30
Dic
2015

Le piattaforme online tra regolamentazione e antitrust

Qualche riflessione sulle piattaforme online – il tema, come noto, è oggetto di una consultazione della Commissione Europea, che si concluderà il 6 gennaio. Inoltrandomi nella questione, intendo raccogliere alcuni dei molti spunti lanciati da Antonio Nicita in due ricchi interventi recentemente comparsi su Medialaws.

Il professor Nicita muove dalla constatazione, difficilmente opinabile, che la tradizionale ripartizione delle competenze tra regolamentazione (ex ante) e antitrust (ex post) appare oggi in crisi: si pensi ai casi in cui i garanti della concorrenza sono chiamati ad approvare concentrazioni o ad accettare impegni o in cui, per converso, i regolatori si trovano a comminare sanzioni o a conciliare controversie. Alla luce di ciò, procede delineando un modello ottimale d’interlocuzione tra le due funzioni, entro uno schema di «complementarietà dinamica», che sconfessa la dottrina statunitense della mutua esclusione, ma supera anche la dottrina europea della «speciale responsabilità». In un mondo di regole incomplete, la regolamentazione non potrà mai esaurire l’ambito dell’antitrust, ma nemmeno contentarsi di una coesistenza caratterizzata da una statica suddivisione delle prerogative: al contrario, dovrà con essa continuamente confrontarsi per ridefinire l’ambito della propria competenza, attraverso un costante processo di ri-regolamentazione (ma, aggiungerei, anche di deregolamentazione) marginale.

Un simile quadro solleva questioni di profondo interesse sotto il profilo istituzionale: da un lato, occorrerebbe scongiurare il pericolo che la maggior flessibilità nell’esercizio delle funzioni regolamentari affidasse alle autorità indipendenti un ruolo paralegislativo, in spregio delle (di per sé non insuperabili) garanzie previste per le libertà economiche; dall’altro, ci si può chiedere se l’efficacia di questo confronto intertemporale possa essere meglio assicurata da un assetto soggettivo pluralistico o “centralistico” –  è questo l’approccio accolto in Spagna, nel 2013, con l’istituzione della Comisión Nacional de los Mercados y la Competencia, che ha riunito in un unico organismo le competenze prima disperse tra sei diverse autorità: il garante antitrust e i regolatori dell’energia, delle telecomunicazioni, dell’audiovisivo, delle poste, dei trasporti.

Così articolata, però, la discussione pare trascurare alcuni elementi rilevanti. Il criterio cronologico (quando?) non soddisfa, oltre che per quanto osservato dal professor Nicita, anche per un motivo ulteriore e più radicale: ogni intervento ex ante trova origine in una determinata configurazione di mercato (e ha, dunque, anche un contenuto di controllo successivo); allo stesso modo, ogni provvedimento ex post dispone implicitamente per il futuro (e ha, dunque, anche efficacia preventiva). I metodi di lavoro (come?), nonostante alcune perduranti e ancor significative differenze, tendono a convergere. L’interesse complessivo a un mercato competitivo rimane il fine ultimo condiviso (perché?). All’aspetto soggettivo (chi?) abbiamo già fatto cenno. In cosa risiede, allora, il vero discrimine tra regolamentazione e antitrust: nell’ampiezza e nelle ragioni peculiari dell’oggetto dello scrutinio (cosa?), che può essere generale o specificamente individuato, sulla base di una tipizzazione legislativa, per così dire, di un pericolo di potere di mercato.

Sappiamo benissimo – e ce lo siamo ribadito molte volte – che la storia della regolamentazione settoriale, in Europa, si lega a quella delle liberalizzazioni nelle industrie a rete; e sappiamo benissimo che, in quel disegno originario, quella della regolamentazione settoriale era considerata come una fase transitoria, destinata a lasciare il passo nel medio termine al generale diritto antitrust. La regolamentazione, insomma, era vista come uno strumento residuale da invocare solo in circostanze straordinarie, come lo smantellamento dei monopolî pubblici dopo svariati decenni. E, tuttavia, le autorità indipendenti godono ancora di ottima salute: se guardiamo all’Italia, non solo nessuno degli organismi istituiti in occasione dell’apertura di quei mercati è stato in seguito abolito, ma anzi la categoria si arricchisce frequentemente di nuovi membri, taluni dei quali di dubbia classificazione.

Allora, pur concordando con il professor Nicita sulla scarsa precisione della distinzione ex anteex post,  preferirei ragionare di come adeguare l’attrezzatura antitrust ai mercati del 21º secolo, piuttosto che di come rimodulare la convivenza con la regolamentazione, quando invece le esigenze alla base di quest’ultima appaiono sempre più sfumate. Anche perché una simile riflessione rischia di favorire le sortite di chi vorrebbe, paradossalmente, generalizzare il ricorso alla regolamentazione specifica.

È ragionevole, alla luce di queste scarne osservazioni, pensare a una regolamentazione delle piattaforme online, iniziativa di cui la citata consultazione (anche alla luce della formulazione piuttosto parziale) pare essere il preludio? (Qui uso il termine “regolamentazione” nel significato più ampio di disciplina – anche legislativa – di un’attività economica; e, del resto, il dibattito in sede comunitaria non consente, al momento, indicazioni più precise.)

Prima di rispondere, dobbiamo chiederci cosa sia una piattaforma. La definizione accolta nel questionario della Commissione è apparentemente coerente, riferendosi a «un’impresa operante su mercati bilaterali o multilaterali che utilizza internet per consentire interazioni tra due o più gruppi distinti ma interdipendenti di utenti al fine di generare valore per almeno uno dei gruppi». Tuttavia, i problemi cominciano con l’interpretazione autentica: esempi di piattaforme sarebbero Google e Paypal, Amazon e Linkedin, Uber e Netflix – e persino Apple TV, che i burocrati della Commissione ignorano essere un apparecchio. Cos’hanno in comune questi soggetti? Ben poco. Si accostano imprese che operano su mercati a un versante e su mercati a più versanti, servizi caratterizzati da significativi effetti di rete e altri con effetti di rete nulli o quasi, diversi modelli di monetizzazione, diversi modelli di utilizzo dei dati personali, diversi modelli di fidelizzazione.

La categoria di piattaforma, così ampiamente intesa, non solo non dice nulla sul peso competitivo dei soggetti che vi rientrano, ma ci fa perdere di vista il riferimento essenziale dell’analisi regolamentare: il mercato rilevante. Ne discende il pericolo d’imporre forme di regolamentazione asimmetrica a operatori attivi nel medesimo mercato, ma con modelli industriali differenti. Occorre ricordare che il parametro comune alla regolamentazione e all’antitrust è quello del potere di mercato; in particolare, anche le caratteristche più frequentemente associate alla categoria delle piattaforme – gli effetti di rete, i lock-in, l’imposizione di standard – preoccupano in tanto in quanto si accompagnano a un sostanziale potere di mercato.

È difficile non intravvedere nell’iniziativa della Commissione l’ennesimo capitolo di una crociata protezionistica contro una categoria d’imprese, le multinazionali del digitale, che l’Europa combatte con sempre maggior determinazione su multipli fronti, nonostante le smentite di rito. Sfortunatamente, sparare nel mucchio non danneggia unicamente le imprese colpite, ma anche gli innovatori e i consumatori europei. Un atteggiamento più serio sarebbe quello d’identificare caso per caso le criticità sul piano concorrenziale (ma anche su quello della responsabilità degli intermediari; o su quello della riservatezza; o su quello della tutela degli utenti…) e affrontarle con gli strumenti che già oggi l’ordinamento comunitario mette a disposizione.

In termini generali, le piattaforme sembrano soggette alle stesse dinamiche che abbiamo visto dominare il capitalismo digitale di questi ultimi decenni: la successione di monopolî temporanei, sempre minacciati dalla competizione potenziale; l’ascesa repentina di nuovi operatori; il rimescolamento dei servizi e la continua revisione dei confini dei mercati; l’aumento della consapevolezza degli utenti; il perenne ritardo dei regolatori. Tutti questi elementi inducono a credere che anche per le piattaforme la partita competitiva sia appena cominciata; e raccomandano prudenza ai soggetti investiti della vigilanza.

Ma si chiede il professor Nicita: e se, in un mondo in cui sempre più il prodotto coincide con il mercato, la probabilità di sparigliare innovando si riducesse? Confesso che fatico ad appassionarmi ai dilemmi sulla fine della concorrenza. Mi pare che gli stessi fattori che hanno favorito l’ascesa degli attuali monopolisti pro tempore (costi di transazione ridotti, effetti di rete, modelli industriali basati sui dati) possano domani agevolare l’emersione di nuovi operatori e servizi; e se la concorrenza si giocherà tra “prodotti” o tra “mercati” è questione, in larga misura, nominalistica. Senza dimenticare che l’evidenza di cui disponiamo ci parla di consumatori nomadi e smaliziati, che non amano i rapporti esclusivi – la parola chiave è multi-homing. Probabilmente, la concorrenza non è affatto destinata a morire, ma sta semplicemente cambiando forma.

Questo renderà più complicato il lavoro delle autorità? Senz’altro, se pretenderanno di governare il cambiamento con le nozioni abituali. Ma non necessariamente, se accetteranno di dover adeguare il proprio armamentario concettuale e il proprio modus operandi.  Si tratta di uno sforzo considerevole, ma ben ricompensato: vivamo nell’epoca più eccitante della storia e i regolatori hanno un posto in prima fila.

28
Dic
2015

Smog, l’emergenza che non c’è

Tutto è cambiato nella realtà ma quasi nulla nell’informazione. Per lo smog è sempre emergenza, quest’anno come dieci o venti anni fa. E, di fronte all’emergenza, non resta che adottare misure eccezionali: blocchi del traffico, targhe alterne, mezzi pubblici gratuiti. Eppure, da ormai molti anni, la strada è segnata e la direzione di marcia è quella giusta. “E’ difficile fare le previsioni, soprattutto per il futuro” sosteneva il nobel danese Niels Bohr. Vero in generale ma quella della qualità dell’aria è la classica eccezione che conferma la regola. E’ possibile affermare senza timore di essere smentiti che, al di là delle oscillazioni annuali correlate alle condizioni meteorologiche più o meno favorevoli alla dispersione degli inquinanti, tra cinque anni la situazione sarà migliore rispetto a quella odierna e la tendenza verso il “bello stabile” sarà ulteriormente rafforzata nel prossimo decennio.

Contrariamente a quanto ritiene la maggior parte degli italiani, l’inquinamento atmosferico nelle nostre città è in calo da svariati decenni. Pensiamo, ad esempio, alle famigerate polveri sottili, quel PM10 che, ci dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità, rappresenta il parametro più significativo per valutare gli effetti sulla salute. Ebbene, nei primi anni ’70 in una città come Milano o Torino, la concentrazione media annuale di queste polveri era superiore ai 150 microgrammi per metrocubo di aria. Oggi le centraline di rilevamento ci forniscono valori medi nell’intorno dei 40-50 microgrammi. Vi è quindi stata una flessione dell’ordine del 70%.

L’aspetto più intrigante di quanto accaduto finora è quello relativo al settore della mobilità. Il miglioramento della qualità dell’aria si è infatti manifestato non perché abbiamo avuto successo ma nonostante il sostanziale fallimento di quelle politiche di riequilibrio modale (meno auto, più autobus e più treni) che, a partire da Bruxelles per arrivare fino alla più piccola amministrazione locale, sono invariabilmente presentate come essenziali ai fini della sostenibilità ambientale. L’elemento che ha contribuito in misura quasi esclusiva alla riduzione delle emissioni è stato rappresentato dall’avanzamento tecnologico dei veicoli. Una vettura  a gasolio immatricolata negli anni ’80 dello scorso secolo immetteva in atmosfera una quantità di sostanze inquinanti pari a quella che oggi fuoriesce dai tubi di scappamento di circa una ventina di auto. In assenza dell’abbattimento delle emissioni unitarie, l’aria delle nostre città non solo non sarebbe migliorata ma avrebbe conosciuto un progressivo peggioramento.

Il naturale rinnovo del parco veicolare nei prossimi anni con il conseguente adeguamento di tutti i mezzi ai più recenti standard normativi determinerà un ulteriore contenimento delle emissioni e, quindi, degli effetti negativi sulla salute. Effetti da non sottovalutare ma neppure da sovrastimare. Una spasmodica attenzione verso l’inquinamento collettivo può infatti ridurre l’attenzione dei cittadini sul più grave e rimediabile dei fattori di rischio sanitario: il comportamento individuale. Al riguardo si segnalano le parole di Umberto Veronesi: “un atteggiamento, inaccettabile, è quello di cambiare la realtà dei fatti. Un luogo comune, molto diffuso, è quello di affermare che l’inquinamento atmosferico, specie in città, è tale che una sigaretta in più o in meno non fa alcuna differenza. È un’affermazione sbagliata e priva di senso: l’inquinamento cittadino provoca bronchiti, allergie, ma la possibilità che provochi tumore al polmone è minima rispetto a quella del fumo di sigaretta. Pochi lo sanno, ma nell’arco alpino, ad esempio in Friuli, dove si fuma molto, l’incidenza del cancro al polmone è superiore (e la speranza di vita inferiore) a quella che si registra in città come Milano o Genova. Impegnarsi per un ambiente più pulito è giusto, ma questo non deve distoglierci dalla lotta contro i tumori”. L’Italia del nord che è una delle zone europee ove, a causa delle particolari condizioni meteorologiche,  più elevate sono le concentrazioni di inquinanti e dove, stando ad un recente rapporto dell’Agenzia Europea per l’ambiente, vi è il record di morti premature per smog  è anche in testa alle classifiche relative all’aspettativa di vita media che è pari a quella della Spagna e superiore di oltre un anno rispetto a quella di Germania e Regno Unito e di alcuni mesi rispetto alla Francia.

Forse, accanto alla giusta attenzione per la salute e per la ambiente, dovremmo iniziare a preoccuparci anche delle conseguenze economiche delle scelte in materia di politica dei trasporti: ogni auto in meno (ed ogni autobus) in più che circola sulle nostre strade comporta una riduzione delle entrate fiscali ed un aumento della spesa pubblica e, quindi, un peggioramento di quel debito pubblico che se la passa assai peggio del cielo di Lombardia.

23
Dic
2015

RAI: le promesse della Leopolda e l’amara realtà

La riforma della Rai è legge. L’azienda è nata nel 1954, è sempre stata la concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo italiano. In seguito al referendum popolare del 1995 è stata abrogata la legge che riservava esclusivamente alla mano pubblica il possesso delle azioni Rai, ma non si è mai proceduto alla privatizzazione. Resta al 99,5% del MEF, e il resto è della SIAE. Ha 23 pletoriche sedi regionali, 4 centro di produzione, oltre 11mila dipendenti.

Per valutarne la riforma, partiamo da quanto si affermava sulla RAI alla Leopolda del 2011. Il sedicesimo dei 100 punti programmatici lanciati allora dalla kermesse renziana affermava: «Oggi la Rai ha 15 canali, dei quali solo 8 hanno una valenza “pubblica”. Questi vanno finanziati esclusivamente attraverso il canone. Gli altri, inclusi Rai1 e Rai2, devono essere da subito finanziati esclusivamente con la pubblicità, con affollamenti pari a quelli delle reti private, e successivamente privatizzati>>. Il punto successivo delineava la nuova governance del dimagrito servizio pubblico: «Dev’essere riformulata sul modello Bbc (Comitato strategico nominato dal presidente della Repubblica che nomina i membri del Comitato esecutivo, composto da manager, e l’amministratore delegato). L’obiettivo è tenere i partiti politici fuori dalla gestione della televisione pubblica».

Di quelle ottime intenzioni, non è rimasto NIENTE. Il punto forte della riforma è un amministratore delegato che, a differenza del vecchio direttore generale ingessato da presidente e cda di nomina politica, ha molti più poteri. E’ però espressione diretta del governo, visto che è nominato su proposta del Tesoro. Può nominare i dirigenti, ma per le nomine editoriali deve avere il parere del cda. Assume, nomina, promuove e stabilisce la collocazione anche dei giornalisti, su proposta dei direttori di testata. Il consiglio di amministrazione resta politico: su 7 membri 4 sono eletti da Camera e Senato, 2 nominati dal governo, uno scelto dai dipendenti. Anche nel cda, il potere del governo risulta molto rafforzato. Ci sarà un presidente di garanzia, eletto dal cda tra i suoi membri ma solo se confermato a maggioranza dei due terzi dalla commissione parlamentare di vigilanza. Un altro incarico iperpolitico. Altro che tenere i partiti fuori dalla gestione della Rai: a dare l’indirizzo sarà di volta in volta il governo che avrà vinto le elezioni. Si torna indietro persino rispetto alla riforma del 1975: ha ragione Enrico Mentana.

Viene protratto da 3 a 5 anni il contratto di servizio pubblico, che dovrebbe scandire le finalità attuative della concessione: in Rai vale così poco che l’ultimo è scaduto dal 2012 e non è stato rinnovato. Tanto si sa già che la concessione a fine 2016 sempre alla Rai verrà rinnovata, mica per gara pubblica. L’unica novità vera potrebbe essere la consultazione pubblica che viene indicata in legge prima del rinnovo della concessione, dunque entro fine 2016. Ma il rischio è che sia di pura facciata, come finora quelle preventive alle riforme introdotte dall’attuale governo. Nella legge di riforma andava ridefinito il perimetro, le risorse e le finalità del servizio pubblico. Ma nella riforma non si è fatto.

La Rai potrà contare su molte più risorse, questo sì. Anche su questo ha ragione Enrico Mentana: è un calcio in faccia della politica ai concorrenti privati della RAI. Il budget 2016 approvato la settimana scorsa prevede una chiusura a sostanziale pareggio (rosso di 3 milioni dopo le imposte), grazie al massiccio aumento di ricavi da canone in bolletta elettrica (Rai stima prudenzialmente fino a 180mln, c’è chi pensa fino a 420..); pubblicità in crescita di 40 milioni a quota 700 milioni; ricavi totali attorno ai 2,7 miliardi, di cui poco meno di due terzi dal canone. Nel 2016 si prevede appunto un’importante recupero sul canone grazie alla sua inclusione in bolletta elettrica: il tasso di evasione è previsto dalla RAI scendere fino all’8%, contro una media attuale stimata almeno al 27% delle famiglie e con punte oltre il 40% in alcune regioni. Ma  l’evasione contenuta fino all’8% è prudenziale, visto che il mancato pagamento delle bollette elettriche non supera il 4-5%. Il pagamento del canone in bolletta darà vita a un’inevitabile contenzioso, visto che le banche dati non si parlano. Ed è a carico dei gestori elettrici.

A ritroso, la Rai ha registrato perdite di 62 milioni nel 2009, 98 nel 1010, 4 milioni di utile nel 2011, 244 milioni di perdite nel 2012, 5 milioni di utile nel 2013, e 57 ancora di utile nel 2014, grazie all’incasso di 280 milioni dal collocamento in Borsa del 35% delle torri di trasmissione Raiway. La gestione Gubitosi ha fatto i salti mortali per contenere le perdite, almeno in questo è riuscita. Nel periodo considerato, la diminuzione del patrimonio netto (capitale e riserve) è stato però di oltre la metà di quello a fine 2008. Adottando parametri economici di mercato, la Rai com’è oggi tende ad avere un valore economico netto negativo. Ha più dipendenti di Mediaset, Sky e La 7 messe assieme, cui si aggiungono alcune decine di migliaia di collaboratori. Il costo del lavoro incide per il 35%, contro il 13,4% di Mediaset e il 7,3% di Sky. I giornalisti sono oltre 1700: Bbc News, il più grande network mondiale di informazione, ne ha poco meno di 2000.

Visto che non si privatizzerà, sarebbe stato utile almeno ridefinire il servizio pubblico. Non esiste in Europa un modello unico. C’è un modello “liberale”, come in Gran Bretagna, dove il servizio pubblico è molto indipendente dalla politica del governo. C’è un modello “pluralista polarizzato”, con livelli considerevoli di lottizzazione e clientelismo politici, con l’Italia al peggio, insieme alla Spagna e alla Grecia del pre-default. C’è poi un modello di “stakeholder sociali”, a cavallo tra politica, fondazioni, consumatori, enti locali: tipico dei paesi scandinavi, e di Olanda, Austria, Svizzera, Belgio e Germania. Il modello “mediterraneo” è quello più inefficiente, per conti economici e ascolti. Se la BBC ha ancora il 50% dello share radio-televisivo, l’Italia vede la Rai combattere per quote molto più basse. Ci sono paesi che hanno abolito il canone come Spagna, Olanda e Polonia, sostituendolo spesso con fiscalità generale. Altri che concentrano il canone solo sulle reti di servizio pubblico come la BBC, ma a quel punto zero spot, riservati alla reti non legate al contratto di servizio pubblico come BBC World.

Verso quale di questi modelli andare anche in Italia, nella discussione della riforma non si è parlato. La Rai leverà gli spot dalla reti per l’infanzia, ma per il resto si parla solo di multimedialità digitale. Vedremo il futuro che cosa ci riserva. Al momento, la riforma è un’enorme occasione mancata. Che invece aveva ottime premesse. E che rivela la distanza tra quanto renzi promette, e quanto fa in concreto.

 

16
Dic
2015

I governatori pd battono Renzi: no a trivellazioni, senza una sola parola

No, non ci siamo proprio. La disattenzione generale alla bandiera bianca issata dal governo su ricerca e produzione di idrocarburi in Italia è l’estrema conferma di un paese che dei temi energetici non vuole e non sa discutere. Non si tratta solo dei politici, anche se loro per primi su questa questione preferiscono facile consenso a scelte serie. Che, dopo tanti anni passati ad accarezzare il pelo della demagogia antisviluppista andrebbero spiegate, e alienerebbero simpatie. E dunque perché rischiare? L’economia nazionale ne pagherà il conto in futuro, ma i voti sono oggi, e chi pensa alla prima e non ai secondi è perduto. Così ragionano troppi politici. Ma è anche vero che le loro scelte irresponsabili avvengono in un traumatico generale silenzio. Donne e uomini della finanza e dell’impresa tacciono, rassegnati e disillusi. I media, per parte loro, tranne rare lodevoli eccezioni non hanno quasi dato la notizia.

Pressato dai 6 quesiti referendari presentati a settembre da 10 regioni di cui 8 a guida Pd sugli articoli del decreto sblocca-Italia del 2014, il governo ha deciso di rimangiarsi la scelta che aveva fatto, quando si era tornati ad autorizzare ricerche ed estrazioni entro i 22 chilometri di acque costiere italiane. Dopo il divieto posto dalla ministra Prestigiacomo nel 2010. Le regioni hanno di conseguenza già vinto, prima ancora che a metà gennaio la Corte costituzionale si pronunci sull’ammissibilità dei quesiti. Il governo ha oggi troppi guai con il Pd dei territori in vista delle amministrative, per prendere sul serio al questione energetica italiana. Tanto vale gettarla alle ortiche. Senza enfasi. Tanto, cosa volete che sia…

Che depressione viene, constatando che a quasi nessuno ieri è sembrato importare un fico secco. Siamo l’unico paese al mondo ad aver posto un limite così sciocco. Possiamo esserne fieri? Siamo meglio della Norvegia e della Scozia? E per di più siamo dipendenti dall’estero per il 90% del nostro fabbisogno energetico, oggi che i prezzi sono bassi se ne vanno 3 punti di PIL l’anno per pagare petrolio e gas altrui. Ma col petrolio a 90 dollari il falò del PIL arrivava a 5-6 punti percentuali. Le illusioni ad alto incentivo pubblico delle affamate lobby ambientaliste ( siccome pioveranno le critiche: non sono affamate solo loro, sono affamate tutte le lobby, quella “rinnovabilista” compresa) dimenticano che nel 2014 il fabbisogno energetico mondiale è stato coperto all’87% dalle tre fonti fossili, carbone petrolio e gas. Poi da nucleare e idroelettrico , ma le altre fonti rinnovabili hanno contribuito solo per 0,6miliardi di tonnellate equivalenti petrolio su un consumo totale di oltre 13 miliardi.

Ma dei numeri in ballo per l’economia italiana futura sembra importare poco o niente a nessuno. I leader del Pd alla testa delle regioni hanno usato la questione per un doppio fine politico. Dimostrare al Renzi segretario Pd che si può dimenticare di essere lui da solo, a decidere per tutti. E rendere chiaro a Renzi presidente del Consiglio che lui potrà pure cambiare il Titolo V° della Costituzione riaccentrando le competenze su scelte strategiche come l’energia a Roma, ma intanto se la Corte costituzionale autorizza questi referendum sul facile tema del no al petrolio i governatori lo sconfiggono, e il governo a quel punto può scordarsi di riaccentrare tutto in ogni caso. Di qui la silente decisione governativa: dai ragione ai referendari, in modo che il referendum non si tenga. Poi si vedrà.

Una classica partita politica italiana: in cui i fini contano cento volte più dei mezzi con cui li si persegue, l’interdizione e il veto esprimono il potere assai più della cooperazione, e l’indifferenza per le conseguenze sostituisce l’interesse nazionale. La sorpresa, piuttosto, è la capitolazione improvvisa e muta di Renzi. Evidentemente non ha troppo torto, chi ha avuto l’impressione di una Leopolda di crisi e non d’innovazione.

A questo punto, è fin troppo facile prevedere che il divieto di ricerca ed estrazione diverrà totale, esteso anche a terra. Il governo spiegava riservatamente ieri che con questo mossa comunque si pensa di poter difendere i progetti intanto partiti. Dei 107 progetti di ricerca già concessi, 23 erano su fondale marino, e 41 quelli ai diversi gradi di esame, dalla preistruttoria alla valutazione ambientale. Concentrati soprattutto nel mare Adriatico, al largo delle coste romagnole abruzzesi e pugliesi, e nello Ionio di fronte alle coste pugliesi, calabresi e lucane. Per ciascuno di questi, è sorta una forte opposizione ambientalista. Con questo nuovo ripensamento del governo, si dà un’altra feroce botta alla credibilità necessaria ad attirare investimenti internazionali energetici in Italia. Come se ce ne fosse bisogno.

Nel 2014 la produzione italiana di idrocarburi ha soddisfatto il 10% del consumo totale nazionale, per un totale di 11,7 milioni di tonnellate di petrolio, olio combustibile per 5,7 milioni di tonnellate equivalenti petrolio, e gas per 5,9mln di TEP. Ma le riserve ragionevolmente accertate italiane ammontano all’equivalente di 10 anni di tali estrazioni. Mentre quelle potenziali stimabili giungono fino a 700 milioni di tonnellate equivalenti petrolio, per la maggior parte al Sud e in Sicilia. Naturalmente gli ambientalisti negano le stime, dicono che gli idrocarburi sono di bassa qualità, ripetono che tanto le riserve sono limitate. La loro alternativa è importare tanto, e un bel falò annuale di miliardi del contribuente annui a favore delle lobby rinnovabiliste.

Né all’Italia intera né al Sud devastato da questi ultimi anni sembrano interessare le pingui royalties che resterebbero sui territori (del 10% per le estrazioni di idrocarburi a terra e in mare, e del 7% per il petrolio in mare), gli occupati nell’indotto, le infrastrutture di trasporto e di raffinazione da realizzare localmente se si percorresse la strada di aumentare l’ìindipendenza energetica nazionale, il reddito che tutto ciò genererebbe, e che cosa si potrebbe fare invece di meglio migliorando la bilancia commerciale e incassando più gettito da idrocarburi di produzione nostra.

Le regioni hanno vinto la loro battaglia su Roma, i ras locali del Pd sul loro segretario. Questo solo conta, e sono le amare priorità di un paese senza priorità vere. Lo dico con il più profondo rispetto per chi si batte verso un mix energetico in cui le fonti fossili – che useremo ancora a lungo come largamente maggioritarie a coprire il fabbisogno – convivano con una maggior quota di rinnovabili: ma a patto che il mix sia perseguito con un’attenzione maniacale al conto economico generale dei costi-benefici per l’economia nazionale. Ancora una volta, invece, eccoci in presenza di decisioni che nascono da tutt’altro fine, e senza che nessuno si sia ropeso la minima briga di giustificarle con qualche numero.

 

11
Dic
2015

Banche e bail in: la prova delle colpe di Bankit e Consob

Personalmente, sono attonito da quel che sta avvenendo nella vicenda della “risoluzione” delle 4 banche italiane avviata per decreto legge dal governo. E’ senza precedenti storici la durezza dello scontro frontale con l’Unione europea avviato tre giorni fa dall’audizione in parlamento di Bankitalia. E’ senza precedenti la dura smentita immediatamente venuta a via Nazionale dalla Commissione. E’ senza precedenti il rilievo da Bruxelles che le banche italiane vendano ai loro correntisti e clienti retail prodotti finanziari riservati per rischio agli investitori istituzionali. Ma invece di occuparsi del merito della vicenda, per capire se abbiano ragione i regolatori nazionali e quali siano le loro responsabilità, le reazioni dominanti sui media italiani sono tutte ispirate a una specie di giusta rivalsa contro una perfida Europa che vuole metterci sotto. Leggo sull’editoriale di oggi del Corriere della sera che “non ci si può illudere di affrontare il problema (cioè le banche fallite) facendone pagare il conto maggiore a risparmiatori e azionisti nella grande maggioranza, riteniamo, alquanto ignari”. Gesù prega per noi, se siamo al punto di dover spiegare al primo giornale d’Italia che gli azionisti sono investitori che partecipano a un capitale di rischio, e non depositanti.

Ma poiché per toccare tutte le questioni venute al pettine servirebbe un libro e non un articolo, mi fermo solo su alcuni punti.

Abbiamo appreso da Bankitalia in parlamento che via Nazionale era per posticipare l’attuazione del meccanismo di risoluzione europeo – il cosiddetto bail in – almeno fino al 2018. E che ne chiedeva l’applicazione solo per le obbligazioni subordinate bancarie emesse successivamente alla sua entrata in vigore. Questa seconda richiesta è molto singolare: è ovvio che le procedure di risoluzione si applichino alle diverse componenti del capitale in essere, non a quelle “a venire”. La prima spiega invece perché Bankitalia, insieme all’ABI, abbiano ripetuto e fatto scrivere a tutti i giornali italiani per tutto il 2015 che depositanti e obbligazionisti della banche italiane – anche di quelle commissariate – non dovevano preoccuparsi: perché sarebbe stata varata una bad bank italiana con il consenso europeo per smaltire la mole di 340mld di credito deteriorato in pancia alle banche italiane, e perché alla ricapitalizzazione delle commissariate avrebbe pensato il Fondo Interbancario di tutela dei depositi. Peccato che, a chiunque si occupasse di tali cose, risultasse evidente sin da inizio anno che non ci sarebbe stata né l’una né l’altra cosa. Perché la Ue non avrebbe autorizzato una bad bank attraverso cessioni dei crediti deteriorati effettuata a un prezzo diverso da quello bassissimo praticato dal mercato rispetto ai valori di libro, per di più a un veicolo ad hoc a garanzia pubblica di CDP. E perché l’intervento già deliberato a fine 2014 su Tercas dal Fondo Garanzia Depositi aveva ottenuto già nel febbraio scorso una dura critica da parte europea, per la stessa ragione e cioè per aiuti di Stato. La memoria di allora della Commissione è molto chiara, e non configura una bocciatura piena come Bankitalia ha invece detto due giorni fa al parlamento: dice invece che si può usare il Fondo garanzia depositi – malgrado esista per tutelare i depositanti e non gli obbligazionisti – se e solo se non configura aiuti di Stato, e cioè se il suo intervento è giustificato da una congrua valutazione di analisi costi-benefici che dimostri inequivocabilmente che sarebbe più onerosa una qualunque altra soluzione praticata da soggetti di mercato a prezzi di mercato. Come e perché Bankitalia dimentichi tutto ciò e addossi alla Ue la responsabilità di aver escluso a tavolino una soluzione per la quale Bruxelles aveva indicato la condizione nella quale poteva essere attuata, per me resta un amaro mistero. Sta di fatto che per queste ragioni dai vertici del regolatore bancario e dell’associazione bancaria per tutto l’anno e fino a pochi giorni prima dell’intervento del governo è stato detto ad azionisti, obbligazionisti e correntisti bancari di non preoccuparsi. Sulla base di valutazioni rivelatesi completamente infondate.

In realtà abbiamo sempre saputo che dal primo gennaio sarebbe entrato in vigore il bail in. Ma ecco che sulle 4 maggiori commissariate scatta in pochi giorni un’operazione di emergenza, per evitare che ricada nella piena vigenza della direttiva europea che parte da gennaio, e che Bankitalia non condivide. La sorpresa di decine di migliaia di obbligazionisti subordinati dei 4 istituti esplode, ed ecco che in poche ore la colpa viene riversata da Bankitalia e dal governo sulle spalle dell’Europa. Ancor oggi non sappiamo molte cose essenziali, dell’operazione. Chi ha davvero effettuato la scelta dei crediti deteriorati passati alla bad bank? Chi ne ha giudicato la qualità dei collaterali e delle garanzie escutibili? Le 4 banche commissariate? La vigilanza di via Nazionale? Il Fondo di Risoluzione bancario, creato a via Nazionale e che in teoria dovrebbe essere indipendente e separato dalla vigilanza? Ma come avrebbe potuto farlo, se era stato creato solo un paio di giorni prima? Chi ha deciso insomma l’abbattimento dell’83% del valore di cessione dei NPL alla bad bank rispetto a quelli di libro? Bankitalia dice che è stata Bruxelles a imporlo. Esiste un documento che lo certifichi, e che abbia dunque impedito un giudizio per classi e qualità dei crediti?

A sapere con certezza che il bail in scatta tra pochi giorni c’era anche la politica italiana: visto che al parlamento europeo sinistra e destra l’hanno votato, e persino la Lega si è solo astenuta. Chi l’ha votato, dovrebbe per elementare dovere spiegare perché il bail in è meglio del bail out, e perché ci siamo arrivati. E’ meglio perché nei fallimenti bancari separa i soldi pubblici dei contribuenti dal doversi far carico di sanare le banche, accollandone l’onere alle banche stesse: cioè in primis agli azionisti, e poi in gradienti diversi a chi è più vicino a vantare crediti assimilabili al capitale della banca; ergo in primis gli obbligazionisti subordinati, poi quelli ordinari, e infine quando e solo se davvero necessario fino ai depositanti, per le somme superiori ai 100mila euro. E ci siamo arrivati proprio perché, fino al 2013, molti paesi europei hanno fatto invece massicciamente uso di finanza pubblica. Ora il ridicolo è che l’Italia è stata tra coloro che vi ha fatto meno ricorso – i tedeschi per quasi il 6% del PIL, noi per neanche mezzo punto, praticamente nel solo caso MPS – eppure oggi protesta brutalmente chiedendo di poterlo fare a propria volta, a regole cambiate: dopo aver concorso alla nuova direttiva che serve proprio a impedire quel che oggi politica e media in Italia sembrano invocare.

Ma veniamo al punto che, minoritariamente, è a nostro giudizio quello centrale. I regolatori italiani – Bankitalia per la vigilanza, e Consob che è responsabile della trasparenza e correttezza nell’emissione e sottoscrizione di titoli – hanno davvero la coscienza a posto? O per caso siamo in presenza di una colossale emissione di cortine fumogene, e per questo scatta la parola d’ordine “è colpa dell’Europa a guida tedesca?”. E’ un punto che non trovate sviluppato a dovere, sui media italiani. Ha un aspetto sostanziale, e uno formale.

Cominciamo da quello sostanziale. E’ vero o no, che c’è stato chi per anni ha tentato di attirare l’attenzione sul credito relazionale praticato massicciamente nel sistema bancario italiano, sui sovraffidamenti a soci e amministratori, sulle improprie reti collusive che aggiravano le norme sulle parti correlate, sulla disinvoltura con cui tramite incentivi alla rete di sportelli ai correntisti, e a chi chiedeva prestiti e mutui, si piazzavano azioni e obbligazioni delle stesse banche, azioni talora a valori non di mercato ma fissati stellarmente dagli stessi cda, titoli attraverso i quali il management di popolari e credito cooperativo si eternava al comando? Oppure c’è stato chi sollevava il problema, ma è stato sempre tacitato come un reietto provocatore, perché avevamo le banche più sane e prive di rischi al mondo, come ancora ha incredibilmente affermato Padoan l’altro ieri? E’ vero o no, che il più degli aumenti di capitale nel sistema bancario italiano è scattato tra fine 2013 e 2014, quando ormai si approssimava entro pochi mesi la vigilanza comune BCE sulle maggiori banche? E’ vero o no, che in molti dei commissariamenti adottati c’erano tutti gli elementi per farli scattare con uno o due o più anni di anticipo, a cominciare dalla BPEL che fino a metà 2014 Bankitalia ha tentato di dare invece alla Popolare di Vicenza, quando, già 2 presidenti prima del commissariamento, Fornasari era stato eletto alla guida della banca grazie a un voto illegittimo, espresso a maggioranza da un socio sovraffidatario? In piccolo ho maturato la mia amara e personalissima opinione su queste domande, a cominciare da quando diversi anni fa fa fu chiuso un giornale che dirigevo dopo aver scritto di ciò che non tornava nel patrimonio di vigilanza di un certo istituto bancario, dal quale aveva rilevanti affidamenti l’allora mio editore. E’ il motivo per il quale ho deciso di diventare un free lance e campare facendo anche altro, stufo di avere liste appese davanti agli occhi di chi “è meglio non disturbare”. L’intreccio di soci e affidamenti bancari, valori stimati all’attivo e al passivo di entrambe le parti, è il vero reticolo dell’economia italiana. Questo spiega, del resto, l’atteggiamento maggioritariamente compiacente dei media italiani.

Veniamo al punto formale. L’accusa europea sulla vendita disinvolta da parte delle banche italiane ai propri clienti retail di prodotti finanziari il cui rischio dovrebbe vederli obbligatoriamente destinati a investitori istituzionali. Ricordate i tango bond argentini? Costarono all’Italia un punto di Pil di risparmio, cifra di poco superata poi dal crac Parmalat. Nel caso argentino, eravamo l’unico paese al mondo a concentrare tanti titoli rischiosi tra risparmiatori retail. E’ rimasto questo vizio alle banche italiane, oppure no? La mia risposta – evidentemente da alieno, forse vivo in un altro mondo rispetto alla realtà che vedo difesa dai media italiani – è che no, quel vizio non è stato abbandonato. Lo testimoniano pile di lettere e mail che ricevi ogni giorno da chi ti descrive come è stato invitato a sottoscrivere questa o quella obbligazione, a cominciare dai dipendenti bancari stessi, per continuare coi depositanti, e con chi alla richiesta di un prestito si è visto proporre- imporre titoli o azioni della banca stessa.

E’ ben per questo, che siamo stati per anni il paese OCSE con la più alta percentuale di obbligazioni bancarie nel portafoglio delle famiglie: un comodo canale di raccolta diretta. Nella relazione annuale Consob potete osservarne l’evoluzione anno per anno: la raccolta diretta bancaria è scesa da oltre 1500 miliardi nel 2009, di cui circa 900 mld fatta da depositi e oltre 500mld di obbligazioni, fino a ridursi intorno ai 1430 mld a fine 2013 (sono dati dell’ultima relazione) con oltre 350mld di obbligazioni. Se passiamo dal totale delle obbligazioni vendute dalle banche a quelle bancarie in senso stretto, quelle piazzate dalle banche a clienti retail hanno sempre rappresentato da 4 a 5 volte l’ammontare di emissioni annue piazzate a investitori istituzionali: per esempio nel 2014 92,4 miliardi al retail e 25 mld agli istituzionali, nel 2013 113 mld al retail a 22mld agli istituzionali; nel 2011 addirittura 189mld al retail e 26,5mld agli istituzionali. Se parliamo delle obbligazioni subordinate che sono interessate al bail in, la stima più aggiornata di quelle circolanti oggi emesse dalle banche italiane risale a poche settimane fa. Si tratta di 286 titoli di cui 141 non quotati, per una raccolta di 71,25 miliardi (13,3 dei quali per bond non scambiati in Borsa). Oltre alle 4 banche “risolte” che oggi vedono gli investitori colpiti insorgere, badate che solo tra Veneto Banca e Popolare di Vicenza si tratta di oltre 1,6 miliardi, e di oltre 6 miliardi per la sola MPS.

A questo punto, il domandone: erano rispettate le norme sull’informativa da rendere all’investitore, da parte delle banche? È per favore evitiamo di ripetere che tra banca e cliente vige un rapporto fiduciario: è una scemenza. Quando la banca vende un titolo di cui essa stessa è emittente e non mera collocatrice, è ovvio che sia in conflitto d’interesse. E dunque le norme – la MIFID e i suoi aggiornamenti e interpretazioni avvenuti nella crisi di questi anni- pretendono che il conflitto d’interesse si possa superare solo con informative rafforzate a vantaggio della piena consapevolezza del cliente stesso: non una firmetta su un pacco di moduli. Per classi di rischio degli asset proposti, le banche sono tenute a una vera e propria profilazione del rischio cliente, di come ha allocato il resto del suo portafoglio. E quando dopo il 2013 divenne chiaro che si andava al bail in, diventò evidente che le subordinate bancarie “salivano” come coefficiente di rischio, e ciò comportava simmetrie rafforzate nell’informativa bancaria al cliente.

Leggiamo alcune istruttive righe dall’ultima versione delle Comunicazioni Consob sulla distribuzione di prodotti finanziari complessi, aggiornata secondo ESMA:

“Le obbligazioni subordinate sono da considerarsi “strumenti complessi” anche se non incorporano particolari strutture?

La presenza della mera clausola di subordinazione non implica ex se la riconduzione delle obbligazioni in esame nell’alveo dei prodotti a complessità molto elevata. Peraltro le obbligazioni subordinate sono considerate strumenti complessi ai fini dell’Opinion ESMA del 7 febbraio 2014. In tale prospettiva, in linea con le indicazioni fornite nella citata Opinion “MiFID practices for firms selling complex products”, gli operatori dovranno comunque prestare la massima attenzione alle fasi di distribuzione delle obbligazioni subordinate nei confronti della clientela al dettaglio.”

Leggiamo invece che cosa scrive ABI in un report di molto precedente, nel dicembre 2013, quando è già chiaro che si andrà al bail in, che alle banche italiane non piace. E se ne spiega il perché: leggete le pagine da 27 in avanti sulla stima di aumento del costo di funding bancario che ciò comporta per gli istituti, visto che all’aumentato rischio corrisponderanno cedole più elevate, e inoltre un aggravio ulteriore di costo aggiuntivo a seconda della solidità delle diverse banche emittenti. Ma non vi sfugga soprattutto la nota a pagina 28 che qui riprendo:

“ Accanto a queste si possono anche aggiungere altre problematiche, quali:

-obblighi di informativa in fase di offerta: l’applicabilità dal bail-in deve essere menzionato nel prospetto di offerta al pubblico

-limitazioni della platea dei possibili sottoscrittori: in particolare secondo le norme del MIFID, se venisse confermata la maggiore rischiosità delle obbligazioni soggette a bail-in, queste potrebbero non risultare più adeguate per alcuni clienti retail (che in Italia rappresentano i maggiori sottoscrittori di titoli)”.

Ecco la smoking gun: già a fine 2013 era evidentissimo alle banche italiane che le obbligazioni subordinate bancarie NON potevano essere proposte ai clienti retail. Parole che rendono vieppiù incredibile che SOLO ORA Bankitalia affermi che per il futuro bisognerà adottare tale limitazione.

Ed ecco perché penso che le polemiche contro Bruxlles siano una cortina fumogena. Vedo tracce evidenti di coscienza sporca dei regolatori, Bankit e Consob, conniventi con la contrarietà delle banche ad accrescere il proprio costo di raccolta. Ecco il vero problema italiano fatto riesplodere dalle proteste degli obbligazionisti delle 4 banche colpiti nel portafoglio, investitori ai quali si sventola davanti agli occhi il drappo rosso dei perfidi burocrati europei mentre le colpe stanno in Italia. Naturalmente sarà che sono alieno eh, visto che quasi tutti la pensano diversamente…

 

9
Dic
2015

Giubileo: per Roma meglio low cost dei miliardi del 2000

Scusate se volo basso, ma come contribuente penso che per inquadrare i numeri del Giubileo bisogna partire dai dati di fatto. Cioè dai più recenti aggiornamenti della scassata finanza pubblica romana. Nella generale disattenzione dei media, infatti,  lo scorso 4 dicembre il commissario per Roma Fabrizio Paolo Tronca ha messo nero su bianco di aver già riscontrato nei conti ereditati dall’ex sindaco Marino 20 milioni di deficit 2015 superiore al previsto, 60 milioni ulteriori di debito fuori bilancio non trasmessi ai revisori contabili, e di aver dovuto iscrivere ben 148,7 milioni al fondo “crediti di dubbia esigibilità” tra quelli vantati invece come crediti esigibili da Marino. Queste sole ultime cifre fanno capire che Roma ha più che mai bisogno di una drammatica sterzata di efficienza nell’amministrazione ordinaria del Campidoglio, all’ATAC e all’AMA.  Su 4800 vigili urbani, 1300 ancor oggi a Giubileo iniziato rifiutano la disponibilità extra-turno, esattamente la ragione che portò al disastro della scorsa notte di Capodanno quando fioccarono io certificati di malattia.  La moratoria-scioperi per il Giubileo è stata appena sottoscritta, e già oggi FIOM ha dichiarato 7 giorni di astensione dal lavoro per la manutenzione delle carrozze della metro. Per raddrizzare i guai profondi della Capitale ovviamente il commissario farà quel che potrà, ma il più deve venire da chi vince le prossime elezioni, ergo non si vedrà nulla di concreto fino al prossimo autunno nella migliore delle ipotesi.

In questo quadro, meglio un Giubileo il più possibile low cost. E’ un bene che sia così non solo perché papa Bergoglio così lo vuole, ma anche per i guai ordinari e straordinari che investono Roma e l’Italia. Guai per risolvere i quali altro che la misericordia, ci vorrebbe. Tutto sommato, dunque, meglio che questo Giubileo straordinario sia voluto dal papa come fruibile in tutti i vescovadi del mondo, piuttosto di quello del 2000 che metteva Roma al centro di tutto.

Diamo un occhio retrospettivo al Grande Giubileo del 2000, e immediatamente salta all’occhio che le risorse pubbliche finora stanziate dall’Italia sono nell’ordine di grandezza di un quindicesimo di quelle di allora. Per il Giubileo del 2000 un primo comitato misto tra istituzioni nazionali e Campidoglio iniziò a lavorare quasi ben sei anni prima. Si è trattato allora di oltre 3 miliardi di euro odierni di spesa, a conti fatti. Meno di quanto era stato annunciato nella prima conferenza programmatica del Giubileo 2000 che si tenne al Teatro Argentina ben 5 anni prima, nel maggio 1995. Ancora nel 1996 l’allora sindaco Rutelli annunciò trionfalmente la bellezza di 17 mila miliardi di lire in vista dell’evento. Il parlamento, con le legge 651 del 1996 e la 270 del 1997, destinò alla fine fino a 6mila miliardi di lire per il Giubileo 2000. La Capitale del 2000 lanciava un piano ambiziosissimo di grandi opere definite «indispensabili»: 400 nuovi chilometri di binari ferroviari, sette linee metropolitane, sottopasso di Castel Sant’Angelo, ricopertura della via Olimpica nel tratto relativo a Villa Doria Pamphilj, chiusura e riconversione del carcere di Regina Coeli, depurazione integrale delle acque dei bacini del Tevere. E molto altro.

Dei 3 miliardi di euro stanziati per il 2000 (traduciamo l’ammontare da lire in euro per chiarezza), circa 1,3 era direttamente concentrato nella supervisione diretta del Comune di Roma, altri 700 milioni sempre a Roma erano destinati, ma a carico esecutivo di enti statali. Il resto era destinato a progetti extra-romani.  Il bilancio finale fu, come sempre in Italia, del tutto contraddittorio. Quello a fine evento tratto dal sindaco Rutelli – che era stato nominato dal governo di allora commissario straordinario dell’evento – dichiarava il 95,6% di progetti realizzati. Su 821 interventi per 1,7 miliardi di euro attuali, ne erano stati finanziati 801 dei quali 563 risultavano completati, 94 non completati ma fruibili, 43 completabili a scadenze più lunghe, 76 né completati né fruibili: e su di essi calò la scure del ministero delle Infrastrutture, con conseguente contenzioso con il Campidoglio che ne chiese negli anni il rifinanziamento (quasi sempre spuntandola, ma naturalmente a costi lievitati).

Roma guadagnò il finanziamento all’estensione del raccordo anulare e del collegamento stradale Roma-Fiumicino, il parcheggio sotterraneo del Gianicolo (realizzato però dal Vaticano), alcune tratte ferroviarie urbane, il potenziamento dei pronto soccorso ospedalieri, il sottopasso di Castel Sant’Angelo. Ma, negli anni successivi al 2000 le cronache romane resteranno dominate da innumerevoli esempi di opere giubilari non terminate, e da accuse di aver disperso a fini di consenso molte delle risorse finanziarie in rivoli e rivoletti. Non si vide compiuta la linea C della metropolitana né il più delle nuove linee tramviarie promesse, né il passante viario Nord-Ovest. La costruzione dell’Auditorium era indietrissimo, fu inaugurato solo a fine 2002. L’impianto che doveva aumentare ed efficientare lo smistamento bagagli a Fiumicino doveva essere a carico degli azionisti privati, e invece venne pagato coi fondi per il Giubileo ma non entrò in funzione per l’evento…

In compenso, Roma e l’Italia intera conobbero però nel 2000 una bonanza economica che non si risolse negli investimenti pubblici. A Roma si contarono circa 30 milioni di pellegrini, con un aumento stellare del 23% sull’anno precedente e un beneficio sulla ricettività locale – alberghi, ristoranti etc – pari a un miliardo di euro odierni per la sola area romana. Nel 2000 le strutture ricettive italiane registrarono 78,747 milioni di arrivi e 331,4 milioni di presenze, con una crescita di arrivi del 6% e del 7,4% delle giornate di presenza. Gli stranieri crebbero dell’8,1% negli arrivi e arrivarono a 137 milioni di presenze, ben 25 milioni di giornate più degli anni precedenti, con un aumento della spesa complessiva da stranieri in Italia dell’8%. Il fatturato lordo complessivo di alberghi e turismo italiani grazie al Giubileo 2000 superò quelli che oggi sarebbero 70 miliardi, raggiungendo il 6% del PIL di allora. I soli alberghi di Roma e provincia registrarono 14,7 milioni di ospiti. Anche per tutto questo, nel 2000 il Pil italiano crebbe quasi del 3%: quell’anno l’Italia andò meglio della Germania.

Veramente altri tempi, se pensate ai 200 milioni in tutto sinora stanziati per il Giubileo della Misericordia dal governo Renzi, con il decreto legge di metà novembre per il quale il premier ha atteso che fosse travolto Marino (al quale palazzo Chigi ricorda sempre però di aver concesso altri 110 milioni a inizio 2015). Dagli oltre 800 progetti del 2000, i cantieri per il Giubileo 2016 sono in tutto oggi 23. Percorsi viari sull’asse stazione Termini- san Pietro e principali basiliche, potenziamento nell’ordine del possibile dei collegamenti con Fiumicino, rinforzi dei presìdi sanitari. Ma poi soprattutto, sicurezza: perché oggi è il terrore dell’ISIS, a gravare come grande minaccia per la quale molte migliaia di turisti e pellegrini hanno già annullato le prenotazioni a Roma. Come è stato ieri confermato dalle limitate presenze alle cerimonie pontificali di inaugurazione.

Nessuno sa dire quante presenze in più di pellegrini davvero si realizzeranno per il Giubileo della Misericordia. E già il prefetto di Roma Franco Gabrielli si è trovato a dover rispondere piccato al presidente del Pontificio Consiglio per l’Evangelizzazione, monsignor Rino Fisichella, che ha lamentato il macroscopico ritardo dell’avvio dei pur limitati cantieri che dal Campidoglio al Vaticano erano stati preannunciati. Ma è meglio così. Roma deve rimettersi in piedi e ci impiegherà anni, non è proprio ilcaso di rimpiangere i miliardi pubblici del 2000.

 

4
Dic
2015

Per chi “giù le mani da pensioni”: ricchezza giovani -60%, anziani +60%

Prima il rapporto Ocse. Poi quello Istat. Infine ieri i dati Bankitalia. In pochi giorni, un diluvio di dati aggiornati sulle pensioni degli italiani, e su come sta cambiando il reddito e la ricchezza nel nostro paese. Ognuno sceglie tra i dati quello che più si adatta alla propria tesi. C’è chi comprensibilmente grida allo scandalo, perché nel 2014 il 40,3% dei pensionati ha percepito un reddito da pensione inferiore ai mille euro mensili. C’è chi invece scuote la testa, perché continuiamo a essere un paese con le più elevate entrate contributive per finanziare le pensuioni correnti dopo Grecia e Spagna, e al contempo dove tra i 60 e i 64 anni il tasso di occupazione resta al 26% rispetto al 45% media OCSE, ma con la più elevata età di ingresso nel lavoro, sia per uomini sia per donne.

Così si rischia di perdere di vista il problema più essenziale. Da vent’anni, stiamo aggravando a livelli pazzeschi lo squilibrio intergenerazionale. Ed è l’effetto di come siamo intervenuti sulle pensioni. Per tutti, parla il dato nel rapporto Bankitalia di ieri sulle famiglie italiane. Molti scimmiottando Piketty si riempiono la bocca di diseguaglianza netta in crescita tra ricchi e poveri in quanto tale, e invece Bankitalia li sconfessa. Tra 2012 e 2014, per effetto della crisi immobiliare dovuta alla sberla fiscale sul mattone, la diseguaglianza nella distribuzione dei patrimoni si è fortemente attenuata, il quinto di italiani più ricchi ha perso molto più di quelli più poveri, e il coefficiente di Gini è sceso in 2 anni da 64 a 61 ( guardate fig 12 e 13). Al contrario, il baratro vero che si è aperto è quello della diseguaglianza tra le generazioni (andate a fig.6). Tra il 1995 e il 2014 la ricchezza netta media delle famiglie con a capo chi ha meno di 34 anni è scesa verticalmente, da 100 a 40. Quella con capofamiglia sopra i 65 anni è salita invece da 100 a 160. Vent’anni fa la ricchezza media delle famiglie anziane era di poco inferiore a quella delle “giovani”. Oggi, è tre volte e mezzo superiore. Un dato devastante: ecco il paese “non per giovani”

Perché? Essenzialmente (anche se non solo, concorrono anche le norme sul mercato del lavoro e il nostro sistema della fomazione pubblica inadeguato all’occupabilità dei giovani) per le due riforme strutturali delle pensioni, la Dini nel 1995 e la Fornero a fine 2011. Buone riforme nel complesso ma una troppo diluita nel passaggio pluridecennale da retributivo a contributivo; l’altra, assunta per l’emergenza creatasi dopo anni di colpevole sottovalutazione, rapidisissima invece nell’innalzare l’età pensionabile. Ma abbiamo lasciato intanto il sistema a ripartizione, in base al quale le pensioni in essere sono pagate da chi lavora oggi. La ripartizione funziona bene quando il PIL cresce, e in assenza di riforme o troppo lente o troppo rapide. Ma quando ci sono discontinuità forti, il sistema a ripartizione diventa uno “schema Ponzi”, una catena di sant’Antonio con vittime e privilegiati: in cui chi fatica di più a ottenere un lavoro perché non ha professionalità formate adeguate, chi non ha continuità contributiva perché è precario, chi non avrà mai in ogni caso pensioni elevate come quelle retributive, si trova a pagare il reddito corrisposto a chi invece il lavoro lo ha ottenuto con molti minori problemi, è andato in pensione presto, e per decenni incasserà un assegno tarato sulla sua ultima retribuzione.

Quando Tito Boeri pone il problema dei giovani attuali che solo a 75 otterranno -forse – una pensione pari anche solo al 40% del reddito che avevano faticosamente conquistato, indica in termini di giustizia sociale (ma anche crescita) il problema numero uno del nostro paese. Quello tra generazioni. Pensateci: destiniamo oltre il 17% del PIl a pensioni così distorte, e un quarto all’istruzione, il 4,6% del PIL nel 2014. La proporzione dice tutto.

Affrontare questo disastro postula politici seri. Che dimentichino che sul totale degli elettori gli anziani sono maggioranza rispetto ai giovani (l’età media è oggi a 45 anni in Ita). Che rimettano mano alle pensioni facendo pagare meno contributi a chi ha meno anzianità di lavoro per alzarli poi nel tempo, nel mentre intervengono su chi ha assegni-regalo retributivi superiori ai 5mila euro, sproporzionati rispetto ai contributi versati. In 20 anni abbiamo già ridotto i giovani a meno di un terzo di ricchezza degli anziani. Continuiamo così, e li condanneremo dal purgatorio all’inferno.

3
Dic
2015

C’è un giudice a Bellinzona. ILVA nazionalizzata dai pm ormai a picco

Notizia numero uno: a fine ottobre 2015 l’Italia è uscita dalla lista dei primi 10 produttori mondiali di acciaio, segnando anche quest’anno un meno 8,6%. E’ l’effetto diretto del continuo declino dell’ILVA pubblica a Taranto, l’azienda espropriata senza indennizzo ai Riva a seguito della vicenda giudiziaria iniziata nel 2012.

Seconda notizia: in Svizzera, il tribunale federale di Bellinzona ha respinto su tutta la linea la richiesta avanzata dalla magistratura italiana di trasferire alla disponibilità dei commissari pubblici dell’ILVA 1,2 miliardi detenuti dagli eredi Riva su conti UBS. Per i giudici elvetici, è illegittimo espropriare fondi privati prima che venga emessa qualunque sentenza sui Riva indagati, in assenza di garanzie esplicite sulla loro tutela patrimoniale in caso di proclamata innocenza. Inoltre, era manifesto che la richiesta italiana fosse volta ad altro fine: non la sanzione per ipotesi di reato ancora da accertare, ma la devoluzione immediata al risanamento ambientale dell’ILVA ormai pubblica.

Terza notizia: la Commissione europea è ormai pronta a formalizzare la contestazione all’Italia per aiuti di Stato all’ILVA, per non meno di 1,8 miliardi a seguito dei due ultimi decreti riservati all’acciaeria di Taranto. I concorrenti dell’un tempo profittevole e temibile gruppo siderurgico italiano stringono d’assedio Bruxelles da ormai due anni, perché il dossier venga aperto.

Aridi fatti messi in fila: il bilancio dell’immane distruzione di valore, occupazione, export e gettito fiscale realizzata da una rinazionalizzazione per via giudiziaria che non ha eguali in alcun paese del mondo, tranne le autocrazie in cui le imprese vengono confiscate a discrezione.

Lasciamo ad altri – cioè ai sindacati e a qualche sostenitore del governo – dar torto ai giudici svizzeri: in base anche alla più elementare concezione liberale del diritto penale e di proprietà, hanno mille volte ragione.

Ma ormai questionare sul passato non ha molto senso: le procure hanno creato un fatto compiuto. E la domanda diventa un’altra. Come ne esce il governo? Stanzia altri denari del contribuente? Chiude l’impianto, che dà lavoro a 12 mila persone e oltre 22 mila con l’indotto, in una delle aree più colpite dalla crisi al Sud? O ha un’altra alternativa? L’Europa intanto dà quasi per scontato che, anche quei 2milioni di tonnellate annue che Taranto si è ridotta a produrre, presto scompariranno. E così diminuirà l’eccesso di produzione continentale. Cinesi e indiani, già da 2 anni, commossi ringraziano.

2
Dic
2015

Art.18 anche agli statali: il governo sbaglia, la Cassazione no

E’ una questione di equità, fortemente sentita da milioni di italiani. Da un anno e mezzo a questa parte, quando si mise in moto il Jobs Act e fino ai suoi decreti attuativi tra fine 2014 e inizio 2015, tante volte lo ripetemmo: sarebbe stato meglio esplicitamente decidere che la nuova disciplina valesse per i dipendenti privati come per i pubblici. A cominciare dalla revisione dell’articolo 18, sulla rescissione dei contratti che abolisce la reintegra giudiziale tranne che per i licenziamenti illegittimi, e regola con indennità quelli economici e per giustificato motivo soggettivo.

Già la riforma si applica solo ai nuovi assunti, distinguendo le coorti di lavoratori per anagrafe. Dunque era l’occasione almeno di parificare tra pubblico e privato tutele e diritti, indennità e doveri. Il governo alla fine si decise per il no. Ma non lo scrisse in legge. La novità è che la Corte di Cassazione ha invece emanato una sentenza chiara, per la quale l’articolo 18 riformato si applica automaticamente anche ai dipendenti pubblici. Ma ecco che, dopo poche ore, arriva la contronovità: il ministro Madia annuncia che il governo metterà per iscritto nel Testo unico del pubblico impiego che no, la riforma non si applica ai dipendenti pubblici.

Perché il governo Renzi non si adegua a una limpida sentenza della Corte di Cassazione, e decide in poche ore di ribaltarla? Per capirlo, facciamo un passo indietro sul terreno del diritto. La tesi affermata dalla Corte di Cassazione è secca. La Corte si è pronunciata sul licenziamento di un pubblico dipendente siciliano. Richiesta esplicitamente di chiarire se l’articolo 18 riformato valga anche per i pubblici dipendenti o, nel dubbio, di sottoporre la questione alla Corte Costituzionale, la Cassazione ha ritenuto che la risposta fosse univoca, senza alcun bisogno di un giudizio di costituzionalità. Il Testo Unico del pubblico impiego, il decreto legislativo 165 del 2001 con il quale è avvenuta la cosiddetta “privatizzazione” delle modalità contrattuali pubbliche, è inequivoco secondo la Cassazione: lo Statuto dei lavoratori, “con le sue successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”. “E’ innegabile”, scrive la Corte, “che il nuovo testo dell’articolo 18 riguardi anche gli statali, anche a prescindere dalle iniziative di armonizzazione previste dalla riforma”. Ovviamente, sicomme non sono comprese nell’applicazione delle modalità contrattuali ex dlgs 165 dl 2001, l’unica eccezione che continua a valere è per docenti universitari, magistrati e comparto militari-sicurezza.

Ma se questa è la sentenza, perché il governo dice il contrario? Bisogna rifarsi a numerose sentenze della Corte costituzionale, in materia di equiparazione tra lavoro pubblico e privato.

Leggiamo alcuni brani della sentenza della Corte Costituzionale numero 146 del 2008. “Malgrado la progressiva assimilazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni con quello alle dipendenze dei datori di lavoro privati, sussistono ancora differenze sostanziali che rendono le due situazioni non omogenee. Questa Corte in più occasioni ha ammesso la possibilità di una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite «della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali» (sentenza n. 275 del 2001). La pubblica amministrazione, infatti, «conserva pur sempre – anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato – una connotazione peculiare», essendo tenuta «al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa» (sentenza n. 82 del 2003)”. La Corte costituzionale respinse con quella sentenza del 2008 la pretesa di estendere automaticamente un trattamento dal privato al pubblico, “in nome delle specificità irriducibili del lavoro pubblico per il quale rileva l’articolo 97 della Costituzione”. Numerose sentenze delle sezioni civili nonché riunite della Corte di Cassazione sono ispirate alla medesima linea, la perdurante “non omogeneità” del lavoro pubblico e privato.

Si direbbe dunque che la Cassazione è andata contro questa giurisprudenza, allora. Ma non è così. Se rileggete le sentenze della Corte costituizionale, esse affermano “la possibilità” di una disciplina differenziata tra lavoro pubblico e privato. Cioè aprono alla possibilità che, se governo e parlamento ritengono, possano e debbano spiegare in legge su cosa e perché intendono differenziare il regime dei dipendenti pubblici da quelli privati. Ed eccoci al punto: né quando l’articolo 18 fu riformato dal ministro Fornero, né nella legge delega del Jobs Act, né nei suoi decreti attuativi relativi anche all’articolo 18, mai è stato scritto nei testi di legge che essi si riferivano ai soli lavoratori privati. Il governo Renzi lo ha affermato in interviste, ma ha preferito evitare di sancirlo per legge. Perché? Il motivo è presto detto: era diviso. Nel Pd c’era chi come il senatore Ichino sosteneva automaticamente l’applicazione del nuovo articolo 18 ai dipendenti pubblici, per le stesse ragioni addotte dalla Cassazione. E la stessa cosa, nella maggioranza, sostengono il sottosegretario al MEF Enrico Zanetti e i parlamentari di Scelta Civica. Al contrario molti altri esponenti del Pd, come Damiano o Baretta, erano per la tesi contraria, oltre alla maggior parte della minoranza del partito.

Ora che la Cassazione ha messo i puntini sulle i, per il governo si apriva un bivio. O adeguarsi senza battere ciglio, anche approfittando del fatto che molti degli oppositori Pd di allora sono intanto usciti dal partito. Oppure rinculare, e decidere di tutelare i lavoratori pubblici. E il governo sceglie questa seconda strada. Ritiene di avere già abbastanza problemi col rinnovo dei contratti pubblici – obbligati dalla Corte costituzionale, dopo 5 anni di blocco – e per il quale non ha soldi da stanziare (solo 300 milioni, che a mala pena coprono l’indennità di vacanza contrattuale). E dunque Renzi preferisce non aprire un altro fronte. I nuovi sessantamila assunti a ruolo nella scuola avrebbero iniziato a protestare subito.

Ma è un grande peccato. Un errore vero e grande. Non solo la reintegra giudiziale che resterà per i lavoratori pubblici tra gli italiani è incomprensibile e impopolare, a maggior ragione con i numerosi casi scandalosi che puntualmente avvengono anche a fronte di licenziamenti per macroscopiche mancanze disciplinari finché non si arriva al giudizio della Cassazione (anche se le norme disciplinari non prevedono di doverlo attendere). Inoltre, escludere dal lavoro pubblico il contratto a tutele crescenti è un errore anche perché consentirebbe di vagliare meglio la professionalità dei nuovi ingressi, concorso o non concorso vinto per accedere al ruolo. Ma soprattutto perché il fronte sindacale non è affatto unitario, nel difendere l’inapplicabilità ai lavoratori pubblici delle stesse regole del privato. Ieri a radio24, il segretario della funzione pubblica Cisl Faverin si è detto pronto alla piena parificazione tra pubblico e privato: il che significa non solo articolo 18, ma anche basta con le sospensioni unilaterali da parte dei governi dei contratti. Non cogliere né l’umore profondo degli italiani, né disponibilità sindacali a ragionare in modo nuovo, è un segno che la carica di innovazione tende a esaurirsi.