8
Mag
2016

Prescrizioni: numeri ed esame comparato con altri ordinamenti danno torto all’ANM

Domani il ministro della Giustizia Andrea Orlando incontrerà il vicepresidente del CSM Giovanni Legnini per chiarire come l’organo di autogoverno della magistratura intenda occuparsi delle dichiarazioni del membro togato Pergiorgio Morosini contro l’esecutivo, e soprattutto che provvedimenti intenda adottare per impedire esternazioni politiche future. Intanto, ieri, il ministro Orlando ha tenuto una conferenza stampa sul tema delle prescrizioni nei procedimenti penali, un cavallo di battaglia della magistratura associata che ne chiede un drastico allungamento.

Diamo atto al ministro di aver ribadito ciò che ai magistrati non piace, e cioè che le prescrizioni dipendono “anche” da problemi organizzativi e incapacità dei capi degli uffici giudiziari. Ma ha innanzitutto sposato la tesi cara ai magistrati, e cioè che le prescrizioni sono in grande aumento. E che, prima dell’organizzazione degli uffici giudiziari, esiste evidentemente un problema di norme da cambiare. Al contrario, è l’esame comparato dei numeri che ha dato a mostrare l’esatto opposto.

Iniziamo dai dati. L’allarme è giustificato? A guardarli bene, la risposta è no. Le prescrizioni sono aumentate da 113.671 nel 2012, a 132.296 nel 2014. E sarebbero in ulteriore aumento nel primo semestre 2015. Ma se guardiamo al decennio, le prescrizioni erano scese costantemente: da 213mila nel 2004 a 128mila nel 2011. La tesi secondo cui sarebbe la berlusconiana riforma Cirielli alla base dell’aumento 2012-2014 si commenta da sola: la riforma è del 2005, e nei 7 anni successivi le prescrizioni erano diminuite del 27%, scendendo a 113mila unità. Il ministro è allarmato perché la prescrizione è tornata al 9,48% dei procedimenti penali: ma il motivo è che è diminuito il numero di procedimenti definiti ogni anno con sentenza o archiviazione, da 150mila nel 2010 a 139mila nel 2014.

Ricordiamo in che cosa è consistita, la famigerata riforma Cirielli odiata dai magistrati. Mentre prima esisteva un termine di prescrizione base per fasce di reati (uguale per esempio per tutti i reati a cui dovesse essere applicata una pena tra i 5 e i 10 anni), con le norme introdotte nel 2005 il termine deve corrispondere al limite massimo della pena edittale prevista per il singolo tipo di reato. Si è poi ridotto dalla metà a un quarto l’aumento della prescrizione che ricorre per le varie interruzioni (per esempio dopo la sentenza di primo grado). Il risultato complessivo è che mentre per i reati gravi che hanno pene elevatissime (come quelli di droga) la prescrizione è diventata lunghissima, è stata invece ridotta per la maggior parte degli altri illeciti penali. Esempi: la ricettazione è passata da 15 a 10 anni; la calunnia e la falsa testimonianza da 15 a 7 anni e mezzo. Tale soglia bassa era condivisa allora anche dai reati di corruzione, tuttavia la legge Severino ha allungato i termini, aumentando le pene. Ma per i magistrati in caso di reati contro la PA o per reati d’impresa la prescrizione minima deve passare da 10 ad almeno 20 anni, se non più. E la domanda diventa: non bastano 10 anni per un giusto processo, con il massacro mediatico-giudiziario oggi praticato per questo tipo di reati? Che cosa resta dopo 21 anni, di un imputato eventualmente assolto?

L’argomento opposto da molti magistrati  è che in altri ordinamenti la prescrizione non funziona affatto come da noi. Verissimo. Ma quel che ai magistrati italiani non piace sentirsi dire è che in quei paesi l’ordinamento giudiziario è totalmente diverso dal nostro. E’ verissimo che in Francia i termini di prescrizione di 10 anni per i delitti più gravi possono essere interrotti da qualunque atto d’istruzione e azione giudiziaria, o che nel Regno Unito la prescrizione esiste solo per i reati più brevi. Ma ci si dimentica di che in nessuno di quei paesi esiste l’equivalente della nostra (ipocrita) obbligatorietà dell’azione penale affidata a una magistratura totalmente indipendente. In Francia l’accusa è sottoposta al ministro di Giustizia che elabora le priorità penali da perseguire. Nel Regno Unito è il giudice, non l’accusa, che valuta per qualunque reato l’interesse pubblico all’azione penale. In Germania per i reati commessi da membri del parlamento e delle assemblee dei Laender la prescrizione scatta dall’inizio dell’azione penale e non dal compimento del reato, mai magistrati delle procure sono sottoposti all’esecutivo.

Tra i dati diffusi ieri dal ministro Orlando, bisogna riflettere soprattutto su due aspetti. Il primo comprova che ancora nel 2014 oltre il 56% delle prescrizioni matura nella fase predibattimentale, di cui il dominus è il Pm e il GIP: ergo è ben difficile sostenere che il più delle prescrizioni dipenda da artifici degli imputati e avvocati per difendersi “dal” processo contando sulla prescrizione, visto che essa scatta quando ancora non sono rinviati a giudizio. Il secondo è che le percentuali di prescrizioni variano in maniera impressionante: nella fase predibattimentale si va dallo 0,1% di Pordenone al 40% di Torino; In Corte d’Appello si passa dal 2% di Trento al 40% di Napoli. E’ la miglior dimostrazione che il CSM dovrebbe darsi molto da fare per redistribuire gli organici e impartire istruzioni direttive precise ai capi degli uffici su come smaltire il carico degli arretrati: tutto ciò dipende da problemi organizzativi, non dalle leggi vigenti da cambiare.

Ma il braccio di ferro tra governo, infiacchito da indagini clamorose a raffica nel Pd, e magistratura all’attacco prevede che, con ogni probabilità, si accetteranno invece buona parte delle richieste dei magistrati: sull’allungamento sostanziale della prescrizione relativa a reati come quelli contro la PA e i reati societari, più un aumento della prescrizione in relazione ai diversi gradi di giudizio. Quando invece misure di questo tipo avrebbero senso solo nell’ambito di una revisione complessiva delle norme ordinamentali, rendendo coerente l’articolo 112 della Costituzione – l’obbligatorietà dell’azione penale – con l’articolo 111- la ragionevole durata di un giusto processo. E cioè toccando con forza non solo il regime delle impugnative da parte dell’accusa in caso di sentenze assolutorie, oltre al regime delle notifiche e a quello delle nullità. Ma anche quanto meno la separazione delle carriere, e l’indicazione di criteri generali in ordine ai reati da perseguire, che non ha affatto bisogno di una modifica dell’articolo 112 della Costituzione per essere possibile. C’è invece da scommettere che niente di tutto questo avverrà. E si continuerà magari ad additare l’esempio degli Stati Uniti, dimenticando che in quel paese neanche il 10% dei rinviati a giudizio va in dibattimento, oppure che nel Regno Unito per chi si dichiara subito colpevole si esclude ogni azione probatoria, e si passa subito a una condanna che niente ha a che vedere coi massimi edittali di pena previsti in Italia, in continuo aumento.

7
Mag
2016

Expo 2015: è tutto ‘indotto’ quel che luccica?

E’ stata presentata nei giorni scorsi un’interessante ricerca condotta da SDA Bocconi per la Camera di commercio di Milano ed Expo 2015 S.p.A. sugli effetti economici di Expo 2015. Si tratta della versione aggiornata di una precedente ricerca condotta nel 2014, prima che l’evento fosse realizzato. Qui si può leggere la sintesi della ricerca e qui invece la presentazione, illustrata nel convegno del 5 maggio e commentata  dal ministro dell’Economia e delle Finanze Padoan, dal presidente della Camera di Commercio Sangalli, dal sindaco di Milano Pisapia, dal ministro del Mipaf Martina e dal vicepresidente della Regione Lombardia Fabrizio Sala. Read More

4
Mag
2016

Thumbtack: un’azienda per il mercato

Pochi giorni fa ho avuto un problema con le carrucole dello stendino di casa. Essendo io piuttosto impedito, ho pensato di chiamare qualcuno a risolvere il problema. Sarebbe stato molto utile avere a disposizione un sito come quello di Thumbtack, un’azienda con sede a San Francisco. Ma purtroppo in Italia non l’abbiamo.

L’attività principale di Thumbtack consiste in una piattaforma che collega domanda e offerta per tutti quei “servizi locali” che non sono medicina o servizi legali: giardinieri, meccanici, idraulici, pasticceri, insegnanti di pianoforte, imbianchini, fotografi, e chi più ne ha più ne metta.

Oltre a collegare domanda e offerta, Thumbtack si occupa anche di incrociare le informazioni in modo tale da mostrare all’utente quei servizi a cui potrebbe essere interessato, sulla base delle decisioni di spesa passate e delle visite sul sito di altri servizi. Ai fornitori (giardinieri, meccanici, idraulici, insegnanti di pianoforte ecc.) offrono servizi su misura di vario tipo, dalla calendarizzazione degli appuntamenti al marketing.

In sostanza, Thumbtack da un lato si fa carico di alcuni costi di gestione dei fornitori (la calendarizzazione né è un esempio) e, dall’altro, soprattutto, riduce gran parte dei cosiddetti costi di transazione, facilitando di molto l’incontro tra domanda e offerta.

I costi di transazione, insiti in ogni tipo di attività economica (per esempio quei costi, in termini di tempo e denaro, per organizzare e definire un accordo, costi di ricerca di informazioni riguardanti il mercato ed i suoi agenti, costi per far rispettare gli accordi e i contratti una volta che questi siano stati stipulati), sono analizzati e spiegati da Ronald Coase, premio Nobel per l’economia nel 1991, nel suo classico The Nature of the Firm, la cui traduzione è inclusa nel libro dell’Istituto Bruno Leoni Tra Stato e Mercato a cura di Pulitini (IBL sta per pubblicare una raccolta di 15 saggi di Coase – Sull’economia e gli economisti – in cui vengono prese in esame le teorie di alcuni economisti, tra cui Smith, Marshall e Stigler, mostrando tra l’altro i loro contributi specifici per chi disegna politiche pubbliche). In The Nature of the Firm egli si propone di colmare una discrepanza osservata nelle assunzioni degli economisti riguardo l’allocazione delle risorse e gli strumenti di coordinamento; talvolta lo strumento principale viene assunto essere il meccanismo dei prezzi, altre volte si assume che gli imprenditori siano i principali “mezzi” di coordinamento, ma non si spiega quali sono le condizioni a determinare l’una o l’altra scelta. Coase spiega che se non esistessero i costi di transazione, semplificando ed estremizzando, ciascuno lavorerebbe per conto suo ad una parte dei beni o dei servizi finali e alla fine scambierebbe la propria merce con il mercato. Dal momento che tali costi esistono, talvolta interviene l’imprenditore, e quindi l’impresa, a internalizzarli in modo tale che il processo di allocazione delle risorse ne risulti più efficiente.

E’ difficile credere che per una famiglia sia una scelta efficiente internalizzare i costi di transazione per tutti i servizi offerti da Thumbtack. O almeno è difficile crederlo per la stragrande maggioranza delle famiglie. Ciò significherebbe avere alle proprie dipendenze un giardiniere, un meccanico, un idraulico, un insegnante di pianoforte ecc. Thumbtack ha creato un prodotto tale per cui dal lato della domanda non è necessario assumere nessuno per limitare al minimo i costi di transazione mentre dal lato dell’offerta non ci si deve far carico di molte attività (come la pubblicità) necessarie a portare avanti nel migliore dei modi il proprio core business.

Non accadrà domani, ma l’ipotesi è quella di un mercato nel quale domanda e offerta si incontrano senza bisogno che internalizzino tutta una serie di costi, e se ne fanno carico semplicemente corrispondendo un prezzo a una terza parte. L’innovazione tecnologica e l’inventiva imprenditoriale, in questo come in altri casi (si pensi alla sharing economy o alle app tramite cui oggi prenotiamo alberghi, ristoranti, viaggi), stanno riducendo molto i costi di transazione indirizzandoci verso un mondo in cui l’assunzione degli economisti secondo cui il meccanismo dei prezzi è il principale strumento di coordinamento sarà sempre più utile a spiegare la realtà. Stati permettendo, ça va sans dire.

@paolobelardinel

3
Mag
2016

Chi protegge i consumatori digitali?

Diceva Milton Friedman che spesso le persone chiedono ai governi di proteggere i consumatori, mentre un problema molto più urgente sarebbe proteggere i consumatori dai governi. Specialmente in Europa, la protezione dei consumatori è uno dei capisaldi della (supposta) tutela dei più deboli dai soprusi del mercato.

Interminabili procedure autorizzative, licenze, ordini professionali, autorità indipendenti, oscure normative tecniche su metodi e standard produttivi, garanzie obbligatorie, atti notarili sono tutte facce della stessa medaglia: proteggere l’agnellino consumatore dal lupo capitalista.

La giustificazione, dietro alla montagna di tempo, energie e risorse destinate alla ‘protezione’ del consumatore, è la sua (presunta) ignoranza. La visione dominante è che non tutti siano in grado di comprendere le caratteristiche di un prodotto o di un servizio, e pertanto sia compito del governo farlo per loro, aiutandoli a identificare quei produttori e fornitori che rispettano sufficienti standard di qualità e sicurezza. Né del resto – si dice – il mercato avrebbe ragione di pensarci da sé: il costo necessario a testare, identificare, interpretare e comunicare ai consumatori le caratteristiche di beni e servizi sarebbe di gran lunga superiore al conseguente ritorno economico. Trattasi, insomma, di un fallimento del mercato, cui i governi sono tenuti a porre rimedio.

A ben vedere, la storia è piena di esempi in cui i mercati, quando non asfissiati da regole bizantine, ovviassero al problema, generando meccanismi di assicurazione e facendo dell’informazione una vera e propria commodity. Giornali specialistici, gossip, pubblicità e passaparola hanno contribuito egregiamente a formare la ‘reputazione’ di prodotti, servizi e operatori economici, e così a orientare le scelte dei consumatori. Ci sono, poi, servizi in cui produttori e consumatori interagiscono raramente, ed è pertanto più difficile che si formi una reputazione: si pensi ai medici o agli avvocati divorzisti. L’esistenza di intermediari che facciano da ‘ponti di fiducia’ tra consumatore e produttore, come consorzi e studi legali affermati, altro non è che una risposta a quella domanda di ‘garanzie’.

Nel tempo, questa serie di funzioni è stata via via assorbita dai governi, su pressione delle diverse categorie professionali coinvolte. È interessante e abbastanza emblematico come la richiesta di tutela pubblica sia arrivata quasi sempre da rappresentanti dell’offerta del prodotto o servizio in questione, e non dai consumatori. Basta un filo di logica, infatti, per capire che la stragrandissima maggioranza delle tutele potrebbe benissimo reggersi su un sistema di certificazione facoltativo: chi lo desidera ottiene il bollino governativo, chi non lo desidera può operare sul mercato ugualmente, a parità di condizioni. E invece no: la tutela si è spesso tramutata nel monopolio pubblico della scelta di chi può lavorare e chi no.

Negli ultimi anni, tuttavia, il paradigma sta entrando in crisi. Non certo per la forza contrattuale dei consumatori, sempre troppo diluita per avere la meglio sull’aggressività delle corporazioni organizzate. Ma grazie a un alleato silenzioso: internet. La possibilità di scambiare quasi gratis e in tempo reale informazioni, opinioni, desideri ed esperienze letteralmente su qualsiasi cosa ha creato, piano piano, un patrimonio di conoscenza sulla bontà di prodotti e servizi inevitabilmente più completo, preciso e aggiornato di qualsiasi agenzia o sistema di certificazione. Jimmy Wales ha fondato Wikipedia sulla base del pensiero sulla conoscenza diffusa di Hayek, ma è internet, più in generale, ad essere un prodotto 100% hayekiano.

Il web non ha creato solo un patrimonio inestimabile e prima inimmaginabile di informazioni su prodotti e servizi. Ha anche trovato il modo di ovviare al problema della reputazione, per rendere possibili e sicuri gli scambi a distanza. Agli inizi, eBay chiedeva alle persone di ‘valutare’ le controparti delle loro transazioni: rendendo pubbliche queste valutazioni, gli utenti potevano così farsi un’idea dell’affidabilità di tutti gli altri. Oggi, i sistemi di creazione della reputazione sono alla base di molti dei giganti del web, da Amazon a Uber. Per completare l’opera, internet sta pian piano iniziando a erodere, come onde sugli scogli, le terze parti, a partire da banche e notai. La blockchain – la tecnologia che sostiene bitcoin – si sta rivelando incredibilmente efficace e sicura nel vagliare la legittimità di scambi di denaro, pur in assenza di un ente centrale che metta il bollino (intascandosi il costo della transazione). Miracoli dell’intelligenza distribuita e della cooperazione volontaria.

Le nuove generazioni sono sempre più intolleranti ai mostri burocratici che i loro genitori, negli ultimi quarant’anni, hanno messo in piedi per ‘proteggerli’. I consumatori digitali si sentono sempre più protetti dalla tecnologia, e sempre meno dai parlamenti. Una ragione in più per tutelare l’autonomia di internet dall’ingerenza della politica: probabilmente, se fosse ancora tra noi, Milton Friedman aggiornerebbe il suo aforisma: oggi, per proprietà transitiva, difendere l’indipendenza di internet significa sempre di più tutelare i consumatori.

Twitter: @glmannheimer

1
Mag
2016

Spending review e project review: soluzioni senza convinzioni—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

“This is a Budget that gets investors investing, savers saving, businesses doing business; so that we build for working people a low tax, enterprise Britain; secure at home, strong in the world. I commend to the House a Budget that puts the next generation first.” Sono queste le ispirate e convinte parole, sintesi del manifesto ideale – politico che concludono il discorso di George Osborne, attuale Cancelliere dello scacchiere britannico (il nostro ministro delle finanze) e che motivano il suo programma quinquennale di spending review presentato lo scorso marzo che ha come obiettivo portare il debito pubblico inglese al 36% del PIL nel 2020 (www.gov.uk, The Budget speech in full).

Il discorso ed il documento cartaceo è rinchiuso dall’epoca di William Ewart Gladstone nella red box più famosa di tutte, il budget box, elegante 24 ore di pelle rossa. L’idea forte fortissima di George Osborne e del Governo che rappresenta è quella dell’Enabling State cioè l’idea che lo stato principalmente e preliminarmente autorizza e delega i cittadini a dispiegare innanzitutto le proprie capacità e risorse nella sfera economico sociale. Ed è questa la convinzione forte e liberale di “Stato sussidiario” rispetto alla primaria azione dei cittadini che anima e sta alla base delle scelte di spending review proposte. Read More

27
Apr
2016

Per un liberale, la giustizia italiana è un inferno

Le dichiarazioni di Piercamillo Davigo, neo presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, hanno riacceso il confronto politica-magistratura: un classico degli ultimi 25 anni. Davigo, oggi giudice di Cassazione eletto presidente dell’ANM con un voto vastissimo, è persona di grande determinazione e finezza. Impossibile pensare che con le sue dichiarazioni su “i politici rubano più di prima, la differenza è che non si vergognano più” non intendesse suscitare esattamente ciò che è avvenuto: dare il segno tangibile alla politica italiana che la fase di concertazione con il governo Renzi sulle nuove misure del processo penale, e su punti come le intercettazioni e la prescrizione, è di fatto conclusa. E si riapre lo scontro frontale. Esattamente come ai tempi di Berlusconi, né più né meno. Eppure, cercando di osservare nel merito i punti sollevati e al di fuori di generalizzazioni buone per i talk show, è davvero difficile capire in che cosa i magistrati reputino di aver perso punti negli anni recenti (per favore: non parliamo di temi come le ferie e le retribuzioni o l’età pensionabile prolungata per chi ricopre uffici apicali, perché su questo continuano a essere privilegiati, sia rispetto al resto della PA, sia nella comparazione internazionale)

Prima però occorrono un paio di considerazioni di ordine generale. Che hanno a che vedere con la filosofia generale del diritto che sembra ispirare l’intemerata del presidente ANM. Evitiamo di proposito la generalizzazione sui politici perché è, appunto, un giudizio politico. E del resto non mancano a smentirlo tanti casi. Come quello di Antonio Lattanzi, assessore di Martinsicuro in provincia di Teramo 4 volte arrestato dalla Procura per tentata concussione e abuso d’ufficio e poi dopo anni pienamente assolto malgrado 83 giorni di carcere. O come quello di Ettore Incalza, il grand commis per 15 anni vero regista del ministero di Trasporti — una delle figure che più hanno mostrato come i vertici delle burocrazie ministeriali facciano la politica, in Italia, molto più dei politici che passano.. –  e arrestato nel 2015 per gravissime accuse nella vicenda che portò poi alle dimissioni del ministro Lupi, ma giunto la settimana scorsa alla quindicesima – quindicesima! -assoluzione o proscioglimento in altrettante indagini

Giustizia da Armageddon. Fermiamoci invece al significato profondo di due passaggi di Davigo. Quello in cui ha affermato che la presunzione d’innocenza è un mero fatto interno al processo, e la sua proposta di usare la polizia giudiziaria al servizio delle Procure per simulati tentativi di corruzione verso i politici, al fine di testarne in maniera inoppugnabile l’innocenza. Entrambe le asserzioni esprimono in maniera chiarissima il pensiero di quella parte di magistrati che si riconoscono in Davigo. A loro giudizio, la presunzione d’innocenza non è affatto un valore costituzionale ribadito nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, è una semplice ipotesi che pesa tanto quanto la colpevolezza. ANZI, MENO. Perché la differenza è che la colpevolezza identifica non solo la reità di un individuo ma anche un pericolo sociale, ed è dunque sovraordinatamente nella sua identificazione e sanzione che deve concentrarsi il ruolo del magistrato. Da questo discende che le indagini di cui il pubblico ministero è dominus diventino prioritarie rispetto al giusto processo, e all’equilibrio tra le parti che nel processo è garanzia per il cittadino accusato, rispetto a ogni eventuale sopruso di Stato. Perché innocenza e colpevolezza non sono affatto paritarie ai fini pubblici, secondo questo filone di pensiero: la giustizia serve invece ad affermare un’etica e una morale di Stato, non si limita ad accertare che la legge non sia violata nel rispetto delle idee, opinioni e libertà di ciascuno.

Tanto questa superiore finalità dello Stato etico prende la mano, da spacciare per proposta americana a anglosassone l’uso di Finanza e Carabinieri sotto la regia del Pm per sedurre a reati politici, amministratori e cittadini. E solo di fronte alla manifesta ripulsa dell’offerta, concedere la patente di innocente. Per il momento, s’intende. Non è affatto così: in alcuni paesi di common law si ricorre a esche simili quando c’è una notizia di reato magari comprovata da testimonianze rese dai cosiddetti whistleblowers, segnalatori di illeciti che vengono prima tutelati nella loro riservatezza, ma poi diventano testimoni pubblici. E’ tutt’altra cosa che voler piegare la polizia giudiziaria a produrre essa, con le sue offerte mascherate, notizie di reato di cui non si aveva alcuna contezza, bussando a tutte le porte per separare il grano dal loglio. Pensateci bene: è un’interiorizzazione alla giustizia di Stato del ruolo di Dio. Come il Padreterno secondo l’Antico testamento chiese ad Abramo la testa di suo figlio Isacco per metterlo in tentazione e verificarne l’obbedienza fino e oltre all’estremo limite, allo stesso modo dovrebbe comportarsi lo Stato-Dio.  Per chiunque sia liberale, è una concezione che suscita orrore. Ora è assolutamente ovvio che i magistrati della Repubblica siano del tutto liberi di non essere liberali, e di nutrire idee della filosofia del diritto di tipo hegeliano (di qualunque colore le vogliate poi dipingere, rosso, nero o religioso, sempre Stato-etico è). Resta il fatto che nel nostro ordinamento non ha diritto di cittadinanza costituzionale una simile concezione della giustizia, analoga all’apocalittico Armageddon, dove si confronteranno per l’ultima volta il Bene e il Male.

Intercettazioni. Detto questo, veniamo ai punti concreti.  Dopo l’intervista al Corriere di Davigo, ha detto il ministro Orlando che non vede impedimenti all’approvazione entro l’estate del disegno di legge recante modifiche alla normativa penale, sostanziale e processuale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi, già approvato dalla Camera, e ora al Senato. In realtà, l’attacco di Davigo fa esattamente presagire il contrario. Dovrebbe essere quello lo strumento giusto per la più che mai necessaria riforma della disciplina a tutela della privacy nel regime attuale delle intercettazioni giudiziarie. Lo ha già scritto molte volte il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio (uno dei pochissimi magistrati veri liberali che non abbia paura di esprimere apertamente le proprie idee): le circolari di autodisciplina di alcune Procure non sono affatto la soluzione, occorre un nuovo testo normativo che impedisca lo scempio mediatico-giudiziario che continua ad avvenire tutti i giorni sotto i nostri occhi.  Le intercettazioni preventive che non hanno valore processuale devono restare nella cassaforte del pm, che deve rispondere personalmente della loro riservatezza. Quelle a strascico, che coinvolgono soggetti neanche indagati, non devono uscire dalla riservatezza. L’autonomia e l’indipendenza del magistrato non c’entrano nulla, con queste regole di civiltà da affermare.

Davigo ha sempre ripetuto che non serve in realtà alcun intervento. “Pubblicare intercettazioni non pertinenti è già vietato – son sue parole, questa volta al Fatto Quotidiano – quanto meno dal reato di diffamazione; se si ritiene che le pene per la diffamazione siano inadeguate, basta aumentarle. Il resto è superfluo”. Non è affatto così, e lo sappiamo benissimo tutti. Perché in tanti anni non c’è mai stata una sola condanna che si ricordi, una sola, per diffamazione da pubblicazione di conversazioni intercettate. Né un pubblico ministero mai, quando la pubblicazione è avvenuta prima del deposito degli attui rilevanti per il procedimento, e dunque quando solo dalla disponibilità dell’ufficio del pm le intercettazioni potevano originarsi, non uno ha mai ammesso che il suo ufficio era evidentemente una groviera e che ciò era intollerabile.

La verità che mai verrà ammessa sembra proprio un’altra. Se l’ipotesi di colpevolezza a fini sociali e pubblici pesa più di quella d’innocenza, e se la fase d’indagine preliminare – non il giusto processo – è la vera valle di Josafat in cui le forze del Bene sgominano quelle del Male, allora la distruzione pubblica per via mediatica del sospetto reo diventa parte essenziale della pena afflittiva della quale – si sa – l’accusa non è affatto certa che otterrà il riconoscimento secondo le sue richieste, nei diversi gradi di giudizio.  Perché in Italia, ripete il mantra giustizialista, si sa che alla fine abbiamo una percentuale troppo bassa di condanne passate in giudicato per reati commessi da politici, amministratori pubblici, manager e colletti bianchi d’impresa. E questo spiega, allo stesso modo, l’utilizzo a manetta della custodia cautelare nella fase d’indagine anche quando non sembrano ricorrere i tre presupposti di legge: la reiterazione del reato, il pericolo di fuga, l’inquinamento delle prove. Per quanto orrore possa fare la vicenda delle morti sospette in corsia all’ospedale di Piombino, rileggere prego le dichiarazioni rese alla scarcerazione dall’infermiera Fausta Bonino, sulla pressione esercitata dal pm che ne chiedeva la confessione autoaccusatoria, a minaccia altrimenti di dimenticare la chiave del carcere e di aggravare ulteriormente la sua posizione.

Prescrizione. Altro terreno di scontro frontale è quello del regime di prescrizione dei reati, continuamente additato da molti magistrati come concepito a favore dei rei per farla franca. L’esperienza insegna che è inutile pensare di avere ascolto replicando che l’istituto nasce storicamente come tutela del cittadino nei confronti di un processo lungo anni e anni, che devasta vite e personalità, status sociale e carriere. Se si è convinti che la giustizia sia espressione di uno Stato-etico, è conseguente che i diritti vadano piegati alle esigenze dell’accusa, non del cittadino.  Ma è proprio vero che il regime di prescrizione costituisca un via libera sempre più spalancata ai criminali? I numeri sembrano proprio dire il contrario. Secondo i dati del ministero della Giustizia i processi penali finiti in prescrizione sono in drastico calo, non in aumento. Sono scesi da 183.224 nel 2005 a 132.296 nel 2014. E c’è un altro dato sul quale far riflettere i magistrati. Se in 10 anni i processi prescritti sono stati il terribile numero di 1,46 milioni, in oltre 1 milione di casi cioè il 70% delle volte ciò è avvenuto perché i procedimenti erano ancora nella fase delle indagini preliminari. In altre parole: alla radice del male non possono essere considerati né gli avvocati, né gli artifici eventuali posti in essere dall’indagato per difendersi “dal” procedimento invece che “nel” procedimento. Il dominus della fase preliminare è il PM insieme al GIP: ergo parliamo di responsabilità dei magistrati. Ma naturalmente la loro risposta è che tutto ciò discende dal fatto che in ruolo sono troppo pochi, non dai tempi medi troppo dilatati delle loro indagini.

Ed è per questo che infatti il più dei magistrati propone una revisione drastica della prescrizione con una previsione normativa che contempli uno stop definitivo dell’orologio della prescrizione dopo il rinvio a giudizio dell’imputato. Fino ad ora la proposta del governo è stata indirizzata verso il blocco dopo il giudizio di primo grado e 3 anni in più tra Appello e Cassazione, ma tale ipotesi vede, all’interno della maggioranza, la contrarietà di Ncd. In alternativa, la magistratura ha a volte proposto che la prescrizione scatti non dalla data del presunto reato ma dall’apertura del fascicolo da parte del pm, e Davigo aggiunge che a quel punto sarebbe però coerente una riforma del processo che escludesse l’appello. E’ ovvio che sommare una prescrizione che scatta solo all’apertura delle indagini, aggiunta all’ipotesi di aggiungere anni di sospesa prescrizione tra i diversi gradi di giudizio, annullerebbe di fatto l’esistenza stessa della garanzia prescrittiva: cioè il diritto a un processo di equa durata. Per Davigo e chi la pensa come lui, la prescrizione per reati come la corruzione potrebbe durare fino a 21 anni: auguri a cosa resta di chi venisse assolto dopo una simile vita intera bruciata. Senza contare che fermare il processo penale alla sentenza di primo grado significa ignorare che per molti dei reati che tanto tornano nelle denunce dei magistrati – quelli collegati a politica, amministrazione pubblica e imprese – la giurisprudenza di appello in percentuali molto elevate abbatte o annulla le condanne del primo grado. Se la cosa vi lascia indifferenti, a un liberale invece no.

Ma è poi la magistratura davvero immune dai difetti di certa politica? Non è forse manifestamente per lotta tra correnti della magistratura associata che la Procura di Milano da oltre due anni – prima nello scontro tra Bruti Liberati e Robledo, poi nella mancata designazione del suo nuovo capo – non ha avuto soluzione ai suoi problemi? Che cosa ci direbbero le trascrizioni dei colloqui tra capi corrente della magistratura, quelli in cui trattano in maniera incrociata le designazioni al vertice degli uffici giudiziari? Siamo del tutto certi che quegli scambi incrociati di richieste suonerebbero molto diversi dal commercio improprio d’influenze? O il tutto dipende solo dal fatto che a nessun pm salti per la testa di intercettare quei colloqui?

Conclusione. Il ministro Orlando fin dalla nascita del governo Renzi era stato officiato a una trattativa con i vertici associativi della magistratura, per quanto lunga ed estenuante fosse, ma con l’obiettivo di misure che alla fine non suscitassero aspre reazioni di quello che secondo il dettato del Titolo Quarto della nostra Costituzione è un “ordine”, non un “potere”, checché dicano i magistrati scomodando Montesquieu. Quell’obiettivo, oggi, appare pregiudicato. A Renzi va dato atto che le parole e i toni che usano restano quelli di un liberale non giustizialista. Ma che alla fine l’interdizione aspra del giustizialismo non vinca ancora una volta, è un’ipotesi oggi sicuramente meno forte di dieci giorni fa. Dal caso Boschi in Banca Etruria all’indagine sul presidente del Pd campano sospettato di aver contrattato voti con la camorra, il forte rischio è che il governo renzi per difendere i propri indagati assecondi la svolta ancor più giustizialista invocata dall’ANM sulle norme penali e le garanzie per indagati e accusati.

 

 

26
Apr
2016

Dopo Hannover restano 4 grossi guai tra Usa e Ue

Il vertice di Hannover tra Obama, Merkel, Cameron, Hollande e Renzi non ha purtroppo aggiunto nulla di nuovo a quanto era già chiaro. In sintesi, quattro lezioni sono di fronte a noi, ed è difficile capire se Stati Uniti ed Europa davvero troveranno il modo di uscire dagli errori sin qui commessi, ognun per sé e nei loro reciproci rapporti.  Sono errori pesanti: riguardano la sicurezza comune cioè la NATO, il Medio Oriente,  gli scambi commerciali, e le conseguenze anche per gli USA di un’eurocrisi politica che, da conclamata qual è già, può diventare presto galoppante.

Se guardiamo alla sicurezza europea, Obama chiude il suo mandato sotto il segno del disincanto. Nel 2008, il suo tour tedesco suscitò entusiasmi spettacolari, dopo i che i suoi predecessori erano associati alla guerra in Iraq e Afghanistan. Ma aver delegato alla Germania il timone della crisi russo-ucraina si è rivelato un enorme errore da parte di Obama. Di fatto, Germania e Ue non si sono rivelati in grado di una vera regia politico-militare capace di ingaggiare Putin. Non potevano farlo, visto che la politica di difesa comune all’Europa manca. A oggi, restano le sanzioni alla Russia e nessuno sa come uscirne, perché Mosca non ci pensa proprio a far marcia indietro dalla Crimea e Ucraina orientale. Il rafforzamento dello schieramento americano nell’Europa centrale e orientale della NATO deciso da Washington a fine 2014 ha alzato la tensione militare con Mosca, ma non risolve nulla.  La NATO è avvertita sempre più debole come cemento comune, proprio dai paesi est europei che vedono l’euroscetticismo crescere a ogni elezione (e non sono i soli). Ad Hannover, di questo, praticamente non se n’è parlato.  Se ne occuperà il prossimo inquilino della Casa Bianca.

In Medio Oriente, non casualmente una grande novità è venuta proprio mentre i 5 leader entravano nel castello di  Herrenhausen. Il contestato neoleader nazionale libico Serraj ha chiesto un intervento internazionale militare, a difesa degli impianti energetici libici minacciati dall’Isis. Renzi, fedele alla linea italiana secondo cui tutto deve passare per l’ONU, ha garantito piena disponibilità, se solo la domanda è inoltrata e approvata dal Palazzo di Vetro. Ma in realtà ieri ad Hannover i leader Ue erano divisi: di fatto, le forze speciali francesi sono già da mesi sul campo impegnate a favore del generale Haftar, che attacca Isis in Cirenaica e nella Sirte non riconoscendo affatto Serraj, e Parigi lavora in sienzio per una frattura della Libia d’accordo con il generale al Sisi, il raiss del Cairo. Con il quale i rapporti italiani sono ai minimi termini per via dello stallo sulla dolorosa vicenda Regeni. E mentre anche forze speciali britanniche si danno da fare nella Sirte. La delega americana all’Italia sulla Libia di fatto non viene riconosciuta da Parigi e Londra. E Obama si è presentato in Europa dovendo ammettere che nel 2011 ha commesso un gravissimo errore, perché non aveva minimamente un piano dopo la destituzione militare di Gheddafi. Al contrario, in Medio Oreinte tutte le energie di Obama sono andate in questi due anni all’accordo con l’Iran. Non a caso, nel 2010 un editorialista del New York Times in visita alla Sala Ovale della casa Bianca si avvide che gli orologi internazionali a parete riportavano le ore di Teheran, di Pechino e dello Yemen, ma di nessuna capitale europea.  Spetta al governo italiano, di conseguenza, valutare quanto e come tutelare i nostri interessi in Libia prima che Parigi e Londra rifacciano il bis del 2011.

Sul commercio, Obama si è presentato tardi e male per promuovere il grande accordo transatlantico commerciale, il TTIP. A differenza dell’analogo strumento transpacifico firmato dagli USA con le 10 maggiori economie asiatiche nell’ottobre dell’anno scorso, ma che il Congresso Usa comunque non ratifica, il negoziato con l’Europa dopo quasi 3 anni è ancora fermo su alcuni punti fondamentali. Arduo immaginare dunque che l’accordo si chiuda prima della fine della presidenza Obama: il che significa che se ne riparlerà tra un paio d’anni, se va bene.

Malgrado Usa e Ue siano i primi partner commerciali reciproci, e Washington abbia importato dall’Europa beni e servizi nel 2015 per più di 100 miliardi di dollari di quanto abbia fatto dalla Cina, ad oggi negli USA il dibattito delle elezioni presidenziali è diventato ostile alle intese commerciali, mentre in Europa la controinformazione populista di nazionalisti e autarchici ha finito agevolmente per attribuire al TTIP una vera e propria leggenda nera, come se si trattasse di consentire attacchi alla salute e ai redditi degli europei in nome di inconfessabili interessi di zannute multinazionali americane. In realtà il TTIP serve a darsi standard e regole comuni. Ma i dissensi sono ancora forti: sugli arbitrati internazionali a cui affidare contese commerciali senza incartarsi nelle differenze dei diversi ordinamenti giudiziari; sulla infinita lista di eccezioni, oltre 200, avanzate sia dagli Usa che dai Paesi europei sui settori da escludere all’offerta su base paritaria di servizi; sul no degli Usa ad aprire le loro forniture pubbliche a imprese europee; e naturalmente sull’agricoltura, che è ipersussidiata pubblicamente e fonte di voti su entrambe le rive dell’Atlantico. Pessimo affare, aver lasciato per tre anni che l’unica informazione sul TTIP e la sua colossale portata potenziale di miglioramento degli scambi euro-americani venisse condotta dai no global di ogni colore.

Infine, l’eurocrisi. Non è un guaio crescente e forse incontrollabile che investe solo noi. Per gli States non è affatto priva di effetti. Anche se nelle primarie americane risuonano toni praticamente e simmetricamente analoghi a quelli delle recenti elezioni austriache, francesi, ungheresi e polacche.  Se a fine giugno il Regno Unito sceglie l’uscita dall’Unione Europea, alla crisi di Schengen e a quella turca, alla nuove difficoltà greche e portoghesi, al dramma irrisolto dei migranti si sommerà un biennio di trattativa con Londra – questo è il tempo previsto dal Trattato europeo. Durante il quale si voterà di nuovo in Spagna, e nel tempo in Francia, in Germania, nella stessa Italia. Su ogni turno elettorale, la presa e la portata degli argomenti favorevoli a rompere l’Europa, da destra e da sinistra, saranno sempre più forti. Per l’Italia ad alto debito e banche debolissime, sarebbe un disastro ritrovarsi di nuovo esposta sui mercati (checchè si dica, è certo che avverrebbe).  Ma anche per l’America sarebbe un pessimo affare, ritrovarsi con un’Europa a pezzi pronta all’appeasement con Putin e con Erdogan,  e con nessuna voglia di combattere ISIS in nome di un comune interesse occidentale. Naturalmente, non resta che sperare che così non sia. Ma il rischio c’è, bisogna saperlo.

26
Apr
2016

L’attualità de “Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza”—di Tomaso Invernizzi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Tomaso Invernizzi

Molti dei problemi che oggi dividono la cosiddetta opinione pubblica nelle discussioni private, sui social network, nel dibattito politico… potrebbero essere affrontati diversamente, aumentando le possibilità di giungere ad un’intesa almeno parziale e provvisoria, leggendo o rileggendo l’agile saggio di Karl Popper Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza del 1960. Molti temi, dal dibattito sul nucleare ai confronti in materia di politica economica (tassazione, protezionismo, regolazione…) vengono affrontati da buona parte dei partecipanti con la presunzione di possedere la verità e che essa sia manifesta. La concezione che secondo Popper è alla base dell’attribuzione di credibilità a fonti di ignoranza è la teoria della verità manifesta, l’idea cioè che la verità sia evidente e a disposizione di tutti. Se non tutti riconoscono la verità è perché sono offuscati da alcuni pregiudizi ed errori facilmente superabili. Altre volte l’ignoranza è protratta da poteri che cospirano per impedire alla massa di vedere la realtà (si pensi alla teoria marxiana per la quale le classi dominanti producono ideologie, ossia mascheramenti della realtà atti a mantenere lo status quo). Read More

22
Apr
2016

Se la crescita economica fosse come la crescita umana

Qualche tempo fa ricordo di aver ascoltato per radio la proposta di una parlamentare: sostituire alla crescita economica un obiettivo di “a-crescita” e introdurre politiche per promuoverlo. La sua argomentazione consisteva in una idea molto diffusa: “le risorse del pianeta sono finite e quindi non possiamo crescere all’infinito”. Questa convinzione è anche condivisa da coloro che inseguono il contrario della crescita – la decrescita. Personalmente ho anche letto qualcosa di Serge Latouche e apprezzato diversi fautori della decrescita ai quali, come me, piace la natura, coltivare il proprio orto e trascorrere tempo in convivialità.

Voglio però essere chiaro sul mio punto di vista: la crescita è lo scopo della vita. Ciò che non cresce muore. L’universo stesso si espande. Un’economia senza crescita è un’economia morta.

D’altro canto, se io non metto in discussione la necessità e l’auspicabilità della crescita economica, non escludo che siano utili riflessioni sul significato di crescita.  Per questo ho scritto le righe seguenti partendo dal presupposto che riflettendo sull’Uomo si possa capire l’Economia e che dietro queste diatribe economiche si nascondano domande più profonde.

Un aspetto che dimentichiamo nei nostri dibattiti è collegato con la differenza tra crescere e invecchiare. Ho da poco terminato un libro in cui  il pastore americano Rick Warren spiega, da una prospettiva spirituale, come non siano la stessa cosa. Nella nostra società siamo invece abituati a misurare la crescita di una persona a livello anagrafico e la sua maturità in base all’aver accumulato un certo numero di anni, solitamente diciotto. Eppure limitare la nozione di crescita ad una questione di anni da raccogliere, come se fossero i punti del supermercato, è in contrasto con l’evidenza quotidiana: quante volte incontriamo persone invecchiate ma non cresciute e persone che sono cresciute prima di invecchiare?

Il creatore di Netflix ha scritto che il primo requisito che si aspetta dai suoi dipendenti è di essere un adulto responsabile; evidentemente è una caratteristica non scontata. Il documento in cui l’ha scritto, The Netflix culture code, è considerato ora un punto di riferimento per le aziende che aspirano a creare il migliore ambiente di lavoro e, a detta di Sheryl Sandberg (COO di Facebook) è “uno dei più importanti documenti mai usciti da Silicon Valley” con attualmente più di 14 milioni di visualizzazioni. Per Netflix le caratteristiche di un “rara persona responsabile” sono: self motivating, self aware, self disciplined, self improving, acts like a leader, doesn’t wait to be told what to do, picks up the trash lying on the floor [la traduzione in italiano sarebbe, letteralmente: auto-motivata, cosciente di sé, auto-disciplinata, auto-migliorante (capace di migliorarsi), si comporta come un leader, non aspetta che gli si dica cosa fare, raccoglie la spazzatura dal pavimento].

E se la crescita economica fosse come la crescita umana? Composta cioè di una serie di variabili difficilmente misurabili che però fanno la differenza?

In “GDP : a brief but affectionate story” Diane Coyle solleva questo dubbio e riflette sull’adeguatezza del PIL come strumento per misurare la crescita economica. Oggi, infatti, “l’economia è un’entità intangibile e non primariamente fisica”. Le statistiche del PIL sono state introdotte in un contesto economico nel quale si producevano beni fisicamente misurabili, come tonnellate di acciaio e di grano. In un’economia basata su servizi, innovazione e prodotti più intangibili, le misure quantitative diventano meno appropriate. Da questo punto di vista, Coyle osserva come la nostra percezione della grande stagnazione globale potrebbe essere peggiorata da un gap sempre più vasto tra il miglioramento del benessere economico e la nostra capacità di misurare questo miglioramento. Internet ne è l’esempio lampante: poiché gran parte del suo contenuto è gratuito non possiamo misurarne il valore in base a quanto i consumatori lo pagano. Eppure il valore di tutto questo contenuto a costo zero contribuisce ad un netto miglioramento del surplus del consumatore.

Se la crescita economica fosse come la crescita umana, consisterebbe, dopo aver accumulato una serie di compleanni e di centimetri di spina dorsale, anche in un insieme di fattori soggettivi e non oggettivamente misurabili. Per diventare adulta, in altre parole, alla nostra economia non basta crescere in reddito, ma anche in  responsabilità. Responsabilità, indipendenza, auto-sufficienza sono le caratteristiche con cui Wikipedia descrive, da un punto di vista legale, l’età adulta. Da questo prospettiva credo che, sia che vogliamo crescita o de-crescita, tutti vorremmo un’economia con più responsabilità e auto-determinazione.

Resta inteso che per avere crescita economica, spiega Paul Romer nella Concise Encyclopedia of Economics, dobbiamo cambiare il modo di fare qualcosa creando più valore.

Economic growth occurs whenever people take resources and rearrange them in ways that make them more valuable.

[La crescita economica si verifica quando le persone prendono delle risorse e le ri-organizzano in modi che le rendono di maggior valore.]

Siccome il valore è una variabile soggettiva, la crescita economica dipende, oltre che dalla nostra inventiva, anche da ciò a cui noi diamo valore. Come misureremo la crescita economica in un Paese dove la generazione di ieri sognava di possedere un automobile, e la generazione di oggi sogna  di non possederla? Come cresce l’economia quando la Silicon Valley segue il modello organizzativo di un’azienda come Netflix e riconosce valore a aspetti come responsabilità, consapevolezza e disciplina?

Queste sono domande di non facile risposta; tra le poche certezze che abbiamo, possiamo aspettarci che la crescita economica futura sarà diversa da quella che ha caratterizzato il ventesimo secolo, ma potenzialmente infinita e sicuramente auspicabile. Forse non ci troveremo d’accordo su alcuni termini, ma in tanti concordiamo sul fatto che l’economia in cui viviamo, per diventare adulta, libera e responsabile, deve ancora crescere molto.