20
Gen
2016

Se la multinazionale siamo noi

Il braccio di ferro tra Uber e i taxi che negli ultimi anni ha interessato tutto il vecchio continente e non solo si è giocato sostanzialmente su due fronti: l’obbligo delle auto a noleggio con conducente (le berline nere autorizzate a svolgere servizio di NCC) di tornare alla rimessa dopo ogni servizio prestato e il divieto imposto a UberPop, il servizio che permette a chiunque di mettere a disposizione la propria auto, “improvvisandosi” autista senza alcuna licenza o autorizzazione. Curiosamente, ma forse nemmeno troppo, quest’ultima vicenda – molto più della prima – ha riempito le pagine dei giornali e animato discussioni e malumori di autisti e clienti. Come mai? Probabilmente, anche perché nel primo caso le “vittime” della regolazione sono una multinazionale e i suoi dipendenti, per quanto legittime le loro istanze possano essere; nel secondo, a rimetterci siamo, almeno potenzialmente, noi e i nostri amici e parenti che usino la loro auto per “sfruttare” la multinazionale e così arrotondare o sbarcare il lunario. Nel caso di UberPop, il divieto riguarda sì Uber, ma anche la possibilità di usare la nostra auto come e quando desideriamo, e quindi potenzialmente tutti noi.

Ora è la volta di Airbnb, il servizio che permette di affittare la propria casa (o parte di essa), per periodi anche brevissimi di tempo. E che, in questo modo, sta facendo concorrenza al settore alberghiero, suscitando l’immancabile reazione della politica per difendere gli operatori tradizionali dalla distruzione creativa della sharing economy. Peccato che, questa volta, dietro la distruzione creativa ci siano, ad oggi, più di 150.000 persone che hanno deciso di affittare una stanza nel loro appartamento o la loro casa al mare. Se si considera che, secondo le stime, più di una famiglia su dieci in Italia ha una seconda casa, allora si capisce quanto estesa e rilevante possa essere la posizione degli stakeholders di qualsiasi norma che intenda difendere il settore alberghiero dalla concorrenza di Airbnb.

Questa battaglia, in realtà, è già cominciata. Lo scorso agosto, la Regione Lazio ha riformato la normativa sulle strutture ricettive extralberghiere, stabilendo che, “nei periodi di minor flusso turistico e in considerazione del numero complessivo di posti letto offerto dalle strutture alberghiere ed extralberghiere insistenti in zone urbane ad alta concentrazione di strutture ricettive”, i Comuni possano “stabilire, durante l’anno solare, specifici periodi di chiusura, non superiori a due nell’arco dell’anno, limitatamente alle strutture che svolgono attività ricreativa in forma non imprenditoriale”, oltre a quelli già previsti da regolamenti precedenti (art. 3, comma 1, Regolamento n. 8/2015). In altre parole, chi affitta la propria casa su Airbnb o gestisce un B&B in forma non imprenditoriale (secondo parametri relativi al numero di posti letto e al periodo di inattività, definiti dall’art. 9 del medesimo Regolamento n. 8/2015) sarà obbligato a chiudere non solo, rispettivamente, per 100 e per 90/120 giorni l’anno, nel periodo stabilito da ogni singolo Comune, ma anche in ulteriori “periodi specifici di chiusura” determinati dal Comune stesso.

Non solo: la Regione è anche intervenuta sui requisiti strutturali che devono essere garantiti dagli affittuari: per dare un’idea del suo grado di incisività, basti dire che la misura impone – ad esempio – di cambiare la biancheria del bagno agli ospiti ogni giorno, di avere in casa una “sala destinata alla somministrazione di alimenti e bevande” di almeno 14 metri quadri, di avere almeno una lampada da comodino, uno specchio, un armadio a due ante, un cestino e una piantina della città a disposizione, oltre che di installare un “sanitario water-bidet provvisto di doccetta limitrofa” in bagno nel caso in cui, per problemi di spazio, “non sia possibile la posa in opera separatamente del water con il bidet” (Allegato 1, Regolamento n. 8/2015).

Tutto ciò può sembrare – e in effetti è – grottesco. Perché mai non potrei affittare la mia casa, se il mio salotto misura meno di 14 metri quadri? E perché mai non dovrei poterla affittare per 100 giorni l’anno? Qual è la ratio di simili previsioni? La risposta è semplice: si tratta di provvedimenti che, sia pure in misura spesso attenuata, hanno sempre riguardato ostelli, B&B e altre strutture che – per loro natura e modalità di gestione – sono assimilabili agli alberghi. Ma che, al contrario, suonano ridicoli se applicati alla nostra casa al mare, all’appartamento ereditato in attesa di essere venduto o alla stanza di un figlio che è andato a studiare all’estero: cioè a tutti quei casi in cui, più che un business, Airbnb è un’opportunità di non sprecare risorse, condividendole con chi ne ha bisogno.

Dopo qualche mese dall’emanazione del regolamento, l’Autorità Garante della Concorrenza ha pubblicato un parere in cui sostiene che la previsione di periodi di chiusura obbligatoria così estesi comporterebbe “una ingiustificata restrizione dell’offerta […] a danno delle dinamiche concorrenziali nel settore e dei consumatori”, peraltro “proprio nel momento di massima affluenza prevista in occasione dell’avvio del Giubileo della Misericordia” (Bollettino n. 47 del 28.12.2015). Come nel caso di Uber, la politica non ha saputo resistere alla tentazione di regolamentare un fenomeno così nuovo e complesso in categorie vecchie, che con questo fenomeno hanno ben poco a che fare. E, ancora una volta, è stata l’Antitrust a dover intervenire nel difficile equilibrio tra la sharing economy e la sua regolamentazione. Dopo aver ricevuto il parere dell’AGCM, la Regione Lazio ha fatto sapere di ritenere legittimo il proprio operato, perché – fra l’altro – le case-vacanza e i B&B gestiti in forma non imprenditoriale non sono “imprese turistiche” e, di conseguenza, “neppure soggetti di mercato sottoposti ai principi concorrenziali”. Come dire: che cosa siano non l’abbiamo ancora capito, ma nel frattempo no pasaran.

Twitter: @glmannheimer

19
Gen
2016

Tutti per uno e solo alcuni per tutti – di Carlo Amenta

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Carlo Amenta.

“Con il DM del 31 luglio 2015 il MEF ha deciso che, entro il 31 gennaio, i medici italiani, unitamente agli altri soggetti erogatori di servizi sanitari quali aziende sanitarie e farmacie, devono trasmettere i nominativi e gli importi pagati dai pazienti a cui hanno fatturato prestazioni professionali all’agenzia delle entrate. I dati raccolti serviranno per una delle grandi semplificazioni del governo Renzi: il 730 precompilato. I contribuenti troveranno quindi già inserite le spese mediche deducibili e potranno assolvere ai loro adempimenti fiscali con minori preoccupazioni e costi. Per i medici però i costi, gli adempimenti e le preoccupazioni aumentano a dismisura: 100 € di sanzione per ogni nominativo omesso e fino a 50.000 € complessive. Read More

16
Gen
2016

Controcorrente: nella polemica Renzi-Juncker, i torti sono a casa nostra

Ci si può sbizzarrire a iosa, sui retroscena dello scontro al calor bianco che da ieri è messo a verbale tra l’Italia e la Commissione europea. Davvero senza precedenti. Il segnale dalla stampa stamane, è che sia pur con toni diversi praticamente tutti i grandi giornali hanno dato ragione al premier. Del resto, questa è l’aria che tira sempre più in Italia ( e non solo da noi): è un facile sport, dare la colpa ad altri dei propri guai. Lo stesso Juncker ha detto di esitare a comprendere le ragioni profonde degli attacchi di Renzi, “forse perché da tempo ho lasciato il teatro della politica nazionale”. Renzi ha risposto duramente. Ma prima di lui aveva replicato il ministro Padoan, molto più morbido. “Non avevamo alcuna intenzione di offendere”, erano state le sue parole. Un modo gentile che non esclude affatto che parole e toni usati da parte dell’Italia siano stati eccessivi.

Se andiamo ai fatti, prima di interpretarli, ci sono almeno 4 dossier rilevanti sui quali, da dicembre in poi, l’Italia ha oggettivamente “cambiato marcia” nei confronti dell’Europa: i conti pubblici, l’immigrazione, le banche, gli aiuti di Stato. I toni non li ha cambiati solo Renzi, a essere precisi. Anche la Banca d’Italia, fatto ancor più senza precedenti nella storia italiana, ha iniziato a usare toni durissimi contro Bruxelles. Sui quattro temi, a mio giudizio l’Italia ha ragione solo su uno di essi: ma in quel caso la polemica dovrebbe essere contro il Consiglio Europeo, non contro la Commissione.

CONTI PUBBLICI. E’ un dato di fatto che le interpretazioni più flessibili del fiscal compact, su come attenuare la riduzione del deficit e del debito pubblico, calcolando non solo gli effetti del ciclo ma anche clausole meno restrittive che “abbuonano” quote di deficit aggiuntivo valutando le riforme varate e maggiori cofinanziamenti agli investimenti europei da parte dei paesi non in equilibrio, siano state emanate dalla Commissione europea. Non certo per un preminente ruolo italiano. Perché è la Commissione, nell’architettura dei poteri comunitari, a essere la guardiana dei Trattati, della lettera e dello spirito che li informa, della necessità che le regole siano scritte non facendole dettare dalla politica nel Consiglio Europeo, ma in maniera “terza”. E’ proprio questo, a irritare i governi, che considerano la Commisisone composta da “funzionari”: il che è come disconoscere i Trattati.

E’ altrettanto vero però che alla nomina di Juncker si giunse sulla base di un accordo politico pro-flessibilità. come rivendicato da Renzi. Ma è anche altrettanto vero che è un’oggettiva forzatura, la pretesa del governo italiano di aver “già varato” tutte le riforme necessarie e concordate. Il dato di fatto è che la crescita stimata al 2016 dell’Italia – in un ranking comparato aggiornato da Bloomberg all’inizio di questa settimana – resta al’85° posto su 95 paesi. La ripresa dell’occupazione resta lenta, ed è addirittura scesa nella coorte giovanile tra i 15 e i 24 anni. Si risale al 2,2 e anzi al 2,4% di deficit dall’1,6% concordato, abbandonando del tutto la spending review annunciata a inizio-governo, e varando invece – parole di Renzi nella conferenza stampa di fine anno – una “spending lorda” con cui palazzo Chigi rivendica di poter spostare da una voce all’altra la spesa più necessaria, senza ridurla ma a saldi finali peggiorati. In più, il governo ha fatto scrivere per tre mesi alla stampa italiana che lo sforamento era già concordato con Bruxelles. Mentre non era e non è così, visto che la Commissione si è riservata il giudizio finale sulla finanziaria 2016 alla prossima primavera.

IMMIGRAZIONE. L’oggetto della polemica italiana – fattualmente, la più giustificata, compresa l’indisponibilità ai 300 milioni come quota parte dei 3 miliardi da destinare su questo tema alla Turchia di Erdogan –  – dovrebbe essere il Consiglio Europeo, non la Commissione. E’ il concerto politico tra governi europei ad esser saltato in aria, da agosto ad oggi, dopo l’apertura non contrattata della Merkel ai profughi, e a seguito di un’ininterrotta serie di frizioni a catena dei paesi nord e centro europei, che di fatto rischia di far saltare il principio di libero transito delle frontiere interne dell’Unione, senza per altro aver rafforzato quelle esterne. Eventi che hanno messo in scacco la stessa cancelliera tedesca a casa sua, per altro. E che fanno da sfondo all’assoluta assenza di una politica estera e di difesa davvero comuni, dalla lotta all’ISIS alla Libia alla Siria passando per le sanzioni alla Russia.

BANCHE. Su questo, i fatti restano per nulla chiari. La Banca d’Italia, all’esplosione delle polemiche in Italia dopo il decreto legge di risoluzione delle 4 banche dell’Italia centrale, ha sferrato in un’audizione parlamentare un attacco durissimo alla Commissione. Ci avrebbe imposto lei di colpire gli obbligazionisti subordinati, lei avrebbe detto no all’intervento del fondo a tutela dei depositanti, dopo esser rimasta sorda a due richieste che fino a quel momento tutti abbiamo ignorato esser state avanzate da via Nazionale. E cioè o il rinvio dell’applicazione della direttiva europea sul bail in fino al 2018 invece che da gennaio 2016, o per lo meno che si applicasse solo ai titoli di emissione successiva e non a quelli in essere. E’ stato fatto capire che le autorità italiane avevano carte ufficiali di Bruxelles contenenti questi diktat. Ma queste carte non sono mai state prodotte, e la Commissione ha invece duramente replicato che tutte le decisioni sono state italiane, a cominciare da quella di intervenire non a caso prima che il bail in entrasse in vigore. Aggiungiamoci che, di fatto, tutti in Italia siamo tenuti all’oscuro dei particolari concreti sui quali si articolerebbe da un anno e mezzo il confronto tra Roma e Bruxelles sulla presunta e ormai ipotetica bad bank con garanzie pubbliche, volta a sgravare il sistema bancario nazionale di almeno una parte dei ben 360 miliardi di euro tra sofferenze e incagli che pesano come un macigno sulla solidità e propensione al credito delle nostre banche.

AIUTI DI STATO. A cominciare dall’ILVA, abbiamo tutti scritto per mesi che l’Italia regole alla mano stava andando a sbattere contro una motivata contestazione. Dispiace dirlo, ma le polemiche alimentate dall’Italia per interventi di Stato altrove a sostegno di banche, come recentemente avvenuto in Germania nel caso HSH Nordbank o i Portogallo per Banif e Banco Espirito Santo, sono tecnicamente infondati perché relativi a dossier aperti anni fa, quando le regole europee erano diverse rispetto alla direttiva oggi in vigore e nata – col pieno consenso italiano- proprio al fine di evitare nuove esposizioni pubbliche a favore delle banche.

Questi sono i fatti. Restano poi le libere interpretazioni. La tentazione di palazzo Chigi di cavalcare l’antieuropeismo che gonfia i sondaggi grillini e leghisti. Le difficoltà elettorali in vista per le amministrative. O, peggio, la valutazione in fieri di non potere e voler rispettare gli impegni della prossima legge finanziaria. Visto che a ottobre si dovrebbe votare il referendum confermativo sul nuovo testo della Costituzione. Proprio mentre si dovrebbero trovare 22-23 miliardi solo per far saltare le nuove clausole di stabilità e per adempiere agli impegni già presi, quando si sbandiera ogni giorno che il 2017 sarà anche l’anno di tagli sostanziali a IRAP e IRES per le imprese. Si capirà meglio il 29 gennaio, quando Renzi incontra la Merkel a Berlino.

14
Gen
2016

Società partecipate e servizi pubblici locali: ancora non ci siamo

Il Governo di Matteo Renzi si accinge ad emanare due decreti legislativi, in materia di servizi pubblici locali di interesse generale e di società a partecipazione pubblica, in virtù della delega contenuta nella legge n. 124/2015.

Da quello che è dato comprendere dalla lettura dei testi che il Governo ha fatto circolare prima dell’adozione dei decreti medesimi si può affermare che siamo di fronte alla scrittura di due provvedimenti che servono ad assicurare il coordinamento fra le varie norme sparse in diverse e numerose leggi e a dare coerenza e razionalità all’intero sistema. Del resto ad un attento esame già i criteri ed i principi direttivi della legge delega non potevano fare sperare in alcunché di rivoluzionario e facevano presagire piuttosto la redazione di due decreti prevalentemente compilativi. Read More

7
Gen
2016

Contro lo Stato tiranno: occupy Oregon—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Sul Corriere della Sera di due giorni fa è comparsa la breve cronistoria di una vicenda rimbalzata dalla stampa americana, molto preoccupata, Washington Post in testa, e che lancia accuse pesantissime: terroristi. I terroristi sarebbero i fratelli Bundy (Ammon e Ryan), che hanno occupato un edificio in una zona remota dell’Oregon, una baita a Burns, centro operativo della forestale. L’iniziativa è stata lanciata per protestare contro la prossima detenzione di due agricoltori, i fratelli Hammond, che sono stati denunciati perché hanno bruciato erbe e sterpaglie senza permesso su un terreno federale. Un giudice ha deciso che la pena di tre anni che avevano già scontato era stata troppo breve e dunque devono tornare in cella per altri due anni.  Read More

6
Gen
2016

Ora si estenderanno anche a unioni civili: ma le pensioni di reversibilità vanno riformate

Lo scontro sulle cosiddette “unioni civili” è tornato ad arroventarsi. In teoria, al Senato il dibattito dovrebbe aprirsi tra tre settimane. Ma solo all’ultimo minuto si capirà davvero la soluzione ai tre problemi che dividono i partiti. Il primo è politico. Il secondo riguarda l’adozione concessa a chi ha già figli precedenti alla sottoscrizione dell’unione civile (ma alla coppie gay: sì o no?). Il terzo investe una diversa questione che riguarda i diritti economici: la pensione di reversibilità ai superstiti.

Apparentemente, i problemi uno e due sembravano aver trovato soluzione, sia pure all’italiana. Renzi è intenzionato ad andare avanti comunque, sapendo che Alfano e i suoi voteranno no in nome del fatto che comunque l’adozione, quand’anche non esplicitamente consentita ai gay, di fatto ne sarebbe solo un’anticamera, per un’inevitabile o comunque assai probabile estensione attraverso la pronunzia di qualche giudice. Renzi tirerebbe dritto contando riservatamente sul fatto che Alfano non uscirebbe dal governo e che i 5 stelle voterebbero il provvedimento, senza per questo modificare la loro opposizione all’esecutivo. C’è chi pensa che la Chiesa potrebbe mobilitarsi frontalmente contro, e che Renzi dovrebbe o potrebbe tenerne conto. Ma è più probabile che la Chiesa sappia bene che il premier lancia con le unioni civili un messaggio alla sua sinistra, e che un intervento ecclesiale a gamba tesa comporterebbe solo il rischio di un testo ancora più aperto al pieno riconoscimento dei diritti omosessuali.

La novità di questi giorni è il terzo tema. Quello della pensione di reversibilità concessa alle coppie omosessuali, ma non a chi sottoscrive un’unione civile eterosessuale. I sostenitori dell’attuale testo invocano a suo fondamento la direttiva europea 2000/78 contro le discriminazioni sul lavoro che, secondo una sentenza della Corte di Giustizia Europea, viene esplicitamente violata in caso di mancato riconoscimento della pensione di reversibilità a coppie omosessuali, che abbiano sancito la loro unione nelle diverse forme oggi previste dai diversi ordinamenti nazionali. Ma c’è chi obietta alla reversibilità, con due posizioni distinte. La prima, allineata al no alle adozioni, considera ulteriormente inaccettabile la pensione ai supersititi tra omosessuali, in quanto ulteriore parificazione dell’unione civile al matrimonio eterosessuale. La seconda, al contrario, non obietta a consentire la pensione di reversibilità agli omosessuali, ma la invoca per eguaglianza costituzionale anche per i sottoscrittori eterosessuali di unioni civili, altrimenti discriminati e “spinti” per così dire, solo a contrarre un matrimonio vero per vedersi garantita pienezza di diritti.

Se esisterà una maggioranza forte coi 5 stelle, è facile scommettere che la prima obiezione verrà respinta, mentre la seconda verrà accolta. E qui veniamo però a un punto che nessuno sembra considerare. Al di là di quanto ciascuno può pensare sulle unioni civili (personalmente: favorevolissimo e senza discriminazioni di sesso) e sui diritti da riconoscere loro rispetto al matrimonio, questa riforma dovrebbe spingere il legislatore a una revisione profonda dei criteri che oggi disciplinano la pensione di reversibilità. Sono criteri generosi, molto generosi, fissati quando esisteva solo la famiglia in senso ristretto ex articolo 23 della Costituzione, quando in media un solo coniuge lavorava, e alla vedova superstite (in media, stanti le diverse aspettative di vita secondo genere) andava garantito un reddito. Ora che il vecchio vincolo matrimoniale risulta significativamente allentato dalla nuova disciplina del divorzio breve introdotta 10 mesi fa, con 6 mesi soli di separazione pre divorzio in caso di separazione consensuale tra i coniugi e in 12 mesi la separazione in caso di giudiziale, ora che si vuol procedere all’estensione della pensione di reversibilità anche ai contraenti dell’unione civile, non ha più senso continuare ad adottare quei vecchi criteri. Se la famiglia è istituzione più debole per l’ordinamento, allora vanno modificati i criteri che ne traducevano la centralità e stabilità precedente in concreti diritti patrimoniali e reddituali. Per quanto riguarda l’entità dell’assegno divorzile di fatto sta già avvenendo non per legge ma nella giurisprudenza. Fatta 100 la media rispetto al reddito precedente dei primi anni di giurisprudenza nel determinare l’assegno, siamo ormai scesi verso quota 40 e anche 30.

A maggio ragione dovrebbero essere modificate le nome sulle pensioni di reversibilità ai superstiti, che ammontano ormai nel 2015 alla bellezza di circa 40 miliardi di euro con 4,8 milioni di assegni. A oggi, al trattamento di reversibilità è ammesso il congiunto di un familiare scomparso che abbia maturato 15 anni di contributi o anche solo 5 anni, almeno 3 dei quali, però, nel quinquennio precedente la data della morte. E c’è reversibilità anche se lo scomparso era titolare di un assegno di invalidità. In percentuali diverse la pensione di reversibilità è ammessa oggi per il coniuge, in sua mancanza a figli e nipoti, e via via, a determinate condizioni, anche ai genitori del defunto. Per il coniuge, il trattamento va oggi anche al superstite separato, se riceveva l’assegno alimentare. E a quello divorziato, se riscuoteva l’assegno divorzile e non si è risposato. Se si era risposato il defunto, la reversibilità si divide tra secondo coniuge dello scomparso e precedente coniuge non risposato. E se vi risposate invece come superstite dopo aver incassato la reversibilità, allora perderete sì il diritto ma in cambio di un assegno finale una tantum pari a due anni di trattamento!

Tutte queste regole relative alla reversibilità pensionistica tra coniugi, o almeno sicuramente le percentuali degli assegni se non i diritti a incassarli, non possono restare eguali al passato, in un paese dove l’INPS sta in piedi grazie a circa 100 miliardi di trasferimenti annui a carico della fiscalità generale. Personalmente penso da tempo che già dovremmo rivedere quelle regole relative ai coniugi, commisurando la reversibilità anche all’età anagrafica del percipiente e alla sua occupabilità, per evitare il fenomeno delle ventenni badanti che sposano ottantenni mirando alla pensione. Ma a maggior ragione è irragionevole sostenere che abbia senso, assegnare una pensione di reversibilità al sopravvissuto di un precedente co-contraente di unione civile, quand’anche entrambi ne avessero intanto contratte altre, come capita oggi tra coniugi…

A questa osservazione critica, i sostenitori della pensione a superstiti nelle unioni civili tra omosessuali è sempre stata che non c’era assolutamente da preoccuparsi in termini di finanza pubblica: perché le  proiezioni nel caso italiano della diffusione di unioni simili sulla base di quanto avvenuto in paesi che le hanno riconosciute (o hanno introdotto il vero e proprio matrimonio gay), legittimano a pensare che in Italia avremmo non oltre 2500 coppie gay che sottoscrivono l’unione civile il primo anno, e non oltre 85 mila cumulate entro il 2030. Il che significa, applicando tassi di mortalità attesi ed età dei contraenti, un aggravio sul bilancio INPS nell’ambito di pochi milioni di euro.

Ma questa obiezione non coglie il punto. Primo, se si riconosce la reversibilità alle unioni civili tra gay bisogna farlo come abbiamo visto anche per quelle tra eterosessuali. E in quel caso il totale cumulato i 15 anni diventa di molte centinaia di migliaia anzi di qualche milione. Secondo: non ha proprio senso in termini di principio, continuare a ragionare su criteri indipendenti da età e occupabilità del superstite, si tratti di coniuge o “unito civile”, ex coniuge o ex “unito civile”. Abbiamo alzato di brutto l’età pensionabile a milioni di italiani non a caso, a fine 2011: e in materia previdenziale o c’è coerenza tra la logica complessiva e i singoli trattamenti, oppure continuiamo a costruire un’Italia di diseguaglianze e ingiustizie. Persino quando si varano riforme che vogliono estendere i diritti, come nel caso delle unioni civili.

5
Gen
2016

ILVA: ora lo Stato tragga lezioni dal suo fallimento

Renzi l’ha ribadito ieri con tono deciso: il governo italiano deluderà chi (leggi: in Europa, India e Cina) punta alla chiusura dell’ILVA di Taranto. E il ministro Guidi ha firmato ieri stesso il decreto con il quale parte la gara ad evidenza pubblica per rilevarla. Tempi stretti: manifestazioni d’interesse da presentare entro il 10 febbraio. L’obiettivo è di comporre un quadro certo di nuovi azionisti entro la prima metà del 2016, come fissato dal nono decreto legge succedutosi negli ultimi tre anni e mezzo intorno alla tormentosa vicenda dell’imponente acciaeria tarantina. Un tempo, il primo impianto siderurgico europeo. Da quando – nel luglio 2012 – è cominciata la via giudiziaria dell’esproprio senza indennizzo ai soci privati, che l’avevano rilevata da uno Stato dilapidatore nell’acciaio di 27mila miliardi di lire solo negli ultimi 15 anni pre-privatizzazione, è invece diventata la storia di un clamoroso insuccesso di Stato. Un insuccesso-bis, dopo l’enorme distruzione di valore realizzata dallo Stato proprietario prima della privatizazione.

In nessun paese avanzato esiste l’analogia di un processo per disastro ambientale ad acciaieri privati – nel mondo, dagli Usa alla Germania alla Polonia alla Cina e all’India, l’acciaio si produce ancora con il carbone – che “parta”, ancor prima del processo, con l’esproprio dell’azienda. L’Italia si è inventata il codice penale come via sostituiva al diritto di proprietà, e ora ne paghiamo le conseguenze. Intendiamoci: l’accusa che muove la magistratura, la morte cioè di 174 persone tra il 2005 e il 2014, pretende un processo senza esclusione di responsabilità. Ma a tre anni e mezzo dagli arresti lo Stato non è arrivato neanche all’udienza preliminare. Nel frattempo l’impianto è in agonia. E abbiamo sommato quattro conseguenze una più grave dell’altro. Il colossale falò di risorse – nazionale, non solo aziendale – avvenuto grazie all’esproprio di Stato. Una procedura d’infrazione europea. Una pesante sberla da parte della magistratura elvetica. E aver fatto venire la tentazione a tutti i concorrenti mondiali di considerare chiusa la partita e finita la produzione italiana.

I danni sono ingentissimi. Tre mesi fa la Svimez ha stimato nei primi 2 anni e mezzo in almeno 10 miliardi di euro le conseguenze negative già accumulatesi. Una perdita secca di investimenti fissi lordi pari a 2,19 miliardi di euro. Una caduta dell’export di 4,45 miliardi di euro. Un aumento dell’import estero di acciaio per 1,78 miliardi, che nei primi mesi del 2015 è ulteriormente salito del 25%: da settembre scorso ormai importiamo più acciaio di quel che produciamo. Una perdita cumulata di consumi delle famiglie – 11.600 mila dipendenti a Taranto che salgono a 17 mila con l’indotto, 800 a Novi Ligure e 1.400 a Genova – pari a 1,45 miliardi di euro. E i 10 miliardi si superano sommando i 2,5 mliardi di patrimonio netto aziendale bruciati nei primi due anni e mezzo, a cui non sappiamo quanto altro sommare visto che su questo i commissari straordinari tacciono. L’azienda è stimata oggi perdere dai 35 ai 50-60 milioni al mese. A questi ritmi, seguendo il modello di stima SVIMEZ le risorse bruciate saranno pari a un punto di PIL.

La procedura d’infrazione europea per aiuti di Stato è arrivata due settimane fa, ma era pendente da mesi. Esattamente un anno fa, il governo faceva scrivere ai giornali di una newco imminente con intervento di privati italiani ed esteri e ruolo di garanzia di Cdp, che sarebbe partita sulla base di 800 milioni di garanzie pubbliche e 1,2 miliardi di capitale fresco da riversare all’attuazione dell’AIA e delle bonifiche. Quel miliardo e due doveva provenire dai conti privati dei Riva in Svizzera. Peccato che la magistratura elvetica tre settimane fa abbia – più che comprensibilmente – negato l’esproprio, sulla base dell’assoluta mancanza di garanzie che la devoluzione all’ILVA espropriata potesse essere considerato un atto legittimo, in assenza di qualunque condanna dei Riva stessi. Alla rogatoria chiesta dalla magistratura italiana, molti anche in Italia si erano interrogati sul carente presupposto di legittimità, ma il governo era rimasto sordoo e aveva ritenuto di procedere. Dopo il no elevetico, ecco che gli esposti presentati a Bruxelles dai concorrenti europei dell’ILVA si sono tradotti in una procedura d’infrazione formale: a presentare gli esposti in prima fila i tedeschi di Wirtschaftsvereinigung Stahl, l’organizzazione che raggruppa gli imprenditori tedeschi dell’acciaio, ma anche la stessa Eurofer, l’associazione di siderurgici europei che ha visto la Federacciai italiana presieduta da Antonio Gozzi finire in assoluta minoranza. Nel mirino, 250 milioni pubblici di prestito bancario, poi altri 400 milioni di prestito ponte, e gli 800 milioni che il governo pensava di affiancare al miliardo e duecento milioni dei Riva. Inutile dire che, agli occhi dei concorrenti europei, chiudere l’ILVA definitivamente significa risolvere una bella fetta dell’eccesso produttivo di acciaio di oggi soffre l’Europa nella frenata dei mercati mondiali. Con tanti saluti a Taranto, al nostro Sud disastrato, e alla ripresa italiana che a parole dovrebbe stupire il mondo.

Se questo riguarda il passato, a questo punto ci sono almeno quattro punti rilevanti per guardare al futuro, prendendo sul serio il governo. Primo: la gara di evidenza pubblica riguarda l’affitto a tempo degli impianti o la loro completa proprietà, separandoli nettamente in entrambi i casi dal passato e dai relativi contenziosi? Apparentemente, sembra che il bando riguardi più la rpima che la seconda ipotesi.  Secondo: l’aggiudicazione riguarda l’ILVA com’è, oppure l’azienda divisa in pezzi? Terzo: quale sarà il ruolo di CDP nella nuova cordata, a sostegno con garanzie o con capitale diretto, e in che misura? E sin qui siamo alla cornice finanziaria- gestionale.

Ma la vera domanda è un’altra. Che modello produttivo s’intende seguire per ILVA , nel momento in cui si cercano partner italiani – i soliti nomi che già un anno fa si ritrassero di fronte ai rischi di contenzioso, Marcegaglia, Arvedi, Amenduni – e fondi di private equity, ed eventualmente anche gruppi siderurgici stranieri che diano garanzie di non voler ridurre significativamente la produzione ( con Arcelor-Mittal, auguri…) ? Gli impegni alla de-carbonizzazione dell’acciaio assunti alla COP21 di Parigi non verranno adottati da Cina, India e verosimilmente neanche dagli Usa. Ma se volessimo prenderli sul serio, il passaggio dal carbone al gas per alimentare il ciclo continuo dell’acciaio significherebbe investimenti imponenti, nell’ordine di un paio di miliardi almeno, per alcuni anni: in parallelo alle bonifiche previste dall’AIA che lo Stato, intanto, nel mentre non processa ma espropria i Riva accusati di non averle condotte, per proprio decreto invece protrae temporalmente nell’attuazione, e magari salva anche i nuovi entranti dal condurle in proprio! A quel punto sarebbero Eni o Enel, coinvolte nella partita per le rispettive dotazioni di gas, soprattutto puntando all’Eni che in teoria ne ha eccedenze stimate nello stesso Mediterraneo? Il presidente della regjone Puglia Emiliano un mese fa ha scritto al governo lanciando esattamente questa palla. Il governo non gli ha risposto.

Vedremo se dopo tre anni e mezzo lo Stato ha capito la lezione dal suo fallimento. O si prepara a nuovi, devastanti pasticci. Ma una cosa è sicura. Senza un ragionamento in grande e senza competenze siderurgiche serie al posto dei commissari giudiziari che ne sono sprovvisti e si è ben visto dal risultato, senza un’impostazione combattiva sinché si vuole ma anche capace seriamente di reggersi di fronte alle obiezioni europee, Taranto, la Puglia, il Sud e l’Italia porteranno a casa un danno che da disastroso diventa permanente.

31
Dic
2015

L’ABC 2016 del governo Renzi, purtroppo non è un oroscopo

A come Agenda. L’agenda Renzi 2016 ha tre pilastri. Il primo è economico: sperare che la frenata mondiale di Cina e Paesi emergenti non comprometta una crescita del Pil italiano di almeno un punto e mezzo. Il secondo, le elezioni amministrative: evitare il più possibile danni alla linea di galleggiamento, cominciando da Roma ma non solo. Il terzo: comunque vadano le amministrative, vincere il referendum confermativo sulla riforma costituzionale. Questa terza boa è decisiva: dipende dal risultato nelle città, e da come palazzo Chigi riuscirà ad appassionare gli italiani a una riforma costituzionale che lascia tutti freddi, e che comporta rischi a esser presentata come un referendum Renzi sì-Renzi no. Non essendoci il governo in palio molti potrebbero votare no, giusto per dargli un segnale.

B come Boschi. Molti pensano che se e quando arrivasse un avviso di garanzia a Pier Luigi Boschi per le vicende di Banca Etruria, il premier sarebbe costretto a far dimettere sua figlia. Sbagliano. Già il premier ha sorpreso non pochi, non intervenendo personalmente in aula sulla mozione personale di sfiducia al ministro. Ma in nessun caso il governo potrebbe accettare l’idea di sue dimissioni. Significherebbe ammettere di essersi sbagliati sin dall’inizio, nel sottovalutare la portata della questione.

C come CDP. La Gallia è divisa in tre parti, scriveva Cesare nel De bello gallico. Invece di parti ne dovranno sostenere moltissime, Gallia e Costamagna nominati da Renzi alla guida della Cassa Depositi e Prestiti. Dalla salvezza dell’ILVA a comprare treni e autobus per il trasporto pubblico locale, dalla banda larga a Telecom Italia, dalla band bank per sgravare il sistema del credito da sofferenze e incagli, non c’è praticamente capitolo dell’agenda Renzi in cui non si pensi di aver pronta una Mediobanca pubblica nuova di zecca, a prova di obiezione europea e alimentata dal sicuro risparmio postale degli italiani. Si compirebbe così una parabola già vista in 20 anni nella sinistra italiana: si presenta come blairista, ma resta statalista.

D come Deficit. Il governo dà per scontato che la Commissione Europea non oserà obiettare al fatto che il governo italiano ha di fatto abrogato l’obiettivo a medio termine di contenimento del deficit, che è la vera regola europea contrattata e da rispettare, non il 3% di deficit come sempre invece ripete Renzi. Può essere che, nel caos europeo, il governo abbia ragione. Ma la vera fortuna del governo è un’altra, sulla finanza pubblica che torna a propugnare il deficit. L’inesistenza di una destra ancorata a una credibile linea del rigore. Comparando gli intenti di Lega e 5 stelle, se anche Renzi sfidasse l’Europa alzando il deficit anche oltre il 3% gli direbbero che non basta, non che sbaglia.

E come Europa. La sfida italiana alle procedure d’infrazione su alcuni punti delicati è diventata la cifra dell’ultimo Renzi. Di fatto, oggi nessuno sa dire come nel 2016 governo a Bankitalia affronteranno il problema di 200 miliardi di sofferenze che diventano 360 comprendendo gli incagli, che pesano nei conti delle banche, impediscono le fusioni delle maggiori popolari che il governo ha trasformato in Spa, come l’aggregazione di quasi 400 BCC in una o al massimo due grandi holding nazionali. E’ uno dei maggiori guai irrisolti della crescita italiana. Credere di poterlo fare cavalcando il no alle regole e alla vigilanza europea significa condannarsi a non attirare capitali esteri. Forse porta voti, ma assomiglia a un tentato suicidio.  Che sposa disinvoltamente la difesa di anni e anni di prassi collusive dei regolatori italiani con management bancari di bassa qualità, scarsa trasparenza, ed elevatissimo conflitto d’interessi.

F come Fisco. A fine dell’anno prossimo, il governo dovrà poter mantenere la promessa di abbattere IRES e IRAP e le ulteriori clausole di stabilità previste per oltre un punto di Pil, che con il maggior deficit 2016 sono ancor più pesanti da annullare. Non potrà consentire agli Enti Locali di riprendere ad aumentare le tasse locali, dopo averli bloccati nel 2016. Anzi, dovrà sostenerne non pochi che continueranno ad avere l’acqua alla gola, da Roma alla Sicilia. Chi ha sognato che dal 49% di entrate totali sul PIl con Renzi si potesse scendere verso il 40% in una intera legislatura, si è illuso.

G come Grillo. Per Renzi la crescita metodica dei 5 stelle nei sondaggi, da mesi a questa parte, non è un problema. Resta convinto che, alla fine, con tale antagonista, alla fine gli italiani preferirebbero lui, compresa una bella fetta di elettorato di destra e moderato. Un bell’azzardo. A giudicare da molte elezioni europee, dall’Ungheria alla Polonia passando per Grecia e Spagna, non è affatto detto che le cose andrebbero in quel modo. Ma fin dal primo giorno la legislatura si è incamminata su questo binario, stante che a destra Salvini gioca a concentrare su di sé il residuo elettorato di destra, non a mettere in piedi una credibile opzione di governo. Se però alle amministrative i pentastellati mietono trofei, molti nel Pd non seguiranno la convinzione di Renzi che alle politiche sarà diverso.

H come Hashtag. La quintessenza della comunicazione governativa, cioè dell’azione dell’esecutivo. Innovazione freschissima e rottamatrice all’inizio, rispetto a Monti e Letta. Dopo due anni, per molti mostra la corda. Le slides coi gufetti non fanno più sorridere. I decreti annunciati a fumetti, coi testi però che non si vedono per settimane sulla Gazzetta Ufficiale, da parte di un governo non sono il trionfo della modernità, ma il ritorno all’opacità di un procedimento legislativo in cui lobby e interessi mettono mano alle norme in stanze riservate. Certo, Renzi non sarà mai un compassato statista in doppio petto gessato. Magari, nella sua ristretta cerchia di spin doctor qualcuno potrebbe però capire che è venuto il momento di una correzione: meno slides e più fogli excell.

I come Italia. Era dai tempi di Craxi, che un premier non batteva tanto sul tema dell’ottimismo e della fede nazionale in se stessi. L’effetto si è visto: è vero che la fiducia di famiglie e imprese si è impennata ben più di tanto facesse il PIL o la ripresa di redditi e consumi. Negli ultimi dati proprio a dicembre, si avverte però qualche primo segno di stanchezza, come se gli italiani si interrogassero sul rischio di risbattere il naso. Il 2016 dirà agli italiani se la fiducia è stata ben risposta.

L come Lotti. Il ristrettissimo cerchio gigliato intorno a Renzi è stato sin qui la cerchia dei pochi ai quali il premier riserva fiducia assoluta. E’ naturale per certi versi, viste le precedenti esperienze amministrative del premier. Ma comporta rischi evidenti, tanto nella guida del partito quanto nella valutazione delle scelte di governo e sulle nomine. Vedremo nel 2016 se davvero a palazzo Chigi e nella segreteria Pd Renzi aprirà a coloro che gli attribuiscono eccessi di diffidenza, autoappagamento e solitudine del potere,

M come Milano. Per Renzi è essenziale che Sala vinca bene le primarie Pd e poi palazzo Marino. Serve a pareggiare un disastro a Roma che a oggi sembra certo. Allo stato delle cose, i pentastellati a Milano sembrano molto più deboli che altrove e hanno una candidata debolissima. E la destra ancora non sa che pesci prendere. Sala ha il voto di molti moderati, non quello della sinistra-sinistra. Ma se al ballotaggio andasse in candidato credibile di una destra non urlatrice, non è detto che Sala ce la farebbe.

N come Napoli. Tra pochi giorni si capirà se il caso giudiziario De Luca è davvero chiuso. Nel qual caso, in pochi giorni Renzi dovrà decidere se sposare Bassolino fino in fondo come candidato sindaco, oppure lavarsene le mani. In ogni caso, Napoli e la Campania come gran parte del Sud restano nel Pd il maggior problema aperto per Renzi segretario del partito. I “suoi” non sfondano e non governano. Un bel problema al voto politico con l’Italicum, imporgli poi capilista bloccati espressione del segretario e non dei territori.

O come Occupazione. Il terreno per eccellenza della comunicazione governativa: l’Istat non rileva affatto l’aumento di occupazione netta fino a ottobre 2015 che il governo vanta sul 2014, e nemmeno l’impennata di lavoro a tempo indeterminato. Ma il governo preferisce i dati sulle rilevazioni amministrative di cessazioni e accensioni di nuovi contratti. Nel 2016, a fiammata della decontribuzione alle imprese ormai contenuta al 40% rispetto al 2015, capiremo meglio. Una cosa è certa, l’occupazione nel Sud disastrato non riparte per davvero se il il PIl nella media nazionale non torna a crescere verso il 2% annuo.

P come Produttività. E’ la grande assente del dibattito pubblico nazionale, e anche dall’agenda del governo. Neanche un centesimo dell’attenzione riservata all’abrogazione delle tasse sulla prima casa, va invece al fatto che da oltre 20 anni perdiamo produttività multifattoriale rispetto a tutti i paesi avanzati. Il governo da solo non può far miracoli, perché serve una rivoluzione vera nel modo di contrattare il lavoro nelle aziende, nel settore dei servizi non esposti alla concorrenza, nell’organizzazione della distribuzione e della logistica nazionale, nel technology transfer tra ricerca avanzata e innovazione di processo e prodotto. Ma aiuterebbe molto abbattere accise e burocrazia, sposare coi decreti attuativi della riforma Madia una rivoluzione vera nei salari e criteri di produttività della PA, detassare molto di più i contratti aziendali nel settore privato. La produttività non fa voti, purtroppo.

Q come Quiz. Da ragazzo, Renzi partecipò a un quiz che è nella storia della tv italiana, la Ruota della Fortuna condotta da Mike Bongiorno. Il quiz di oggi che lo vede protagonista da premier sembra assomigliare sempre più a un altro classico: il Rischiatutto, sempre con Bongiorno. Se non vince, finisce più mestamente ai Pacchi, con Flavio Insinna.

R come Roma. Giachetti o Anzaldi: il premier potrebbe giocare “la matta” al tavolo delle elezioni romane. A oggi, la partita è compromessa per il Pd e assegnata ai 5stelle, e i commissari Tronca-Gabrielli non possono fare miracoli. Il Pd romano appare esausto, piegato su se stesso e su una degenerazione micronotabilare che i predecessori di Renzi non hanno saputo leggere e sventare. Un uomo nuovo è necessario: ma non ci sarà il tempo per un progetto serio, di una nuova Capitale dove tutto ciò che è Campidoglio e partecipate è da rivedere.

S come Sinistra. Nei sondaggi ultimi, la somma di SEL e residui di Rifondazione, più i fuoriusciti a sinistra dal Pd, inizia a salire verso il 6-8%. Non è poi così trascurabile, per Renzi. In alcune città, a cominciare da Torino e Milano, potrebbe essere la carta che fa perdere i candidati sindaci renziani.

T come Tagli. Di spesa, ovviamente: archiviati, dimenticati, addirittura derisi. Le parole che Renzi riserva a Cottarelli sono lampanti: voleva spegnere l’illuminazione pubblica. Peccato. E’ persa ancora una volta l’occasione per una rivisitazione complessiva dello sconfinato perimetro pubblico italiano che intermedia il 51% del PIL, a cominciare dalle 12mila pletoriche partecipate locali. Alla conferenza stampa di fine anno Renzi ha lanciato la formula dalla spending-lorda: se taglio qualcosa, rialloco la spesa in un altro capitolo che mi serve di più. Siccome nel frattempo alziamo anche il deficit previsto, con la spending-lorda la spesa continuerà a salire. Una vera anticura all’obesità di Stato.

U come Uomo politico. Nel 2016, per Renzi guardarsi da Nikita Kruscev. Diceva: gli uomini politici sono uguali dappertutto, promettono di costruire ponti anche dove non c’è un fiume.

V come Vanità. Molti reputano che Renzi sia troppo vanitoso. Tra i politici, a pensarlo e dirlo sono soprattutto quelli la cui vanità è offesa da quella che denunciano nel premier. Il punto da capire è come la penserà al momento giusto la maggioranza degli italiani, dovendo scegliere tra le vanità di tutti i leader contrapposti.

Z come Zavorra. Viene sempre un momento in cui un premier e segretario di partito devono sbarazzarsi di pesi morti. Ignazio Marino ne sa qualcosa, aveva fatto l’impossibile per diventarlo. Renzi dovrà fare difficili scelte di questo tipo nel 2016. Dopo, al momento decisivo delle liste elettorali nazionali con 100 capilista bloccati, potrebbe essere tardi.