11
Feb
2016

Dieci cose che i giornali non vi dicono su tasse, multinazionali e accordi fiscali

Mentre in Europa avanza il progetto di ripensamento radicale del sistema tributario internazionale, sulla scorta delle riflessioni dell’Ocse, in Italia il tema è tornato d’attualità soprattutto grazie alla definizione da parte di Apple e dell’Agenzia delle entrate di un accordo fiscale da 318 milioni di euro, nonché grazie alle indiscrezioni sulla possibilità che a un’analoga conclusione sia avviata la pendenza tra l’Agenzia stessa e Google.

La limitata accessibilità delle fonti primarie è un ostacolo alla copertura dettagliata di queste vicende; tuttavia, ciò non basta a giustificare il trattamento che i giornali ne hanno fatto nelle ultime settimane: imprecisioni, omissioni, dietrologie e un’altalena di cifre: un format a metà strada tra “Ok, il prezzo è giusto” e il telefono senza fili. Cerchiamo, allora, di mettere qualche punto fermo.

Uno. Le imposte sul reddito d’impresa si computano, appunto, sul reddito delle imprese, cioè sui profitti. I frequenti riferimenti giornalistici ai ricavi («118 miliardi di euro di fatturato giornaliero, appena 14.000 lire versate all’erario nell’ultimo triennio») non sono solamente irrilevanti: sono fuorvianti e sensazionalistici, perché mettono in comunicazione grandezze non correlate tra loro.

Due. L’imputazione dei profitti non è una scienza esatta. Per limitare la componente arbitraria nel vaglio dei prezzi di trasferimento, cioè quelli praticati tra diverse emanazioni dello stesso gruppo multinazionale, occorrerebbero riferimenti di mercato che non sempre sono disponibili (si pensi alla valutazione dei marchi). Anche quando tali riferimenti esistano, occorre scongiurare il pericolo che il presidio della legalità fiscale divenga un pretesto per influenzare indebitamente politiche commerciali e modelli industriali.

Tre. Raramente l’imposta contestata corrisponde all’imposta effettivamente dovuta. L’amministrazione finanziaria ha tutto l’interesse a far lievitare l’entità dell’accertamento, perché è improbabile che esso possa aumentare in sede di confronto con il contribuente o di contenzioso. Inoltre, è innegabile che la determinazione iniziale abbia anche la funzione di mettere pressione al contribuente, ponendolo di fronte allo scenario più svantaggioso che la pendenza potrà produrre e, così, inducendolo a cercare una composizione pacifica.

Quattro. Lo stesso vale, a maggior ragione, per i profili penali. Un conto è il rischio che l’impresa debba corrispondere somme anche ingenti per venire a patti con le pretese del fisco; altra cosa sono il rischio di una sentenza di condanna a carico dei suoi dirigenti e quello, sia pure remoto, di una limitazione della loro libertà personale. Fermo restando che, anche in questo caso, la bontà degli addebiti dev’essere provata.

Cinque. La torbida categoria dell’«accordo fiscale» non ha cittadinanza nel nostro ordinamento. Esiste, invece, l’accertamento con adesione, uno strumento invocabile da ogni categoria di contribuente e per le principali imposte dirette e indirette. A differenza di altri istituti con simili finalità deflattive del contenzioso, come l’acquiescenza, che presuppongono la piena accettazione delle ricostruzioni dell’amministrazione finanziaria, l’accertamento con adesione è un mezzo per raggiungere nel contraddittorio tra Agenzia e contribuente la più condivisibile rappresentazione della vicenda tributaria dibattuta.

Sei. Per il fisco, l’accertamento con adesione non è, dunque, un privilegio generosamente concesso ad alcuni contribuenti particolarmente benvoluti, bensì un istituto che permette, da un lato, di acquisire informazioni utili a una più precisa analisi delle vicende controverse e, dall’altro, di assicurarne la rapida e certa definizione, in un paese in cui appena il 40% dei contenziosi tributari si conclude con la vittoria piena dell’ente impositore.

Sette. Per il contribuente, l’utilizzo dell’accertamento con adesione non va, invece, interpretato come un’ammissione di colpevolezza, bensì come una via per limitare le conseguenze negative dell’accertamento non solo partecipando direttamente alla ricostruzione delle fattispecie interessate, ma anche accedendo ai benefici previsti (la riduzione delle sanzioni tributarie e penali).

Otto. Questo bisogno di riduzione dell’incertezza è tanto più sentito nel caso d’imprese attive in diversi mercati nazionali e la cui operatività coinvolge profili immateriali. Tuttavia, proprio a queste problematiche cerca(va) di fornire una risposta l’istituto del ruling internazionale, oggi sotto attacco per la vicenda Luxleaks e per le indagini che ne sono seguite, in particolare per iniziativa del commissario Vestager. Nonostante l’accertameno con adesione abbia indubbi vantaggi tanto rispetto alle valutazioni unilaterali dell’amministrazione finanziaria, quanto rispetto al contenzioso, la possibilità di mettere a punto preventivamente una cornice intepretativa condivisa sarebbe preferibile.

Nove. Le vicende di Apple e Google a cui abbiamo fatto riferimento sono venute alla luce in un contesto normativo sostanzialmente invariato: le variegate proposte di riforma autarchica sono rimaste lettera morta e le innovazioni concertate in sede Ocse sono ancora in corso di trasposizione. Delle due l’una: o l’esigenza di nuovi strumenti legislativi per affrontare la «grande elusione internazionale» è stata consapevolmente esagerata, o il cambiamento del clima attorno alle multinazionali permette ora interpretazioni forzate e fin qui insostenibili della disciplina vigente.

Dieci. La morale della favola è sempre la stessa: quella di un aumento delle pressione fiscale sulle imprese.

@masstrovato

11
Feb
2016

#PropertyIsFreedom: il canto del cigno del diritto di proprietà

Negli ultimi tempi ci siamo soffermati più volte sulla mancata tutela dei diritti di proprietà nel nostro paese. Qualche giorno fa è arrivata una nuova conferma del fatto che si tratti di una sensazione diffusa. L’Heritage Foundation – uno dei più importanti think tank degli Stati Uniti – ha pubblicato l’edizione 2016 del suo Index of Economic Freedom, che si propone di misurare, appunto, il grado di libertà economica di 186 paesi nel mondo, secondo dieci diversi indicatori.

Uno di questi indicatori è la tutela dei diritti di proprietà. Dieci anni fa, l’Italia otteneva un punteggio di 70/100, alla pari con Spagna e Portogallo. Nel 2015, il punteggio del nostro paese era calato a 55/100. Quest’anno, siamo scesi addirittura a 50/100. Detto punteggio – secondo i criteri del medesimo indice – denota l’inefficienza e la lentezza del nostro sistema giudiziario nel tutelare i diritti di proprietà, l’esistenza di fenomeni corruttivi, la mancata separazione tra i poteri dello Stato, e la facilità con cui i poteri pubblici possono dare luogo a espropriazioni.

Per dare un quadro della gravità della situazione è sufficiente comparare il risultato dell’Italia con quello di altri paesi: 90/100 per la Germania, 80/100 per la Francia e per gli Stati Uniti. La Spagna e il Portogallo, alla pari con noi fino a dieci anni fa, sono rimasti stabili nel loro 70/100. L’Italia ottiene un risultato inferiore anche a quello di paesi come Botswana, Bhutan, India, Malesia o Slovenia, che certamente non spiccano, in generale, per propensione alla libertà economica. Paesi come Colombia, Costa Rica e Ghana, infine, vengono ritenuti allo stesso livello dell’Italia.

Le classifiche internazionali, e quindi anche l’Index of Economic Freedom, vanno presi con le pinze, in quanto i risultati dipendono da scelte comunque discrezionali nella costruzione dei criteri e degli indicatori. Ciò detto, è evidente a occhio umano che la lentezza dei processi, la predisposizione normativa della “funzione sociale” della proprietà e il peso delle imposte sui beni immobili non possano che condurre a un punteggio simile. D’altronde, è perfino superfluo scavare anche solo un pochino più in profondità per scoprire che in questa sensazione c’è ben più di un fondo di verità; al contrario, basta dare un occhio alla cronaca locale o constatare gli aumenti di tasse degli ultimi anni: dal 2011 al 2014, tanto per fare un esempio, il gettito di Imu e Tasi con aliquota minima è stato pari a circa il 170% di quello dell’Ici nel 2011 (fonte: Confedilizia-Ufficio Studi). E se questo è quanto l’Italia mostra di offrire a un potenziale investitore, non possiamo sorprenderci se i nostri imprenditori delocalizzano, o se gli investimenti esteri ci stanno alla larga.

La libertà economica, oggetto dello studio dell’Heritage Foundation, non è solo un vessillo. Allo stesso modo, l’esigenza di tutelare adeguatamente i diritti di proprietà non è solamente una questione di principio. Certo, è il primo segnale di un atteggiamento equilibrato e rispettoso di uno stato verso i suoi cittadini, e della sua capacità di garantire che i loro rapporti si svolgano in un ambiente il più possibile sicuro. Ma è anche, nel concreto, il presupposto fondamentale di un’economia fiorente e innovativa, per tutti. Come ha scritto Auberon Herbert, «l’inviolabilità della proprietà non è semplicemente un interesse materiale di una specifica classe che per ventura è oggi possidente; è un interesse sommo di tutte le classi» (The Right and Wrong of Compulsion by the State). Proteggerla non è un vantaggio per i pochi titolari, ma una garanzia per i futuri e un interesse generale per la prosperità di un intero paese.

Twitter: @glmannheimer

10
Feb
2016

Mercati: 6 guai mondiali insieme alle nostre colpe

E’ il momento di smetterla di analizzare la violentadiscesa dei mercati da inizio 2016 come fosse un problema tra greci, italiani e tedeschi. Non è così. Tutto quel che sappiamo spinge anzi a ritenere che di fatto siamo in presenza di un vero e proprio terzo atto di una crisi, oggi mondiale. Il primo, esploso a fine 2008, era la crisi di un modello americano ma esteso a tutto l’Occidente, di intermediazione bancaria “universale” ad alta leva finanziaria e basso capitale. Il secondo, avvampato nel 2011 e che ci ha travolto come Italia, è stata la crisi della sostenibilità del debito sovrano europeo. Il terzo atto è una vera e propria crisi globale, perché nasce dalle politiche monetarie divergenti, si abbatte sui paesi emergenti, si somma alla difficile transizione cinese, e infine rimbalza sulla finanza e sulle banche dei paesi avanzati. Ovviamente, noi siamo tra i più esposti per guai “nostri”, anche se la causa prima della crisi trascende le nostre colpe che non vanno negate, come si ostinano a fare politica regolatori e media italiani.

Per qualche tempo ancora – nessuno sa quanto – c’è tempo per rimedi adeguati alla crisi mondiale, tali da fermare il panic selling che spinge tutti i maggiori investitori a uscire sia da azionario sia da obbligazionario, e a tenere parcheggiate enorme liquidità nei fondi monetari. Non è facile, ma bisogna provarci. Intanto, la conseguenza è che torniamo a essere più esposti di altri – noi come la Grecia e il Portogallo e la Spagna – per le difficoltà diversamente ancora accumulate nei sistemi bancari di ciascuno. Va detto senza autoassolverci per i guai e i ritardi di casa nostra. Ma è l’intero sistema bancario dei paesi avanzati sotto schiaffo. E, se è così, i rimedi devono venire da una modifica dei meccanismi basilari che determinano l’intreccio perverso tra politiche monetarie, esposizione finanziaria delle economie avanzate, e crisi degli emergenti. Il che chiama in causa insieme la FED, la BCE, e le autorità cinesi. In un mondo di misure divergenti tra grandi macroaree i guai aumentano, credere di salvarsi ognuno a casa propria è un grave errore. Cerchiamo di interpretare i diversi fattori della crisi, e insieme i possibili rimedi (molto difficili).

Primo: il petrolio. A dicembre 2015, l’Italia tra i 20 maggiori paesi sviluppati ed emergenti aveva il più alto indicatore delle attese di ordini manifatturieri, con il Pmi a 55,6 rispetto a 52 della media dei paesi sviluppati, e al 48,8 degli emergenti. Ma con Cina, India, Brasile e Russia tutti abbondantemente sotto quota 50, cioè con una contrazione in vista secondo le imprese. Le attese italiane erano ottimistiche. Quelle mondiali, no. Una prima ragione è il petrolio. Un prezzo poco sopra o addirittura sotto i $30 al barile e la continua discesa delle commodities (l’indice Bloomberg relativo segnava -28% a fine 2015 in 12 mesi, oggi siamo a -33%), comportano un impatto diretto e brutale di minori investimenti e domanda in nazioni che pesano più del 35% del PIL mondiale. Ciò determina un forte freno alle attese su commercio e crescita mondiale nel 2016. Ma non basta: l’effetto sull’economia reale è secondario, rispetto a quello finanziario.

Secondo: la finanza del petrolio, i debiti dell’Occidente. Al petrolio in senso stretto e alle sue imprese di filiera sono legati almeno circa 2 trilioni di dollari di finanza – tra debito corporate, linee di credito e relative coperture in derivati (occhio che si deve considerare anche una bella fetta a copertura di investimenti in shale gas negli USA)– intermediata soprattutto da giganti finanziari americani. Ma se ragioniamo a lungo termine, abbiamo alle spalle un lungo ciclo quasi ventennale in cui il prezzo del barile – $43 al barile nel febbraio 2010, $83 nel 2011, $96 nel 2012, $110 nel 2013, ancora sui $103 nel 2014 fino ai 30 attuali – ha significato l’assorbimento di asset finanziari denominati in dollari per circa 10 trilioni. Ed è questa seconda imponente cifra, a rischiare di smottare. Per il semplice fatto che i capitali escono vorticosamente dai paesi produttori di petrolio, gas e commodities, liquidano le posizioni liquidabili e creano un potenzialmente esplosivo freno all’assorbimento del debito americano e occidentale, sia sovrano sia corporate.

Terzo: l’errore della FED. La frenata della crescita USA (con l’occhio italiano è da sogno col suo +2,4% nel 2015 ma che ha visto come maggior componente di aumento della domanda interna la spesa e le tasse collegate alla riforma sanitaria Obamacare mentre la manifattura continua a scendere), e le pressioni su banche e finanza statunitense che rimbalzano dai paesi emergenti chiedono alla FED d’invertire la politica monetaria. E’ come se i mercati stessero dicendo alla Yellen: ci avete messo un anno e mezzo a iniziare a rialzare i tassi ma avete toppato, avete giudicato male la finestra temporale, e ora serve invece cha facciate l’esatto contrario. Altroché nuovi aumenti dei tassi d’interesse. Solo un dollaro che scende coi bassi tassi aiuta a spingere su il petrolio. Per la FED, significa ammettere di aver sbagliato tutto. Non sarà facile, anche se potrebbe aiutare il vacuum politico degli USA impegnati nelle primarie presidenziali.

Quarto: il QE della BCE non funziona. Non solo l’inflazione resta raso terra, ben lontana dall’obiettivo di riportarla al 2%. Soprattutto, finora la maggior liquidità pompata attraverso l’acquisto dei titoli pubblici non si converte in più impieghi bancari alle imprese nella misura delle attese, ergo la crescita europea non solo è bassa ma le attese sono marcatamente al ribasso. E’ non sarà un ulteriore ritocco dei tassi negativi sui depositi delle banche a Francoforte a mutarne gli effetti. Le banche europee – a cominciare da quelle italiane e dell’eurosud – comunque hanno poco margine per grandi prestiti alle imprese perché devono ricapitalizzarsi, strette tra gli obblighi degli accordi di Basilea e i vincoli della direttiva sul bail in che impedisce virtuosamente agli Stati i salvataggi, per metterli sulle spalle di azionisti e obbligazioni subordinate. Non sarà facile per Draghi, a marzo, trovare la quadra. Nel frattempo, i governatori delle banche centrali di Francia e Germania l’hanno messo per scritto, che il QE serve a poco e che occorre un deciso passo in avanti: o si accentrano comunitariamente almeno le linee generali dei bilanci pubblici nazionali, oppure finirà che nei paesi più esposti come l’Italia sarà il patrimonio dei suoi residenti a dover garantire non solo eventuali salvataggi bancari, ma anche il debito pubblico nazionale. Prospettiva del tutto respinta dagli euromembri “deboli”.

Quinto: i mercati hanno iniziato a pensare che parti dell’euroarea non reggano il bail in. Italia, Portogallo e Grecia contestano chi più chi meno apertamente la richiesta europea di continuare nel rientro del deficit pubblico. Il referendum sul Brexit potrebbe essere a giugno. La Spagna con ogni probabilità dovrà presto tornare a votare, nell’impossibilità di formare un governo. Diverse banche greche, italiane (a cominciare d MPS) e portoghesi rappresentano un problema, nell’incertezza di regole da seguire determinata dalle polemiche. Ma anche in Germania la crisi della banca universale a più alta leva finanziaria – Deutsche Bank – è lungi dall’esser risolta, e una sua discesa ulteriore aprirebbe una crisi europea. In tali condizioni, a maggior ragione i mercati non pensano sostenibile una divaricazione delle politiche monetarie in corso tra USA-FED da una parte e BCE-Bank of Japan, che incorpori in 24 mesi tra 150 e 250 punti base di differenza nei tassi di riferimento. La discesa violenta dei titoli bancari europei in questo 2016 è accentuata dal fatto che il caso portoghese della Banca de Espirito Santo e quello italiano delle 4 banche risolte per decreto dimostrano che la direttiva BRRD è vigente eccome da una parte da inizio anno, ma a diversi governi e banche centrali dell’eurosistema la cosa non va affatto giù. Ritengono che addossare la risoluzione bancaria ad azionisti e subordinati sia semplicemente una nuova leva che accresce il rischio sovrano, stante che per esempio nella pancia delle banche ITA c i sono quasi 400mld di titoli pubblici nazionali. Ecco perché lo spread è tornato a risalire. Nel nostro caso, dipende dal fatto che nel frattempo si è interrotto il percorso di discesa del deficit e del debito pubblico, e che per banche italiane a ROE di poco superiore all’1% come sistema (e ovviamente negativo per le più compromesse), diventa in queste condizioni molto problematico aumentare il costo del funding rinunciando alla facile via sin qui seguita, rifilare tonnellate di bonds subordinati ai clienti retail invece che agli istituzionali. Tanto per avere un ordine di grandezza di ciò di cui stiamo parlando: entro il 2018 sono in scadenza 124 miliardi di euro di bond a Intesa, 151 miliardi a Unicredit, 32 miliardi a MPS, e via proseguendo… Di fronte a questa realtà, continuare e negarla DOPO AVERLO GIA’ COLPEVOLMENTE FATTO PER TUTTI GLI ANNI DAL 2011 A OGGI, NEGANDO CHE VI FOSSE UN PROBLEMA DI BASSA CAPITALIZZAZIONE DEL SISTEMA BANCARIO A FRONTE DELL’ESPLOSIONE NPL, addossandola invece a colpe dei tedeschi come fanno governo e media italiani, può essere definito in un solo modo: PA-TE-TI-CO.

Sesto: la Cina. Sommate a tutto questo stime allarmistiche ma insieme realistiche sull’eventualità di un drastico deprezzamento dello yuan-renmimbi, nel caso in cui le autorità cinesi non riuscissero più a governare una discesa controllata dei mercati finanziari cinesi. Gli strappi al ribasso delle borse cinesi stanno producendo un falò di riserve in dollari al ritmo ormai di 100miliardi al mese per difendere l’attuale cambio, e frenare il deflusso di capitali dalla Cina. A questa velocità, dopo i 500 miliardi di dollari in riserve già bruciate nella seconda metà del 2015 dalla banca centrale cinese, si scenderebbe entro 4-5 mesi al di sotto del necessario per considerare davvero lo yuan una valuta nel basket internazionale accettato dal Fondo Monetario. Il deflusso di capitali si accentuerebbe di molto, con ulteriore esposizione della banche occidentali esposte.

Ecco alcuni dei fenomeni mondiali dietro la volatilità e la fuga ribassista scatenatasi sui mercati. Le banche, europee e americane, sono l’epicentro del fallimento di un QE che ha inondato i mercato di una liquidità illusoria, che a noi serve sugli spread del debito pubblico ma che non sostiene la crescita. Purtroppo, i nostri crediti deteriorati in pancia alle banche e il nostro ritardo nell’ammettere e affrontare il problema ci rendono bersaglio prediletto dei ribassi. Potevamo e dovevamo pensarci nel 2011 e 2012, ma chi lo disse allora – ero tra quei pochi – venne considerato un pessimista rompiscatole. Ovviamente, gli aumenti di capitale son stati rinviati fino all’imminenza del passaggio alla vigilanza bancaria europea. E’ passato un anno dal decreto sulle grandi banche popolari, ma ancora non si fondono. Mentre il decreto sulle 364 BCC in arrivo lascerà quasi tutto come prima. Su MPS, si aspetta non si sa che visto che a queste condizioni nessuno se l’accolla.

E ora il problema è mondiale. I tassi d’interesse negativi praticati in Europa e Giappone non inducono affatto le famiglie a spendere significativamente di più, ma a risparmiare di più per la propria vecchiaia. Mentre a livello internazionale i tassi negativi praticati da noi ma non più dalla FED sono un favore ai paesi con maggior deficit nella bilancia dei pagamenti come gli Stati Uniti, non alla parte più debole dell’Europa e non al Giappone, e tanto meno la FED rende sostenibile l’economia e la finanza dei paesi emergenti. Ci pensino bene, soprattutto la Yellen e poi Draghi. Ultimo consiglio, del tutto inutile: in Europa sarebbe da statisti piantarla di attaccarci a vicenda, perché tra referendum britannico, elezioni spagnole, nuova tensione sulla Grecia e Schengen che salta attiriamo solo su di noi ulteriore furia ribassista.

 

3
Feb
2016

Il suddito e la notifica—di Francesco Forte

Il suddito e la notifica, la surroga, la supplica, la proroga, la verifica, la deroga, la revoca, la rettifica

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco Forte.

1. Non è affatto vero che l’Italia sia una “Repubblica fondata sul lavoro” come dice solennemente la nostra Costituzione. La Repubblica Italiana, in effetti è fondata sui suoi sudditi che pagano in imposta e tasse il 43% del Pil e versano canoni e tariffe al governo un altro 5% del PIL, per una spesa pubblica che è il 51% del Pil – Il deficit del 2,5% si tramuta in debito da cui i sudditi presenti e futuri sono gravati per il 132% del PIL. Read More

30
Gen
2016

Verso un cinema ancora più assistito?

“Il Governo modernizza il proprio impegno a favore del cinema italiano e aumenta i finanziamenti del 60%”. È questo il messaggio che viene maggiormente evidenziato durante e dopo la conferenza stampa seguita al Consigli dei Ministri di giovedì, che, tra le misure decise, ha preso pure quella di riordinare e modificare, da un punto di vista normativo, il settore cinematografico e della produzione audiovisiva.

Il disegno di legge stanzia “ingenti risorse in più”. In un nuovo “fondo” convergeranno le risorse prima erogate tramite Fus (Fondo unico per lo spettacolo) e tax credit (incentivi fiscali), a cui ne verranno aggiunte altre.
Questo “fondo” verrà alimentato attraverso una percentuale fissa del gettito Ires e Iva di imprese che operano nel settori del cinema, della telefonia e delle telecomunicazioni. Quindi, apparentemente, nessuna nuova tassa di scopo, ma soldi che prima confluivano nella fiscalità generale ora verranno dirottati in questo “fondo”. E tale nuovo “fondo” non potrà mai scendere sotto i 400 milioni di euro. Si pensi che di 400 milioni di euro circa era negli ultimi anni lo stanziamento complessivo del Fus, che finanziava lo spettacolo dal vivo, il cinema e altre attività. Read More

28
Gen
2016

Perseverare diabolicum— di Gianfilippo Cuneo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gianfilippo Cuneo.

Non si è ancora spento l’eco delle obbligazioni bancarie subordinate vendute da Banca Etruria a investitori non qualificati (e certamente ignari sia di cosa vuol dire subordinato sia di cosa comporti essere non qualificati) che il malvezzo di vendere prodotti finanziari oscuri al “parco buoi” continua imperterrito senza che la CONSOB intervenga nella sostanza. Read More

24
Gen
2016

#PropertyIsFreedom: Roma brucia nell’indifferenza

A pochi metri da Tor Sapienza, alla periferia est di Roma, c’è un vecchio capannone industriale abbandonato: una volta pastificio, ora è il tetto di decine di famiglie che lo occupano da anni. Due settimane fa, nella notte, i rifiuti accumulati nei sotterranei del capannone hanno preso fuoco, generando un rogo impressionante, che ha impegnato i vigili del fuoco per tutta la notte nel tentativo di domarlo e che ha messo a rischio la vita e la salute di centinaia di persone, tra occupanti e residenti della zona. Per gli abitanti del quartiere non è una novità: nei vari edifici occupati e insediamenti abusivi si verificano roghi tossici quasi tutti i giorni e le denunce per richiedere lo sgombero e la bonifica dell’area, da marzo 2015 in avanti, sono state centinaia. Tutte, purtroppo, cadute nel vuoto.

Si sa: in campagna elettorale, il tema delle “periferie” è vincente. Gestire situazioni del genere, purtroppo, è invece molto più complesso di qualunque buon proposito. La soluzione, spesso, è quindi chiudere un occhio e sperare che questi episodi non finiscano in tragedia. A furia di calpestare la legalità e i diritti di proprietà in periferia, però, arriva il giorno in cui la malattia contagia il centro della città.

A pochi passi da piazza Indipendenza, in via del Curtatone, uno stabile privato – ex sede di Federconsorzi e oggi appartenente a un fondo immobiliare – è da anni il simbolo delle occupazioni romane. Due anni fa erano in corso dei lavori di ristrutturazione, che l’avrebbero portato a ospitare alcune sedi di aziende estere, ma fu occupato prima che potessero terminare. Oggi circa 500 persone vivono al suo interno. Lo scorso dicembre, durante un sopralluogo, i vigili del fuoco hanno rilevato un “elevato rischio di incendio/esplosione”, causato da “decine di bombole di gas gpl destinate ad alimentare utenze di fortuna” e da “numerosissime stufe elettriche”. Ma a nulla è servito l’appello alle istituzioni: lo stabile non è stato sgomberato e l’occupazione prosegue, come una bomba a orologeria, in attesa della tragedia.

Peraltro, a nulla è servito il recente Piano casa, che prevede che chiunque occupi abusivamente un immobile senza titolo non possa chiedere né di avere la residenza né l’allacciamento alle utenze. Carta straccia, nella pratica. In via del Curtatone, gli operai di Acea hanno provato a entrare più di una volta per staccare le utenze. Risultato: sono stati presi a sassate e cacciati. Il conto – circa 500.000 euro all’anno – lo paga la proprietà. Come del resto accade nell’hotel di via Prenestina e in decine di altri edifici occupati, non solo privati. La Regione Lazio, tanto per dire, ha speso 16 milioni di euro in locazioni passive, nel 2014, a fronte dei vari palazzi di sua proprietà occupati da anni. Quello di via Maria Adelaide, tanto per dire, è valutato da solo circa il doppio di tutti i canoni di affitto pagati: 32 milioni di euro. E a rimetterci, come sempre, è il contribuente.

I miracoli non esistono e quello delle occupazioni abusive è un problema enormemente complesso, perché complesso è l’equilibrio tra il rispetto della legalità e quello per la vita e la dignità delle persone. È evidente che quest’ultimo, tra i due, abbia la priorità. Quello che talvolta non viene compreso è come, invece, ignorare il primo comporti un circolo vizioso in cui il secondo viene messo ulteriormente a repentaglio, come la situazione di Roma racconta con chiarezza. La tutela dei diritti di proprietà non solo può coincidere con l’attenzione dei poteri pubblici ai temi dell’immigrazione e delle periferie, ma spesso è parte della soluzione. Chiudere un occhio, giustificando le occupazioni e pagando le utenze agli occupanti, non fa altro che acuire il problema. Sarà il caso che ce ne accorgiamo, prima che sia troppo tardi.

Twitter: @glmannheimer

23
Gen
2016

Siringhe: elogio delle differenze

Mercoledì 20 gennaio, presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, si è svolto il convegno “Acquisti trasparenti: la PA semplifica e spende meglio” in cui è stato presentato il lancio del progetto di aggregazione degli acquisti da parte della pubblica amministrazione. Si partirà dalla sanità, in particolare da 14 aree merceologiche riguardanti il comparto sanitario, tra cui le famose siringhe, i cui prodotti saranno acquistati da 33 centrali d’acquisto (21 centri regionali, 9 città metropolitane, 2 province e la Consip) che andranno a sostituire le vecchie 35 mila.

Il simbolo utilizzato dalle principali testate nazionali per accogliere l’intervento con favore più o meno esplicito è stato quello delle siringhe. È noto infatti che il loro costo varia da regione a regione fino al 300%. Con il nuovo sistema la Consip si occuperà di indire la gara pubblica e stipulare con i vincitori una convenzione per la fornitura delle siringhe (e dei beni e servizi delle altre 14 aree) ai prezzi offerti in gara, che diventeranno vincolanti anche per gli acquisti fuori Consip.

Senza dubbio è paradossale che ci siano differenze così eclatanti nei costi degli stessi beni, per di più tecnologicamente non complessi e quindi poco differenziabili. Il paradosso tuttavia è presto spiegato considerando che siamo all’interno della pubblica amministrazione, ovvero all’interno di un perimetro in cui alle organizzazioni, diversamente da quelle private, non è richiesto di essere efficienti per sopravvivere. Sopravvivono le organizzazioni più efficienti allo stesso modo di quelle meno efficienti. La soluzione che viene proposta è quella di fissare un unico prezzo uguale per tutti, dando per scontato che questo tenderà ad avvicinarsi a quello pagato fino a oggi nelle regioni, diciamo così, virtuose.

Ammettiamo pure che ciò accada; ammettiamo che in un primo momento il prezzo unitario medio scenda. Potremo ritenerci per questo soddisfatti dal nuovo sistema? Risponderei di no, per tre motivi.

In primo luogo, sul fronte della trasparenza si perderebbe un’importante fonte di informazione su chi è efficiente e chi non lo è, dal momento che non avremo più la possibilità di confrontare alcunché.

In secondo luogo, il tentativo di omologare coercitivamente specifici aspetti (i prezzi) di realtà che sono molto diverse tra loro non può essere privo di conseguenze (negative). Il prezzo di un bene è il risultato delle interazioni dei diversi attori coinvolti nella sua produzione e nel suo consumo. Prezzi diversi, anche per beni come le siringhe, di solito indicano condizioni diverse che possono riguardare tanti aspetti come la quantità, i tempi di pagamento, le consegne di emergenza e altro ancora. Se tali condizioni continueranno a essere le stesse, omologare il prezzo significherà far pagare di più a chi potrebbe pagare di meno ed eliminare un ulteriore incentivo a essere efficienti. Producendo in questo modo omologazione, certo, ma nel lungo periodo verso il basso.

Naturalmente non è ragionevole che all’interno del nostro sistema sanitario continuino a persistere differenze così marcate da regione a regione. Questo è vero per i costi delle siringhe, per tutti i costi in generale e anche per la qualità delle prestazioni. Più che omologare i prezzi però, sarebbe bene creare gli incentivi affinché ogni sistema trovi il modo più efficace ed efficiente nella fornitura dei servizi sanitari. Affidarsi ad un’unica centrale di acquisto, di fornitura o di controllo, sarebbe una soluzione accettabile se questa si trovasse nella condizione di onniscienza. Sfortunatamente anche solo avvicinarsi a tale condizione è impossibile, a maggior ragione in un sistema complesso come quello sanitario. Non sappiamo tutto del perché emergono le differenze che emergono, e sappiamo poco più di niente di quelle che potrebbero emergere in futuro. Per questo, piuttosto che uniformare, a ogni livello, il modo di procedere più saggio sembrerebbe quello di premiare chi si differenzia nel migliore dei modi.

@paolobelardinel