Le piattaforme online tra regolamentazione e antitrust
Qualche riflessione sulle piattaforme online – il tema, come noto, è oggetto di una consultazione della Commissione Europea, che si concluderà il 6 gennaio. Inoltrandomi nella questione, intendo raccogliere alcuni dei molti spunti lanciati da Antonio Nicita in due ricchi interventi recentemente comparsi su Medialaws.
Il professor Nicita muove dalla constatazione, difficilmente opinabile, che la tradizionale ripartizione delle competenze tra regolamentazione (ex ante) e antitrust (ex post) appare oggi in crisi: si pensi ai casi in cui i garanti della concorrenza sono chiamati ad approvare concentrazioni o ad accettare impegni o in cui, per converso, i regolatori si trovano a comminare sanzioni o a conciliare controversie. Alla luce di ciò, procede delineando un modello ottimale d’interlocuzione tra le due funzioni, entro uno schema di «complementarietà dinamica», che sconfessa la dottrina statunitense della mutua esclusione, ma supera anche la dottrina europea della «speciale responsabilità». In un mondo di regole incomplete, la regolamentazione non potrà mai esaurire l’ambito dell’antitrust, ma nemmeno contentarsi di una coesistenza caratterizzata da una statica suddivisione delle prerogative: al contrario, dovrà con essa continuamente confrontarsi per ridefinire l’ambito della propria competenza, attraverso un costante processo di ri-regolamentazione (ma, aggiungerei, anche di deregolamentazione) marginale.
Un simile quadro solleva questioni di profondo interesse sotto il profilo istituzionale: da un lato, occorrerebbe scongiurare il pericolo che la maggior flessibilità nell’esercizio delle funzioni regolamentari affidasse alle autorità indipendenti un ruolo paralegislativo, in spregio delle (di per sé non insuperabili) garanzie previste per le libertà economiche; dall’altro, ci si può chiedere se l’efficacia di questo confronto intertemporale possa essere meglio assicurata da un assetto soggettivo pluralistico o “centralistico” – è questo l’approccio accolto in Spagna, nel 2013, con l’istituzione della Comisión Nacional de los Mercados y la Competencia, che ha riunito in un unico organismo le competenze prima disperse tra sei diverse autorità: il garante antitrust e i regolatori dell’energia, delle telecomunicazioni, dell’audiovisivo, delle poste, dei trasporti.
Così articolata, però, la discussione pare trascurare alcuni elementi rilevanti. Il criterio cronologico (quando?) non soddisfa, oltre che per quanto osservato dal professor Nicita, anche per un motivo ulteriore e più radicale: ogni intervento ex ante trova origine in una determinata configurazione di mercato (e ha, dunque, anche un contenuto di controllo successivo); allo stesso modo, ogni provvedimento ex post dispone implicitamente per il futuro (e ha, dunque, anche efficacia preventiva). I metodi di lavoro (come?), nonostante alcune perduranti e ancor significative differenze, tendono a convergere. L’interesse complessivo a un mercato competitivo rimane il fine ultimo condiviso (perché?). All’aspetto soggettivo (chi?) abbiamo già fatto cenno. In cosa risiede, allora, il vero discrimine tra regolamentazione e antitrust: nell’ampiezza e nelle ragioni peculiari dell’oggetto dello scrutinio (cosa?), che può essere generale o specificamente individuato, sulla base di una tipizzazione legislativa, per così dire, di un pericolo di potere di mercato.
Sappiamo benissimo – e ce lo siamo ribadito molte volte – che la storia della regolamentazione settoriale, in Europa, si lega a quella delle liberalizzazioni nelle industrie a rete; e sappiamo benissimo che, in quel disegno originario, quella della regolamentazione settoriale era considerata come una fase transitoria, destinata a lasciare il passo nel medio termine al generale diritto antitrust. La regolamentazione, insomma, era vista come uno strumento residuale da invocare solo in circostanze straordinarie, come lo smantellamento dei monopolî pubblici dopo svariati decenni. E, tuttavia, le autorità indipendenti godono ancora di ottima salute: se guardiamo all’Italia, non solo nessuno degli organismi istituiti in occasione dell’apertura di quei mercati è stato in seguito abolito, ma anzi la categoria si arricchisce frequentemente di nuovi membri, taluni dei quali di dubbia classificazione.
Allora, pur concordando con il professor Nicita sulla scarsa precisione della distinzione ex ante–ex post, preferirei ragionare di come adeguare l’attrezzatura antitrust ai mercati del 21º secolo, piuttosto che di come rimodulare la convivenza con la regolamentazione, quando invece le esigenze alla base di quest’ultima appaiono sempre più sfumate. Anche perché una simile riflessione rischia di favorire le sortite di chi vorrebbe, paradossalmente, generalizzare il ricorso alla regolamentazione specifica.
È ragionevole, alla luce di queste scarne osservazioni, pensare a una regolamentazione delle piattaforme online, iniziativa di cui la citata consultazione (anche alla luce della formulazione piuttosto parziale) pare essere il preludio? (Qui uso il termine “regolamentazione” nel significato più ampio di disciplina – anche legislativa – di un’attività economica; e, del resto, il dibattito in sede comunitaria non consente, al momento, indicazioni più precise.)
Prima di rispondere, dobbiamo chiederci cosa sia una piattaforma. La definizione accolta nel questionario della Commissione è apparentemente coerente, riferendosi a «un’impresa operante su mercati bilaterali o multilaterali che utilizza internet per consentire interazioni tra due o più gruppi distinti ma interdipendenti di utenti al fine di generare valore per almeno uno dei gruppi». Tuttavia, i problemi cominciano con l’interpretazione autentica: esempi di piattaforme sarebbero Google e Paypal, Amazon e Linkedin, Uber e Netflix – e persino Apple TV, che i burocrati della Commissione ignorano essere un apparecchio. Cos’hanno in comune questi soggetti? Ben poco. Si accostano imprese che operano su mercati a un versante e su mercati a più versanti, servizi caratterizzati da significativi effetti di rete e altri con effetti di rete nulli o quasi, diversi modelli di monetizzazione, diversi modelli di utilizzo dei dati personali, diversi modelli di fidelizzazione.
La categoria di piattaforma, così ampiamente intesa, non solo non dice nulla sul peso competitivo dei soggetti che vi rientrano, ma ci fa perdere di vista il riferimento essenziale dell’analisi regolamentare: il mercato rilevante. Ne discende il pericolo d’imporre forme di regolamentazione asimmetrica a operatori attivi nel medesimo mercato, ma con modelli industriali differenti. Occorre ricordare che il parametro comune alla regolamentazione e all’antitrust è quello del potere di mercato; in particolare, anche le caratteristche più frequentemente associate alla categoria delle piattaforme – gli effetti di rete, i lock-in, l’imposizione di standard – preoccupano in tanto in quanto si accompagnano a un sostanziale potere di mercato.
È difficile non intravvedere nell’iniziativa della Commissione l’ennesimo capitolo di una crociata protezionistica contro una categoria d’imprese, le multinazionali del digitale, che l’Europa combatte con sempre maggior determinazione su multipli fronti, nonostante le smentite di rito. Sfortunatamente, sparare nel mucchio non danneggia unicamente le imprese colpite, ma anche gli innovatori e i consumatori europei. Un atteggiamento più serio sarebbe quello d’identificare caso per caso le criticità sul piano concorrenziale (ma anche su quello della responsabilità degli intermediari; o su quello della riservatezza; o su quello della tutela degli utenti…) e affrontarle con gli strumenti che già oggi l’ordinamento comunitario mette a disposizione.
In termini generali, le piattaforme sembrano soggette alle stesse dinamiche che abbiamo visto dominare il capitalismo digitale di questi ultimi decenni: la successione di monopolî temporanei, sempre minacciati dalla competizione potenziale; l’ascesa repentina di nuovi operatori; il rimescolamento dei servizi e la continua revisione dei confini dei mercati; l’aumento della consapevolezza degli utenti; il perenne ritardo dei regolatori. Tutti questi elementi inducono a credere che anche per le piattaforme la partita competitiva sia appena cominciata; e raccomandano prudenza ai soggetti investiti della vigilanza.
Ma si chiede il professor Nicita: e se, in un mondo in cui sempre più il prodotto coincide con il mercato, la probabilità di sparigliare innovando si riducesse? Confesso che fatico ad appassionarmi ai dilemmi sulla fine della concorrenza. Mi pare che gli stessi fattori che hanno favorito l’ascesa degli attuali monopolisti pro tempore (costi di transazione ridotti, effetti di rete, modelli industriali basati sui dati) possano domani agevolare l’emersione di nuovi operatori e servizi; e se la concorrenza si giocherà tra “prodotti” o tra “mercati” è questione, in larga misura, nominalistica. Senza dimenticare che l’evidenza di cui disponiamo ci parla di consumatori nomadi e smaliziati, che non amano i rapporti esclusivi – la parola chiave è multi-homing. Probabilmente, la concorrenza non è affatto destinata a morire, ma sta semplicemente cambiando forma.
Questo renderà più complicato il lavoro delle autorità? Senz’altro, se pretenderanno di governare il cambiamento con le nozioni abituali. Ma non necessariamente, se accetteranno di dover adeguare il proprio armamentario concettuale e il proprio modus operandi. Si tratta di uno sforzo considerevole, ma ben ricompensato: vivamo nell’epoca più eccitante della storia e i regolatori hanno un posto in prima fila.