7
Gen
2016

Contro lo Stato tiranno: occupy Oregon—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Sul Corriere della Sera di due giorni fa è comparsa la breve cronistoria di una vicenda rimbalzata dalla stampa americana, molto preoccupata, Washington Post in testa, e che lancia accuse pesantissime: terroristi. I terroristi sarebbero i fratelli Bundy (Ammon e Ryan), che hanno occupato un edificio in una zona remota dell’Oregon, una baita a Burns, centro operativo della forestale. L’iniziativa è stata lanciata per protestare contro la prossima detenzione di due agricoltori, i fratelli Hammond, che sono stati denunciati perché hanno bruciato erbe e sterpaglie senza permesso su un terreno federale. Un giudice ha deciso che la pena di tre anni che avevano già scontato era stata troppo breve e dunque devono tornare in cella per altri due anni.  Read More

6
Gen
2016

Ora si estenderanno anche a unioni civili: ma le pensioni di reversibilità vanno riformate

Lo scontro sulle cosiddette “unioni civili” è tornato ad arroventarsi. In teoria, al Senato il dibattito dovrebbe aprirsi tra tre settimane. Ma solo all’ultimo minuto si capirà davvero la soluzione ai tre problemi che dividono i partiti. Il primo è politico. Il secondo riguarda l’adozione concessa a chi ha già figli precedenti alla sottoscrizione dell’unione civile (ma alla coppie gay: sì o no?). Il terzo investe una diversa questione che riguarda i diritti economici: la pensione di reversibilità ai superstiti.

Apparentemente, i problemi uno e due sembravano aver trovato soluzione, sia pure all’italiana. Renzi è intenzionato ad andare avanti comunque, sapendo che Alfano e i suoi voteranno no in nome del fatto che comunque l’adozione, quand’anche non esplicitamente consentita ai gay, di fatto ne sarebbe solo un’anticamera, per un’inevitabile o comunque assai probabile estensione attraverso la pronunzia di qualche giudice. Renzi tirerebbe dritto contando riservatamente sul fatto che Alfano non uscirebbe dal governo e che i 5 stelle voterebbero il provvedimento, senza per questo modificare la loro opposizione all’esecutivo. C’è chi pensa che la Chiesa potrebbe mobilitarsi frontalmente contro, e che Renzi dovrebbe o potrebbe tenerne conto. Ma è più probabile che la Chiesa sappia bene che il premier lancia con le unioni civili un messaggio alla sua sinistra, e che un intervento ecclesiale a gamba tesa comporterebbe solo il rischio di un testo ancora più aperto al pieno riconoscimento dei diritti omosessuali.

La novità di questi giorni è il terzo tema. Quello della pensione di reversibilità concessa alle coppie omosessuali, ma non a chi sottoscrive un’unione civile eterosessuale. I sostenitori dell’attuale testo invocano a suo fondamento la direttiva europea 2000/78 contro le discriminazioni sul lavoro che, secondo una sentenza della Corte di Giustizia Europea, viene esplicitamente violata in caso di mancato riconoscimento della pensione di reversibilità a coppie omosessuali, che abbiano sancito la loro unione nelle diverse forme oggi previste dai diversi ordinamenti nazionali. Ma c’è chi obietta alla reversibilità, con due posizioni distinte. La prima, allineata al no alle adozioni, considera ulteriormente inaccettabile la pensione ai supersititi tra omosessuali, in quanto ulteriore parificazione dell’unione civile al matrimonio eterosessuale. La seconda, al contrario, non obietta a consentire la pensione di reversibilità agli omosessuali, ma la invoca per eguaglianza costituzionale anche per i sottoscrittori eterosessuali di unioni civili, altrimenti discriminati e “spinti” per così dire, solo a contrarre un matrimonio vero per vedersi garantita pienezza di diritti.

Se esisterà una maggioranza forte coi 5 stelle, è facile scommettere che la prima obiezione verrà respinta, mentre la seconda verrà accolta. E qui veniamo però a un punto che nessuno sembra considerare. Al di là di quanto ciascuno può pensare sulle unioni civili (personalmente: favorevolissimo e senza discriminazioni di sesso) e sui diritti da riconoscere loro rispetto al matrimonio, questa riforma dovrebbe spingere il legislatore a una revisione profonda dei criteri che oggi disciplinano la pensione di reversibilità. Sono criteri generosi, molto generosi, fissati quando esisteva solo la famiglia in senso ristretto ex articolo 23 della Costituzione, quando in media un solo coniuge lavorava, e alla vedova superstite (in media, stanti le diverse aspettative di vita secondo genere) andava garantito un reddito. Ora che il vecchio vincolo matrimoniale risulta significativamente allentato dalla nuova disciplina del divorzio breve introdotta 10 mesi fa, con 6 mesi soli di separazione pre divorzio in caso di separazione consensuale tra i coniugi e in 12 mesi la separazione in caso di giudiziale, ora che si vuol procedere all’estensione della pensione di reversibilità anche ai contraenti dell’unione civile, non ha più senso continuare ad adottare quei vecchi criteri. Se la famiglia è istituzione più debole per l’ordinamento, allora vanno modificati i criteri che ne traducevano la centralità e stabilità precedente in concreti diritti patrimoniali e reddituali. Per quanto riguarda l’entità dell’assegno divorzile di fatto sta già avvenendo non per legge ma nella giurisprudenza. Fatta 100 la media rispetto al reddito precedente dei primi anni di giurisprudenza nel determinare l’assegno, siamo ormai scesi verso quota 40 e anche 30.

A maggio ragione dovrebbero essere modificate le nome sulle pensioni di reversibilità ai superstiti, che ammontano ormai nel 2015 alla bellezza di circa 40 miliardi di euro con 4,8 milioni di assegni. A oggi, al trattamento di reversibilità è ammesso il congiunto di un familiare scomparso che abbia maturato 15 anni di contributi o anche solo 5 anni, almeno 3 dei quali, però, nel quinquennio precedente la data della morte. E c’è reversibilità anche se lo scomparso era titolare di un assegno di invalidità. In percentuali diverse la pensione di reversibilità è ammessa oggi per il coniuge, in sua mancanza a figli e nipoti, e via via, a determinate condizioni, anche ai genitori del defunto. Per il coniuge, il trattamento va oggi anche al superstite separato, se riceveva l’assegno alimentare. E a quello divorziato, se riscuoteva l’assegno divorzile e non si è risposato. Se si era risposato il defunto, la reversibilità si divide tra secondo coniuge dello scomparso e precedente coniuge non risposato. E se vi risposate invece come superstite dopo aver incassato la reversibilità, allora perderete sì il diritto ma in cambio di un assegno finale una tantum pari a due anni di trattamento!

Tutte queste regole relative alla reversibilità pensionistica tra coniugi, o almeno sicuramente le percentuali degli assegni se non i diritti a incassarli, non possono restare eguali al passato, in un paese dove l’INPS sta in piedi grazie a circa 100 miliardi di trasferimenti annui a carico della fiscalità generale. Personalmente penso da tempo che già dovremmo rivedere quelle regole relative ai coniugi, commisurando la reversibilità anche all’età anagrafica del percipiente e alla sua occupabilità, per evitare il fenomeno delle ventenni badanti che sposano ottantenni mirando alla pensione. Ma a maggior ragione è irragionevole sostenere che abbia senso, assegnare una pensione di reversibilità al sopravvissuto di un precedente co-contraente di unione civile, quand’anche entrambi ne avessero intanto contratte altre, come capita oggi tra coniugi…

A questa osservazione critica, i sostenitori della pensione a superstiti nelle unioni civili tra omosessuali è sempre stata che non c’era assolutamente da preoccuparsi in termini di finanza pubblica: perché le  proiezioni nel caso italiano della diffusione di unioni simili sulla base di quanto avvenuto in paesi che le hanno riconosciute (o hanno introdotto il vero e proprio matrimonio gay), legittimano a pensare che in Italia avremmo non oltre 2500 coppie gay che sottoscrivono l’unione civile il primo anno, e non oltre 85 mila cumulate entro il 2030. Il che significa, applicando tassi di mortalità attesi ed età dei contraenti, un aggravio sul bilancio INPS nell’ambito di pochi milioni di euro.

Ma questa obiezione non coglie il punto. Primo, se si riconosce la reversibilità alle unioni civili tra gay bisogna farlo come abbiamo visto anche per quelle tra eterosessuali. E in quel caso il totale cumulato i 15 anni diventa di molte centinaia di migliaia anzi di qualche milione. Secondo: non ha proprio senso in termini di principio, continuare a ragionare su criteri indipendenti da età e occupabilità del superstite, si tratti di coniuge o “unito civile”, ex coniuge o ex “unito civile”. Abbiamo alzato di brutto l’età pensionabile a milioni di italiani non a caso, a fine 2011: e in materia previdenziale o c’è coerenza tra la logica complessiva e i singoli trattamenti, oppure continuiamo a costruire un’Italia di diseguaglianze e ingiustizie. Persino quando si varano riforme che vogliono estendere i diritti, come nel caso delle unioni civili.

5
Gen
2016

ILVA: ora lo Stato tragga lezioni dal suo fallimento

Renzi l’ha ribadito ieri con tono deciso: il governo italiano deluderà chi (leggi: in Europa, India e Cina) punta alla chiusura dell’ILVA di Taranto. E il ministro Guidi ha firmato ieri stesso il decreto con il quale parte la gara ad evidenza pubblica per rilevarla. Tempi stretti: manifestazioni d’interesse da presentare entro il 10 febbraio. L’obiettivo è di comporre un quadro certo di nuovi azionisti entro la prima metà del 2016, come fissato dal nono decreto legge succedutosi negli ultimi tre anni e mezzo intorno alla tormentosa vicenda dell’imponente acciaeria tarantina. Un tempo, il primo impianto siderurgico europeo. Da quando – nel luglio 2012 – è cominciata la via giudiziaria dell’esproprio senza indennizzo ai soci privati, che l’avevano rilevata da uno Stato dilapidatore nell’acciaio di 27mila miliardi di lire solo negli ultimi 15 anni pre-privatizzazione, è invece diventata la storia di un clamoroso insuccesso di Stato. Un insuccesso-bis, dopo l’enorme distruzione di valore realizzata dallo Stato proprietario prima della privatizazione.

In nessun paese avanzato esiste l’analogia di un processo per disastro ambientale ad acciaieri privati – nel mondo, dagli Usa alla Germania alla Polonia alla Cina e all’India, l’acciaio si produce ancora con il carbone – che “parta”, ancor prima del processo, con l’esproprio dell’azienda. L’Italia si è inventata il codice penale come via sostituiva al diritto di proprietà, e ora ne paghiamo le conseguenze. Intendiamoci: l’accusa che muove la magistratura, la morte cioè di 174 persone tra il 2005 e il 2014, pretende un processo senza esclusione di responsabilità. Ma a tre anni e mezzo dagli arresti lo Stato non è arrivato neanche all’udienza preliminare. Nel frattempo l’impianto è in agonia. E abbiamo sommato quattro conseguenze una più grave dell’altro. Il colossale falò di risorse – nazionale, non solo aziendale – avvenuto grazie all’esproprio di Stato. Una procedura d’infrazione europea. Una pesante sberla da parte della magistratura elvetica. E aver fatto venire la tentazione a tutti i concorrenti mondiali di considerare chiusa la partita e finita la produzione italiana.

I danni sono ingentissimi. Tre mesi fa la Svimez ha stimato nei primi 2 anni e mezzo in almeno 10 miliardi di euro le conseguenze negative già accumulatesi. Una perdita secca di investimenti fissi lordi pari a 2,19 miliardi di euro. Una caduta dell’export di 4,45 miliardi di euro. Un aumento dell’import estero di acciaio per 1,78 miliardi, che nei primi mesi del 2015 è ulteriormente salito del 25%: da settembre scorso ormai importiamo più acciaio di quel che produciamo. Una perdita cumulata di consumi delle famiglie – 11.600 mila dipendenti a Taranto che salgono a 17 mila con l’indotto, 800 a Novi Ligure e 1.400 a Genova – pari a 1,45 miliardi di euro. E i 10 miliardi si superano sommando i 2,5 mliardi di patrimonio netto aziendale bruciati nei primi due anni e mezzo, a cui non sappiamo quanto altro sommare visto che su questo i commissari straordinari tacciono. L’azienda è stimata oggi perdere dai 35 ai 50-60 milioni al mese. A questi ritmi, seguendo il modello di stima SVIMEZ le risorse bruciate saranno pari a un punto di PIL.

La procedura d’infrazione europea per aiuti di Stato è arrivata due settimane fa, ma era pendente da mesi. Esattamente un anno fa, il governo faceva scrivere ai giornali di una newco imminente con intervento di privati italiani ed esteri e ruolo di garanzia di Cdp, che sarebbe partita sulla base di 800 milioni di garanzie pubbliche e 1,2 miliardi di capitale fresco da riversare all’attuazione dell’AIA e delle bonifiche. Quel miliardo e due doveva provenire dai conti privati dei Riva in Svizzera. Peccato che la magistratura elvetica tre settimane fa abbia – più che comprensibilmente – negato l’esproprio, sulla base dell’assoluta mancanza di garanzie che la devoluzione all’ILVA espropriata potesse essere considerato un atto legittimo, in assenza di qualunque condanna dei Riva stessi. Alla rogatoria chiesta dalla magistratura italiana, molti anche in Italia si erano interrogati sul carente presupposto di legittimità, ma il governo era rimasto sordoo e aveva ritenuto di procedere. Dopo il no elevetico, ecco che gli esposti presentati a Bruxelles dai concorrenti europei dell’ILVA si sono tradotti in una procedura d’infrazione formale: a presentare gli esposti in prima fila i tedeschi di Wirtschaftsvereinigung Stahl, l’organizzazione che raggruppa gli imprenditori tedeschi dell’acciaio, ma anche la stessa Eurofer, l’associazione di siderurgici europei che ha visto la Federacciai italiana presieduta da Antonio Gozzi finire in assoluta minoranza. Nel mirino, 250 milioni pubblici di prestito bancario, poi altri 400 milioni di prestito ponte, e gli 800 milioni che il governo pensava di affiancare al miliardo e duecento milioni dei Riva. Inutile dire che, agli occhi dei concorrenti europei, chiudere l’ILVA definitivamente significa risolvere una bella fetta dell’eccesso produttivo di acciaio di oggi soffre l’Europa nella frenata dei mercati mondiali. Con tanti saluti a Taranto, al nostro Sud disastrato, e alla ripresa italiana che a parole dovrebbe stupire il mondo.

Se questo riguarda il passato, a questo punto ci sono almeno quattro punti rilevanti per guardare al futuro, prendendo sul serio il governo. Primo: la gara di evidenza pubblica riguarda l’affitto a tempo degli impianti o la loro completa proprietà, separandoli nettamente in entrambi i casi dal passato e dai relativi contenziosi? Apparentemente, sembra che il bando riguardi più la rpima che la seconda ipotesi.  Secondo: l’aggiudicazione riguarda l’ILVA com’è, oppure l’azienda divisa in pezzi? Terzo: quale sarà il ruolo di CDP nella nuova cordata, a sostegno con garanzie o con capitale diretto, e in che misura? E sin qui siamo alla cornice finanziaria- gestionale.

Ma la vera domanda è un’altra. Che modello produttivo s’intende seguire per ILVA , nel momento in cui si cercano partner italiani – i soliti nomi che già un anno fa si ritrassero di fronte ai rischi di contenzioso, Marcegaglia, Arvedi, Amenduni – e fondi di private equity, ed eventualmente anche gruppi siderurgici stranieri che diano garanzie di non voler ridurre significativamente la produzione ( con Arcelor-Mittal, auguri…) ? Gli impegni alla de-carbonizzazione dell’acciaio assunti alla COP21 di Parigi non verranno adottati da Cina, India e verosimilmente neanche dagli Usa. Ma se volessimo prenderli sul serio, il passaggio dal carbone al gas per alimentare il ciclo continuo dell’acciaio significherebbe investimenti imponenti, nell’ordine di un paio di miliardi almeno, per alcuni anni: in parallelo alle bonifiche previste dall’AIA che lo Stato, intanto, nel mentre non processa ma espropria i Riva accusati di non averle condotte, per proprio decreto invece protrae temporalmente nell’attuazione, e magari salva anche i nuovi entranti dal condurle in proprio! A quel punto sarebbero Eni o Enel, coinvolte nella partita per le rispettive dotazioni di gas, soprattutto puntando all’Eni che in teoria ne ha eccedenze stimate nello stesso Mediterraneo? Il presidente della regjone Puglia Emiliano un mese fa ha scritto al governo lanciando esattamente questa palla. Il governo non gli ha risposto.

Vedremo se dopo tre anni e mezzo lo Stato ha capito la lezione dal suo fallimento. O si prepara a nuovi, devastanti pasticci. Ma una cosa è sicura. Senza un ragionamento in grande e senza competenze siderurgiche serie al posto dei commissari giudiziari che ne sono sprovvisti e si è ben visto dal risultato, senza un’impostazione combattiva sinché si vuole ma anche capace seriamente di reggersi di fronte alle obiezioni europee, Taranto, la Puglia, il Sud e l’Italia porteranno a casa un danno che da disastroso diventa permanente.

31
Dic
2015

L’ABC 2016 del governo Renzi, purtroppo non è un oroscopo

A come Agenda. L’agenda Renzi 2016 ha tre pilastri. Il primo è economico: sperare che la frenata mondiale di Cina e Paesi emergenti non comprometta una crescita del Pil italiano di almeno un punto e mezzo. Il secondo, le elezioni amministrative: evitare il più possibile danni alla linea di galleggiamento, cominciando da Roma ma non solo. Il terzo: comunque vadano le amministrative, vincere il referendum confermativo sulla riforma costituzionale. Questa terza boa è decisiva: dipende dal risultato nelle città, e da come palazzo Chigi riuscirà ad appassionare gli italiani a una riforma costituzionale che lascia tutti freddi, e che comporta rischi a esser presentata come un referendum Renzi sì-Renzi no. Non essendoci il governo in palio molti potrebbero votare no, giusto per dargli un segnale.

B come Boschi. Molti pensano che se e quando arrivasse un avviso di garanzia a Pier Luigi Boschi per le vicende di Banca Etruria, il premier sarebbe costretto a far dimettere sua figlia. Sbagliano. Già il premier ha sorpreso non pochi, non intervenendo personalmente in aula sulla mozione personale di sfiducia al ministro. Ma in nessun caso il governo potrebbe accettare l’idea di sue dimissioni. Significherebbe ammettere di essersi sbagliati sin dall’inizio, nel sottovalutare la portata della questione.

C come CDP. La Gallia è divisa in tre parti, scriveva Cesare nel De bello gallico. Invece di parti ne dovranno sostenere moltissime, Gallia e Costamagna nominati da Renzi alla guida della Cassa Depositi e Prestiti. Dalla salvezza dell’ILVA a comprare treni e autobus per il trasporto pubblico locale, dalla banda larga a Telecom Italia, dalla band bank per sgravare il sistema del credito da sofferenze e incagli, non c’è praticamente capitolo dell’agenda Renzi in cui non si pensi di aver pronta una Mediobanca pubblica nuova di zecca, a prova di obiezione europea e alimentata dal sicuro risparmio postale degli italiani. Si compirebbe così una parabola già vista in 20 anni nella sinistra italiana: si presenta come blairista, ma resta statalista.

D come Deficit. Il governo dà per scontato che la Commissione Europea non oserà obiettare al fatto che il governo italiano ha di fatto abrogato l’obiettivo a medio termine di contenimento del deficit, che è la vera regola europea contrattata e da rispettare, non il 3% di deficit come sempre invece ripete Renzi. Può essere che, nel caos europeo, il governo abbia ragione. Ma la vera fortuna del governo è un’altra, sulla finanza pubblica che torna a propugnare il deficit. L’inesistenza di una destra ancorata a una credibile linea del rigore. Comparando gli intenti di Lega e 5 stelle, se anche Renzi sfidasse l’Europa alzando il deficit anche oltre il 3% gli direbbero che non basta, non che sbaglia.

E come Europa. La sfida italiana alle procedure d’infrazione su alcuni punti delicati è diventata la cifra dell’ultimo Renzi. Di fatto, oggi nessuno sa dire come nel 2016 governo a Bankitalia affronteranno il problema di 200 miliardi di sofferenze che diventano 360 comprendendo gli incagli, che pesano nei conti delle banche, impediscono le fusioni delle maggiori popolari che il governo ha trasformato in Spa, come l’aggregazione di quasi 400 BCC in una o al massimo due grandi holding nazionali. E’ uno dei maggiori guai irrisolti della crescita italiana. Credere di poterlo fare cavalcando il no alle regole e alla vigilanza europea significa condannarsi a non attirare capitali esteri. Forse porta voti, ma assomiglia a un tentato suicidio.  Che sposa disinvoltamente la difesa di anni e anni di prassi collusive dei regolatori italiani con management bancari di bassa qualità, scarsa trasparenza, ed elevatissimo conflitto d’interessi.

F come Fisco. A fine dell’anno prossimo, il governo dovrà poter mantenere la promessa di abbattere IRES e IRAP e le ulteriori clausole di stabilità previste per oltre un punto di Pil, che con il maggior deficit 2016 sono ancor più pesanti da annullare. Non potrà consentire agli Enti Locali di riprendere ad aumentare le tasse locali, dopo averli bloccati nel 2016. Anzi, dovrà sostenerne non pochi che continueranno ad avere l’acqua alla gola, da Roma alla Sicilia. Chi ha sognato che dal 49% di entrate totali sul PIl con Renzi si potesse scendere verso il 40% in una intera legislatura, si è illuso.

G come Grillo. Per Renzi la crescita metodica dei 5 stelle nei sondaggi, da mesi a questa parte, non è un problema. Resta convinto che, alla fine, con tale antagonista, alla fine gli italiani preferirebbero lui, compresa una bella fetta di elettorato di destra e moderato. Un bell’azzardo. A giudicare da molte elezioni europee, dall’Ungheria alla Polonia passando per Grecia e Spagna, non è affatto detto che le cose andrebbero in quel modo. Ma fin dal primo giorno la legislatura si è incamminata su questo binario, stante che a destra Salvini gioca a concentrare su di sé il residuo elettorato di destra, non a mettere in piedi una credibile opzione di governo. Se però alle amministrative i pentastellati mietono trofei, molti nel Pd non seguiranno la convinzione di Renzi che alle politiche sarà diverso.

H come Hashtag. La quintessenza della comunicazione governativa, cioè dell’azione dell’esecutivo. Innovazione freschissima e rottamatrice all’inizio, rispetto a Monti e Letta. Dopo due anni, per molti mostra la corda. Le slides coi gufetti non fanno più sorridere. I decreti annunciati a fumetti, coi testi però che non si vedono per settimane sulla Gazzetta Ufficiale, da parte di un governo non sono il trionfo della modernità, ma il ritorno all’opacità di un procedimento legislativo in cui lobby e interessi mettono mano alle norme in stanze riservate. Certo, Renzi non sarà mai un compassato statista in doppio petto gessato. Magari, nella sua ristretta cerchia di spin doctor qualcuno potrebbe però capire che è venuto il momento di una correzione: meno slides e più fogli excell.

I come Italia. Era dai tempi di Craxi, che un premier non batteva tanto sul tema dell’ottimismo e della fede nazionale in se stessi. L’effetto si è visto: è vero che la fiducia di famiglie e imprese si è impennata ben più di tanto facesse il PIL o la ripresa di redditi e consumi. Negli ultimi dati proprio a dicembre, si avverte però qualche primo segno di stanchezza, come se gli italiani si interrogassero sul rischio di risbattere il naso. Il 2016 dirà agli italiani se la fiducia è stata ben risposta.

L come Lotti. Il ristrettissimo cerchio gigliato intorno a Renzi è stato sin qui la cerchia dei pochi ai quali il premier riserva fiducia assoluta. E’ naturale per certi versi, viste le precedenti esperienze amministrative del premier. Ma comporta rischi evidenti, tanto nella guida del partito quanto nella valutazione delle scelte di governo e sulle nomine. Vedremo nel 2016 se davvero a palazzo Chigi e nella segreteria Pd Renzi aprirà a coloro che gli attribuiscono eccessi di diffidenza, autoappagamento e solitudine del potere,

M come Milano. Per Renzi è essenziale che Sala vinca bene le primarie Pd e poi palazzo Marino. Serve a pareggiare un disastro a Roma che a oggi sembra certo. Allo stato delle cose, i pentastellati a Milano sembrano molto più deboli che altrove e hanno una candidata debolissima. E la destra ancora non sa che pesci prendere. Sala ha il voto di molti moderati, non quello della sinistra-sinistra. Ma se al ballotaggio andasse in candidato credibile di una destra non urlatrice, non è detto che Sala ce la farebbe.

N come Napoli. Tra pochi giorni si capirà se il caso giudiziario De Luca è davvero chiuso. Nel qual caso, in pochi giorni Renzi dovrà decidere se sposare Bassolino fino in fondo come candidato sindaco, oppure lavarsene le mani. In ogni caso, Napoli e la Campania come gran parte del Sud restano nel Pd il maggior problema aperto per Renzi segretario del partito. I “suoi” non sfondano e non governano. Un bel problema al voto politico con l’Italicum, imporgli poi capilista bloccati espressione del segretario e non dei territori.

O come Occupazione. Il terreno per eccellenza della comunicazione governativa: l’Istat non rileva affatto l’aumento di occupazione netta fino a ottobre 2015 che il governo vanta sul 2014, e nemmeno l’impennata di lavoro a tempo indeterminato. Ma il governo preferisce i dati sulle rilevazioni amministrative di cessazioni e accensioni di nuovi contratti. Nel 2016, a fiammata della decontribuzione alle imprese ormai contenuta al 40% rispetto al 2015, capiremo meglio. Una cosa è certa, l’occupazione nel Sud disastrato non riparte per davvero se il il PIl nella media nazionale non torna a crescere verso il 2% annuo.

P come Produttività. E’ la grande assente del dibattito pubblico nazionale, e anche dall’agenda del governo. Neanche un centesimo dell’attenzione riservata all’abrogazione delle tasse sulla prima casa, va invece al fatto che da oltre 20 anni perdiamo produttività multifattoriale rispetto a tutti i paesi avanzati. Il governo da solo non può far miracoli, perché serve una rivoluzione vera nel modo di contrattare il lavoro nelle aziende, nel settore dei servizi non esposti alla concorrenza, nell’organizzazione della distribuzione e della logistica nazionale, nel technology transfer tra ricerca avanzata e innovazione di processo e prodotto. Ma aiuterebbe molto abbattere accise e burocrazia, sposare coi decreti attuativi della riforma Madia una rivoluzione vera nei salari e criteri di produttività della PA, detassare molto di più i contratti aziendali nel settore privato. La produttività non fa voti, purtroppo.

Q come Quiz. Da ragazzo, Renzi partecipò a un quiz che è nella storia della tv italiana, la Ruota della Fortuna condotta da Mike Bongiorno. Il quiz di oggi che lo vede protagonista da premier sembra assomigliare sempre più a un altro classico: il Rischiatutto, sempre con Bongiorno. Se non vince, finisce più mestamente ai Pacchi, con Flavio Insinna.

R come Roma. Giachetti o Anzaldi: il premier potrebbe giocare “la matta” al tavolo delle elezioni romane. A oggi, la partita è compromessa per il Pd e assegnata ai 5stelle, e i commissari Tronca-Gabrielli non possono fare miracoli. Il Pd romano appare esausto, piegato su se stesso e su una degenerazione micronotabilare che i predecessori di Renzi non hanno saputo leggere e sventare. Un uomo nuovo è necessario: ma non ci sarà il tempo per un progetto serio, di una nuova Capitale dove tutto ciò che è Campidoglio e partecipate è da rivedere.

S come Sinistra. Nei sondaggi ultimi, la somma di SEL e residui di Rifondazione, più i fuoriusciti a sinistra dal Pd, inizia a salire verso il 6-8%. Non è poi così trascurabile, per Renzi. In alcune città, a cominciare da Torino e Milano, potrebbe essere la carta che fa perdere i candidati sindaci renziani.

T come Tagli. Di spesa, ovviamente: archiviati, dimenticati, addirittura derisi. Le parole che Renzi riserva a Cottarelli sono lampanti: voleva spegnere l’illuminazione pubblica. Peccato. E’ persa ancora una volta l’occasione per una rivisitazione complessiva dello sconfinato perimetro pubblico italiano che intermedia il 51% del PIL, a cominciare dalle 12mila pletoriche partecipate locali. Alla conferenza stampa di fine anno Renzi ha lanciato la formula dalla spending-lorda: se taglio qualcosa, rialloco la spesa in un altro capitolo che mi serve di più. Siccome nel frattempo alziamo anche il deficit previsto, con la spending-lorda la spesa continuerà a salire. Una vera anticura all’obesità di Stato.

U come Uomo politico. Nel 2016, per Renzi guardarsi da Nikita Kruscev. Diceva: gli uomini politici sono uguali dappertutto, promettono di costruire ponti anche dove non c’è un fiume.

V come Vanità. Molti reputano che Renzi sia troppo vanitoso. Tra i politici, a pensarlo e dirlo sono soprattutto quelli la cui vanità è offesa da quella che denunciano nel premier. Il punto da capire è come la penserà al momento giusto la maggioranza degli italiani, dovendo scegliere tra le vanità di tutti i leader contrapposti.

Z come Zavorra. Viene sempre un momento in cui un premier e segretario di partito devono sbarazzarsi di pesi morti. Ignazio Marino ne sa qualcosa, aveva fatto l’impossibile per diventarlo. Renzi dovrà fare difficili scelte di questo tipo nel 2016. Dopo, al momento decisivo delle liste elettorali nazionali con 100 capilista bloccati, potrebbe essere tardi.

 

30
Dic
2015

Le piattaforme online tra regolamentazione e antitrust

Qualche riflessione sulle piattaforme online – il tema, come noto, è oggetto di una consultazione della Commissione Europea, che si concluderà il 6 gennaio. Inoltrandomi nella questione, intendo raccogliere alcuni dei molti spunti lanciati da Antonio Nicita in due ricchi interventi recentemente comparsi su Medialaws.

Il professor Nicita muove dalla constatazione, difficilmente opinabile, che la tradizionale ripartizione delle competenze tra regolamentazione (ex ante) e antitrust (ex post) appare oggi in crisi: si pensi ai casi in cui i garanti della concorrenza sono chiamati ad approvare concentrazioni o ad accettare impegni o in cui, per converso, i regolatori si trovano a comminare sanzioni o a conciliare controversie. Alla luce di ciò, procede delineando un modello ottimale d’interlocuzione tra le due funzioni, entro uno schema di «complementarietà dinamica», che sconfessa la dottrina statunitense della mutua esclusione, ma supera anche la dottrina europea della «speciale responsabilità». In un mondo di regole incomplete, la regolamentazione non potrà mai esaurire l’ambito dell’antitrust, ma nemmeno contentarsi di una coesistenza caratterizzata da una statica suddivisione delle prerogative: al contrario, dovrà con essa continuamente confrontarsi per ridefinire l’ambito della propria competenza, attraverso un costante processo di ri-regolamentazione (ma, aggiungerei, anche di deregolamentazione) marginale.

Un simile quadro solleva questioni di profondo interesse sotto il profilo istituzionale: da un lato, occorrerebbe scongiurare il pericolo che la maggior flessibilità nell’esercizio delle funzioni regolamentari affidasse alle autorità indipendenti un ruolo paralegislativo, in spregio delle (di per sé non insuperabili) garanzie previste per le libertà economiche; dall’altro, ci si può chiedere se l’efficacia di questo confronto intertemporale possa essere meglio assicurata da un assetto soggettivo pluralistico o “centralistico” –  è questo l’approccio accolto in Spagna, nel 2013, con l’istituzione della Comisión Nacional de los Mercados y la Competencia, che ha riunito in un unico organismo le competenze prima disperse tra sei diverse autorità: il garante antitrust e i regolatori dell’energia, delle telecomunicazioni, dell’audiovisivo, delle poste, dei trasporti.

Così articolata, però, la discussione pare trascurare alcuni elementi rilevanti. Il criterio cronologico (quando?) non soddisfa, oltre che per quanto osservato dal professor Nicita, anche per un motivo ulteriore e più radicale: ogni intervento ex ante trova origine in una determinata configurazione di mercato (e ha, dunque, anche un contenuto di controllo successivo); allo stesso modo, ogni provvedimento ex post dispone implicitamente per il futuro (e ha, dunque, anche efficacia preventiva). I metodi di lavoro (come?), nonostante alcune perduranti e ancor significative differenze, tendono a convergere. L’interesse complessivo a un mercato competitivo rimane il fine ultimo condiviso (perché?). All’aspetto soggettivo (chi?) abbiamo già fatto cenno. In cosa risiede, allora, il vero discrimine tra regolamentazione e antitrust: nell’ampiezza e nelle ragioni peculiari dell’oggetto dello scrutinio (cosa?), che può essere generale o specificamente individuato, sulla base di una tipizzazione legislativa, per così dire, di un pericolo di potere di mercato.

Sappiamo benissimo – e ce lo siamo ribadito molte volte – che la storia della regolamentazione settoriale, in Europa, si lega a quella delle liberalizzazioni nelle industrie a rete; e sappiamo benissimo che, in quel disegno originario, quella della regolamentazione settoriale era considerata come una fase transitoria, destinata a lasciare il passo nel medio termine al generale diritto antitrust. La regolamentazione, insomma, era vista come uno strumento residuale da invocare solo in circostanze straordinarie, come lo smantellamento dei monopolî pubblici dopo svariati decenni. E, tuttavia, le autorità indipendenti godono ancora di ottima salute: se guardiamo all’Italia, non solo nessuno degli organismi istituiti in occasione dell’apertura di quei mercati è stato in seguito abolito, ma anzi la categoria si arricchisce frequentemente di nuovi membri, taluni dei quali di dubbia classificazione.

Allora, pur concordando con il professor Nicita sulla scarsa precisione della distinzione ex anteex post,  preferirei ragionare di come adeguare l’attrezzatura antitrust ai mercati del 21º secolo, piuttosto che di come rimodulare la convivenza con la regolamentazione, quando invece le esigenze alla base di quest’ultima appaiono sempre più sfumate. Anche perché una simile riflessione rischia di favorire le sortite di chi vorrebbe, paradossalmente, generalizzare il ricorso alla regolamentazione specifica.

È ragionevole, alla luce di queste scarne osservazioni, pensare a una regolamentazione delle piattaforme online, iniziativa di cui la citata consultazione (anche alla luce della formulazione piuttosto parziale) pare essere il preludio? (Qui uso il termine “regolamentazione” nel significato più ampio di disciplina – anche legislativa – di un’attività economica; e, del resto, il dibattito in sede comunitaria non consente, al momento, indicazioni più precise.)

Prima di rispondere, dobbiamo chiederci cosa sia una piattaforma. La definizione accolta nel questionario della Commissione è apparentemente coerente, riferendosi a «un’impresa operante su mercati bilaterali o multilaterali che utilizza internet per consentire interazioni tra due o più gruppi distinti ma interdipendenti di utenti al fine di generare valore per almeno uno dei gruppi». Tuttavia, i problemi cominciano con l’interpretazione autentica: esempi di piattaforme sarebbero Google e Paypal, Amazon e Linkedin, Uber e Netflix – e persino Apple TV, che i burocrati della Commissione ignorano essere un apparecchio. Cos’hanno in comune questi soggetti? Ben poco. Si accostano imprese che operano su mercati a un versante e su mercati a più versanti, servizi caratterizzati da significativi effetti di rete e altri con effetti di rete nulli o quasi, diversi modelli di monetizzazione, diversi modelli di utilizzo dei dati personali, diversi modelli di fidelizzazione.

La categoria di piattaforma, così ampiamente intesa, non solo non dice nulla sul peso competitivo dei soggetti che vi rientrano, ma ci fa perdere di vista il riferimento essenziale dell’analisi regolamentare: il mercato rilevante. Ne discende il pericolo d’imporre forme di regolamentazione asimmetrica a operatori attivi nel medesimo mercato, ma con modelli industriali differenti. Occorre ricordare che il parametro comune alla regolamentazione e all’antitrust è quello del potere di mercato; in particolare, anche le caratteristche più frequentemente associate alla categoria delle piattaforme – gli effetti di rete, i lock-in, l’imposizione di standard – preoccupano in tanto in quanto si accompagnano a un sostanziale potere di mercato.

È difficile non intravvedere nell’iniziativa della Commissione l’ennesimo capitolo di una crociata protezionistica contro una categoria d’imprese, le multinazionali del digitale, che l’Europa combatte con sempre maggior determinazione su multipli fronti, nonostante le smentite di rito. Sfortunatamente, sparare nel mucchio non danneggia unicamente le imprese colpite, ma anche gli innovatori e i consumatori europei. Un atteggiamento più serio sarebbe quello d’identificare caso per caso le criticità sul piano concorrenziale (ma anche su quello della responsabilità degli intermediari; o su quello della riservatezza; o su quello della tutela degli utenti…) e affrontarle con gli strumenti che già oggi l’ordinamento comunitario mette a disposizione.

In termini generali, le piattaforme sembrano soggette alle stesse dinamiche che abbiamo visto dominare il capitalismo digitale di questi ultimi decenni: la successione di monopolî temporanei, sempre minacciati dalla competizione potenziale; l’ascesa repentina di nuovi operatori; il rimescolamento dei servizi e la continua revisione dei confini dei mercati; l’aumento della consapevolezza degli utenti; il perenne ritardo dei regolatori. Tutti questi elementi inducono a credere che anche per le piattaforme la partita competitiva sia appena cominciata; e raccomandano prudenza ai soggetti investiti della vigilanza.

Ma si chiede il professor Nicita: e se, in un mondo in cui sempre più il prodotto coincide con il mercato, la probabilità di sparigliare innovando si riducesse? Confesso che fatico ad appassionarmi ai dilemmi sulla fine della concorrenza. Mi pare che gli stessi fattori che hanno favorito l’ascesa degli attuali monopolisti pro tempore (costi di transazione ridotti, effetti di rete, modelli industriali basati sui dati) possano domani agevolare l’emersione di nuovi operatori e servizi; e se la concorrenza si giocherà tra “prodotti” o tra “mercati” è questione, in larga misura, nominalistica. Senza dimenticare che l’evidenza di cui disponiamo ci parla di consumatori nomadi e smaliziati, che non amano i rapporti esclusivi – la parola chiave è multi-homing. Probabilmente, la concorrenza non è affatto destinata a morire, ma sta semplicemente cambiando forma.

Questo renderà più complicato il lavoro delle autorità? Senz’altro, se pretenderanno di governare il cambiamento con le nozioni abituali. Ma non necessariamente, se accetteranno di dover adeguare il proprio armamentario concettuale e il proprio modus operandi.  Si tratta di uno sforzo considerevole, ma ben ricompensato: vivamo nell’epoca più eccitante della storia e i regolatori hanno un posto in prima fila.

28
Dic
2015

Smog, l’emergenza che non c’è

Tutto è cambiato nella realtà ma quasi nulla nell’informazione. Per lo smog è sempre emergenza, quest’anno come dieci o venti anni fa. E, di fronte all’emergenza, non resta che adottare misure eccezionali: blocchi del traffico, targhe alterne, mezzi pubblici gratuiti. Eppure, da ormai molti anni, la strada è segnata e la direzione di marcia è quella giusta. “E’ difficile fare le previsioni, soprattutto per il futuro” sosteneva il nobel danese Niels Bohr. Vero in generale ma quella della qualità dell’aria è la classica eccezione che conferma la regola. E’ possibile affermare senza timore di essere smentiti che, al di là delle oscillazioni annuali correlate alle condizioni meteorologiche più o meno favorevoli alla dispersione degli inquinanti, tra cinque anni la situazione sarà migliore rispetto a quella odierna e la tendenza verso il “bello stabile” sarà ulteriormente rafforzata nel prossimo decennio.

Contrariamente a quanto ritiene la maggior parte degli italiani, l’inquinamento atmosferico nelle nostre città è in calo da svariati decenni. Pensiamo, ad esempio, alle famigerate polveri sottili, quel PM10 che, ci dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità, rappresenta il parametro più significativo per valutare gli effetti sulla salute. Ebbene, nei primi anni ’70 in una città come Milano o Torino, la concentrazione media annuale di queste polveri era superiore ai 150 microgrammi per metrocubo di aria. Oggi le centraline di rilevamento ci forniscono valori medi nell’intorno dei 40-50 microgrammi. Vi è quindi stata una flessione dell’ordine del 70%.

L’aspetto più intrigante di quanto accaduto finora è quello relativo al settore della mobilità. Il miglioramento della qualità dell’aria si è infatti manifestato non perché abbiamo avuto successo ma nonostante il sostanziale fallimento di quelle politiche di riequilibrio modale (meno auto, più autobus e più treni) che, a partire da Bruxelles per arrivare fino alla più piccola amministrazione locale, sono invariabilmente presentate come essenziali ai fini della sostenibilità ambientale. L’elemento che ha contribuito in misura quasi esclusiva alla riduzione delle emissioni è stato rappresentato dall’avanzamento tecnologico dei veicoli. Una vettura  a gasolio immatricolata negli anni ’80 dello scorso secolo immetteva in atmosfera una quantità di sostanze inquinanti pari a quella che oggi fuoriesce dai tubi di scappamento di circa una ventina di auto. In assenza dell’abbattimento delle emissioni unitarie, l’aria delle nostre città non solo non sarebbe migliorata ma avrebbe conosciuto un progressivo peggioramento.

Il naturale rinnovo del parco veicolare nei prossimi anni con il conseguente adeguamento di tutti i mezzi ai più recenti standard normativi determinerà un ulteriore contenimento delle emissioni e, quindi, degli effetti negativi sulla salute. Effetti da non sottovalutare ma neppure da sovrastimare. Una spasmodica attenzione verso l’inquinamento collettivo può infatti ridurre l’attenzione dei cittadini sul più grave e rimediabile dei fattori di rischio sanitario: il comportamento individuale. Al riguardo si segnalano le parole di Umberto Veronesi: “un atteggiamento, inaccettabile, è quello di cambiare la realtà dei fatti. Un luogo comune, molto diffuso, è quello di affermare che l’inquinamento atmosferico, specie in città, è tale che una sigaretta in più o in meno non fa alcuna differenza. È un’affermazione sbagliata e priva di senso: l’inquinamento cittadino provoca bronchiti, allergie, ma la possibilità che provochi tumore al polmone è minima rispetto a quella del fumo di sigaretta. Pochi lo sanno, ma nell’arco alpino, ad esempio in Friuli, dove si fuma molto, l’incidenza del cancro al polmone è superiore (e la speranza di vita inferiore) a quella che si registra in città come Milano o Genova. Impegnarsi per un ambiente più pulito è giusto, ma questo non deve distoglierci dalla lotta contro i tumori”. L’Italia del nord che è una delle zone europee ove, a causa delle particolari condizioni meteorologiche,  più elevate sono le concentrazioni di inquinanti e dove, stando ad un recente rapporto dell’Agenzia Europea per l’ambiente, vi è il record di morti premature per smog  è anche in testa alle classifiche relative all’aspettativa di vita media che è pari a quella della Spagna e superiore di oltre un anno rispetto a quella di Germania e Regno Unito e di alcuni mesi rispetto alla Francia.

Forse, accanto alla giusta attenzione per la salute e per la ambiente, dovremmo iniziare a preoccuparci anche delle conseguenze economiche delle scelte in materia di politica dei trasporti: ogni auto in meno (ed ogni autobus) in più che circola sulle nostre strade comporta una riduzione delle entrate fiscali ed un aumento della spesa pubblica e, quindi, un peggioramento di quel debito pubblico che se la passa assai peggio del cielo di Lombardia.

23
Dic
2015

RAI: le promesse della Leopolda e l’amara realtà

La riforma della Rai è legge. L’azienda è nata nel 1954, è sempre stata la concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo italiano. In seguito al referendum popolare del 1995 è stata abrogata la legge che riservava esclusivamente alla mano pubblica il possesso delle azioni Rai, ma non si è mai proceduto alla privatizzazione. Resta al 99,5% del MEF, e il resto è della SIAE. Ha 23 pletoriche sedi regionali, 4 centro di produzione, oltre 11mila dipendenti.

Per valutarne la riforma, partiamo da quanto si affermava sulla RAI alla Leopolda del 2011. Il sedicesimo dei 100 punti programmatici lanciati allora dalla kermesse renziana affermava: «Oggi la Rai ha 15 canali, dei quali solo 8 hanno una valenza “pubblica”. Questi vanno finanziati esclusivamente attraverso il canone. Gli altri, inclusi Rai1 e Rai2, devono essere da subito finanziati esclusivamente con la pubblicità, con affollamenti pari a quelli delle reti private, e successivamente privatizzati>>. Il punto successivo delineava la nuova governance del dimagrito servizio pubblico: «Dev’essere riformulata sul modello Bbc (Comitato strategico nominato dal presidente della Repubblica che nomina i membri del Comitato esecutivo, composto da manager, e l’amministratore delegato). L’obiettivo è tenere i partiti politici fuori dalla gestione della televisione pubblica».

Di quelle ottime intenzioni, non è rimasto NIENTE. Il punto forte della riforma è un amministratore delegato che, a differenza del vecchio direttore generale ingessato da presidente e cda di nomina politica, ha molti più poteri. E’ però espressione diretta del governo, visto che è nominato su proposta del Tesoro. Può nominare i dirigenti, ma per le nomine editoriali deve avere il parere del cda. Assume, nomina, promuove e stabilisce la collocazione anche dei giornalisti, su proposta dei direttori di testata. Il consiglio di amministrazione resta politico: su 7 membri 4 sono eletti da Camera e Senato, 2 nominati dal governo, uno scelto dai dipendenti. Anche nel cda, il potere del governo risulta molto rafforzato. Ci sarà un presidente di garanzia, eletto dal cda tra i suoi membri ma solo se confermato a maggioranza dei due terzi dalla commissione parlamentare di vigilanza. Un altro incarico iperpolitico. Altro che tenere i partiti fuori dalla gestione della Rai: a dare l’indirizzo sarà di volta in volta il governo che avrà vinto le elezioni. Si torna indietro persino rispetto alla riforma del 1975: ha ragione Enrico Mentana.

Viene protratto da 3 a 5 anni il contratto di servizio pubblico, che dovrebbe scandire le finalità attuative della concessione: in Rai vale così poco che l’ultimo è scaduto dal 2012 e non è stato rinnovato. Tanto si sa già che la concessione a fine 2016 sempre alla Rai verrà rinnovata, mica per gara pubblica. L’unica novità vera potrebbe essere la consultazione pubblica che viene indicata in legge prima del rinnovo della concessione, dunque entro fine 2016. Ma il rischio è che sia di pura facciata, come finora quelle preventive alle riforme introdotte dall’attuale governo. Nella legge di riforma andava ridefinito il perimetro, le risorse e le finalità del servizio pubblico. Ma nella riforma non si è fatto.

La Rai potrà contare su molte più risorse, questo sì. Anche su questo ha ragione Enrico Mentana: è un calcio in faccia della politica ai concorrenti privati della RAI. Il budget 2016 approvato la settimana scorsa prevede una chiusura a sostanziale pareggio (rosso di 3 milioni dopo le imposte), grazie al massiccio aumento di ricavi da canone in bolletta elettrica (Rai stima prudenzialmente fino a 180mln, c’è chi pensa fino a 420..); pubblicità in crescita di 40 milioni a quota 700 milioni; ricavi totali attorno ai 2,7 miliardi, di cui poco meno di due terzi dal canone. Nel 2016 si prevede appunto un’importante recupero sul canone grazie alla sua inclusione in bolletta elettrica: il tasso di evasione è previsto dalla RAI scendere fino all’8%, contro una media attuale stimata almeno al 27% delle famiglie e con punte oltre il 40% in alcune regioni. Ma  l’evasione contenuta fino all’8% è prudenziale, visto che il mancato pagamento delle bollette elettriche non supera il 4-5%. Il pagamento del canone in bolletta darà vita a un’inevitabile contenzioso, visto che le banche dati non si parlano. Ed è a carico dei gestori elettrici.

A ritroso, la Rai ha registrato perdite di 62 milioni nel 2009, 98 nel 1010, 4 milioni di utile nel 2011, 244 milioni di perdite nel 2012, 5 milioni di utile nel 2013, e 57 ancora di utile nel 2014, grazie all’incasso di 280 milioni dal collocamento in Borsa del 35% delle torri di trasmissione Raiway. La gestione Gubitosi ha fatto i salti mortali per contenere le perdite, almeno in questo è riuscita. Nel periodo considerato, la diminuzione del patrimonio netto (capitale e riserve) è stato però di oltre la metà di quello a fine 2008. Adottando parametri economici di mercato, la Rai com’è oggi tende ad avere un valore economico netto negativo. Ha più dipendenti di Mediaset, Sky e La 7 messe assieme, cui si aggiungono alcune decine di migliaia di collaboratori. Il costo del lavoro incide per il 35%, contro il 13,4% di Mediaset e il 7,3% di Sky. I giornalisti sono oltre 1700: Bbc News, il più grande network mondiale di informazione, ne ha poco meno di 2000.

Visto che non si privatizzerà, sarebbe stato utile almeno ridefinire il servizio pubblico. Non esiste in Europa un modello unico. C’è un modello “liberale”, come in Gran Bretagna, dove il servizio pubblico è molto indipendente dalla politica del governo. C’è un modello “pluralista polarizzato”, con livelli considerevoli di lottizzazione e clientelismo politici, con l’Italia al peggio, insieme alla Spagna e alla Grecia del pre-default. C’è poi un modello di “stakeholder sociali”, a cavallo tra politica, fondazioni, consumatori, enti locali: tipico dei paesi scandinavi, e di Olanda, Austria, Svizzera, Belgio e Germania. Il modello “mediterraneo” è quello più inefficiente, per conti economici e ascolti. Se la BBC ha ancora il 50% dello share radio-televisivo, l’Italia vede la Rai combattere per quote molto più basse. Ci sono paesi che hanno abolito il canone come Spagna, Olanda e Polonia, sostituendolo spesso con fiscalità generale. Altri che concentrano il canone solo sulle reti di servizio pubblico come la BBC, ma a quel punto zero spot, riservati alla reti non legate al contratto di servizio pubblico come BBC World.

Verso quale di questi modelli andare anche in Italia, nella discussione della riforma non si è parlato. La Rai leverà gli spot dalla reti per l’infanzia, ma per il resto si parla solo di multimedialità digitale. Vedremo il futuro che cosa ci riserva. Al momento, la riforma è un’enorme occasione mancata. Che invece aveva ottime premesse. E che rivela la distanza tra quanto renzi promette, e quanto fa in concreto.

 

16
Dic
2015

I governatori pd battono Renzi: no a trivellazioni, senza una sola parola

No, non ci siamo proprio. La disattenzione generale alla bandiera bianca issata dal governo su ricerca e produzione di idrocarburi in Italia è l’estrema conferma di un paese che dei temi energetici non vuole e non sa discutere. Non si tratta solo dei politici, anche se loro per primi su questa questione preferiscono facile consenso a scelte serie. Che, dopo tanti anni passati ad accarezzare il pelo della demagogia antisviluppista andrebbero spiegate, e alienerebbero simpatie. E dunque perché rischiare? L’economia nazionale ne pagherà il conto in futuro, ma i voti sono oggi, e chi pensa alla prima e non ai secondi è perduto. Così ragionano troppi politici. Ma è anche vero che le loro scelte irresponsabili avvengono in un traumatico generale silenzio. Donne e uomini della finanza e dell’impresa tacciono, rassegnati e disillusi. I media, per parte loro, tranne rare lodevoli eccezioni non hanno quasi dato la notizia.

Pressato dai 6 quesiti referendari presentati a settembre da 10 regioni di cui 8 a guida Pd sugli articoli del decreto sblocca-Italia del 2014, il governo ha deciso di rimangiarsi la scelta che aveva fatto, quando si era tornati ad autorizzare ricerche ed estrazioni entro i 22 chilometri di acque costiere italiane. Dopo il divieto posto dalla ministra Prestigiacomo nel 2010. Le regioni hanno di conseguenza già vinto, prima ancora che a metà gennaio la Corte costituzionale si pronunci sull’ammissibilità dei quesiti. Il governo ha oggi troppi guai con il Pd dei territori in vista delle amministrative, per prendere sul serio al questione energetica italiana. Tanto vale gettarla alle ortiche. Senza enfasi. Tanto, cosa volete che sia…

Che depressione viene, constatando che a quasi nessuno ieri è sembrato importare un fico secco. Siamo l’unico paese al mondo ad aver posto un limite così sciocco. Possiamo esserne fieri? Siamo meglio della Norvegia e della Scozia? E per di più siamo dipendenti dall’estero per il 90% del nostro fabbisogno energetico, oggi che i prezzi sono bassi se ne vanno 3 punti di PIL l’anno per pagare petrolio e gas altrui. Ma col petrolio a 90 dollari il falò del PIL arrivava a 5-6 punti percentuali. Le illusioni ad alto incentivo pubblico delle affamate lobby ambientaliste ( siccome pioveranno le critiche: non sono affamate solo loro, sono affamate tutte le lobby, quella “rinnovabilista” compresa) dimenticano che nel 2014 il fabbisogno energetico mondiale è stato coperto all’87% dalle tre fonti fossili, carbone petrolio e gas. Poi da nucleare e idroelettrico , ma le altre fonti rinnovabili hanno contribuito solo per 0,6miliardi di tonnellate equivalenti petrolio su un consumo totale di oltre 13 miliardi.

Ma dei numeri in ballo per l’economia italiana futura sembra importare poco o niente a nessuno. I leader del Pd alla testa delle regioni hanno usato la questione per un doppio fine politico. Dimostrare al Renzi segretario Pd che si può dimenticare di essere lui da solo, a decidere per tutti. E rendere chiaro a Renzi presidente del Consiglio che lui potrà pure cambiare il Titolo V° della Costituzione riaccentrando le competenze su scelte strategiche come l’energia a Roma, ma intanto se la Corte costituzionale autorizza questi referendum sul facile tema del no al petrolio i governatori lo sconfiggono, e il governo a quel punto può scordarsi di riaccentrare tutto in ogni caso. Di qui la silente decisione governativa: dai ragione ai referendari, in modo che il referendum non si tenga. Poi si vedrà.

Una classica partita politica italiana: in cui i fini contano cento volte più dei mezzi con cui li si persegue, l’interdizione e il veto esprimono il potere assai più della cooperazione, e l’indifferenza per le conseguenze sostituisce l’interesse nazionale. La sorpresa, piuttosto, è la capitolazione improvvisa e muta di Renzi. Evidentemente non ha troppo torto, chi ha avuto l’impressione di una Leopolda di crisi e non d’innovazione.

A questo punto, è fin troppo facile prevedere che il divieto di ricerca ed estrazione diverrà totale, esteso anche a terra. Il governo spiegava riservatamente ieri che con questo mossa comunque si pensa di poter difendere i progetti intanto partiti. Dei 107 progetti di ricerca già concessi, 23 erano su fondale marino, e 41 quelli ai diversi gradi di esame, dalla preistruttoria alla valutazione ambientale. Concentrati soprattutto nel mare Adriatico, al largo delle coste romagnole abruzzesi e pugliesi, e nello Ionio di fronte alle coste pugliesi, calabresi e lucane. Per ciascuno di questi, è sorta una forte opposizione ambientalista. Con questo nuovo ripensamento del governo, si dà un’altra feroce botta alla credibilità necessaria ad attirare investimenti internazionali energetici in Italia. Come se ce ne fosse bisogno.

Nel 2014 la produzione italiana di idrocarburi ha soddisfatto il 10% del consumo totale nazionale, per un totale di 11,7 milioni di tonnellate di petrolio, olio combustibile per 5,7 milioni di tonnellate equivalenti petrolio, e gas per 5,9mln di TEP. Ma le riserve ragionevolmente accertate italiane ammontano all’equivalente di 10 anni di tali estrazioni. Mentre quelle potenziali stimabili giungono fino a 700 milioni di tonnellate equivalenti petrolio, per la maggior parte al Sud e in Sicilia. Naturalmente gli ambientalisti negano le stime, dicono che gli idrocarburi sono di bassa qualità, ripetono che tanto le riserve sono limitate. La loro alternativa è importare tanto, e un bel falò annuale di miliardi del contribuente annui a favore delle lobby rinnovabiliste.

Né all’Italia intera né al Sud devastato da questi ultimi anni sembrano interessare le pingui royalties che resterebbero sui territori (del 10% per le estrazioni di idrocarburi a terra e in mare, e del 7% per il petrolio in mare), gli occupati nell’indotto, le infrastrutture di trasporto e di raffinazione da realizzare localmente se si percorresse la strada di aumentare l’ìindipendenza energetica nazionale, il reddito che tutto ciò genererebbe, e che cosa si potrebbe fare invece di meglio migliorando la bilancia commerciale e incassando più gettito da idrocarburi di produzione nostra.

Le regioni hanno vinto la loro battaglia su Roma, i ras locali del Pd sul loro segretario. Questo solo conta, e sono le amare priorità di un paese senza priorità vere. Lo dico con il più profondo rispetto per chi si batte verso un mix energetico in cui le fonti fossili – che useremo ancora a lungo come largamente maggioritarie a coprire il fabbisogno – convivano con una maggior quota di rinnovabili: ma a patto che il mix sia perseguito con un’attenzione maniacale al conto economico generale dei costi-benefici per l’economia nazionale. Ancora una volta, invece, eccoci in presenza di decisioni che nascono da tutt’altro fine, e senza che nessuno si sia ropeso la minima briga di giustificarle con qualche numero.