27
Apr
2016

Per un liberale, la giustizia italiana è un inferno

Le dichiarazioni di Piercamillo Davigo, neo presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, hanno riacceso il confronto politica-magistratura: un classico degli ultimi 25 anni. Davigo, oggi giudice di Cassazione eletto presidente dell’ANM con un voto vastissimo, è persona di grande determinazione e finezza. Impossibile pensare che con le sue dichiarazioni su “i politici rubano più di prima, la differenza è che non si vergognano più” non intendesse suscitare esattamente ciò che è avvenuto: dare il segno tangibile alla politica italiana che la fase di concertazione con il governo Renzi sulle nuove misure del processo penale, e su punti come le intercettazioni e la prescrizione, è di fatto conclusa. E si riapre lo scontro frontale. Esattamente come ai tempi di Berlusconi, né più né meno. Eppure, cercando di osservare nel merito i punti sollevati e al di fuori di generalizzazioni buone per i talk show, è davvero difficile capire in che cosa i magistrati reputino di aver perso punti negli anni recenti (per favore: non parliamo di temi come le ferie e le retribuzioni o l’età pensionabile prolungata per chi ricopre uffici apicali, perché su questo continuano a essere privilegiati, sia rispetto al resto della PA, sia nella comparazione internazionale)

Prima però occorrono un paio di considerazioni di ordine generale. Che hanno a che vedere con la filosofia generale del diritto che sembra ispirare l’intemerata del presidente ANM. Evitiamo di proposito la generalizzazione sui politici perché è, appunto, un giudizio politico. E del resto non mancano a smentirlo tanti casi. Come quello di Antonio Lattanzi, assessore di Martinsicuro in provincia di Teramo 4 volte arrestato dalla Procura per tentata concussione e abuso d’ufficio e poi dopo anni pienamente assolto malgrado 83 giorni di carcere. O come quello di Ettore Incalza, il grand commis per 15 anni vero regista del ministero di Trasporti — una delle figure che più hanno mostrato come i vertici delle burocrazie ministeriali facciano la politica, in Italia, molto più dei politici che passano.. –  e arrestato nel 2015 per gravissime accuse nella vicenda che portò poi alle dimissioni del ministro Lupi, ma giunto la settimana scorsa alla quindicesima – quindicesima! -assoluzione o proscioglimento in altrettante indagini

Giustizia da Armageddon. Fermiamoci invece al significato profondo di due passaggi di Davigo. Quello in cui ha affermato che la presunzione d’innocenza è un mero fatto interno al processo, e la sua proposta di usare la polizia giudiziaria al servizio delle Procure per simulati tentativi di corruzione verso i politici, al fine di testarne in maniera inoppugnabile l’innocenza. Entrambe le asserzioni esprimono in maniera chiarissima il pensiero di quella parte di magistrati che si riconoscono in Davigo. A loro giudizio, la presunzione d’innocenza non è affatto un valore costituzionale ribadito nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, è una semplice ipotesi che pesa tanto quanto la colpevolezza. ANZI, MENO. Perché la differenza è che la colpevolezza identifica non solo la reità di un individuo ma anche un pericolo sociale, ed è dunque sovraordinatamente nella sua identificazione e sanzione che deve concentrarsi il ruolo del magistrato. Da questo discende che le indagini di cui il pubblico ministero è dominus diventino prioritarie rispetto al giusto processo, e all’equilibrio tra le parti che nel processo è garanzia per il cittadino accusato, rispetto a ogni eventuale sopruso di Stato. Perché innocenza e colpevolezza non sono affatto paritarie ai fini pubblici, secondo questo filone di pensiero: la giustizia serve invece ad affermare un’etica e una morale di Stato, non si limita ad accertare che la legge non sia violata nel rispetto delle idee, opinioni e libertà di ciascuno.

Tanto questa superiore finalità dello Stato etico prende la mano, da spacciare per proposta americana a anglosassone l’uso di Finanza e Carabinieri sotto la regia del Pm per sedurre a reati politici, amministratori e cittadini. E solo di fronte alla manifesta ripulsa dell’offerta, concedere la patente di innocente. Per il momento, s’intende. Non è affatto così: in alcuni paesi di common law si ricorre a esche simili quando c’è una notizia di reato magari comprovata da testimonianze rese dai cosiddetti whistleblowers, segnalatori di illeciti che vengono prima tutelati nella loro riservatezza, ma poi diventano testimoni pubblici. E’ tutt’altra cosa che voler piegare la polizia giudiziaria a produrre essa, con le sue offerte mascherate, notizie di reato di cui non si aveva alcuna contezza, bussando a tutte le porte per separare il grano dal loglio. Pensateci bene: è un’interiorizzazione alla giustizia di Stato del ruolo di Dio. Come il Padreterno secondo l’Antico testamento chiese ad Abramo la testa di suo figlio Isacco per metterlo in tentazione e verificarne l’obbedienza fino e oltre all’estremo limite, allo stesso modo dovrebbe comportarsi lo Stato-Dio.  Per chiunque sia liberale, è una concezione che suscita orrore. Ora è assolutamente ovvio che i magistrati della Repubblica siano del tutto liberi di non essere liberali, e di nutrire idee della filosofia del diritto di tipo hegeliano (di qualunque colore le vogliate poi dipingere, rosso, nero o religioso, sempre Stato-etico è). Resta il fatto che nel nostro ordinamento non ha diritto di cittadinanza costituzionale una simile concezione della giustizia, analoga all’apocalittico Armageddon, dove si confronteranno per l’ultima volta il Bene e il Male.

Intercettazioni. Detto questo, veniamo ai punti concreti.  Dopo l’intervista al Corriere di Davigo, ha detto il ministro Orlando che non vede impedimenti all’approvazione entro l’estate del disegno di legge recante modifiche alla normativa penale, sostanziale e processuale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi, già approvato dalla Camera, e ora al Senato. In realtà, l’attacco di Davigo fa esattamente presagire il contrario. Dovrebbe essere quello lo strumento giusto per la più che mai necessaria riforma della disciplina a tutela della privacy nel regime attuale delle intercettazioni giudiziarie. Lo ha già scritto molte volte il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio (uno dei pochissimi magistrati veri liberali che non abbia paura di esprimere apertamente le proprie idee): le circolari di autodisciplina di alcune Procure non sono affatto la soluzione, occorre un nuovo testo normativo che impedisca lo scempio mediatico-giudiziario che continua ad avvenire tutti i giorni sotto i nostri occhi.  Le intercettazioni preventive che non hanno valore processuale devono restare nella cassaforte del pm, che deve rispondere personalmente della loro riservatezza. Quelle a strascico, che coinvolgono soggetti neanche indagati, non devono uscire dalla riservatezza. L’autonomia e l’indipendenza del magistrato non c’entrano nulla, con queste regole di civiltà da affermare.

Davigo ha sempre ripetuto che non serve in realtà alcun intervento. “Pubblicare intercettazioni non pertinenti è già vietato – son sue parole, questa volta al Fatto Quotidiano – quanto meno dal reato di diffamazione; se si ritiene che le pene per la diffamazione siano inadeguate, basta aumentarle. Il resto è superfluo”. Non è affatto così, e lo sappiamo benissimo tutti. Perché in tanti anni non c’è mai stata una sola condanna che si ricordi, una sola, per diffamazione da pubblicazione di conversazioni intercettate. Né un pubblico ministero mai, quando la pubblicazione è avvenuta prima del deposito degli attui rilevanti per il procedimento, e dunque quando solo dalla disponibilità dell’ufficio del pm le intercettazioni potevano originarsi, non uno ha mai ammesso che il suo ufficio era evidentemente una groviera e che ciò era intollerabile.

La verità che mai verrà ammessa sembra proprio un’altra. Se l’ipotesi di colpevolezza a fini sociali e pubblici pesa più di quella d’innocenza, e se la fase d’indagine preliminare – non il giusto processo – è la vera valle di Josafat in cui le forze del Bene sgominano quelle del Male, allora la distruzione pubblica per via mediatica del sospetto reo diventa parte essenziale della pena afflittiva della quale – si sa – l’accusa non è affatto certa che otterrà il riconoscimento secondo le sue richieste, nei diversi gradi di giudizio.  Perché in Italia, ripete il mantra giustizialista, si sa che alla fine abbiamo una percentuale troppo bassa di condanne passate in giudicato per reati commessi da politici, amministratori pubblici, manager e colletti bianchi d’impresa. E questo spiega, allo stesso modo, l’utilizzo a manetta della custodia cautelare nella fase d’indagine anche quando non sembrano ricorrere i tre presupposti di legge: la reiterazione del reato, il pericolo di fuga, l’inquinamento delle prove. Per quanto orrore possa fare la vicenda delle morti sospette in corsia all’ospedale di Piombino, rileggere prego le dichiarazioni rese alla scarcerazione dall’infermiera Fausta Bonino, sulla pressione esercitata dal pm che ne chiedeva la confessione autoaccusatoria, a minaccia altrimenti di dimenticare la chiave del carcere e di aggravare ulteriormente la sua posizione.

Prescrizione. Altro terreno di scontro frontale è quello del regime di prescrizione dei reati, continuamente additato da molti magistrati come concepito a favore dei rei per farla franca. L’esperienza insegna che è inutile pensare di avere ascolto replicando che l’istituto nasce storicamente come tutela del cittadino nei confronti di un processo lungo anni e anni, che devasta vite e personalità, status sociale e carriere. Se si è convinti che la giustizia sia espressione di uno Stato-etico, è conseguente che i diritti vadano piegati alle esigenze dell’accusa, non del cittadino.  Ma è proprio vero che il regime di prescrizione costituisca un via libera sempre più spalancata ai criminali? I numeri sembrano proprio dire il contrario. Secondo i dati del ministero della Giustizia i processi penali finiti in prescrizione sono in drastico calo, non in aumento. Sono scesi da 183.224 nel 2005 a 132.296 nel 2014. E c’è un altro dato sul quale far riflettere i magistrati. Se in 10 anni i processi prescritti sono stati il terribile numero di 1,46 milioni, in oltre 1 milione di casi cioè il 70% delle volte ciò è avvenuto perché i procedimenti erano ancora nella fase delle indagini preliminari. In altre parole: alla radice del male non possono essere considerati né gli avvocati, né gli artifici eventuali posti in essere dall’indagato per difendersi “dal” procedimento invece che “nel” procedimento. Il dominus della fase preliminare è il PM insieme al GIP: ergo parliamo di responsabilità dei magistrati. Ma naturalmente la loro risposta è che tutto ciò discende dal fatto che in ruolo sono troppo pochi, non dai tempi medi troppo dilatati delle loro indagini.

Ed è per questo che infatti il più dei magistrati propone una revisione drastica della prescrizione con una previsione normativa che contempli uno stop definitivo dell’orologio della prescrizione dopo il rinvio a giudizio dell’imputato. Fino ad ora la proposta del governo è stata indirizzata verso il blocco dopo il giudizio di primo grado e 3 anni in più tra Appello e Cassazione, ma tale ipotesi vede, all’interno della maggioranza, la contrarietà di Ncd. In alternativa, la magistratura ha a volte proposto che la prescrizione scatti non dalla data del presunto reato ma dall’apertura del fascicolo da parte del pm, e Davigo aggiunge che a quel punto sarebbe però coerente una riforma del processo che escludesse l’appello. E’ ovvio che sommare una prescrizione che scatta solo all’apertura delle indagini, aggiunta all’ipotesi di aggiungere anni di sospesa prescrizione tra i diversi gradi di giudizio, annullerebbe di fatto l’esistenza stessa della garanzia prescrittiva: cioè il diritto a un processo di equa durata. Per Davigo e chi la pensa come lui, la prescrizione per reati come la corruzione potrebbe durare fino a 21 anni: auguri a cosa resta di chi venisse assolto dopo una simile vita intera bruciata. Senza contare che fermare il processo penale alla sentenza di primo grado significa ignorare che per molti dei reati che tanto tornano nelle denunce dei magistrati – quelli collegati a politica, amministrazione pubblica e imprese – la giurisprudenza di appello in percentuali molto elevate abbatte o annulla le condanne del primo grado. Se la cosa vi lascia indifferenti, a un liberale invece no.

Ma è poi la magistratura davvero immune dai difetti di certa politica? Non è forse manifestamente per lotta tra correnti della magistratura associata che la Procura di Milano da oltre due anni – prima nello scontro tra Bruti Liberati e Robledo, poi nella mancata designazione del suo nuovo capo – non ha avuto soluzione ai suoi problemi? Che cosa ci direbbero le trascrizioni dei colloqui tra capi corrente della magistratura, quelli in cui trattano in maniera incrociata le designazioni al vertice degli uffici giudiziari? Siamo del tutto certi che quegli scambi incrociati di richieste suonerebbero molto diversi dal commercio improprio d’influenze? O il tutto dipende solo dal fatto che a nessun pm salti per la testa di intercettare quei colloqui?

Conclusione. Il ministro Orlando fin dalla nascita del governo Renzi era stato officiato a una trattativa con i vertici associativi della magistratura, per quanto lunga ed estenuante fosse, ma con l’obiettivo di misure che alla fine non suscitassero aspre reazioni di quello che secondo il dettato del Titolo Quarto della nostra Costituzione è un “ordine”, non un “potere”, checché dicano i magistrati scomodando Montesquieu. Quell’obiettivo, oggi, appare pregiudicato. A Renzi va dato atto che le parole e i toni che usano restano quelli di un liberale non giustizialista. Ma che alla fine l’interdizione aspra del giustizialismo non vinca ancora una volta, è un’ipotesi oggi sicuramente meno forte di dieci giorni fa. Dal caso Boschi in Banca Etruria all’indagine sul presidente del Pd campano sospettato di aver contrattato voti con la camorra, il forte rischio è che il governo renzi per difendere i propri indagati assecondi la svolta ancor più giustizialista invocata dall’ANM sulle norme penali e le garanzie per indagati e accusati.

 

 

26
Apr
2016

Dopo Hannover restano 4 grossi guai tra Usa e Ue

Il vertice di Hannover tra Obama, Merkel, Cameron, Hollande e Renzi non ha purtroppo aggiunto nulla di nuovo a quanto era già chiaro. In sintesi, quattro lezioni sono di fronte a noi, ed è difficile capire se Stati Uniti ed Europa davvero troveranno il modo di uscire dagli errori sin qui commessi, ognun per sé e nei loro reciproci rapporti.  Sono errori pesanti: riguardano la sicurezza comune cioè la NATO, il Medio Oriente,  gli scambi commerciali, e le conseguenze anche per gli USA di un’eurocrisi politica che, da conclamata qual è già, può diventare presto galoppante.

Se guardiamo alla sicurezza europea, Obama chiude il suo mandato sotto il segno del disincanto. Nel 2008, il suo tour tedesco suscitò entusiasmi spettacolari, dopo i che i suoi predecessori erano associati alla guerra in Iraq e Afghanistan. Ma aver delegato alla Germania il timone della crisi russo-ucraina si è rivelato un enorme errore da parte di Obama. Di fatto, Germania e Ue non si sono rivelati in grado di una vera regia politico-militare capace di ingaggiare Putin. Non potevano farlo, visto che la politica di difesa comune all’Europa manca. A oggi, restano le sanzioni alla Russia e nessuno sa come uscirne, perché Mosca non ci pensa proprio a far marcia indietro dalla Crimea e Ucraina orientale. Il rafforzamento dello schieramento americano nell’Europa centrale e orientale della NATO deciso da Washington a fine 2014 ha alzato la tensione militare con Mosca, ma non risolve nulla.  La NATO è avvertita sempre più debole come cemento comune, proprio dai paesi est europei che vedono l’euroscetticismo crescere a ogni elezione (e non sono i soli). Ad Hannover, di questo, praticamente non se n’è parlato.  Se ne occuperà il prossimo inquilino della Casa Bianca.

In Medio Oriente, non casualmente una grande novità è venuta proprio mentre i 5 leader entravano nel castello di  Herrenhausen. Il contestato neoleader nazionale libico Serraj ha chiesto un intervento internazionale militare, a difesa degli impianti energetici libici minacciati dall’Isis. Renzi, fedele alla linea italiana secondo cui tutto deve passare per l’ONU, ha garantito piena disponibilità, se solo la domanda è inoltrata e approvata dal Palazzo di Vetro. Ma in realtà ieri ad Hannover i leader Ue erano divisi: di fatto, le forze speciali francesi sono già da mesi sul campo impegnate a favore del generale Haftar, che attacca Isis in Cirenaica e nella Sirte non riconoscendo affatto Serraj, e Parigi lavora in sienzio per una frattura della Libia d’accordo con il generale al Sisi, il raiss del Cairo. Con il quale i rapporti italiani sono ai minimi termini per via dello stallo sulla dolorosa vicenda Regeni. E mentre anche forze speciali britanniche si danno da fare nella Sirte. La delega americana all’Italia sulla Libia di fatto non viene riconosciuta da Parigi e Londra. E Obama si è presentato in Europa dovendo ammettere che nel 2011 ha commesso un gravissimo errore, perché non aveva minimamente un piano dopo la destituzione militare di Gheddafi. Al contrario, in Medio Oreinte tutte le energie di Obama sono andate in questi due anni all’accordo con l’Iran. Non a caso, nel 2010 un editorialista del New York Times in visita alla Sala Ovale della casa Bianca si avvide che gli orologi internazionali a parete riportavano le ore di Teheran, di Pechino e dello Yemen, ma di nessuna capitale europea.  Spetta al governo italiano, di conseguenza, valutare quanto e come tutelare i nostri interessi in Libia prima che Parigi e Londra rifacciano il bis del 2011.

Sul commercio, Obama si è presentato tardi e male per promuovere il grande accordo transatlantico commerciale, il TTIP. A differenza dell’analogo strumento transpacifico firmato dagli USA con le 10 maggiori economie asiatiche nell’ottobre dell’anno scorso, ma che il Congresso Usa comunque non ratifica, il negoziato con l’Europa dopo quasi 3 anni è ancora fermo su alcuni punti fondamentali. Arduo immaginare dunque che l’accordo si chiuda prima della fine della presidenza Obama: il che significa che se ne riparlerà tra un paio d’anni, se va bene.

Malgrado Usa e Ue siano i primi partner commerciali reciproci, e Washington abbia importato dall’Europa beni e servizi nel 2015 per più di 100 miliardi di dollari di quanto abbia fatto dalla Cina, ad oggi negli USA il dibattito delle elezioni presidenziali è diventato ostile alle intese commerciali, mentre in Europa la controinformazione populista di nazionalisti e autarchici ha finito agevolmente per attribuire al TTIP una vera e propria leggenda nera, come se si trattasse di consentire attacchi alla salute e ai redditi degli europei in nome di inconfessabili interessi di zannute multinazionali americane. In realtà il TTIP serve a darsi standard e regole comuni. Ma i dissensi sono ancora forti: sugli arbitrati internazionali a cui affidare contese commerciali senza incartarsi nelle differenze dei diversi ordinamenti giudiziari; sulla infinita lista di eccezioni, oltre 200, avanzate sia dagli Usa che dai Paesi europei sui settori da escludere all’offerta su base paritaria di servizi; sul no degli Usa ad aprire le loro forniture pubbliche a imprese europee; e naturalmente sull’agricoltura, che è ipersussidiata pubblicamente e fonte di voti su entrambe le rive dell’Atlantico. Pessimo affare, aver lasciato per tre anni che l’unica informazione sul TTIP e la sua colossale portata potenziale di miglioramento degli scambi euro-americani venisse condotta dai no global di ogni colore.

Infine, l’eurocrisi. Non è un guaio crescente e forse incontrollabile che investe solo noi. Per gli States non è affatto priva di effetti. Anche se nelle primarie americane risuonano toni praticamente e simmetricamente analoghi a quelli delle recenti elezioni austriache, francesi, ungheresi e polacche.  Se a fine giugno il Regno Unito sceglie l’uscita dall’Unione Europea, alla crisi di Schengen e a quella turca, alla nuove difficoltà greche e portoghesi, al dramma irrisolto dei migranti si sommerà un biennio di trattativa con Londra – questo è il tempo previsto dal Trattato europeo. Durante il quale si voterà di nuovo in Spagna, e nel tempo in Francia, in Germania, nella stessa Italia. Su ogni turno elettorale, la presa e la portata degli argomenti favorevoli a rompere l’Europa, da destra e da sinistra, saranno sempre più forti. Per l’Italia ad alto debito e banche debolissime, sarebbe un disastro ritrovarsi di nuovo esposta sui mercati (checchè si dica, è certo che avverrebbe).  Ma anche per l’America sarebbe un pessimo affare, ritrovarsi con un’Europa a pezzi pronta all’appeasement con Putin e con Erdogan,  e con nessuna voglia di combattere ISIS in nome di un comune interesse occidentale. Naturalmente, non resta che sperare che così non sia. Ma il rischio c’è, bisogna saperlo.

26
Apr
2016

L’attualità de “Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza”—di Tomaso Invernizzi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Tomaso Invernizzi

Molti dei problemi che oggi dividono la cosiddetta opinione pubblica nelle discussioni private, sui social network, nel dibattito politico… potrebbero essere affrontati diversamente, aumentando le possibilità di giungere ad un’intesa almeno parziale e provvisoria, leggendo o rileggendo l’agile saggio di Karl Popper Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza del 1960. Molti temi, dal dibattito sul nucleare ai confronti in materia di politica economica (tassazione, protezionismo, regolazione…) vengono affrontati da buona parte dei partecipanti con la presunzione di possedere la verità e che essa sia manifesta. La concezione che secondo Popper è alla base dell’attribuzione di credibilità a fonti di ignoranza è la teoria della verità manifesta, l’idea cioè che la verità sia evidente e a disposizione di tutti. Se non tutti riconoscono la verità è perché sono offuscati da alcuni pregiudizi ed errori facilmente superabili. Altre volte l’ignoranza è protratta da poteri che cospirano per impedire alla massa di vedere la realtà (si pensi alla teoria marxiana per la quale le classi dominanti producono ideologie, ossia mascheramenti della realtà atti a mantenere lo status quo). Read More

22
Apr
2016

Se la crescita economica fosse come la crescita umana

Qualche tempo fa ricordo di aver ascoltato per radio la proposta di una parlamentare: sostituire alla crescita economica un obiettivo di “a-crescita” e introdurre politiche per promuoverlo. La sua argomentazione consisteva in una idea molto diffusa: “le risorse del pianeta sono finite e quindi non possiamo crescere all’infinito”. Questa convinzione è anche condivisa da coloro che inseguono il contrario della crescita – la decrescita. Personalmente ho anche letto qualcosa di Serge Latouche e apprezzato diversi fautori della decrescita ai quali, come me, piace la natura, coltivare il proprio orto e trascorrere tempo in convivialità.

Voglio però essere chiaro sul mio punto di vista: la crescita è lo scopo della vita. Ciò che non cresce muore. L’universo stesso si espande. Un’economia senza crescita è un’economia morta.

D’altro canto, se io non metto in discussione la necessità e l’auspicabilità della crescita economica, non escludo che siano utili riflessioni sul significato di crescita.  Per questo ho scritto le righe seguenti partendo dal presupposto che riflettendo sull’Uomo si possa capire l’Economia e che dietro queste diatribe economiche si nascondano domande più profonde.

Un aspetto che dimentichiamo nei nostri dibattiti è collegato con la differenza tra crescere e invecchiare. Ho da poco terminato un libro in cui  il pastore americano Rick Warren spiega, da una prospettiva spirituale, come non siano la stessa cosa. Nella nostra società siamo invece abituati a misurare la crescita di una persona a livello anagrafico e la sua maturità in base all’aver accumulato un certo numero di anni, solitamente diciotto. Eppure limitare la nozione di crescita ad una questione di anni da raccogliere, come se fossero i punti del supermercato, è in contrasto con l’evidenza quotidiana: quante volte incontriamo persone invecchiate ma non cresciute e persone che sono cresciute prima di invecchiare?

Il creatore di Netflix ha scritto che il primo requisito che si aspetta dai suoi dipendenti è di essere un adulto responsabile; evidentemente è una caratteristica non scontata. Il documento in cui l’ha scritto, The Netflix culture code, è considerato ora un punto di riferimento per le aziende che aspirano a creare il migliore ambiente di lavoro e, a detta di Sheryl Sandberg (COO di Facebook) è “uno dei più importanti documenti mai usciti da Silicon Valley” con attualmente più di 14 milioni di visualizzazioni. Per Netflix le caratteristiche di un “rara persona responsabile” sono: self motivating, self aware, self disciplined, self improving, acts like a leader, doesn’t wait to be told what to do, picks up the trash lying on the floor [la traduzione in italiano sarebbe, letteralmente: auto-motivata, cosciente di sé, auto-disciplinata, auto-migliorante (capace di migliorarsi), si comporta come un leader, non aspetta che gli si dica cosa fare, raccoglie la spazzatura dal pavimento].

E se la crescita economica fosse come la crescita umana? Composta cioè di una serie di variabili difficilmente misurabili che però fanno la differenza?

In “GDP : a brief but affectionate story” Diane Coyle solleva questo dubbio e riflette sull’adeguatezza del PIL come strumento per misurare la crescita economica. Oggi, infatti, “l’economia è un’entità intangibile e non primariamente fisica”. Le statistiche del PIL sono state introdotte in un contesto economico nel quale si producevano beni fisicamente misurabili, come tonnellate di acciaio e di grano. In un’economia basata su servizi, innovazione e prodotti più intangibili, le misure quantitative diventano meno appropriate. Da questo punto di vista, Coyle osserva come la nostra percezione della grande stagnazione globale potrebbe essere peggiorata da un gap sempre più vasto tra il miglioramento del benessere economico e la nostra capacità di misurare questo miglioramento. Internet ne è l’esempio lampante: poiché gran parte del suo contenuto è gratuito non possiamo misurarne il valore in base a quanto i consumatori lo pagano. Eppure il valore di tutto questo contenuto a costo zero contribuisce ad un netto miglioramento del surplus del consumatore.

Se la crescita economica fosse come la crescita umana, consisterebbe, dopo aver accumulato una serie di compleanni e di centimetri di spina dorsale, anche in un insieme di fattori soggettivi e non oggettivamente misurabili. Per diventare adulta, in altre parole, alla nostra economia non basta crescere in reddito, ma anche in  responsabilità. Responsabilità, indipendenza, auto-sufficienza sono le caratteristiche con cui Wikipedia descrive, da un punto di vista legale, l’età adulta. Da questo prospettiva credo che, sia che vogliamo crescita o de-crescita, tutti vorremmo un’economia con più responsabilità e auto-determinazione.

Resta inteso che per avere crescita economica, spiega Paul Romer nella Concise Encyclopedia of Economics, dobbiamo cambiare il modo di fare qualcosa creando più valore.

Economic growth occurs whenever people take resources and rearrange them in ways that make them more valuable.

[La crescita economica si verifica quando le persone prendono delle risorse e le ri-organizzano in modi che le rendono di maggior valore.]

Siccome il valore è una variabile soggettiva, la crescita economica dipende, oltre che dalla nostra inventiva, anche da ciò a cui noi diamo valore. Come misureremo la crescita economica in un Paese dove la generazione di ieri sognava di possedere un automobile, e la generazione di oggi sogna  di non possederla? Come cresce l’economia quando la Silicon Valley segue il modello organizzativo di un’azienda come Netflix e riconosce valore a aspetti come responsabilità, consapevolezza e disciplina?

Queste sono domande di non facile risposta; tra le poche certezze che abbiamo, possiamo aspettarci che la crescita economica futura sarà diversa da quella che ha caratterizzato il ventesimo secolo, ma potenzialmente infinita e sicuramente auspicabile. Forse non ci troveremo d’accordo su alcuni termini, ma in tanti concordiamo sul fatto che l’economia in cui viviamo, per diventare adulta, libera e responsabile, deve ancora crescere molto.

20
Apr
2016

Su Google e Android, l’Europa eviti fughe in avanti

Il Canada lascia, l’Europa raddoppia. Per una curiosa coincidenza, nelle stesse ore in cui la Commissione Europea formalizzava a Google i propri addebiti relativi al sistema operativo Android, che si affiancano a quelli già enunciati nel 2015 a proposito del servizio di ricerca, il Canadian Competition Bureau decideva di archiviare l’istruttoria aperta contro l’azienda californiana. Il provvedimento del regolatore canadese segue quelli dello stesso tenore annunciati, negli anni scorsi, dagli omologhi americani e sudcoreani. Pare lecito, dunque, interrogarsi sulla fondatezza del diverso orientamento manifestato dalle istituzioni comunitarie.

La Commissione imputa a Google l’abuso di una posizione dominante nel settore dei sistemi operativi mobili. Come noto, i quattro quinti degli smartphone venduti nel mondo girano su Android. Che Google goda di un sostanziale monopolio nel mercato dei terminali mobili – come talora si ripete pigramente – è, di per sé, una conclusione opinabile: in primo luogo, perché quantificare le quote di mercato in termini di unità vendute anziché di ricavi generati restituisce un’immagine piuttosto fuorviante dello scenario competitivo; in secondo luogo, per le implicazioni del peculiare modello di business perseguito dall’azienda californiana.

Il mestiere di Google non è quello di produrre e vendere telefonini: il suo contributo al settore consiste nella messa a punto e nel costante aggiornamento del sistema operativo Android – tralasciamo l’eccezione della linea Nexus, peraltro assemblata da produttori indipendenti, che Google commercializza a mo’ di vetrina delle potenzialità di un dispositivo Android in purezza. Dico “in purezza” perché, più che un sistema operativo, Android è una galassia di sistemi operativi. Non solo il software è diffuso in formato open source, a disposizione di chiunque desideri manipolarlo, modificarlo o sezionarlo per crearne versioni non ufficiali (è, per esempio, la strada scelta da Amazon per il Kindle Fire), ma anche le versioni – per così dire – ufficiali, pur conformandosi a una serie di linee guida volte ad assicurare il pieno supporto di tutte le applicazioni progettate per Android, possono essere ampiamente personalizzate.

Difficile scorgere in queste modalità di utilizzo di Android il potenziale per abusi – tanto che neppure i solerti funzionari della Direzione generale per la concorrenza vi hanno dedicato particolare attenzione. I produttori di dispositivi, tuttavia, possono anche scegliere di equipaggiare i propri smartphone di una suite di applicazioni prodotte da Google, proponendo ai consumatori una specie d’interpretazione autentica di Android. È su questi accordi che l’indagine della Commissione si sofferma.

Per reiterare: si parla di una libera scelta dei produttori, che hanno la facoltà di utilizzare il sistema operativo gratuitamente e liberamente, senza includervi applicazioni come il Play Store e l’app della ricerca Google. Se, però, desiderano precaricare anche una sola app, Google richiede l’installazione del pacchetto completo. Il ragionamento economico sottostante è intuitivo. Se la strategia commerciale di Google si regge sulla (monetizzazione della) ricerca e sull’intermediazione della vendita di contenuti e applicazioni, consentire ai produttori di operare una cernita minerebbe la sostenibilità del sistema. Quello stesso sistema, del resto, assorbe i costi legati allo sviluppo dei prodotti che Google offre senza un ritorno immediato – tra questi, appunto, il sistema operativo Android.

Basta il vincolo fin qui descritto a determinare il preteso effetto anticoncorrenziale? È importante notare che gli accordi non prevedono diritti d’esclusiva: nulla vieta ai produttori di dispositivi di caricare applicazioni (proprie o di terze parti) che svolgano le medesime funzioni – ed è quello che tipicamente avviene. Ancora più importante, e totalmente trascurato dall’analisi della Commissione, è il ruolo del vero protagonista della vicenda: il consumatore. L’assetto preordinato dai produttori è destinato a durare solo fino all’apertura della scatola. A partire da quel momento, la facoltà di rimuovere applicazioni sgradite, installarne di nuove o modificare le impostazioni originarie è pressoché illimitata. Al contempo, la possibilità di contare su una configurazione di partenza riconoscibile riduce i costi di apprendimento e migliora l’esperienza di utilizzo.

Sin dall’inizio del proprio mandato, il commissario Vestager ha fatto di Google un bersaglio privilegiato, giungendo al punto di capovolgere le determinazioni del proprio predecessore Almunia e riaprire un caso che poteva sembrare ormai chiuso. I simboli hanno cittadinanza in politica – e la politica della concorrenza non fa eccezione. Proprio per la visibilità del caso, però, una decisione frettolosa avrebbe un impatto profondamente deleterio tanto sulla tutela della competizione in Europa, quanto sullo sviluppo di quel mercato digitale che Bruxelles spergiura di voler coltivare. L’analisi delle decisioni adottate da altri regolatori in casi simili potrebbe fornire utili spunti agli uffici della Commissione.

20
Apr
2016

Macché prepensionamenti scassa-INPS: rafforzare la previdenza privata con meno fisco

Scrivevamo pochi giorni fa che il cantiere delle pensioni italiane non si ferma mai. Infatti, rieccoci. Ma questa volta non sono più indiscrezioni ufficiose, o richieste di questo o quell’esponente politico o sindacale. E’ stato ufficialmente Il ministro Padoan, ieri, a confermare che nella prossima legge di stabilità si riapre il capitolo. I particolari mancano, ma di qui alla prossima legge di stabilità il dibattito è ufficialmente aperto.

A che cosa pensa il governo? Padoan ha detto che «ci sono margini per ragionare sugli strumenti e sugli incentivi, e sui legami tra sistema pensionistico e mercato del lavoro per migliorare le possibilità” sia di chi deve entrarvi sia di chi deve uscirne. Il governo è «sicuramente favorevole a un ragionamento complesso» sul tema delle pensioni e «aperto a fonti di finanziamento complementare». Il presidente dell’INPS Boeri, da parte sua, questa volta non ha rilanciato la sua proposta di prepensionamenti giustificata con l’idea che i posti dei lavori dei prepensionati vadano ai giovani – mai dimostrata, nei fatti, e anni fa lui stesso lo scriveva – ma ha lanciato anche il tema dell’amaro destino che si prospetta per i lavoratori più giovani. Chi è nato nel 1980 e, a causa del tardivo ingresso nel mercato del lavoro e della contribuzione non continuata cioè con un gap di 10 anni di versamenti, corre il rischio di maturare la pensione a 75 anni, e con non più di 750 euro al mese per un quarto dei degli uomini e il 40% delle donne.

Per capire a quali interventi pensa il governo, qualche numero sui conti previdenziali. E’ di ieri la cifra ufficiale di un’ulteriore crescita della spesa pensionistica “in senso stretto” – senza ssistenza – a oltre 261 miliardi nel 2015, con 4 miliardi di sforamento sul previsto. La spesa annua è di quasi 4 punti di Pil superiore alla media europea: noi siamo sopra il 16%, e a legislazione invariata nei prossimi 4 anni la spesa crescerà di ulteriori 20,5 miliardi, passando dai 261,9 previsti nella Nota Def per il 2016 – saranno di più, alla luce del dato 2015 reso noto ieri – ai 282,4 del 2019. La da tanti odiata riforma Fornero ci ha consentito di non sfondare il tetto del 18% di PIl in spesa previdenziale. Ma da qui al 2050 la spesa previdenziale non scenderà mai sotto il 15%, come ha scritto la Ragioneria Generale dello Stato nell’ultimo Rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo del sistema.
Detto questo, diciamo che ci sono tre scelte diverse possibili, tra loro molto diverse anche se componibili in un’infinità di variabili concrete.

La prima è quella che piace a molta destra, parecchia sinistra e sindacati. Smontare radicalmente il meccanismo di accelerazione rapida di identificazione dei requisiti di anzianità e di vecchiaia, e modificarne altrettanto radicalmente il progredire automaticamente collegato all’avanzamento delle attese di vita. Chi ripete che così si aprono posti di lavoro ai giovani dimentica che le aziende sono certo felici di svecchiare l’età media degli organici, ma preferiscono poi pescare dal vasto bacino della disoccupazione e cassa integrazione per assumere personale già formato, non i giovani. Sta di fatto che intervenire radicalmente sui coefficienti che abbiamo ricordato prima porta molto facilmente a tornare verso una media annua di spesa come quella che la riforma Fornero ci ha evitato. Non solo si alza la cifra complessiva del deficit previdenziale a carico della fiscalità generale. Soprattutto si inguaiano ancora di più quei giovani lavoratori che preoccupano Boeri, visto che nel sistema a ripartizione tocca a loro ogni mese, coi loro contributi, pagare le pensioni erogate eventualmente in anticipo agli attuali 55-57enni.

Tuttavia, prendiamo buona nota del fatto che il sottosegretario alla presidenza Nannicini ieri ha parlato esplicitamente di misure in grado di generare un deficit aggiuntivo non superiore ai 5-7 miliardi. Che già ci preoccupano, sugli 11 totali chiesti all’Europa come flessibilità aggiuntiva per il 2017, ma sono sempre meno della sberla riconducibile invece alla prima ipotesi. A questa cifra si arriverebbe con prepensionamenti ma in cambio di una penalizzazione sia pur non integrale, cioè con assegni non pienamenti tagliati in proporzione al numero maggiore di anni di pensione a cui si avrebbe diritto, cioè con tagli tra il 2 e il 3%. In parlamento, difficile immaginare che resterebbero, ma accettiamola come ipotesi. A questo si aggiungerebbero interventi come il cosiddetto “prestito pensionistico” che ai sindacati non piace (e dovrebbero compartecipare anche le aziende, anzi pure le banche come se con questi chiari di luna non avessero di meglio da fare..),e una minor penalizzazione dei fondi pensione.

Una riflessione incidentale: li abbiamo uccisi in culla, i fondi previdenziali. Su 4mila miliardi di euro di ricchezza finanziaria degli italiani, solo 36 miliardi costituiscono il patrimonio dei fondi negoziali definiti nei contratti di categoria, e solo 50 miliardi sono amministrati dagli oltre 200 fondi privati non negoziali. A questo si aggiungono altri 50 miliardi circa di prodotti finanziari a vari titolo a scopo anche previdenziale.Il totale dei sottoscrittori di fondi privati è calcolato in circa 6,5 milioni di italiani: tuttavia 1,5 milioni versavano in maniera molto discontinua prima della crisi e se ne sono aggiunti altri 1,6 milioni. Quelli veramente abbastanza in regola sono i 2 milioni i lavoratori che sottoscrivono i fondi negoziali primi, e circa 600mila nei fondi precedenti. Se il totale dei teoricamente iscritti rappresenta più di un quarto dei lavoratori italiani, quelli che versano regolarmente sono solo circa il 10%. Perché? Perché i tetti di detrazione fiscale sono bassi, e il governo in sovrappiù ci ha messo una tassazione più alta, al 20% sul maturato dei fondi pensione.

Se dovessimo indicare una preferenza, sceglieremmo allora la terza ipotesi. Quella costruita su una svolta vera favorevole ai fondi pensione. Non solo una sforbiciata radicale alla loro tassazione, e un aumento elevato del tetto di detrazione sui versamenti liberi dei lavoratori, magari tanto più elevato quanto minore è l’età contributiva: questo significa davvero pensare alle difficoltà di chi è più giovane, non prepensionare i lavoratori più avanti con gli anni. E magari, in aggiunta, guardare anche al modello praticato in diversi paesi europei: in cui non c’è solo una pensione pubblica che a quel punto potrebbe avere importi più bassi della nostra (l’ha proposto da anni Guliano Cazzola), ma c’è un secondo pilastro comunque obbligatorio e incentivato costituito da versamenti a fondi privati ( a cui devolvere TFR pari al 7% monte salari e una modica contribuzione mista lavoratore-impresa per arrivare al 10%, scalandole da contributi oggi devoluti a INPS), e infine un terzo lasciato completamente libero e comunque fortemente agevolato a pensioni ulteriormente integrative. Questa terza via non solo aiuta i giovani, ma prende integralmente in carico l’esigenza di ridurre la pesa pubblica previdenziale per il futuro.

Vedremo dove andrà a parare il confronto politico. In ogni caso, è già apprezzabile che il governo sembri escludere la prima ipotesi. Ma la terza sarebbe quella ideale. naturalmente, inutile dire che a esserne convinti siamo in pochissimi.

 

14
Apr
2016

Prepensionati in part time a esborso pubblico: ma perché, quando zero finora per povertà?

Il cantiere delle pensioni italiane non si ferma mai, l’instabilità di orientamenti della politica è sempre alla ricerca di nuovi interventi. Che, come effetto, alimentano una percezione pubblica di totale insicurezza in milioni di italiani. Ieri è stato approvato il decreto attuativo di una delle due misure previdenziali previste nella legge di stabilità 2016, relativo al prepensionamento anticipato in forma di part time. Lo dichiaro subito: non sono per nulla d’accordo. Non capisco proprio, con un governo che non ha ancora fatto nulla per la povertà (potrei aggiungere: né per i giovani disoccupati, numeri alla mano della somma di Jobs ASct e decontribuzione sullo stock occupati 2016 su 2015)), come e perché si trovino fondi pubblici per far passare chi un lavoro ce l’ha a tempo indeterminato a un part time, pagandogli i contributi figurativi come se restasse a tempo pieno e assicurandogli retribuzione aggiuntiva esentasse. Proprio non lo capisco, è solo un’ulteriore conferma che politica e sindacato hanno in mente che sta relativamente meglio, rispetto a chi sta sicuramente peggio.

Ma prima di capirne significato e impatto, serve una premessa, sui numeri previdenziali complessivi.

Tutti ripetono che la spesa previdenziale italiana è stata messa in sicurezza come in nessun paese europeo. In realtà la spesa previdenziale annua è di 4 punti di Pil superiore alla media europea: noi siamo sopra il 16%, e a legislazione invariata nei prossimi 4 anni la spesa crescerà di ulteriori 20,5 miliardi, passando dai 261,9 previsti nella Nota Def per il 2016 ai 282,4 del 2019. A farla crescere, essenzialmente la demografia dell’Italia: cresce la longevità ma non il tasso di partecipazione al lavoro e l’occupazione. Sono queste le cifre che dovrebbero essere costantemente ricordate, da sindacati e  partiti che chiedono incessantemente di tornare ad abbassare i tetti previdenziali in graduale salita, disposti dalla riforma Fornero. Viene sollevato ripetutamente l’argomento che prepensionare servirebbe a creare automaticamente posti di lavoro per i giovani: quando non funziona affatto così, perché in presenza di alta inoccupazione le imprese continuano a preferire lavoratori le cui abilità sono già formate, cioè non i giovani. Persino a fronte dell’elevatissima decontribuzione offerta alle imprese nel 2015 per i contratti a tutele crescenti, a giovarsene sono stati gli over cinquantenni con oltre 280mila occupai aggiuntivi, mentre tra i 35 e 49 anni abbiamo perso 206 mila occupati in Italia, se raffrontiamo fine febbraio 2016 con lo stesso mese del 2015, e per i più giovani la variazione è stata inferiore alle 20mila unità. Da qui al 2050 la spesa previdenziale non scenderà mai sotto il 15% del Pil, come ha scritto la Ragioneria Generale dello Stato nell’ultimo Rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo di sistema pensionistico e socio-sanitario, presentato a luglio scorso.

Abbiamo sin qui speso oltre 12 miliardi per i 7 interventi di salvaguardia dei cosiddetti esodati, finendo per comprendere in 180mila soggetti tutelati sempre più over 55enni disoccupati di lungo periodo, in realtà non direttamente colpiti dalla riforma Fornero. E in legge di stabilità 2016 il governo ha giustamente respinto le proposte – forti anche nel Pd – di abbassare per tutti l’età pensionabile, accogliendo invece la proroga della cosiddetta opzione donna, per risolvere il problema di un requisito pensionabile che nel 2016 sarebbe salito per le dipendenti del settore privato di 22 mesi nel solo 2016, e poi il part-time incentivato di cui appunto ieri è stata approvata la norma attuativa.

In realtà, si tratterà di un regime sperimentale per al più 15-20mila soggetti, finanziato infatti con soli 60 milioni di euro per il 2016 (il titolo di Repubblica stamane sui 400mila soggetti ai quali sarebbe riservato è, mi spiace dirlo, un’asinata: con che soldi?) . Riservato ai dipendenti privati – non pubblici,né autonomi – con almeno 20 anni di contributi, che maturino entro fine 2018 il requisito anagrafico previsto dalla legge Fornero e cioè che abbiano a fine 2015 almeno 63 anni e 7 mesi di età. Le donne non escluse, come tutti ripetono, a loro si è già provevduto: le nate nel 1951 potevano già andare in pensione, e idem dicasi per quelle della classe ’52 in questo 2016 grazie a una deroga alla Fornero. Per la classe femminile 1953, il requisito Fornero si raggiunge solo nel 2019, quindi solo per loro nulla da fare. Questi soggetti potranno andare in part time agevolato con riduzione d’orario fino al 60%, con l’erogazione in busta paga da parte dell’impresa in maniera esentasse dell’equivalente che sarebbe stato versato dall’azienda come contributi se il rapporto fosse prestato a tempo pieno, e contributi figurativi versati anch’essi dallo Stato (quindi: versati per finta, coperti in deficit) come se il contratto restasse invariato. I contributi figurativi sono a carico statale, ed è su questi che scatta il tetto dei 60 milioni. I primi che sottoscriveranno accordi di questo genere ne avranno diritto: finita la dote prevista nel bilancio pubblico, il diritto non sarà più esercitabile ( a Repubblica hanno deciso di non accorgersene).

Quel che si può prevedere, dunque, è che a beneficiarne saranno poche migliaia di dipendenti, per lo più di grandi gruppi che saranno i più lesti. Insomma, è l’ennesimo intervento a latere. Che farà però scaldare i motori alle richieste che puntualmente verranno riavanzate al governo da destra e sinistra nel prossimo autunno, per abbassare radicalmente per tutti di 2-3 anni i tetti previsti dalla legge Fornero.

Il governo ha promesso che qualcosa farà. Ma le diverse proposte sin qui dibattute, quella dell’onorevole Damiano come quella del presidente Inps Boeri, sono tutte caratterizzate dall’aggravare nel breve il deficit previdenziale. Il responsabile economia del Pd Taddei e il sottosegretario Nannicini, che a palazzo Chigi ha in mano i dossier di finanza pubblica, ripetono sempre che l’intervento dovrà essere a parità di deficit, cioè con tagli agli assegni proporzionati all’anticipo previdenziale. E la decisione finale sarà presa solo quando, di qui a 6 mesi, sarà un po’ più chiaro il quadro della crescita europea e del deficit aggiuntivo complessivo accordatoci.

Quel che non entra in testa a politica e sindacato è che col sistema contributivo la flessibilità d’uscita è sì coerente  benvenuta, ma bisogna accettare assegni più bassi quanto prima si accede alla pensione rispetto ai tetti previsti dalla Fornero, cioè a parità attuariale della rendita spalmata in più anni generata dal montante versato. E’ molto difficile pensare che nel prossimo autunno questa idea venga accettata, visto che sindacati, destra e sinistra pensano ai consensi immediati e non all’equilibrio di bilancio previdenziale (ogni anno: poco meno di 100 miliardi vengono all’Inps dalla fiscalità generale). In quel caso, saranno i giovani, come sempre, a pagarne le conseguenze: perché saranno loro a dover pagare ancora coi loro scarsi contributi – funziona così il sistema a ripartizione – le pensioni accordate in anticipo a soggetti rispetto ai quali i giovani non avranno mai una pensione equivalente.  Il resto, lo metteremo noi contribuenti.

12
Apr
2016

Atlante il salvabanche: o lo chiariscono bene, o provoca altri guai

Oggi il mercato ha fatto strame dei titoli bancari coinvolti nell’operazione salva-banche Atlante. Purtroppo non bisogna stupirsi. L’operazione è stata lanciata senza un minimo di chiarezza su troppi aspetti essenziali, perché non fosse questa la reazione. Pensate solo alla dichiarazione dei promotori “o parte Atlante, oppure tutti i prossimi aumenti di capitale annunciati (leggi: imposti da SSM, la vigilanza comune europea) finiscono in bail in delle banche interessate”. Mai nessuno in Europa, neanche la Grecia, lanciando un veicolo nel quale sono coinvolti come regia MEF e Bankitalia, e a cui partecipano tutta la prima fila del sistema bancario italiano, assicurazioni e fondi pensione e fondazioni bancarie oltre alla Cdp che è mano diretta del governo,  mai nessuno ha dichiarato una simile debolezza agonica del proprio sistema bancario. E meno male che per anni è stato ripetuto che era il sistema più solido al mondo… Cerchiamo allora di enucleare almeno alcuni dei tanti dubbi  che vanno chiariti dai promotori con precisione millimetrica, prima che anche quest’operazione figlia della disperazione sfugga di mano, con conseguenze disastrose.  
Ammettiamo pure – come diceva Totò: “ammesso e non concesso” – che le regole di governance di Atlante, tutte da capire, e la presenza limitata nei conferimenti ad Atlante di CDP (pare non superiore al 5%..) consentano di aggirare scontate obiezioni su aiuti di Stato che furono avanzate dalla Commissione Ue  per il caso TerCas ( non è così scontato… è evidente che questo veicolo è confezionato da Bankitalia-Mef e che governo ha annuciato già  che darà per decreto pioggia d’incentivi fiscali ai conferenti…). 
Ma intanto, allo stato, non si capisce bene la natura giuridica stessa di Atlante: è una Sicav o cos’altro, o un AIF? In quest’ultimo caso sarebbe sottoposto a limiti molto stretti dalle attuali norme Bankitalia, non potrebbe avere leva finanziaria superiore a 1,5 , ergo con dotazione 5-7bn col cavolo che potrebbe davvero coprire inoptati prox aumenti capitale PopVi, VenetoBanca, Banco Popolare, e addirittura avviare a soluzione il guaio sanguinolento MPS, come è stato fatto invece intendere esplicitamente dai promotori. Allo stesso tempo, Atlante avrebbe anche limiti molto stretti di impegno su controparte per percentuale totale di impieghi. Forse Atlante è qualcosa che ancora non conosciamo, forse con deroghe ad hoc a regole attuali. E a chi risponderà, a Bankit o a SSM? Una cosa è sicura: era meglio chiarire bene natura, governance e regolamentazione del veicolo prima di lanciarlo pubblicamente ai media.  
Quanto alla sostanza: il rischio molto grosso è che appaia come un vero e proprio bail out all’italiana. Il principio BRRD del bail in non è solo divieto a interventi sulle banche del governi cioè a spese contribuenti, è anche in maniera estesa principio che accolla ad azionisti e bondholders subordinati il peso della recovery o dell’eventuale risoluzione di ogni banca. Qui invece si fa una recovery coadiuvata da una clearence house costituita ad hoc, una specie di stanza di compensazione dove siedono banche, fondi pensione, assicurazioni, fondazioni bancarie e Cdp. i rischi evidenti sono molteplici, e cioè che essi : 
a-diventeranno attraverso il veicolo titolari di quote DI CONTROLLO di molte banche italiane;     
b- eserciteranno effetto distorsivo su valori di mercato tanto dell’equity che delle passività bancarie, consentendo il lancio di aumenti di capitale imposti giustamente da SSM a prezzi però MOLTO più alti di quanto avverrebbe per ottenerne la copertura a prezzi di mercato, contando sul fatto che a quel prezzo più alto tranche molto rilevanti saranno acquisite e parcheggiate invece in Atlante; idem dicasi per valori degli NPL, che esplicitamente Atlante dichiara di esser pronto a rilevare ( ma per quante decine di miliardi su oltre 83 mld netti di sistema, a fronte della dotazione striminzita di conferimenti dichiarata?) a valori allineati il più possibile a quelli attuali di libro e cioè tra il 45 e il 55% del nominale a seconda delle diverse banche, invece che a svalutazione di mercato 17,5% su 100 di nominale come nelle 4 banche risolte a novembre…
c- terranno probabilmente fuori – sono i promotori a dichiararlo – dal mercato per il controllo proprietario degli asset bancari italiani sia fondi sia banche straniere: Fortress ha già mollato e altrettanto farà a quanto sembra Apollo in Carige, e forse è ben per questo che Barclays capendo l’antifona a fine 2015 ha ceduto l’intera rete retail e agenzie a CheBanca di Mediobanca, pagando a quest’ultima per sovrammercato 240mln pur di uscire da Italia che vedeva sempre più “avversa allo straniero”.
Sul punto a-, ricordo a tutti che mentre una nazionalizzazione oggi non più possibile azzera azionisti, pulisce attivi bancari e poi è costretta a rivenderla al mercato, la governance pseudo-privata-para-pubblica di Atlante – che comunque ancora ignoriamo nei particolari – corre seriamente il rischio di rendere tutto opaco e difficilmente criticabile, perché manager e azionisti bancari, Confindustria e media italiani brindano tutti alla nascita di un veicolo il cui scopo dichiarato è tenere le cose come stanno… Il precedente storico, inoltre,  è poco rassicurante: quando nel 1922 per salvare le banche miste italiane nacque il consorzio sovvenzione valori immobiliari rilevandone le partecipazioni industriali, non si evitò poi né il crollo bancario né le industrie vennero restituite al mercato. Nel 1933 le partecipazioni del consorzio finirono attribuite alla “sezione smobilizzi” del neonato IRI che doveva dismetterle entro 10 anni, e invece l’IRI si tenne tutto e si allargò fino a divenire il primo Kombinat pubblico dell’intero Occidente, e durò la bellezza di 63 anni prima che arrivasse l’obbligo di liquidazione dall’Europa con Van Miert e sottoscritto dal benemerito Andreatta … Atlante nasce come consorzio sovvenzione valori bancari ma il precedente è quello, anche se oggi con governance pseudo-privata invece che statale. Ma in sostanza il grande pericolo è che appaia come un calcio alle regole BRRD  e a SSM. Alcuni, potrebbero anche immaginare  che sia come uno scudo alle banche per andarcene da soli, in caso saltassero Ue ed Euro negli anni travagliati dell’eventuale postBrexit e delle successive problematiche elezioni che si terranno in grandi paesi Ue… Ma quand’anche fosse questa l’ipotesi inconfessabile delle autorità e dei promotori privati di Atlante, allora dovrebbero preoccuparsi di mettere a punto un veicolo impeccabile per regole e capitale all’altezza dei fini dichiarati, non un accrocchio che fa inabissare ulteriormente i corsi bancari anche delle banche sane.
12
Apr
2016

Pianificazione urbanistica e criminalità: come lo statalismo ha allevato una serpe in seno —di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

È comparsa qualche giorno fa la notizia della demolizione della casa natale di un vip. Ma non si tratta di una lussuosa villa in California o di un castello nell’Oxfordshire. Si tratta di un palazzo grigio, orribile, di cemento armato, uno dei tantissimi tutti attaccati l’uno all’altro. Siamo nel quartiere nel quale è cresciuto quello che è diventato un mito del calcio francese, Zinedine Zidane, una banlieue di Marsiglia, la Cité de la Castellane, un quartiere che vive una vera e propria emergenza criminalità. Fra quelle strade e in quelle case disoccupazione, traffico di droga e crimine la fanno da padroni. Un vero e proprio fortino, inaccessibile anche agli uomini delle forze dell’ordine. Per questo, si continua nell’articolo, il comune ha deciso di avviare un’opera di riqualificazione della zona, che passa attraverso l’abbattimento di alcuni di questi palazzi. E si comincerà proprio dall’edificio G, quello in cui è cresciuto e ha trascorso la sua infanzia l’attuale tecnico del Real Madrid. La demolizione è prevista a metà aprile, nel 2017, sarà poi il turno della torre K, composta da 97 alloggi, ormai in mano a trafficanti e spacciatori. Read More