Per un liberale, la giustizia italiana è un inferno
Le dichiarazioni di Piercamillo Davigo, neo presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, hanno riacceso il confronto politica-magistratura: un classico degli ultimi 25 anni. Davigo, oggi giudice di Cassazione eletto presidente dell’ANM con un voto vastissimo, è persona di grande determinazione e finezza. Impossibile pensare che con le sue dichiarazioni su “i politici rubano più di prima, la differenza è che non si vergognano più” non intendesse suscitare esattamente ciò che è avvenuto: dare il segno tangibile alla politica italiana che la fase di concertazione con il governo Renzi sulle nuove misure del processo penale, e su punti come le intercettazioni e la prescrizione, è di fatto conclusa. E si riapre lo scontro frontale. Esattamente come ai tempi di Berlusconi, né più né meno. Eppure, cercando di osservare nel merito i punti sollevati e al di fuori di generalizzazioni buone per i talk show, è davvero difficile capire in che cosa i magistrati reputino di aver perso punti negli anni recenti (per favore: non parliamo di temi come le ferie e le retribuzioni o l’età pensionabile prolungata per chi ricopre uffici apicali, perché su questo continuano a essere privilegiati, sia rispetto al resto della PA, sia nella comparazione internazionale)
Prima però occorrono un paio di considerazioni di ordine generale. Che hanno a che vedere con la filosofia generale del diritto che sembra ispirare l’intemerata del presidente ANM. Evitiamo di proposito la generalizzazione sui politici perché è, appunto, un giudizio politico. E del resto non mancano a smentirlo tanti casi. Come quello di Antonio Lattanzi, assessore di Martinsicuro in provincia di Teramo 4 volte arrestato dalla Procura per tentata concussione e abuso d’ufficio e poi dopo anni pienamente assolto malgrado 83 giorni di carcere. O come quello di Ettore Incalza, il grand commis per 15 anni vero regista del ministero di Trasporti — una delle figure che più hanno mostrato come i vertici delle burocrazie ministeriali facciano la politica, in Italia, molto più dei politici che passano.. – e arrestato nel 2015 per gravissime accuse nella vicenda che portò poi alle dimissioni del ministro Lupi, ma giunto la settimana scorsa alla quindicesima – quindicesima! -assoluzione o proscioglimento in altrettante indagini
Giustizia da Armageddon. Fermiamoci invece al significato profondo di due passaggi di Davigo. Quello in cui ha affermato che la presunzione d’innocenza è un mero fatto interno al processo, e la sua proposta di usare la polizia giudiziaria al servizio delle Procure per simulati tentativi di corruzione verso i politici, al fine di testarne in maniera inoppugnabile l’innocenza. Entrambe le asserzioni esprimono in maniera chiarissima il pensiero di quella parte di magistrati che si riconoscono in Davigo. A loro giudizio, la presunzione d’innocenza non è affatto un valore costituzionale ribadito nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, è una semplice ipotesi che pesa tanto quanto la colpevolezza. ANZI, MENO. Perché la differenza è che la colpevolezza identifica non solo la reità di un individuo ma anche un pericolo sociale, ed è dunque sovraordinatamente nella sua identificazione e sanzione che deve concentrarsi il ruolo del magistrato. Da questo discende che le indagini di cui il pubblico ministero è dominus diventino prioritarie rispetto al giusto processo, e all’equilibrio tra le parti che nel processo è garanzia per il cittadino accusato, rispetto a ogni eventuale sopruso di Stato. Perché innocenza e colpevolezza non sono affatto paritarie ai fini pubblici, secondo questo filone di pensiero: la giustizia serve invece ad affermare un’etica e una morale di Stato, non si limita ad accertare che la legge non sia violata nel rispetto delle idee, opinioni e libertà di ciascuno.
Tanto questa superiore finalità dello Stato etico prende la mano, da spacciare per proposta americana a anglosassone l’uso di Finanza e Carabinieri sotto la regia del Pm per sedurre a reati politici, amministratori e cittadini. E solo di fronte alla manifesta ripulsa dell’offerta, concedere la patente di innocente. Per il momento, s’intende. Non è affatto così: in alcuni paesi di common law si ricorre a esche simili quando c’è una notizia di reato magari comprovata da testimonianze rese dai cosiddetti whistleblowers, segnalatori di illeciti che vengono prima tutelati nella loro riservatezza, ma poi diventano testimoni pubblici. E’ tutt’altra cosa che voler piegare la polizia giudiziaria a produrre essa, con le sue offerte mascherate, notizie di reato di cui non si aveva alcuna contezza, bussando a tutte le porte per separare il grano dal loglio. Pensateci bene: è un’interiorizzazione alla giustizia di Stato del ruolo di Dio. Come il Padreterno secondo l’Antico testamento chiese ad Abramo la testa di suo figlio Isacco per metterlo in tentazione e verificarne l’obbedienza fino e oltre all’estremo limite, allo stesso modo dovrebbe comportarsi lo Stato-Dio. Per chiunque sia liberale, è una concezione che suscita orrore. Ora è assolutamente ovvio che i magistrati della Repubblica siano del tutto liberi di non essere liberali, e di nutrire idee della filosofia del diritto di tipo hegeliano (di qualunque colore le vogliate poi dipingere, rosso, nero o religioso, sempre Stato-etico è). Resta il fatto che nel nostro ordinamento non ha diritto di cittadinanza costituzionale una simile concezione della giustizia, analoga all’apocalittico Armageddon, dove si confronteranno per l’ultima volta il Bene e il Male.
Intercettazioni. Detto questo, veniamo ai punti concreti. Dopo l’intervista al Corriere di Davigo, ha detto il ministro Orlando che non vede impedimenti all’approvazione entro l’estate del disegno di legge recante modifiche alla normativa penale, sostanziale e processuale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi, già approvato dalla Camera, e ora al Senato. In realtà, l’attacco di Davigo fa esattamente presagire il contrario. Dovrebbe essere quello lo strumento giusto per la più che mai necessaria riforma della disciplina a tutela della privacy nel regime attuale delle intercettazioni giudiziarie. Lo ha già scritto molte volte il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio (uno dei pochissimi magistrati veri liberali che non abbia paura di esprimere apertamente le proprie idee): le circolari di autodisciplina di alcune Procure non sono affatto la soluzione, occorre un nuovo testo normativo che impedisca lo scempio mediatico-giudiziario che continua ad avvenire tutti i giorni sotto i nostri occhi. Le intercettazioni preventive che non hanno valore processuale devono restare nella cassaforte del pm, che deve rispondere personalmente della loro riservatezza. Quelle a strascico, che coinvolgono soggetti neanche indagati, non devono uscire dalla riservatezza. L’autonomia e l’indipendenza del magistrato non c’entrano nulla, con queste regole di civiltà da affermare.
Davigo ha sempre ripetuto che non serve in realtà alcun intervento. “Pubblicare intercettazioni non pertinenti è già vietato – son sue parole, questa volta al Fatto Quotidiano – quanto meno dal reato di diffamazione; se si ritiene che le pene per la diffamazione siano inadeguate, basta aumentarle. Il resto è superfluo”. Non è affatto così, e lo sappiamo benissimo tutti. Perché in tanti anni non c’è mai stata una sola condanna che si ricordi, una sola, per diffamazione da pubblicazione di conversazioni intercettate. Né un pubblico ministero mai, quando la pubblicazione è avvenuta prima del deposito degli attui rilevanti per il procedimento, e dunque quando solo dalla disponibilità dell’ufficio del pm le intercettazioni potevano originarsi, non uno ha mai ammesso che il suo ufficio era evidentemente una groviera e che ciò era intollerabile.
La verità che mai verrà ammessa sembra proprio un’altra. Se l’ipotesi di colpevolezza a fini sociali e pubblici pesa più di quella d’innocenza, e se la fase d’indagine preliminare – non il giusto processo – è la vera valle di Josafat in cui le forze del Bene sgominano quelle del Male, allora la distruzione pubblica per via mediatica del sospetto reo diventa parte essenziale della pena afflittiva della quale – si sa – l’accusa non è affatto certa che otterrà il riconoscimento secondo le sue richieste, nei diversi gradi di giudizio. Perché in Italia, ripete il mantra giustizialista, si sa che alla fine abbiamo una percentuale troppo bassa di condanne passate in giudicato per reati commessi da politici, amministratori pubblici, manager e colletti bianchi d’impresa. E questo spiega, allo stesso modo, l’utilizzo a manetta della custodia cautelare nella fase d’indagine anche quando non sembrano ricorrere i tre presupposti di legge: la reiterazione del reato, il pericolo di fuga, l’inquinamento delle prove. Per quanto orrore possa fare la vicenda delle morti sospette in corsia all’ospedale di Piombino, rileggere prego le dichiarazioni rese alla scarcerazione dall’infermiera Fausta Bonino, sulla pressione esercitata dal pm che ne chiedeva la confessione autoaccusatoria, a minaccia altrimenti di dimenticare la chiave del carcere e di aggravare ulteriormente la sua posizione.
Prescrizione. Altro terreno di scontro frontale è quello del regime di prescrizione dei reati, continuamente additato da molti magistrati come concepito a favore dei rei per farla franca. L’esperienza insegna che è inutile pensare di avere ascolto replicando che l’istituto nasce storicamente come tutela del cittadino nei confronti di un processo lungo anni e anni, che devasta vite e personalità, status sociale e carriere. Se si è convinti che la giustizia sia espressione di uno Stato-etico, è conseguente che i diritti vadano piegati alle esigenze dell’accusa, non del cittadino. Ma è proprio vero che il regime di prescrizione costituisca un via libera sempre più spalancata ai criminali? I numeri sembrano proprio dire il contrario. Secondo i dati del ministero della Giustizia i processi penali finiti in prescrizione sono in drastico calo, non in aumento. Sono scesi da 183.224 nel 2005 a 132.296 nel 2014. E c’è un altro dato sul quale far riflettere i magistrati. Se in 10 anni i processi prescritti sono stati il terribile numero di 1,46 milioni, in oltre 1 milione di casi cioè il 70% delle volte ciò è avvenuto perché i procedimenti erano ancora nella fase delle indagini preliminari. In altre parole: alla radice del male non possono essere considerati né gli avvocati, né gli artifici eventuali posti in essere dall’indagato per difendersi “dal” procedimento invece che “nel” procedimento. Il dominus della fase preliminare è il PM insieme al GIP: ergo parliamo di responsabilità dei magistrati. Ma naturalmente la loro risposta è che tutto ciò discende dal fatto che in ruolo sono troppo pochi, non dai tempi medi troppo dilatati delle loro indagini.
Ed è per questo che infatti il più dei magistrati propone una revisione drastica della prescrizione con una previsione normativa che contempli uno stop definitivo dell’orologio della prescrizione dopo il rinvio a giudizio dell’imputato. Fino ad ora la proposta del governo è stata indirizzata verso il blocco dopo il giudizio di primo grado e 3 anni in più tra Appello e Cassazione, ma tale ipotesi vede, all’interno della maggioranza, la contrarietà di Ncd. In alternativa, la magistratura ha a volte proposto che la prescrizione scatti non dalla data del presunto reato ma dall’apertura del fascicolo da parte del pm, e Davigo aggiunge che a quel punto sarebbe però coerente una riforma del processo che escludesse l’appello. E’ ovvio che sommare una prescrizione che scatta solo all’apertura delle indagini, aggiunta all’ipotesi di aggiungere anni di sospesa prescrizione tra i diversi gradi di giudizio, annullerebbe di fatto l’esistenza stessa della garanzia prescrittiva: cioè il diritto a un processo di equa durata. Per Davigo e chi la pensa come lui, la prescrizione per reati come la corruzione potrebbe durare fino a 21 anni: auguri a cosa resta di chi venisse assolto dopo una simile vita intera bruciata. Senza contare che fermare il processo penale alla sentenza di primo grado significa ignorare che per molti dei reati che tanto tornano nelle denunce dei magistrati – quelli collegati a politica, amministrazione pubblica e imprese – la giurisprudenza di appello in percentuali molto elevate abbatte o annulla le condanne del primo grado. Se la cosa vi lascia indifferenti, a un liberale invece no.
Ma è poi la magistratura davvero immune dai difetti di certa politica? Non è forse manifestamente per lotta tra correnti della magistratura associata che la Procura di Milano da oltre due anni – prima nello scontro tra Bruti Liberati e Robledo, poi nella mancata designazione del suo nuovo capo – non ha avuto soluzione ai suoi problemi? Che cosa ci direbbero le trascrizioni dei colloqui tra capi corrente della magistratura, quelli in cui trattano in maniera incrociata le designazioni al vertice degli uffici giudiziari? Siamo del tutto certi che quegli scambi incrociati di richieste suonerebbero molto diversi dal commercio improprio d’influenze? O il tutto dipende solo dal fatto che a nessun pm salti per la testa di intercettare quei colloqui?
Conclusione. Il ministro Orlando fin dalla nascita del governo Renzi era stato officiato a una trattativa con i vertici associativi della magistratura, per quanto lunga ed estenuante fosse, ma con l’obiettivo di misure che alla fine non suscitassero aspre reazioni di quello che secondo il dettato del Titolo Quarto della nostra Costituzione è un “ordine”, non un “potere”, checché dicano i magistrati scomodando Montesquieu. Quell’obiettivo, oggi, appare pregiudicato. A Renzi va dato atto che le parole e i toni che usano restano quelli di un liberale non giustizialista. Ma che alla fine l’interdizione aspra del giustizialismo non vinca ancora una volta, è un’ipotesi oggi sicuramente meno forte di dieci giorni fa. Dal caso Boschi in Banca Etruria all’indagine sul presidente del Pd campano sospettato di aver contrattato voti con la camorra, il forte rischio è che il governo renzi per difendere i propri indagati assecondi la svolta ancor più giustizialista invocata dall’ANM sulle norme penali e le garanzie per indagati e accusati.