4
Apr
2016

Conflitti d’interesse e pm: sull’energia è caos, altro che i poteri forti di cui parla Renzi

Ministri in conflitto d’interesse. Politica e partiti che antepongono scontri interni e tra loro al merito delle scelte. Indagini della magistratura che intervengono su fatti puntuali destinati inevitabilmente a suscitare però vastissime onde politiche. Su tutto, l’incoercibile pulsione a non saper distinguere ciò che è bene per l’economia nazionale, dall’interesse di questo o di quello. Sono questi, i tre potenti fattori all’opera nella vicenda giudizial-politica trivelle-petroli.  Purtroppo non è una novità. L’Italia procede così da molti anni. L’effetto a cui i tre fattori concorrono è innanzitutto uno. Non lo spostamento di consensi politici che ne deriva, e su cui molti si soffermano. Ma il consolidamento nei decenni di una vera e propria cultura anti industriale.

Occorre naturalmente distinguere, per non essere equivocati. L’ex ministro Guidi ha sbagliato a patrocinare e informare passo passo il suo compagno degli emendamenti sull’avvio dell’impianto estrattivo di Tempa Rossa. Il suo compagno è indagato e ne risponderà, per traffico d’influenze su pubblici ufficiali al fine di procacciarsene impropri vantaggi.  Il conflitto d’interesse si dimostra ancora una volta problema numero uno della vita politica italiana. Ed è ancor più rilevante se a incorrervi è un ministro imprenditore, con l’azienda di famiglia attiva nel settore dell’energia. Fa testo una gran lettera che Quintino Sella scrisse al fratello Venanzio il giorno prima di assumere l’incarico di ministro del Tesoro, lasciando alle sue mani l’impresa di famiglia. Ti chiedo un impegno d’onore, gli disse: finché durerà la mia permanenza al ministero, prometti di non chiedere alcun contratto al governo. Il problema non è di oggi, visto che correva l’anno 1864.

C’è poi un secondo filone d’indagine, sull’improprio trattamento di oli di risulta dall’estrazione di fonti fossili in val d’Agri, e i responsabili di progetto Eni ne risponderanno.  C’è infine un terzo troncone che riguarda addirittura potenziamenti dei terminal energetici del porto siciliano di Augusta collegati alla Legge Navale pluriennale di rifinanziamento della nostra Marina Militare, e qui già ci sarebbe molto da discutere. Avendo seguito per anni il confronto politico-parlamentare sulla questione di come evitare che la Marina si trovasse in ginocchio alla dismissione delle vecchie fregate classe Maestrale, solo dei matti possono credere che un simile piano strategico decennale possa dipendere da qualche piacere ai terminal energetici del porto di Augusta. E c’è infine l’ipotesi di far ricadere tutto sotto il grande ombrello dell’ipotesi di “disastro ambientale” contenuto nel nuovo testo di legge sugli ecoreati, e su questo ci sarebbe da discutere ancor più a fondo. Perché è la stessa leva giudiziale con la quale ci siamo inflitti l’enorme disastro irrisolto da 4 anni dell’atterramento via ripubblicizzazione giudiziale dell’ILVA.

Ciascuno di questi filoni d’inchiesta finisce per alimentare un’atmosfera caliginosa nella quale tutti i sospettati, implicati ed evocati vengono dipinti come spietati malversatori del bene pubblico, attentatori degli interessi economici nazionali e della salute dei cittadini. Multinazionali energetiche come Eni, Total, Shell, sottoposte in Italia a cervellotiche procedure di autorizzazione nazionali e locali con Stato e Autonomie tra loro in lotta e sindaci che presentano liste di persone da assumere altrimenti boccano tutto, sembrano diventare perversi burattinai di politici che si guardano solo l’ombelico: chi preso da un legame personale, chi dal tentativo di cambiare segretario al proprio stesso partito, chi invece proteso solo a spremere al massimo ogni limone possibile, si tratti di assunzioni oppure di consenso in vista di un referendum.

I grandi numeri dicono che l’effetto è un altro. Anche se non sembra interessare praticamente a nessuno. Riaprendo all’esplorazione e all’estrazione di fonti fossili nazionali, come il governo Renzi aveva fatto dopo i veti del centrodestra e di Monti, l’Italia avrebbe attirato un programma già delineato di investimenti – tra nazionali e soprattutto esteri – pari a 16 miliardi di euro. Espandendo la quota domestica di soddisfacimento del nostro fabbisogno oltre il 10% attuale.

L’effetto della caduta della Guidi, delle indagini in corso e del quesito referendario del prossimo 17 aprile – in realtà su un aspetto del tutto secondario, la durata delle concessioni non più coincidente con la vita dei giacimenti oltre le 12 miglia dalla costa – corre ormai il sempre più probabile rischio di far saltare anche i 6 residui miliardi di investimenti (di cui 5 al Sud) che sopravvivevano alla marcia indietro cui il governo è stato costretto nella legge di stabilità 2016 dai quesiti referendari.

E’ un colossale falò di risorse che freneranno la crescita italiana. In nome di più fonti rinnovabili sussidiate dal contribuente e dal cliente finale in bolletta, come già non avessimo dovuto far marcia indietro rispetto ai sussidi tropo generosi disposti per anni, che hanno prodotto essi sì disastri ambientali da eccesso di pale eoliche malgrado non siamo certo nelle condizioni di ventosità del Mare del Nord.

Delle 135 piattaforme marine presenti sul territorio italiano a fine 2015, quelle entro le 12 miglia oggetto del referendum sono 92, di cui attualmente 48 eroganti  e rispondenti a 21 diverse concessioni. Dunque il presunto referendum “contro le trivelle” riguarderà tra queste solo il possibile effetto di farne smettere l’attività – con rilevanti problemi e rischi per il suggellamento – allo scadere della concessione invece che ala fine dei bacini estrattivi. Un effetto calcolabile dunque intorno all’1% del fabbisogno nazionale, rispetto al 10% complessivo di fonti estratte in Italia. Eppure, in caso di quorum raggiunto il 17 aprile e vittoria del fronte abrogativo, le conseguenze sarebbero rivendicate ed estese all’intero complesso delle estrazioni nazionali. Nel tentativo – diciamo le cose come stanno – di far perdere il lavoro a circa 30mila addetti diretti e in filiera, con un danno complessivo diretto stimato da Nomisma per oltre 5 miliardi di euro nel solo Sud del Paese. La comunità degli oltre 6 mila lavoratori del distretto adriatico oil e gas di Ravenna ha perso giustamente la pazienza, e di fronte alla strumentalizzazione referendaria ha intrapreso azioni pubbliche per far capire agli italiani che cosa davvero è a rischio. Si badi bene che quei 6mila sono tutti aggiuntivi rispetto ai dipendenti ENI, che a propria volta verrebbero colpiti all’effetto a cascata di un’impropria strumentalizzazione dell’esito referendario. Ma né della dipendenza energetica italiana, né dei lavoratori della filiera, né degli effetti sul Sud già disastrato sembra importare molto alla polemica referendaria. Naturalmente incentrata su “più rinnovabili sussidiate dallo Stato”.

Ripetiamolo. Se ci sono politici che commettono errori e reati, se ci sono manager industriali che ne approfittano, se nelle acque reflue della Basilicata finiscono prodotti tossici non adeguatamente trattati, se nell’impianto di Tempa Rossa c’è qualcosa da chiarire sulla sua sicurezza, tutto questo in un Paese consapevole della propria disastrosa dipendenza energetica – il 90% del nostro fabbisogno – si affronta e si tratta anche con dimissioni politiche e processi.

Ma gli errori si correggono senza procedere a sequestri e blocchi totali. Se si ha un’idea anche solo elementare di quanto pesi l’energia nella nostra bilancia dei pagamenti esteri, tutto si può fare tranne che prendere a calci in faccia tutti gli operatori mondiali del settore.

Se il Pd, com’è evidente, ha due anime interne contrapposte sulle scelte energetiche, si doveva confrontare al suo interno prima, non regolare i conti per via referendaria e giudiziale. Doveva farlo per primo Renzi che è segretario del partito, invece di straparlare oggi di poteri forti contro un governo – il suo – che di potere reale se n’è preso e ne esercita come mai altri nella storia repubblicana.

E invece no. E’ stata puntualmente avviata una nuova ordalia all’italiana, un’ulteriore gara a chi la spara più grossa. Regole certe di competenza tra Stato e Autonomie, autorizzazioni ambientali meno cervellotiche e non puntualmente smentite dai periti di parte dei procuratori della Repubblica, capacità di perseguire i reati senza farne ostacoli insuperabili alle scelte nazionali, questo dovrebbe essere l’ABC di un Paese avanzato. Insieme a partiti e ministri consapevoli che un conto è far polemica sulle auto in doppia fila, altro è il rigore da tenere quando sono in ballo punti di PIL e il futuro delle prossime generazioni.

Dispiace amaramente dirlo. Un Paese che non sa distinguere sanzioni a ministri e manager che sbagliano da scelte economiche complessive e di fondo gioca senza accorgersene sempre nuove partite di declino, e non di sviluppo.

 

2
Apr
2016

ATAC e FS: Tasse, perdite e contributi

Arriva giusto il giorno dopo il Primo Aprile la notizia che il gruppo Ferrovie dello Stato Italiane è interessata ad ATAC.
La municipalizzata che svolge il servizio di “trasporto pubblico”, completamente controllata dal Campidoglio, è e sarà sempre al centro dell’attenzione nei prossimi mesi.
Si tratterebbe dunque passare da un monopolio municipale ad un monopolio statale; è giusto ricordare infatti che FS è controllata al 100 per cento dal Ministero dell’Economia e la vendita parziale di una parte delle azioni (la minoranza) non è ancora all’orizzonte nonostante i proclami.
Ma che cosa è ATAC? Read More

2
Apr
2016

Prima l’Olio Tunisino, ora le piattaforme di gas naturale: la politica scivolosa

La politica continua a scivolare. Prima è stato sull’olio tunisino, ora su quelle che impropriamente sono chiamate trivelle.

Su questo ultimo argomento torneremo in seguito, se non per dire che non si tratta di trivelle, ma di piattaforme che estraggono in gran parte gas naturale che altrimenti importeremmo da Russia e Libia.

Ma torniamo sull’inutile polemica che si è venuta a creare contro la decisione del Parlamento Europeo sull’olio tunisino che è cresciuta in maniera esponenziale in Italia sotto le spinte del populismo.

Ma cosa è successo? I Governi europei hanno deciso di incrementare la quota esportata di olio tunisino senza dazi verso la Unione Europea per 35 mila tonnellate. Per due anni, il 2016 e il 2017.

È bene tuttavia tornare alla realtà dei dati facendosi scivolare addosso una qualunque voglia di andare alla pancia degli elettori.

In Italia si sono consumati nell’ultimo anno circa 580 mila tonnellate di olio. Un consumo tra i più elevati in Europa, grazie alle nostre buone abitudini alimentari.

Nello stesso anno la produzione di olio “italico” ha raggiunto solo 350 mila tonnellate. Un dato che dimostra che esiste un enorme deficit di produzione di olio nel nostro Paese. Esattamente sono 230 mila tonnellate “mancanti”.

Oltre a questi dati che dimostrano come l’Italia abbia bisogno d’importare olio dall’estero, c’è da aggiungere che l’olio italiano è ricercato all’estero e che fortunatamente siamo in grado di vendere bene il nostro prodotto “Made in Italy”.

Per tale ragione le esportazioni di olio italiano, sempre nell’ultimo anno hanno raggiunto le 220 mila tonnellate.

Il deficit di produzione di olio per gli italiani sale dunque a circa 450 mila tonnellate. Un dato impressionante che ancora una volta evidenzia come ci sia la necessità di importare olio dall’estero.

Si potrebbe obiettare che tale mancanza è dovuta ai problemi produttivi degli ultimi due anni. Anche tale obiezione è falsa nel momento in cui andiamo incontro alla realtà dei dati.

Se prendiamo i dati dal 2009, nei 7 anni la produzione annua italiana di olio è stata in media di 388 mila tonnellate, mentre il consumo di 606 mila tonnellate annue.

Anche in questo caso il deficit produttivo è evidente. La domanda è superiore per oltre 200 mila tonnellate annue rispetto alla domanda.

A cosa serve dunque la decisione dell’Unione Europea? Serve ad eliminare i dazi per 35 mila tonnellate, pari all’1,7 per cento della produzione totale di olio del nostro Continente.

Una goccia in mezzo al mare.

Ad oggi, la mancanza di libero scambio con la Tunisia provoca una doppia perdita: per il Paese del Nord Africa, che ricordiamo essere l’unica vera democrazia al di là del Mediterraneo, che è sfavorita dai dazi doganali imposti attualmente dall’Unione Europea. Tale mancanza è inoltre una perdita anche per l’Italia che non è in grado di supplire con la propria produzione le esigenze dei consumatori.

Ad oggi il “gioco” della concorrenza è sfavorevole alla Tunisia poiché si impongono dei dazi per esportare verso l’Italia e gli altri Paesi dell’Unione Europea.

Quindi, permettendo alla Tunisia di esportare il proprio olio senza le barriere doganali dei dazi, si favorirebbe quello che in economia è chiamato “gioco a somma positiva”. Vincono tutti i consumatori italiani e vince la Tunisia che può sviluppare la propria economia (il famoso slogan aiutiamoli a casa loro).

È chiaro che le paura di frodi possa essere comprensibile in alcuni consumatori, ma questo non ha nulla a che vedere con i dazi. Le frodi sono una vera e propria concorrenza sleale e avvengono nel momento in cui si attua il comportamento illegale di alcuni produttori.

A chi serve imporre dazi? Chiaramente alla categoria dei produttori che in questo modo possono tenere dei prezzi più elevati.

Tuttavia voler difendere pochi, i produttori, sfavorendo tutti, i consumatori, è una scelta assurda e tafazziana.

Si dice che l’olio italiano sia di qualità e per questo i prezzi devono essere più alti? Perfetto, ma non è possibile imporre a tutti i consumatori le proprie scelte individuali.

Se personalmente posso essere disposto a pagare maggiormente un litro di olio extravergine premium italiano, non posso decidere anche delle scelte di consumo di altre famiglie.

Ancora una volta il populismo va di pari passo con collettivismo, come nel caso dei mutui. (link articolo:

Decidere addirittura delle scelte di consumo, tramite l’attuazione di dazi che sfavoriscono tutti i cittadini italiani è l’ennesima riprova che l’Italia soffre di una tragica malattia quale è il collettivismo.

1
Apr
2016

Due considerazioni estemporanee sulla giustizia

Sarà solo una coincidenza che ‘attore’ significhi sia colui che interpreta una finzione drammatica sia la parte di un processo?

La comune origine etimologica ha preso destini diversi: nel giudizio civile, l’attore è tale perché agisce innescando il processo, nella scena, l’attore è tale perché agisce recitando. Tuttavia, entrambi interpretano un ruolo e partecipano a una simulazione della realtà, fatta di propri riti e finzioni. Nel processo penale, si assiste alla ‘scena’ del crimine e sul palco salgono non solo i divi, ma anche gli imputati.

Le carte processuali hanno una letterarietà specifica, quella dell’oratoria giudiziaria, con le sue formule, parole e i suoi intercalari bizzarri fuori da quel copione. In fondo, cosa altro è la toga se non «un costume maestoso», come pare disse Carnelutti?

La correlazione tra finzione letteraria e processo è a doppio senso: se il secondo si è abbeverato di una certa retorica teatrale e narrativa, la prima si è ispirata alle vicende e alle formule giudiziarie generando intere correnti espressive, a teatro, al cinema, nei libri, dall’antichità ai giorni nostri, come documenta un bel libro di Jacques Vergès, «Giustizia e letteratura», pubblicato nel 2012 da Liberilibri a cura di Serena Sinibaldi.

Il cinema, in particolare, ha dimostrato per ovvi motivi di spettacolarizzazione una straordinaria capacità di raccontare la giustizia, con tendenze e stilemi tipici da paese a paese. Di quelli italiani raccontano magistralmente e con dovizia di esempi gli autori del libro «In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano», edito nel 2013 da Rubbettino a cura di Guido Vitiello: una fonte filmografica straordinaria, ma soprattutto una lettura che, cinefilia a parte, stimola alcune riflessioni sulla giustizia italiana.

Due su tutte.

La prima: è ancora, o è mai stata, veritiera la rappresentazione del processo che la finzione artistica ci consegna? Se abbiamo in testa i legal movies americani, probabilmente non abbiamo idea di cosa sia un tribunale italiano. Nemmeno il cinema italiano è fedele alla giustizia odierna, molto più prosaica e banale nei suoi rinvii, lungaggini, formalismi e trascuratezze. Tuttavia, al cinema italiano possiamo sicuramente tributare la capacità di aver raccontato alcune storture tipiche della giustizia penale e di una cultura giustizialista del nostro paese: film come «Detenuto in attesa di giudizio» e «In nome del popolo italiano» valgono più di qualsiasi trattazione sulla carcerazione preventiva, sull’autoreferenzialità della magistratura e sulla ‘guerra fredda’ consumata nel nostro paese tra magistratura e mondo imprenditoriale.

La seconda: il sistema giudiziario, si dice ovunque, è in crisi. Inefficiente e ridondante, esso non rende giustizia, ma la nega, anche nel suo settore più delicato, quello penale. Così la finzione arriva dove non arriva la realtà: se ne impossessa e fa le sue veci. I processi diventano definitivamente farse e si svolgono, per finta ma un po’ anche per davvero, davanti la telecamera di trasmissioni televisive o dietro la cinepresa. Non è solo la storia del «Divo», citato nel libro, ma è la storia di tutti i casi irrisolti dai tribunali e però giù giudicati negli studi televisivi, oggetto di inchieste giornalistiche che anticipano (e influenzano?) quelle giudiziarie.

Anche questo è un effetto di una giustizia che non è (più) tale.

 (una versione ridotta del post è apparsa su La Lettura del Corriere della Sera del 13 marzo 2016).
29
Mar
2016

500 euro maledetti e subìti…—di Mario Dal Co

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Mario Dal Co.

Premessa: sono contrario a tutte le forme di elargizione occasionale da parte dello Stato con meccanismi straordinari e fuori standard. Ogni spesa che non rientra nelle attività assistenziali, secondo i canali del fisco e del welfare ordinario, collaudato e controllato, non è gestita, non è rendicontata, non si può evitare il diffondersi degli abusi e limitare al minimo il ricorso alle sanzioni. Sono contrario all’elargizione di qualsiasi incentivo discrezionale con cui l’autorità pubblica, sia essa il comune, la regione o lo stato, presume di saperla più lunga del mercato o delle istituzioni o delle imprese o dei singoli cittadini. Sono contrario a tutte queste misure straordinarie che mirano ad acquisire consenso a spese dei contribuenti attuali e più spesso di quelli futuri. Read More

22
Mar
2016

#PropertyIsFreedom: se lo Stato difende l’illegalità

16 marzo 2016. È un giorno come tanti: Gianni Di Marco e sua moglie escono dalla loro casa popolare ad Avezzano, in provincia di L’Aquila, per portare i tre figli a scuola e andare al lavoro. Quando rincasano, però, la “sorpresa”: un gruppo di persone ha smontato la porta d’ingresso e ne sta montando un’altra, occupando illegalmente l’appartamento in cui vivono. Inutile ogni tentativo di interrompere l’azione degli occupanti: le loro minacce bastano a intimidire la famiglia Di Marco, convincendola a richiedere l’intervento delle forze dell’ordine.

Una volta intervenuta, la polizia fa sloggiare i nuovi “inquilini”, i quali tuttavia tornano alla carica dopo poche ore, cacciando – letteralmente – di casa la famiglia Di Marco e riprendendo possesso dell’appartamento, con alcuni minori al seguito, probabilmente consci che proprio questa circostanza garantirà loro la totale impunità. Cosa che potrebbe sembrare incredibile ma che, nel nostro paese, è nient’altro che la norma.

La famiglia Di Marco, a questo punto, si rivolge al sindaco di Avezzano, il quale li fa sistemare provvisoriamente in un albergo. Nel frattempo, racconta il signor Di Marco, “quando siamo rientrati non abbiamo più trovato vestiti e libri delle mie figlie, mentre i mobili sono stati accatastatati e spostati nel garage, e alcuni sono stati danneggiati nell’operazione”.

In un paese civile, a questo punto, le forze dell’ordine dovrebbero intervenire nuovamente, per ristabilire la legalità e assicurare alla giustizia gli occupanti. E invece no. Anzi: quando un gruppo di persone si è presentato di fronte all’abitazione per cacciare gli abusivi, ad attenderli c’erano decine di agenti della polizia e dei carabinieri, che hanno impedito l’accesso all’abitazione, di fatto tutelando l’occupazione. Il consiglio delle forze dell’ordine ai manifestanti è stato quello di “parlare agli inquilini dalla finestra”.

Il caso è stato seguito anche dal programma Mi manda Rai 3 che, qualche giorno fa, ha accompagnato gli agenti della Polizia locale all’interno dell’abitazione, intervistando una degli occupanti, la quale ha spiegato che, avendo una bambina di sei mesi, a lei “la casa serve”, mentre “ai precedenti inquilini non serviva, perché hanno già degli appartamenti di proprietà”.

Indignarsi per l’accaduto, purtroppo, serve a poco. Non soltanto perché, così facendo, si rischia di sottovalutare le ragioni che stanno dietro a casi come questo e che fanno sì che – di casi come questo – ne accadano moltissimi, ogni anno, in tutta Italia. Ma soprattutto perché a spiegare il comportamento degli occupanti è il nostro ordinamento. L’ultima sentenza della Cassazione in merito è la n. 44363 del 2014, che condusse all’assoluzione di una donna che aveva occupato un alloggio popolare mentre era malata e in stato di gravidanza.

La tolleranza nei confronti delle occupazioni abusive non è, purtroppo, esercizio di solidarietà e attuazione del “diritto alla casa”, tanto più che le occupazioni avvengono per la maggior parte in case popolari. Tale tolleranza, a ben vedere, non fa invece altro che legittimare la legge del più forte. Una più incisiva e rapida protezione della proprietà privata difenderebbe i più deboli, più e meglio di qualsivoglia presunta “solidarietà”.

Twitter: @glmannheimer

17
Mar
2016

La saggezza economica ne I promessi sposi–di Carlos Rodríguez Braun

Di Carlos Rodríguez Braun
Questo testo è tratto da due articoli pubblicati da Expansion.

Grazie alla ferma raccomandazione di Alberto Mingardi, ho letto questo celebre romanzo del 1827 di Alessandro Manzoni, che un economista del calibro di Luigi Einaudi ha qualificato come «personificazione vivente della sapienza ed insieme della chiarezza». [L. Einaudi, “Galiani economista”, in Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, Serie VIII, vol. IV, fasc. 3-4, 1949, ora in Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1953, p. 274] Read More

17
Mar
2016

Il caso Avastin/Lucentis approda alla Corte di giustizia europea

Due anni fa, l’Autorità garante della concorrenza italiana comminava a due case farmaceutiche una multa record di 180 milioni di euro. E’ la vicenda, divenuta nota per l’esemplarità della sanzione, del presunto accordo illecito tra Roche e Novartis per l’uso dei farmaci Avastin e Lucentis. Il caso ha avuto, sulla stampa e nell’opinione pubblica, tutti i cliché dell’apparente spregiudicatezza della ricerca del profitto sulla pelle dei pazienti, confermati in primo grado dal giudice amministrativo e rimbalzati anche nel circuito politico, con prese di posizione del ministero della salute e interventi legislativi specifici sull’uso off label dei farmaci.

Tuttavia, un esame approfondito della vicenda dal punto di vista regolatorio avrebbe fatto emergere più di un dubbio sul sistema di regolazione del settore farmaceutico, piuttosto che sulla condotta delle imprese coinvolte, come ipotizzato dall’Istituto Bruno Leoni nel paper «Caso Avastin/Lucentis. La regolazione del commercio dei farmaci, tra tutela della salute e vincoli di spesa».

La condotta censurata, ridotta in parole povere, riguarda la mancata richiesta di autorizzazione alla commercializzazione in ambito oftalmico del farmaco di gran lunga più conveniente tra i due, commercializzato come antitumorale ma usato off label per alcune patologie dell’occhio curate, a costi ben maggiori, dall’altro. Un atteggiamento forse indiziario di un’intesa tra le due società, o forse rispettoso delle regole sulla sicurezza terapeutica che non l’antitrust ma le competenti autorità di regolazione del settore farmaceutiche impongono alle imprese e certificano come tale, a seguito di complesse procedure di immissione in commercio. Di certo, un atteggiamento poco vantaggioso non tanto per i pazienti, quanto per la spesa sanitaria regionale, sempre più costretta al risparmio, anche forse a scapito della salute delle persone.

Il Consiglio di Stato sembra oggi nutrire dubbi simili, al punto da aver sottoposto alla Corte di giustizia dell’Unione europea alcune questioni pregiudiziali sull’interpretazione del diritto europeo che potrebbero portare a una diversa valutazione del caso rispetto a quella effettuata sia dall’AGCM che dal giudice amministrativo in primo grado.

Sono questioni simili a quelle avanzate proprio dall’Istituto Bruno Leoni, in particolare riguardo la definizione di mercato rilevante nel settore farmaceutico a prescindere dal contenuto delle autorizzazioni in commercio dei farmaci rilasciate dalle competenti autorità nazionale e europea; il peso dato all’uso off label dei farmaci nella definizione del mercato rilevante; la configurabilità quale condotta restrittiva della concorrenza di una condotta precauzionale circa la sicurezza e l’efficacia terapeutica di un farmaco.

Il rinvio alla Corte europea dei quesiti dimostra ancora una volta che il caso in questione non riguarda solo i bilanci di due grandi case farmaceutiche, ma rappresenta un caso di enorme rilevanza anche teorica per verificare l’efficacia della regolazione del settore farmaceutico, un settore fortemente regolato e vigilato su più livelli territoriali e purtuttavia, o forse anche a ragione di ciò, incerto, confuso e spaesato tra il dovere di sorveglianza sulla sicurezza dell’uso dei farmaci e la necessità di risparmio della spesa sanitaria pubblica, la quale ha rappresentato, in fondo, la miccia del caso in questione.

16
Mar
2016

18 misure da assumere contro l’illegalità del sistema-Campidoglio

I candidati sindaci a Roma devono studiarle a memoria, le 15 pagine dell’Autorità Anticorruzione con cui si seppellisce l’autodifesa della giunta Marino alle durissime osservazioni critiche già avanzate dagli uomini di Raffaele Cantone. L’ANAC non è criticabile di pregiudizio politico. Aveva già fatto a pezzi la mancata trasparenza, efficienza ed economicità delle procedure di appalti, gare e affidamento seguite sotto la giunta Alemanno. Ma l’autodifesa opposta dai Dipartimenti del Campidoglio e dai Municipi per gli anni più recenti di Marino è risultata infondata, per certi versi addirittura patetica. Tanto che i 18 rilievi finali del rapporto ANAC costituiscono il più sintetico e spietato atto d’accusa delle condizioni di pervasiva illegalità amministrativa DEL Campidoglio. Condizioni che l’attuale commissario Tronca sta già tentando di affrontare, ma che oggettivamente costituiranno l’alfa e l’omega per giudicare la prossima sindacatura. Altro che la miserevole lotta a coltello attualmente in corso all’interno del centrodestra e del centrosinistra.

Quando da anni e anni è l’organizzazione stessa di Campidoglio e Municipi è stata modellata per aggirare le norme, non servono chiacchiere sulla legalità e attestati di onestà dei candidati. Serve una lista esplicita di impegni precisi, capaci di offrire agli elettori rimedi puntuali, adeguati alla gravità degli illeciti indicati dall’ANAC. I diversi livelli coinvolti nel marciume amministrativo della Capitale sono infatti almeno tre, di ordine diverso ma insieme sinergici.  C’è un problema di catalogazione dei dati, cioè del loro controllo. Un problema di risorse umane. E un problema di regole.

Partiamo dai dati. E’ ovvio che i diversi sistemi informatici tra loro non interfacciati e usati da ogni Dipartimento del Campidoglio e Municipio per gestire appalti, gare e affidamenti, sono stati realizzati con l’effetto di compartimentare e oscurare ogni processo centralizzato di controllo, e di segmentare ogni riversamento alla banca dati nazionale dei contratti pubblici. Gli impegni a superare questa babelica maschera di possibili illeciti sono rimasti sulla carta. Mentre occorrerà realizzarli in tempi rapidissimi.

Passiamo alle risorse umane. La prassi invalsa in ogni Dipartimento è stata quella di affidare ogni singolo affidamento alla valutazione del dirigente responsabile del procedimento, in maniera singola o per affinità di materia. E’ una logica che a propria volta aumenta l’opacità, poiché ostacola l’omogeneità dei criteri seguiti e l’uniformità delle norme prescritte dal Codice dei Contratti Pubblici. Ha radicato nel tempo prassi distinte di aggiramento degli obblighi di gara, ha consentito artificiosi abbassamenti e frazionamenti degli importi per procedere ad affidamenti diretti, ha determinato prassi diverse da Dipartimento a Dipartimento di protrazione per anni e anni, in alcuni casi addirittura vent’anni, degli affidamenti scaduti, ha evitato ogni evidenza immediata dei soggetti che cumulavano quote di affidamenti assolutamente improprie, come nel campo delle cooperative per i servizi sociali e agli immigrati: indizio evidente di collusione amministrativa, oltre che di sistematica possibilità di prassi corruttive.

Mentre per i sistemi informativi la risposta viene da una svolta digitale, la rivoluzione del capitale umano da portare in Campidoglio e Municipi sarà una battaglia durissima.  Dovrà fare i conti con la mutazione radicale dell’approccio che dirigenti e responsabili di procedimento dovranno d’ora in poi adottare. Bisognerà spezzare cordate formatesi nel tempo, procedere a nuove nomine per portare in prima fila chi non ha partecipato – ci sono eccome –  alla spartizione degli affidamenti collegandosi a interessi economici o di partito, procedere a rotazioni sistematiche d’incarichi. E, se possibile visti i limiti pesantissimi di bilancio – perché a Tronca intanto tocca tagliare il 5% della spesa rispetto al bilancio 2015, per via dei buchi ereditati – anche immettere professionalità nuove e forze fresche, estranee allo sfascio profondo determinato da partiti affamati e funzionari pubblici piegati alla collusione. Senza un corpo amministrativo chiamato alla fierezza di saper dire no a richieste improprie e di segnalarle pubblicamente, in nome dell’articolo 97 della Costituzione che fissa il dovere di autonomia e imparzialità della PA, Roma non può aprire un capitolo nuovo.

Infine, le regole. La lista di articoli violati del Codice dei Contratti Pubblici è spaventevole.  Su questo, i candidati sindaci devono dichiarare pubblicamente a quali criteri si atterranno. Dovranno dire che standard propongono per la motivazione delle procedure negoziate, quale il termine massimo delle proroghe e in presenza di quali circostanze, come intendono impedire il frazionamento  degli importi, qual è il limite massimo di aggiudicazioni al medesimo soggetto, che tetti porranno alle varianti contrattuali e alle aggiudicazioni in economia, quali requisiti professionali dovranno inderogabilmente avere i responsabili di procedimento e dei lavori, chi centralmente risponderà degli obblighi informativi nei confronti dell’ANAC.

Com’è ovvio, non è richiesto al nuovo sindaco di essere lui personalmente un campione del diritto amministrativo. Ma una cosa è sicura. Le promesse di legalità che ogni candidato farà assumeranno credibilità se e solo se ciascuno di essi saprà indicare da subito un superassessore tecnico alla trasparenza e al rispetto della legge, non solo competente ma dotato di poteri d’intervento in tutti i Dipartimenti, senza dover mediare con gli assessori. Con 14 miliardi di debito alle spalle, le sovrattasse cittadine al più alto livello in tutta Italia, e le maggiori municipalizzate purtroppo ai vertici dell’inefficienza nazionale, alla nuova guida del Campidoglio sarà difficile chiedere miracoli finanziari immediati (anche se Tronca sta dimostrando che basta volere, e in pochi mesi si assumono provvedimenti equivalenti finora, se li proiettassimo su scala nazionale, a 40 miliardi di euro di spesa pubblica  in meno su 800 italiani…) . Bisogna ripartire dal rispetto della legge, e misurarne mese per mese pubblicamente il ripristino attraverso dati certificati. La scommessa vera è una: quella che, dopo un anno, la prima ispezione generale dell’ANAC possa prendere atto di 18 soluzioni efficaci, e non più di 18 piaghe aperte.