26
Apr
2016

Dopo Hannover restano 4 grossi guai tra Usa e Ue

Il vertice di Hannover tra Obama, Merkel, Cameron, Hollande e Renzi non ha purtroppo aggiunto nulla di nuovo a quanto era già chiaro. In sintesi, quattro lezioni sono di fronte a noi, ed è difficile capire se Stati Uniti ed Europa davvero troveranno il modo di uscire dagli errori sin qui commessi, ognun per sé e nei loro reciproci rapporti.  Sono errori pesanti: riguardano la sicurezza comune cioè la NATO, il Medio Oriente,  gli scambi commerciali, e le conseguenze anche per gli USA di un’eurocrisi politica che, da conclamata qual è già, può diventare presto galoppante.

Se guardiamo alla sicurezza europea, Obama chiude il suo mandato sotto il segno del disincanto. Nel 2008, il suo tour tedesco suscitò entusiasmi spettacolari, dopo i che i suoi predecessori erano associati alla guerra in Iraq e Afghanistan. Ma aver delegato alla Germania il timone della crisi russo-ucraina si è rivelato un enorme errore da parte di Obama. Di fatto, Germania e Ue non si sono rivelati in grado di una vera regia politico-militare capace di ingaggiare Putin. Non potevano farlo, visto che la politica di difesa comune all’Europa manca. A oggi, restano le sanzioni alla Russia e nessuno sa come uscirne, perché Mosca non ci pensa proprio a far marcia indietro dalla Crimea e Ucraina orientale. Il rafforzamento dello schieramento americano nell’Europa centrale e orientale della NATO deciso da Washington a fine 2014 ha alzato la tensione militare con Mosca, ma non risolve nulla.  La NATO è avvertita sempre più debole come cemento comune, proprio dai paesi est europei che vedono l’euroscetticismo crescere a ogni elezione (e non sono i soli). Ad Hannover, di questo, praticamente non se n’è parlato.  Se ne occuperà il prossimo inquilino della Casa Bianca.

In Medio Oriente, non casualmente una grande novità è venuta proprio mentre i 5 leader entravano nel castello di  Herrenhausen. Il contestato neoleader nazionale libico Serraj ha chiesto un intervento internazionale militare, a difesa degli impianti energetici libici minacciati dall’Isis. Renzi, fedele alla linea italiana secondo cui tutto deve passare per l’ONU, ha garantito piena disponibilità, se solo la domanda è inoltrata e approvata dal Palazzo di Vetro. Ma in realtà ieri ad Hannover i leader Ue erano divisi: di fatto, le forze speciali francesi sono già da mesi sul campo impegnate a favore del generale Haftar, che attacca Isis in Cirenaica e nella Sirte non riconoscendo affatto Serraj, e Parigi lavora in sienzio per una frattura della Libia d’accordo con il generale al Sisi, il raiss del Cairo. Con il quale i rapporti italiani sono ai minimi termini per via dello stallo sulla dolorosa vicenda Regeni. E mentre anche forze speciali britanniche si danno da fare nella Sirte. La delega americana all’Italia sulla Libia di fatto non viene riconosciuta da Parigi e Londra. E Obama si è presentato in Europa dovendo ammettere che nel 2011 ha commesso un gravissimo errore, perché non aveva minimamente un piano dopo la destituzione militare di Gheddafi. Al contrario, in Medio Oreinte tutte le energie di Obama sono andate in questi due anni all’accordo con l’Iran. Non a caso, nel 2010 un editorialista del New York Times in visita alla Sala Ovale della casa Bianca si avvide che gli orologi internazionali a parete riportavano le ore di Teheran, di Pechino e dello Yemen, ma di nessuna capitale europea.  Spetta al governo italiano, di conseguenza, valutare quanto e come tutelare i nostri interessi in Libia prima che Parigi e Londra rifacciano il bis del 2011.

Sul commercio, Obama si è presentato tardi e male per promuovere il grande accordo transatlantico commerciale, il TTIP. A differenza dell’analogo strumento transpacifico firmato dagli USA con le 10 maggiori economie asiatiche nell’ottobre dell’anno scorso, ma che il Congresso Usa comunque non ratifica, il negoziato con l’Europa dopo quasi 3 anni è ancora fermo su alcuni punti fondamentali. Arduo immaginare dunque che l’accordo si chiuda prima della fine della presidenza Obama: il che significa che se ne riparlerà tra un paio d’anni, se va bene.

Malgrado Usa e Ue siano i primi partner commerciali reciproci, e Washington abbia importato dall’Europa beni e servizi nel 2015 per più di 100 miliardi di dollari di quanto abbia fatto dalla Cina, ad oggi negli USA il dibattito delle elezioni presidenziali è diventato ostile alle intese commerciali, mentre in Europa la controinformazione populista di nazionalisti e autarchici ha finito agevolmente per attribuire al TTIP una vera e propria leggenda nera, come se si trattasse di consentire attacchi alla salute e ai redditi degli europei in nome di inconfessabili interessi di zannute multinazionali americane. In realtà il TTIP serve a darsi standard e regole comuni. Ma i dissensi sono ancora forti: sugli arbitrati internazionali a cui affidare contese commerciali senza incartarsi nelle differenze dei diversi ordinamenti giudiziari; sulla infinita lista di eccezioni, oltre 200, avanzate sia dagli Usa che dai Paesi europei sui settori da escludere all’offerta su base paritaria di servizi; sul no degli Usa ad aprire le loro forniture pubbliche a imprese europee; e naturalmente sull’agricoltura, che è ipersussidiata pubblicamente e fonte di voti su entrambe le rive dell’Atlantico. Pessimo affare, aver lasciato per tre anni che l’unica informazione sul TTIP e la sua colossale portata potenziale di miglioramento degli scambi euro-americani venisse condotta dai no global di ogni colore.

Infine, l’eurocrisi. Non è un guaio crescente e forse incontrollabile che investe solo noi. Per gli States non è affatto priva di effetti. Anche se nelle primarie americane risuonano toni praticamente e simmetricamente analoghi a quelli delle recenti elezioni austriache, francesi, ungheresi e polacche.  Se a fine giugno il Regno Unito sceglie l’uscita dall’Unione Europea, alla crisi di Schengen e a quella turca, alla nuove difficoltà greche e portoghesi, al dramma irrisolto dei migranti si sommerà un biennio di trattativa con Londra – questo è il tempo previsto dal Trattato europeo. Durante il quale si voterà di nuovo in Spagna, e nel tempo in Francia, in Germania, nella stessa Italia. Su ogni turno elettorale, la presa e la portata degli argomenti favorevoli a rompere l’Europa, da destra e da sinistra, saranno sempre più forti. Per l’Italia ad alto debito e banche debolissime, sarebbe un disastro ritrovarsi di nuovo esposta sui mercati (checchè si dica, è certo che avverrebbe).  Ma anche per l’America sarebbe un pessimo affare, ritrovarsi con un’Europa a pezzi pronta all’appeasement con Putin e con Erdogan,  e con nessuna voglia di combattere ISIS in nome di un comune interesse occidentale. Naturalmente, non resta che sperare che così non sia. Ma il rischio c’è, bisogna saperlo.

26
Apr
2016

L’attualità de “Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza”—di Tomaso Invernizzi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Tomaso Invernizzi

Molti dei problemi che oggi dividono la cosiddetta opinione pubblica nelle discussioni private, sui social network, nel dibattito politico… potrebbero essere affrontati diversamente, aumentando le possibilità di giungere ad un’intesa almeno parziale e provvisoria, leggendo o rileggendo l’agile saggio di Karl Popper Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza del 1960. Molti temi, dal dibattito sul nucleare ai confronti in materia di politica economica (tassazione, protezionismo, regolazione…) vengono affrontati da buona parte dei partecipanti con la presunzione di possedere la verità e che essa sia manifesta. La concezione che secondo Popper è alla base dell’attribuzione di credibilità a fonti di ignoranza è la teoria della verità manifesta, l’idea cioè che la verità sia evidente e a disposizione di tutti. Se non tutti riconoscono la verità è perché sono offuscati da alcuni pregiudizi ed errori facilmente superabili. Altre volte l’ignoranza è protratta da poteri che cospirano per impedire alla massa di vedere la realtà (si pensi alla teoria marxiana per la quale le classi dominanti producono ideologie, ossia mascheramenti della realtà atti a mantenere lo status quo). Read More

22
Apr
2016

Se la crescita economica fosse come la crescita umana

Qualche tempo fa ricordo di aver ascoltato per radio la proposta di una parlamentare: sostituire alla crescita economica un obiettivo di “a-crescita” e introdurre politiche per promuoverlo. La sua argomentazione consisteva in una idea molto diffusa: “le risorse del pianeta sono finite e quindi non possiamo crescere all’infinito”. Questa convinzione è anche condivisa da coloro che inseguono il contrario della crescita – la decrescita. Personalmente ho anche letto qualcosa di Serge Latouche e apprezzato diversi fautori della decrescita ai quali, come me, piace la natura, coltivare il proprio orto e trascorrere tempo in convivialità.

Voglio però essere chiaro sul mio punto di vista: la crescita è lo scopo della vita. Ciò che non cresce muore. L’universo stesso si espande. Un’economia senza crescita è un’economia morta.

D’altro canto, se io non metto in discussione la necessità e l’auspicabilità della crescita economica, non escludo che siano utili riflessioni sul significato di crescita.  Per questo ho scritto le righe seguenti partendo dal presupposto che riflettendo sull’Uomo si possa capire l’Economia e che dietro queste diatribe economiche si nascondano domande più profonde.

Un aspetto che dimentichiamo nei nostri dibattiti è collegato con la differenza tra crescere e invecchiare. Ho da poco terminato un libro in cui  il pastore americano Rick Warren spiega, da una prospettiva spirituale, come non siano la stessa cosa. Nella nostra società siamo invece abituati a misurare la crescita di una persona a livello anagrafico e la sua maturità in base all’aver accumulato un certo numero di anni, solitamente diciotto. Eppure limitare la nozione di crescita ad una questione di anni da raccogliere, come se fossero i punti del supermercato, è in contrasto con l’evidenza quotidiana: quante volte incontriamo persone invecchiate ma non cresciute e persone che sono cresciute prima di invecchiare?

Il creatore di Netflix ha scritto che il primo requisito che si aspetta dai suoi dipendenti è di essere un adulto responsabile; evidentemente è una caratteristica non scontata. Il documento in cui l’ha scritto, The Netflix culture code, è considerato ora un punto di riferimento per le aziende che aspirano a creare il migliore ambiente di lavoro e, a detta di Sheryl Sandberg (COO di Facebook) è “uno dei più importanti documenti mai usciti da Silicon Valley” con attualmente più di 14 milioni di visualizzazioni. Per Netflix le caratteristiche di un “rara persona responsabile” sono: self motivating, self aware, self disciplined, self improving, acts like a leader, doesn’t wait to be told what to do, picks up the trash lying on the floor [la traduzione in italiano sarebbe, letteralmente: auto-motivata, cosciente di sé, auto-disciplinata, auto-migliorante (capace di migliorarsi), si comporta come un leader, non aspetta che gli si dica cosa fare, raccoglie la spazzatura dal pavimento].

E se la crescita economica fosse come la crescita umana? Composta cioè di una serie di variabili difficilmente misurabili che però fanno la differenza?

In “GDP : a brief but affectionate story” Diane Coyle solleva questo dubbio e riflette sull’adeguatezza del PIL come strumento per misurare la crescita economica. Oggi, infatti, “l’economia è un’entità intangibile e non primariamente fisica”. Le statistiche del PIL sono state introdotte in un contesto economico nel quale si producevano beni fisicamente misurabili, come tonnellate di acciaio e di grano. In un’economia basata su servizi, innovazione e prodotti più intangibili, le misure quantitative diventano meno appropriate. Da questo punto di vista, Coyle osserva come la nostra percezione della grande stagnazione globale potrebbe essere peggiorata da un gap sempre più vasto tra il miglioramento del benessere economico e la nostra capacità di misurare questo miglioramento. Internet ne è l’esempio lampante: poiché gran parte del suo contenuto è gratuito non possiamo misurarne il valore in base a quanto i consumatori lo pagano. Eppure il valore di tutto questo contenuto a costo zero contribuisce ad un netto miglioramento del surplus del consumatore.

Se la crescita economica fosse come la crescita umana, consisterebbe, dopo aver accumulato una serie di compleanni e di centimetri di spina dorsale, anche in un insieme di fattori soggettivi e non oggettivamente misurabili. Per diventare adulta, in altre parole, alla nostra economia non basta crescere in reddito, ma anche in  responsabilità. Responsabilità, indipendenza, auto-sufficienza sono le caratteristiche con cui Wikipedia descrive, da un punto di vista legale, l’età adulta. Da questo prospettiva credo che, sia che vogliamo crescita o de-crescita, tutti vorremmo un’economia con più responsabilità e auto-determinazione.

Resta inteso che per avere crescita economica, spiega Paul Romer nella Concise Encyclopedia of Economics, dobbiamo cambiare il modo di fare qualcosa creando più valore.

Economic growth occurs whenever people take resources and rearrange them in ways that make them more valuable.

[La crescita economica si verifica quando le persone prendono delle risorse e le ri-organizzano in modi che le rendono di maggior valore.]

Siccome il valore è una variabile soggettiva, la crescita economica dipende, oltre che dalla nostra inventiva, anche da ciò a cui noi diamo valore. Come misureremo la crescita economica in un Paese dove la generazione di ieri sognava di possedere un automobile, e la generazione di oggi sogna  di non possederla? Come cresce l’economia quando la Silicon Valley segue il modello organizzativo di un’azienda come Netflix e riconosce valore a aspetti come responsabilità, consapevolezza e disciplina?

Queste sono domande di non facile risposta; tra le poche certezze che abbiamo, possiamo aspettarci che la crescita economica futura sarà diversa da quella che ha caratterizzato il ventesimo secolo, ma potenzialmente infinita e sicuramente auspicabile. Forse non ci troveremo d’accordo su alcuni termini, ma in tanti concordiamo sul fatto che l’economia in cui viviamo, per diventare adulta, libera e responsabile, deve ancora crescere molto.

20
Apr
2016

Su Google e Android, l’Europa eviti fughe in avanti

Il Canada lascia, l’Europa raddoppia. Per una curiosa coincidenza, nelle stesse ore in cui la Commissione Europea formalizzava a Google i propri addebiti relativi al sistema operativo Android, che si affiancano a quelli già enunciati nel 2015 a proposito del servizio di ricerca, il Canadian Competition Bureau decideva di archiviare l’istruttoria aperta contro l’azienda californiana. Il provvedimento del regolatore canadese segue quelli dello stesso tenore annunciati, negli anni scorsi, dagli omologhi americani e sudcoreani. Pare lecito, dunque, interrogarsi sulla fondatezza del diverso orientamento manifestato dalle istituzioni comunitarie.

La Commissione imputa a Google l’abuso di una posizione dominante nel settore dei sistemi operativi mobili. Come noto, i quattro quinti degli smartphone venduti nel mondo girano su Android. Che Google goda di un sostanziale monopolio nel mercato dei terminali mobili – come talora si ripete pigramente – è, di per sé, una conclusione opinabile: in primo luogo, perché quantificare le quote di mercato in termini di unità vendute anziché di ricavi generati restituisce un’immagine piuttosto fuorviante dello scenario competitivo; in secondo luogo, per le implicazioni del peculiare modello di business perseguito dall’azienda californiana.

Il mestiere di Google non è quello di produrre e vendere telefonini: il suo contributo al settore consiste nella messa a punto e nel costante aggiornamento del sistema operativo Android – tralasciamo l’eccezione della linea Nexus, peraltro assemblata da produttori indipendenti, che Google commercializza a mo’ di vetrina delle potenzialità di un dispositivo Android in purezza. Dico “in purezza” perché, più che un sistema operativo, Android è una galassia di sistemi operativi. Non solo il software è diffuso in formato open source, a disposizione di chiunque desideri manipolarlo, modificarlo o sezionarlo per crearne versioni non ufficiali (è, per esempio, la strada scelta da Amazon per il Kindle Fire), ma anche le versioni – per così dire – ufficiali, pur conformandosi a una serie di linee guida volte ad assicurare il pieno supporto di tutte le applicazioni progettate per Android, possono essere ampiamente personalizzate.

Difficile scorgere in queste modalità di utilizzo di Android il potenziale per abusi – tanto che neppure i solerti funzionari della Direzione generale per la concorrenza vi hanno dedicato particolare attenzione. I produttori di dispositivi, tuttavia, possono anche scegliere di equipaggiare i propri smartphone di una suite di applicazioni prodotte da Google, proponendo ai consumatori una specie d’interpretazione autentica di Android. È su questi accordi che l’indagine della Commissione si sofferma.

Per reiterare: si parla di una libera scelta dei produttori, che hanno la facoltà di utilizzare il sistema operativo gratuitamente e liberamente, senza includervi applicazioni come il Play Store e l’app della ricerca Google. Se, però, desiderano precaricare anche una sola app, Google richiede l’installazione del pacchetto completo. Il ragionamento economico sottostante è intuitivo. Se la strategia commerciale di Google si regge sulla (monetizzazione della) ricerca e sull’intermediazione della vendita di contenuti e applicazioni, consentire ai produttori di operare una cernita minerebbe la sostenibilità del sistema. Quello stesso sistema, del resto, assorbe i costi legati allo sviluppo dei prodotti che Google offre senza un ritorno immediato – tra questi, appunto, il sistema operativo Android.

Basta il vincolo fin qui descritto a determinare il preteso effetto anticoncorrenziale? È importante notare che gli accordi non prevedono diritti d’esclusiva: nulla vieta ai produttori di dispositivi di caricare applicazioni (proprie o di terze parti) che svolgano le medesime funzioni – ed è quello che tipicamente avviene. Ancora più importante, e totalmente trascurato dall’analisi della Commissione, è il ruolo del vero protagonista della vicenda: il consumatore. L’assetto preordinato dai produttori è destinato a durare solo fino all’apertura della scatola. A partire da quel momento, la facoltà di rimuovere applicazioni sgradite, installarne di nuove o modificare le impostazioni originarie è pressoché illimitata. Al contempo, la possibilità di contare su una configurazione di partenza riconoscibile riduce i costi di apprendimento e migliora l’esperienza di utilizzo.

Sin dall’inizio del proprio mandato, il commissario Vestager ha fatto di Google un bersaglio privilegiato, giungendo al punto di capovolgere le determinazioni del proprio predecessore Almunia e riaprire un caso che poteva sembrare ormai chiuso. I simboli hanno cittadinanza in politica – e la politica della concorrenza non fa eccezione. Proprio per la visibilità del caso, però, una decisione frettolosa avrebbe un impatto profondamente deleterio tanto sulla tutela della competizione in Europa, quanto sullo sviluppo di quel mercato digitale che Bruxelles spergiura di voler coltivare. L’analisi delle decisioni adottate da altri regolatori in casi simili potrebbe fornire utili spunti agli uffici della Commissione.

20
Apr
2016

Macché prepensionamenti scassa-INPS: rafforzare la previdenza privata con meno fisco

Scrivevamo pochi giorni fa che il cantiere delle pensioni italiane non si ferma mai. Infatti, rieccoci. Ma questa volta non sono più indiscrezioni ufficiose, o richieste di questo o quell’esponente politico o sindacale. E’ stato ufficialmente Il ministro Padoan, ieri, a confermare che nella prossima legge di stabilità si riapre il capitolo. I particolari mancano, ma di qui alla prossima legge di stabilità il dibattito è ufficialmente aperto.

A che cosa pensa il governo? Padoan ha detto che «ci sono margini per ragionare sugli strumenti e sugli incentivi, e sui legami tra sistema pensionistico e mercato del lavoro per migliorare le possibilità” sia di chi deve entrarvi sia di chi deve uscirne. Il governo è «sicuramente favorevole a un ragionamento complesso» sul tema delle pensioni e «aperto a fonti di finanziamento complementare». Il presidente dell’INPS Boeri, da parte sua, questa volta non ha rilanciato la sua proposta di prepensionamenti giustificata con l’idea che i posti dei lavori dei prepensionati vadano ai giovani – mai dimostrata, nei fatti, e anni fa lui stesso lo scriveva – ma ha lanciato anche il tema dell’amaro destino che si prospetta per i lavoratori più giovani. Chi è nato nel 1980 e, a causa del tardivo ingresso nel mercato del lavoro e della contribuzione non continuata cioè con un gap di 10 anni di versamenti, corre il rischio di maturare la pensione a 75 anni, e con non più di 750 euro al mese per un quarto dei degli uomini e il 40% delle donne.

Per capire a quali interventi pensa il governo, qualche numero sui conti previdenziali. E’ di ieri la cifra ufficiale di un’ulteriore crescita della spesa pensionistica “in senso stretto” – senza ssistenza – a oltre 261 miliardi nel 2015, con 4 miliardi di sforamento sul previsto. La spesa annua è di quasi 4 punti di Pil superiore alla media europea: noi siamo sopra il 16%, e a legislazione invariata nei prossimi 4 anni la spesa crescerà di ulteriori 20,5 miliardi, passando dai 261,9 previsti nella Nota Def per il 2016 – saranno di più, alla luce del dato 2015 reso noto ieri – ai 282,4 del 2019. La da tanti odiata riforma Fornero ci ha consentito di non sfondare il tetto del 18% di PIl in spesa previdenziale. Ma da qui al 2050 la spesa previdenziale non scenderà mai sotto il 15%, come ha scritto la Ragioneria Generale dello Stato nell’ultimo Rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo del sistema.
Detto questo, diciamo che ci sono tre scelte diverse possibili, tra loro molto diverse anche se componibili in un’infinità di variabili concrete.

La prima è quella che piace a molta destra, parecchia sinistra e sindacati. Smontare radicalmente il meccanismo di accelerazione rapida di identificazione dei requisiti di anzianità e di vecchiaia, e modificarne altrettanto radicalmente il progredire automaticamente collegato all’avanzamento delle attese di vita. Chi ripete che così si aprono posti di lavoro ai giovani dimentica che le aziende sono certo felici di svecchiare l’età media degli organici, ma preferiscono poi pescare dal vasto bacino della disoccupazione e cassa integrazione per assumere personale già formato, non i giovani. Sta di fatto che intervenire radicalmente sui coefficienti che abbiamo ricordato prima porta molto facilmente a tornare verso una media annua di spesa come quella che la riforma Fornero ci ha evitato. Non solo si alza la cifra complessiva del deficit previdenziale a carico della fiscalità generale. Soprattutto si inguaiano ancora di più quei giovani lavoratori che preoccupano Boeri, visto che nel sistema a ripartizione tocca a loro ogni mese, coi loro contributi, pagare le pensioni erogate eventualmente in anticipo agli attuali 55-57enni.

Tuttavia, prendiamo buona nota del fatto che il sottosegretario alla presidenza Nannicini ieri ha parlato esplicitamente di misure in grado di generare un deficit aggiuntivo non superiore ai 5-7 miliardi. Che già ci preoccupano, sugli 11 totali chiesti all’Europa come flessibilità aggiuntiva per il 2017, ma sono sempre meno della sberla riconducibile invece alla prima ipotesi. A questa cifra si arriverebbe con prepensionamenti ma in cambio di una penalizzazione sia pur non integrale, cioè con assegni non pienamenti tagliati in proporzione al numero maggiore di anni di pensione a cui si avrebbe diritto, cioè con tagli tra il 2 e il 3%. In parlamento, difficile immaginare che resterebbero, ma accettiamola come ipotesi. A questo si aggiungerebbero interventi come il cosiddetto “prestito pensionistico” che ai sindacati non piace (e dovrebbero compartecipare anche le aziende, anzi pure le banche come se con questi chiari di luna non avessero di meglio da fare..),e una minor penalizzazione dei fondi pensione.

Una riflessione incidentale: li abbiamo uccisi in culla, i fondi previdenziali. Su 4mila miliardi di euro di ricchezza finanziaria degli italiani, solo 36 miliardi costituiscono il patrimonio dei fondi negoziali definiti nei contratti di categoria, e solo 50 miliardi sono amministrati dagli oltre 200 fondi privati non negoziali. A questo si aggiungono altri 50 miliardi circa di prodotti finanziari a vari titolo a scopo anche previdenziale.Il totale dei sottoscrittori di fondi privati è calcolato in circa 6,5 milioni di italiani: tuttavia 1,5 milioni versavano in maniera molto discontinua prima della crisi e se ne sono aggiunti altri 1,6 milioni. Quelli veramente abbastanza in regola sono i 2 milioni i lavoratori che sottoscrivono i fondi negoziali primi, e circa 600mila nei fondi precedenti. Se il totale dei teoricamente iscritti rappresenta più di un quarto dei lavoratori italiani, quelli che versano regolarmente sono solo circa il 10%. Perché? Perché i tetti di detrazione fiscale sono bassi, e il governo in sovrappiù ci ha messo una tassazione più alta, al 20% sul maturato dei fondi pensione.

Se dovessimo indicare una preferenza, sceglieremmo allora la terza ipotesi. Quella costruita su una svolta vera favorevole ai fondi pensione. Non solo una sforbiciata radicale alla loro tassazione, e un aumento elevato del tetto di detrazione sui versamenti liberi dei lavoratori, magari tanto più elevato quanto minore è l’età contributiva: questo significa davvero pensare alle difficoltà di chi è più giovane, non prepensionare i lavoratori più avanti con gli anni. E magari, in aggiunta, guardare anche al modello praticato in diversi paesi europei: in cui non c’è solo una pensione pubblica che a quel punto potrebbe avere importi più bassi della nostra (l’ha proposto da anni Guliano Cazzola), ma c’è un secondo pilastro comunque obbligatorio e incentivato costituito da versamenti a fondi privati ( a cui devolvere TFR pari al 7% monte salari e una modica contribuzione mista lavoratore-impresa per arrivare al 10%, scalandole da contributi oggi devoluti a INPS), e infine un terzo lasciato completamente libero e comunque fortemente agevolato a pensioni ulteriormente integrative. Questa terza via non solo aiuta i giovani, ma prende integralmente in carico l’esigenza di ridurre la pesa pubblica previdenziale per il futuro.

Vedremo dove andrà a parare il confronto politico. In ogni caso, è già apprezzabile che il governo sembri escludere la prima ipotesi. Ma la terza sarebbe quella ideale. naturalmente, inutile dire che a esserne convinti siamo in pochissimi.

 

14
Apr
2016

Prepensionati in part time a esborso pubblico: ma perché, quando zero finora per povertà?

Il cantiere delle pensioni italiane non si ferma mai, l’instabilità di orientamenti della politica è sempre alla ricerca di nuovi interventi. Che, come effetto, alimentano una percezione pubblica di totale insicurezza in milioni di italiani. Ieri è stato approvato il decreto attuativo di una delle due misure previdenziali previste nella legge di stabilità 2016, relativo al prepensionamento anticipato in forma di part time. Lo dichiaro subito: non sono per nulla d’accordo. Non capisco proprio, con un governo che non ha ancora fatto nulla per la povertà (potrei aggiungere: né per i giovani disoccupati, numeri alla mano della somma di Jobs ASct e decontribuzione sullo stock occupati 2016 su 2015)), come e perché si trovino fondi pubblici per far passare chi un lavoro ce l’ha a tempo indeterminato a un part time, pagandogli i contributi figurativi come se restasse a tempo pieno e assicurandogli retribuzione aggiuntiva esentasse. Proprio non lo capisco, è solo un’ulteriore conferma che politica e sindacato hanno in mente che sta relativamente meglio, rispetto a chi sta sicuramente peggio.

Ma prima di capirne significato e impatto, serve una premessa, sui numeri previdenziali complessivi.

Tutti ripetono che la spesa previdenziale italiana è stata messa in sicurezza come in nessun paese europeo. In realtà la spesa previdenziale annua è di 4 punti di Pil superiore alla media europea: noi siamo sopra il 16%, e a legislazione invariata nei prossimi 4 anni la spesa crescerà di ulteriori 20,5 miliardi, passando dai 261,9 previsti nella Nota Def per il 2016 ai 282,4 del 2019. A farla crescere, essenzialmente la demografia dell’Italia: cresce la longevità ma non il tasso di partecipazione al lavoro e l’occupazione. Sono queste le cifre che dovrebbero essere costantemente ricordate, da sindacati e  partiti che chiedono incessantemente di tornare ad abbassare i tetti previdenziali in graduale salita, disposti dalla riforma Fornero. Viene sollevato ripetutamente l’argomento che prepensionare servirebbe a creare automaticamente posti di lavoro per i giovani: quando non funziona affatto così, perché in presenza di alta inoccupazione le imprese continuano a preferire lavoratori le cui abilità sono già formate, cioè non i giovani. Persino a fronte dell’elevatissima decontribuzione offerta alle imprese nel 2015 per i contratti a tutele crescenti, a giovarsene sono stati gli over cinquantenni con oltre 280mila occupai aggiuntivi, mentre tra i 35 e 49 anni abbiamo perso 206 mila occupati in Italia, se raffrontiamo fine febbraio 2016 con lo stesso mese del 2015, e per i più giovani la variazione è stata inferiore alle 20mila unità. Da qui al 2050 la spesa previdenziale non scenderà mai sotto il 15% del Pil, come ha scritto la Ragioneria Generale dello Stato nell’ultimo Rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo di sistema pensionistico e socio-sanitario, presentato a luglio scorso.

Abbiamo sin qui speso oltre 12 miliardi per i 7 interventi di salvaguardia dei cosiddetti esodati, finendo per comprendere in 180mila soggetti tutelati sempre più over 55enni disoccupati di lungo periodo, in realtà non direttamente colpiti dalla riforma Fornero. E in legge di stabilità 2016 il governo ha giustamente respinto le proposte – forti anche nel Pd – di abbassare per tutti l’età pensionabile, accogliendo invece la proroga della cosiddetta opzione donna, per risolvere il problema di un requisito pensionabile che nel 2016 sarebbe salito per le dipendenti del settore privato di 22 mesi nel solo 2016, e poi il part-time incentivato di cui appunto ieri è stata approvata la norma attuativa.

In realtà, si tratterà di un regime sperimentale per al più 15-20mila soggetti, finanziato infatti con soli 60 milioni di euro per il 2016 (il titolo di Repubblica stamane sui 400mila soggetti ai quali sarebbe riservato è, mi spiace dirlo, un’asinata: con che soldi?) . Riservato ai dipendenti privati – non pubblici,né autonomi – con almeno 20 anni di contributi, che maturino entro fine 2018 il requisito anagrafico previsto dalla legge Fornero e cioè che abbiano a fine 2015 almeno 63 anni e 7 mesi di età. Le donne non escluse, come tutti ripetono, a loro si è già provevduto: le nate nel 1951 potevano già andare in pensione, e idem dicasi per quelle della classe ’52 in questo 2016 grazie a una deroga alla Fornero. Per la classe femminile 1953, il requisito Fornero si raggiunge solo nel 2019, quindi solo per loro nulla da fare. Questi soggetti potranno andare in part time agevolato con riduzione d’orario fino al 60%, con l’erogazione in busta paga da parte dell’impresa in maniera esentasse dell’equivalente che sarebbe stato versato dall’azienda come contributi se il rapporto fosse prestato a tempo pieno, e contributi figurativi versati anch’essi dallo Stato (quindi: versati per finta, coperti in deficit) come se il contratto restasse invariato. I contributi figurativi sono a carico statale, ed è su questi che scatta il tetto dei 60 milioni. I primi che sottoscriveranno accordi di questo genere ne avranno diritto: finita la dote prevista nel bilancio pubblico, il diritto non sarà più esercitabile ( a Repubblica hanno deciso di non accorgersene).

Quel che si può prevedere, dunque, è che a beneficiarne saranno poche migliaia di dipendenti, per lo più di grandi gruppi che saranno i più lesti. Insomma, è l’ennesimo intervento a latere. Che farà però scaldare i motori alle richieste che puntualmente verranno riavanzate al governo da destra e sinistra nel prossimo autunno, per abbassare radicalmente per tutti di 2-3 anni i tetti previsti dalla legge Fornero.

Il governo ha promesso che qualcosa farà. Ma le diverse proposte sin qui dibattute, quella dell’onorevole Damiano come quella del presidente Inps Boeri, sono tutte caratterizzate dall’aggravare nel breve il deficit previdenziale. Il responsabile economia del Pd Taddei e il sottosegretario Nannicini, che a palazzo Chigi ha in mano i dossier di finanza pubblica, ripetono sempre che l’intervento dovrà essere a parità di deficit, cioè con tagli agli assegni proporzionati all’anticipo previdenziale. E la decisione finale sarà presa solo quando, di qui a 6 mesi, sarà un po’ più chiaro il quadro della crescita europea e del deficit aggiuntivo complessivo accordatoci.

Quel che non entra in testa a politica e sindacato è che col sistema contributivo la flessibilità d’uscita è sì coerente  benvenuta, ma bisogna accettare assegni più bassi quanto prima si accede alla pensione rispetto ai tetti previsti dalla Fornero, cioè a parità attuariale della rendita spalmata in più anni generata dal montante versato. E’ molto difficile pensare che nel prossimo autunno questa idea venga accettata, visto che sindacati, destra e sinistra pensano ai consensi immediati e non all’equilibrio di bilancio previdenziale (ogni anno: poco meno di 100 miliardi vengono all’Inps dalla fiscalità generale). In quel caso, saranno i giovani, come sempre, a pagarne le conseguenze: perché saranno loro a dover pagare ancora coi loro scarsi contributi – funziona così il sistema a ripartizione – le pensioni accordate in anticipo a soggetti rispetto ai quali i giovani non avranno mai una pensione equivalente.  Il resto, lo metteremo noi contribuenti.

12
Apr
2016

Atlante il salvabanche: o lo chiariscono bene, o provoca altri guai

Oggi il mercato ha fatto strame dei titoli bancari coinvolti nell’operazione salva-banche Atlante. Purtroppo non bisogna stupirsi. L’operazione è stata lanciata senza un minimo di chiarezza su troppi aspetti essenziali, perché non fosse questa la reazione. Pensate solo alla dichiarazione dei promotori “o parte Atlante, oppure tutti i prossimi aumenti di capitale annunciati (leggi: imposti da SSM, la vigilanza comune europea) finiscono in bail in delle banche interessate”. Mai nessuno in Europa, neanche la Grecia, lanciando un veicolo nel quale sono coinvolti come regia MEF e Bankitalia, e a cui partecipano tutta la prima fila del sistema bancario italiano, assicurazioni e fondi pensione e fondazioni bancarie oltre alla Cdp che è mano diretta del governo,  mai nessuno ha dichiarato una simile debolezza agonica del proprio sistema bancario. E meno male che per anni è stato ripetuto che era il sistema più solido al mondo… Cerchiamo allora di enucleare almeno alcuni dei tanti dubbi  che vanno chiariti dai promotori con precisione millimetrica, prima che anche quest’operazione figlia della disperazione sfugga di mano, con conseguenze disastrose.  
Ammettiamo pure – come diceva Totò: “ammesso e non concesso” – che le regole di governance di Atlante, tutte da capire, e la presenza limitata nei conferimenti ad Atlante di CDP (pare non superiore al 5%..) consentano di aggirare scontate obiezioni su aiuti di Stato che furono avanzate dalla Commissione Ue  per il caso TerCas ( non è così scontato… è evidente che questo veicolo è confezionato da Bankitalia-Mef e che governo ha annuciato già  che darà per decreto pioggia d’incentivi fiscali ai conferenti…). 
Ma intanto, allo stato, non si capisce bene la natura giuridica stessa di Atlante: è una Sicav o cos’altro, o un AIF? In quest’ultimo caso sarebbe sottoposto a limiti molto stretti dalle attuali norme Bankitalia, non potrebbe avere leva finanziaria superiore a 1,5 , ergo con dotazione 5-7bn col cavolo che potrebbe davvero coprire inoptati prox aumenti capitale PopVi, VenetoBanca, Banco Popolare, e addirittura avviare a soluzione il guaio sanguinolento MPS, come è stato fatto invece intendere esplicitamente dai promotori. Allo stesso tempo, Atlante avrebbe anche limiti molto stretti di impegno su controparte per percentuale totale di impieghi. Forse Atlante è qualcosa che ancora non conosciamo, forse con deroghe ad hoc a regole attuali. E a chi risponderà, a Bankit o a SSM? Una cosa è sicura: era meglio chiarire bene natura, governance e regolamentazione del veicolo prima di lanciarlo pubblicamente ai media.  
Quanto alla sostanza: il rischio molto grosso è che appaia come un vero e proprio bail out all’italiana. Il principio BRRD del bail in non è solo divieto a interventi sulle banche del governi cioè a spese contribuenti, è anche in maniera estesa principio che accolla ad azionisti e bondholders subordinati il peso della recovery o dell’eventuale risoluzione di ogni banca. Qui invece si fa una recovery coadiuvata da una clearence house costituita ad hoc, una specie di stanza di compensazione dove siedono banche, fondi pensione, assicurazioni, fondazioni bancarie e Cdp. i rischi evidenti sono molteplici, e cioè che essi : 
a-diventeranno attraverso il veicolo titolari di quote DI CONTROLLO di molte banche italiane;     
b- eserciteranno effetto distorsivo su valori di mercato tanto dell’equity che delle passività bancarie, consentendo il lancio di aumenti di capitale imposti giustamente da SSM a prezzi però MOLTO più alti di quanto avverrebbe per ottenerne la copertura a prezzi di mercato, contando sul fatto che a quel prezzo più alto tranche molto rilevanti saranno acquisite e parcheggiate invece in Atlante; idem dicasi per valori degli NPL, che esplicitamente Atlante dichiara di esser pronto a rilevare ( ma per quante decine di miliardi su oltre 83 mld netti di sistema, a fronte della dotazione striminzita di conferimenti dichiarata?) a valori allineati il più possibile a quelli attuali di libro e cioè tra il 45 e il 55% del nominale a seconda delle diverse banche, invece che a svalutazione di mercato 17,5% su 100 di nominale come nelle 4 banche risolte a novembre…
c- terranno probabilmente fuori – sono i promotori a dichiararlo – dal mercato per il controllo proprietario degli asset bancari italiani sia fondi sia banche straniere: Fortress ha già mollato e altrettanto farà a quanto sembra Apollo in Carige, e forse è ben per questo che Barclays capendo l’antifona a fine 2015 ha ceduto l’intera rete retail e agenzie a CheBanca di Mediobanca, pagando a quest’ultima per sovrammercato 240mln pur di uscire da Italia che vedeva sempre più “avversa allo straniero”.
Sul punto a-, ricordo a tutti che mentre una nazionalizzazione oggi non più possibile azzera azionisti, pulisce attivi bancari e poi è costretta a rivenderla al mercato, la governance pseudo-privata-para-pubblica di Atlante – che comunque ancora ignoriamo nei particolari – corre seriamente il rischio di rendere tutto opaco e difficilmente criticabile, perché manager e azionisti bancari, Confindustria e media italiani brindano tutti alla nascita di un veicolo il cui scopo dichiarato è tenere le cose come stanno… Il precedente storico, inoltre,  è poco rassicurante: quando nel 1922 per salvare le banche miste italiane nacque il consorzio sovvenzione valori immobiliari rilevandone le partecipazioni industriali, non si evitò poi né il crollo bancario né le industrie vennero restituite al mercato. Nel 1933 le partecipazioni del consorzio finirono attribuite alla “sezione smobilizzi” del neonato IRI che doveva dismetterle entro 10 anni, e invece l’IRI si tenne tutto e si allargò fino a divenire il primo Kombinat pubblico dell’intero Occidente, e durò la bellezza di 63 anni prima che arrivasse l’obbligo di liquidazione dall’Europa con Van Miert e sottoscritto dal benemerito Andreatta … Atlante nasce come consorzio sovvenzione valori bancari ma il precedente è quello, anche se oggi con governance pseudo-privata invece che statale. Ma in sostanza il grande pericolo è che appaia come un calcio alle regole BRRD  e a SSM. Alcuni, potrebbero anche immaginare  che sia come uno scudo alle banche per andarcene da soli, in caso saltassero Ue ed Euro negli anni travagliati dell’eventuale postBrexit e delle successive problematiche elezioni che si terranno in grandi paesi Ue… Ma quand’anche fosse questa l’ipotesi inconfessabile delle autorità e dei promotori privati di Atlante, allora dovrebbero preoccuparsi di mettere a punto un veicolo impeccabile per regole e capitale all’altezza dei fini dichiarati, non un accrocchio che fa inabissare ulteriormente i corsi bancari anche delle banche sane.
12
Apr
2016

Pianificazione urbanistica e criminalità: come lo statalismo ha allevato una serpe in seno —di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

È comparsa qualche giorno fa la notizia della demolizione della casa natale di un vip. Ma non si tratta di una lussuosa villa in California o di un castello nell’Oxfordshire. Si tratta di un palazzo grigio, orribile, di cemento armato, uno dei tantissimi tutti attaccati l’uno all’altro. Siamo nel quartiere nel quale è cresciuto quello che è diventato un mito del calcio francese, Zinedine Zidane, una banlieue di Marsiglia, la Cité de la Castellane, un quartiere che vive una vera e propria emergenza criminalità. Fra quelle strade e in quelle case disoccupazione, traffico di droga e crimine la fanno da padroni. Un vero e proprio fortino, inaccessibile anche agli uomini delle forze dell’ordine. Per questo, si continua nell’articolo, il comune ha deciso di avviare un’opera di riqualificazione della zona, che passa attraverso l’abbattimento di alcuni di questi palazzi. E si comincerà proprio dall’edificio G, quello in cui è cresciuto e ha trascorso la sua infanzia l’attuale tecnico del Real Madrid. La demolizione è prevista a metà aprile, nel 2017, sarà poi il turno della torre K, composta da 97 alloggi, ormai in mano a trafficanti e spacciatori. Read More

11
Apr
2016

Su Riina, Vespa e, soprattutto, sulla Rai—di Mario Dal Co

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Mario Dal Co.

L’occasione

L’intervista di Bruno Vespa al figlio di Riina per la pubblicazione del suo libro autobiografico ha dato luogo ad una serie di polemiche in cui il mondo politico si è tuffato a capofitto.

Dall’intervista emerge una separatezza della vita e dei valori allucinata, stupefacente per uno spettatore non esperto di mafia. Qualcuno sostiene che il figlio di Riina si sia candidato a fare l’erede del padre. Forse. Ma mi ha colpito in modo assai più profondo la sensazione che, con il tipo di vita imposto alla famiglia, il padre non gli abbia dato scampo, non gli abbia concesso nessuna chance: non la scuola come gli altri, non la libertà di ribellarsi alla famiglia come accade a quasi tutti i giovani, non la possibilità di trovare una sua strada. Ma non sono un esperto di mafia. Il servizio giornalistico in sé era interessante e non avrebbe dato adito ad alcuna polemica se la Rai non fosse pubblica. E’ questo filtro distorto che impedisce una discussione normale sui contenuti, imponendo il terreno tutto politico di discussione sul quesito se il servizio pubblico debba occuparsene e come. Un quesito che nulla ha a che fare con la qualità del lavoro giornalistico e dell’informazione. Il quesito verte sul se e sul cosa deve dire il servizio pubblico.

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