Time to comply (le ore impiegate dalle imprese per adempiere i loro obblighi fiscali) e Tax Payments (il numero di versamenti effettuati ogni anno). Read More