17
Mag
2016

Uso di suolo e consumo di libertà—di Marco Romano

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Marco Romano.

Questa del consumo di suolo è una delle molte trovate di un certo stile autoritario radicato nel solito principio di conoscere il vero bene collettivo e di imporlo ai legittimi desideri dei singoli cittadini.

In questo caso è il legittimo desiderio di possedere una casa, perché il possesso della casa è da mille anni la condizione stessa della cittadinanza, come oggi quando chiedi la carta d’identità ti viene chiesto il tuo indirizzo.

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14
Mag
2016

Expo è costato 3,5 mld. (218 euro per visitatore di cui 78 a carico del contribuente)

Con la pubblicazione del bilancio finale di Expo 2015 S.p.A. nel documento di liquidazione della società è finalmente possibile conoscere i costi totali sostenuti per la realizzazione della manifestazione e quanti di essi sono stati posti a carico della collettività. Al riguardo Repubblica del 12 maggio titolava: Expo è costata 2,2 miliardi di Euro, precisando che per andare in pareggio con i soli soldi dei visitatori (21,5 milioni di persone) il biglietto sarebbe dovuto costare poco più di 100 euro: Read More

10
Mag
2016

Grecia: all’euroarea servono regole precise per ristrutturare i debiti sovrani

Sull’ennesimo capitolo della crisi greca, comincio dal fondo. Tra le tante pecche sin qui mostrate dalle regole dell’euro, manca un capitolo che definisca le condizioni estreme nelle quali por mano a ristrutturazioni dei debiti sovrani di un paese membro. E’ un difetto essenziale. La storia è purtroppo piena, di ristrutturazioni di debiti pubblici. E a maggior ragione il rischio si corre in anni di deflazione o, se andrà bene, di inflazione bassissima, per paesi rispetto alla media dell’eurozona incapaci di convergenza nel breve-medio periodo per forti squilibri economici e fortissimi squilibri sociali, come la Grecia. Meglio sarebbe avere dunque regole chiare, per consentire emergenzialmente ristrutturazioni almeno secondo regole chiare, tali da non allarmare i mercati e generare quell’effetto panico che da anni devasta la Grecia. Da due anni a questa parte, dacché Syriza vinse le elezioni a maggio 2014 (qui un utile cronoprogramma della crisi greca fino ad allora), la crisi del debito della Grecia avrebbe dovuto insegnarlo ai vertici dell’eurozona. Invece no, e continuiamo a sbattere la testa sullo stesso muro: dopo i 110 miliardi del primo programma di aiuti varato nel 2010, i 130 miliardi del secondo pacchetto varato nel 2011, la prima ristrutturazione del debito del marzo 2012 in forma PSI cioè superiore al 50% del valore facciale ma per i soli creditori privati della Grecia, gli 86 miliardi del terzo pacchetto firmato a luglio scorso e che dovrebbero accompagnare il risanamento greco fino al 2018.

Torniamo alla cronaca. Non è andato in porto l’Eurogruppo di ieri dedicato alla Grecia: si tratta di sbloccare una nuova tranche degli 86 miliardi di aiuti firmati a luglio scorso con Tsipras, finalizzati a coprire interessi e restituzione del debito pubblico di Atene dovuto fino a metà del 2018, quando il programma dovrebbe terminare. O meglio, è andato in porto per uno dei tre argomenti che erano da mesi sul tavolo, sui nuovi impegni assunti dal governo greco per rafforzare l’avanzo primario del bilancio greco, grazie al voto che Tsipras ha ottenuto dalla sua ristrettissima maggioranza domenica in parlamento. I ministri delle finanze europei aspettano altri chiarimenti su un secondo punto. Ma il capitolo fondamentale aperto è il terzo, a cui Tsipras tiene molto e sul quale, pur avendo in realtà l‘accordo del FMI, ha giocato malissimo la partita, inimicandoselo due settimane fa.

Cerchiamo di capire di che si tratta, per poi tornare al terzo punto che è quello centrale: cioè la riduzione del debito greco. Ponendoci il problema se sia fondato oppure no, e quali ragioni abbia la tenace opposizione tedesca.

La Grecia aveva ripreso a crescere timidamente fino a metà 2015, prima di chiudere l’anno di nuovo con due trimestri a crescita negativa sotto l’incalzare della tumultuosa trattiva europea, con il doppio colpo di scena successivo del referendum vinto da Tsipras, e poi delle nuove elezioni in cui, dopo aver fatto repentina marcia indietro rispetto al no all’accordo, ha riottenuto una maggioranza appesa a pochissimi seggi. Di fatto, il paese ha un debito pubblico in salita verso il 180% del PIL, grazie anche e soprattutto al fatto che di PIL ha perso dal 2007 lo spaventoso ammontare di 25 punti percentuali. Da tre anni la Grecia è a crescita demografica negativa, per effetto della crisi. Ha una disoccupazione che resta disastrosamente al 25%, e a poco meno del 48% tra i giovani, in troppo lento calo rispetto al 52,2% a cui era arrivata a marzo 2015. Su meno di 11 milioni di abitanti, 2,5 milioni sono sotto la soglia di povertà, e altrettanti lottano per non cadervi, di poco sopra la soglia.

Il pacchetto di misure taglia deficit approvato da Tsipras nel 2015 ha prodotto ciò malgrado un avanzo primario di bilancio dello 0,7% di PIL, al quale Ue e Fmi non hanno creduto troppo. E che resta comunque di gran lunga inferiore all’1,5% che serve come tappa intermedia, per realizzare il 3,5% di avanzo annuale al 2018. Per poi restarvi inchiodato per moltissimi anni, al fine di abbassare gradualmente il debito pubblico contando su una crescita che torni verso il 2% annuo. Di qui le nuove richieste avanzate da Ue e Fmi a Tsipras, se vuole che si stacchi un assegno capace di consentire alla Grecia di onorare i 2,5 miliardi di interessi che Atene deve ripagare a luglio ai propri debitori. La richiesta era di un pacchetto di misure su tasse e pensioni pari al 3% di PIL di minor deficit per circa 5 miliardi di euro, più fin da subito in altro pacchetto di tagli automatici per un altro paio di punti di PIL cioè altri 3,5 miliardi, nel caso in cui il primo blocco di misure si dimostrassero tali – come capitato sempre, sin qui – da fallire l’obiettivo. La Grecia ha puntato i piedi contro i tagli automatici, e per ora il pacchetto votato domenica scorsa dal parlamento greco non è lontano – sulla carta – dagli obiettivi richiesti solo per la prima tranche. Si tratta di un 1% di Pil da maggiori tasse sul reddito, un altro 1% dall’aumento dell’IVA al 24%, e infine un altro punto di PIL da interventi sulle pensioni. Quel che ancora non piace ai rigoristi è che la soglia di esenzione dall’IRPEF resta ancora tropo alta: era a 9600 euro cioè più alta che in Germania e Italia, e anche dopo il taglio a poco meno di 9100 euro resta tale. Resta aperta la trattativa sui tagli automatici, e su questo l’Eurogruppo si aspetta una risposta già entro giovedì. Un capitolo a parte è quello sulla riduzione dei crediti deteriorati e del risanamento delle 4 maggiori banche elleniche. In 3 anni, gli istituti di credito greci hanno visto scendere i depositi da quasi 250 miliardi a circa 130, e ancora a febbraio sono scesi di altri 5-600 milioni.

Ma il punto vero della trattativa, su cui fin dall’inizio ha puntato Tsipras, è il terzo: la riduzione del debito. Tsipras ha posto la questione sin dalla sua prima elezione a premier ma in maniera pragmatica, giocando sul tempo e contando sul fatto che negli anni la Ue dovrà arrendersi alla sua inevitabilità. Mentre Varoufakis ne aveva fatto una richiesta “tutto e subito”, ed è finito a fare il conferenziere internazionale, sostituito da Tsakalotos al ministero delle Finanze, pur sempre un marxista ma proprio per questo più realista e duttile, rispetto all’antagonista rigido per definizione.

Dijsselbloem, il capo dell’Eurogruppo, ha ribadito ieri che i ministri delle Finanze europei sono d’accordo per escludere assolutamente il taglio nominale del debito. Ma la discussione il 24 maggio ci sarà comunque, per valutare almeno ulteriori aumenti delle scadenze e aggiuntive riduzioni dei tassi d’interesse. Su questo tema, l’atteggiamento del governo greco è stato autolesionista. Da anni il Fmi si batte per una ristrutturazione sostanziale del debito greco. E ha mille volte ragione: credere che per 20 anni la Grecia sia capace di produrre avanzi primari annuali pari ad almeno il 3,5% del PIl è lunare, soprattutto nelle condizioni di bassa crescita reale europea che restano di fronte a noi nell’orizzonte previsivo attuale, per anni e anni. Tanto vale, afferma il FMI da 2 anni a questa parte, fare un bis della ristrutturazione sostanziale che alla Grecia fu concessa nel 2012, fino al 50-60% del valore facciale del debito sovrano ma per la sola componente allora detenuta da banche e creditori privati (chi sostiene che le banche di Francia e Germania rientrarono dall’esposizione greca, dimenticano questo piccolo particolare..)

Attualmente i creditori della Grecia sono però in larghissima misura pubblici. Atene deve oggi circa  53 miliardi ai paesi membri della Ue, con prestiti bilaterali della maturità media trentennale; poi 131 miliardi all’EFSF europeo con scadenza a 32 anni e mezzo, e altri 21,5 miliardi all’ESM, sempre europeo e con pari scadenza; infine 14,3 miliardi al FMI a scadenza tra i 3 e i 10 anni. L’interesse pagato sul debito è pari a una media annuale tra il 2 e il 3,5% del PIL, sempre che il PIL non cada ulteriormente ma ricresca. La minor scadenza dei debiti contratti col Fondo Monetario spiega perché il Fmi non creda sostenibile il debito greco. Ma, invece di tenersi buono il Fondo che rimprovera ai tedeschi l’opposizione alla ristrutturazione del debito, il governo di Atene due settimane fa ha frontalmente accusato il Fondo di voler strangolare la Grecia: perché l’idea dei tagli automatici come scudo di garanzia  è nata proprio a Washington, sperando che Atene dicesse no e che la Germania capisse che non c’è alternativa a un taglio ulteriore del debito.

Il problema fondamentale è sempre lo stesso: la Merkel non può dire al suo partito che si condona una parte del debito ad Atene, perché sarebbero punti elettorali guadagnati dai nazionalisti di AFD, e in primis la CSU e Schaueble sono contrarissimi. Bisognerà aspettare che cosa votano i britannici nel referendum del 23 giugno, e poi riaprire il negoziato coi greci. Perché un punto a me almeno apre chiaro. La tumultuosa e drammatica vicenda greca avrebbe dovuto farci capire da anni che occorrono regole precise per ristrutturare i debiti sovrani. Ripeto:  meglio regole chiare, per consentire emergenzialmente ristrutturazioni almeno secondo princìpi e procedure definiti, che suscitare ogni volta lo tsunami dei mercati.

 

 

10
Mag
2016

L’apparenza non inganna ovvero il diritto ad un giudice imparziale

All’inizio di quest’anno il direttore de il Foglio è stato contestato da Magistratura Democratica per aver attribuito frasi errate allo statuto dell’associazione, ad esempio: MD è una “componente del movimento di classe”, che nasce per dare vita a una “giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle loro estreme conseguenze i principî eversivi all’apparato normativo borghese” attraverso “l’interpretazione evolutiva del diritto”. In realtà tali frasi non erano contenute nello statuto, ma in un vecchio documento di MD datato 1971. MD ribatteva, inoltre, rassicurando che “la separazione dei poteri e l’indipendenza della giurisdizione sono tra le cose che più ci stanno a cuore”. Riportiamo direttamente dal sito di MD un esempio di comunicato degli anni recenti e precisamente del 2012, riguardante una legge entrata in vigore quell’anno, la cd. Legge Fornero. Con l’uso del grassetto evidenziamo alcuni passaggi.

RAVENNASi è svolto venerdì e sabato 27-28 settembre 2012 a Ravenna il V seminario promosso dal gruppo lavoro di MD sulla riforma Fornero. Sono stati due giorni di riflessione attenta e di intenso dibattito, che sono serviti a mettere a fuoco come questa legge costituisca l’ultimo anello di un processo di destrutturazione unidirezionale delle regole del lavoro che negli ultimi 20 anni hanno portato ad impoverire sempre di più le persone, sia sul piano della dignità sia sul piano economico. La riforma è stata analizzata sotto il profilo formaleattraverso l’analisi delle norme che, demolendo l’articolo 18, costruiscono plurime sotto fattispecie che rimettono nelle mani del datore di lavoro la scelta del fatto da contestare, dalla cui manifesta insussistenza dipende la possibilità di accedere alla reintegra;  e sotto il profilo sostanziale, mettendosi in rilievo come essa –  attraverso un abnorme ed apparente dilatazione dei poteri  discrezionali del giudice –  miri in realtà ad attuare un aggravamento della condizione di sottomissione insita nel rapporto di lavoro, restituendola ai livelli di ricattabilità esistenti nel periodo pre-Statuto dei lavoratori ( …”non mi piaci, ti pago e te ne vai”…).  (…) Si è sottolineato come la riforma costituisca il riflesso dello scarso valore sociale oggi assunto dal lavoro e come sia indifferibile ripensare ad un nuovo diritto del lavoro che, tenendo conto delle esigenze dell’economia, riesca a riportare il punto di equilibrio delle tutele sulla linea del secondo comma dell’articolo 41 Cost. Questo compito, primariamente spettante alla politica e al sindacato, potrebbe accompagnarsi ad uno sforzo interpretativo della giurisprudenza che porti a valorizzare la dipendenza economica ed a ricondurre al lavoro subordinato le numerose figure atipiche oggi esistenti, sostanzialmente non ridotte dalla riforma. Le relazioni hanno sottolineato l’irrazionalità di un nuovo rito per i processi di impugnativa dei licenziamenti che, immutati gli organici e le forze, sarà fonte di ulteriori disuguaglianze dal punto di vista dei lavoratori. Nel corso dei lavori è stato ricordato pure che sono stati già depositati i quesiti referendari per l’abrogazione delle norme più regressive di questa legge; sul punto il Gruppo lavoro chiede  che Magistratura Democratica voglia prendere pubblica posizione sostenendo l’iniziativa referendaria, anche allo scopo di promuovere un largo coinvolgimento dei cittadini nella discussione sui veri contenuti di questa normativa, oscurati in nome di un pensiero unico dominante che oramai tutto conforma all’insegna del primato della economia e dei mercati, ribaltando nei fatti il precetto che promana dall’art. 41, 2 comma della nostra Costituzione”.

Siamo obbligati a fidarci dei giudici. E per questo non dobbiamo sapere cosa pensano delle leggi che devono interpretare e applicare. “(…) Perché nell’esercizio della loro funzione essi devono non solo essere, ma anche apparire come terzi imparziali”. Noi cittadini dobbiamo essere sicuri che i magistrati siano imparziali, per questo lo devono apparire. L’apparire imparziale di un giudice è il biglietto da visita della certezza di essere giudicati in modo imparziale. Chi ha scritto quel documento appare imparziale? Si può essere sicuri della sua imparzialità? Quei giudici ci appaiono davvero come “soggetti soltanto alla legge (art. 101 Cost.)?

“Con questo non si vuole dire né che i magistrati non debbano avere un pensiero politico, né che i comportamenti dei magistrati che fanno politica sono necessariamente ingiusti: laddove il giudice politicizzato persegue e punisce chi deve esserlo non vi è prevaricazione né ingiustizia. Si vuol dire soltanto che la politicizzazione può condurre ad una giustizia a senso unico, e cioè a una distorsione della funzione (Aldo Maria Sandulli, Corriere della Sera, 27 luglio 1981 da “Un giurista per la democrazia“ Ed.Jovene ).

8
Mag
2016

Prescrizioni: numeri ed esame comparato con altri ordinamenti danno torto all’ANM

Domani il ministro della Giustizia Andrea Orlando incontrerà il vicepresidente del CSM Giovanni Legnini per chiarire come l’organo di autogoverno della magistratura intenda occuparsi delle dichiarazioni del membro togato Pergiorgio Morosini contro l’esecutivo, e soprattutto che provvedimenti intenda adottare per impedire esternazioni politiche future. Intanto, ieri, il ministro Orlando ha tenuto una conferenza stampa sul tema delle prescrizioni nei procedimenti penali, un cavallo di battaglia della magistratura associata che ne chiede un drastico allungamento.

Diamo atto al ministro di aver ribadito ciò che ai magistrati non piace, e cioè che le prescrizioni dipendono “anche” da problemi organizzativi e incapacità dei capi degli uffici giudiziari. Ma ha innanzitutto sposato la tesi cara ai magistrati, e cioè che le prescrizioni sono in grande aumento. E che, prima dell’organizzazione degli uffici giudiziari, esiste evidentemente un problema di norme da cambiare. Al contrario, è l’esame comparato dei numeri che ha dato a mostrare l’esatto opposto.

Iniziamo dai dati. L’allarme è giustificato? A guardarli bene, la risposta è no. Le prescrizioni sono aumentate da 113.671 nel 2012, a 132.296 nel 2014. E sarebbero in ulteriore aumento nel primo semestre 2015. Ma se guardiamo al decennio, le prescrizioni erano scese costantemente: da 213mila nel 2004 a 128mila nel 2011. La tesi secondo cui sarebbe la berlusconiana riforma Cirielli alla base dell’aumento 2012-2014 si commenta da sola: la riforma è del 2005, e nei 7 anni successivi le prescrizioni erano diminuite del 27%, scendendo a 113mila unità. Il ministro è allarmato perché la prescrizione è tornata al 9,48% dei procedimenti penali: ma il motivo è che è diminuito il numero di procedimenti definiti ogni anno con sentenza o archiviazione, da 150mila nel 2010 a 139mila nel 2014.

Ricordiamo in che cosa è consistita, la famigerata riforma Cirielli odiata dai magistrati. Mentre prima esisteva un termine di prescrizione base per fasce di reati (uguale per esempio per tutti i reati a cui dovesse essere applicata una pena tra i 5 e i 10 anni), con le norme introdotte nel 2005 il termine deve corrispondere al limite massimo della pena edittale prevista per il singolo tipo di reato. Si è poi ridotto dalla metà a un quarto l’aumento della prescrizione che ricorre per le varie interruzioni (per esempio dopo la sentenza di primo grado). Il risultato complessivo è che mentre per i reati gravi che hanno pene elevatissime (come quelli di droga) la prescrizione è diventata lunghissima, è stata invece ridotta per la maggior parte degli altri illeciti penali. Esempi: la ricettazione è passata da 15 a 10 anni; la calunnia e la falsa testimonianza da 15 a 7 anni e mezzo. Tale soglia bassa era condivisa allora anche dai reati di corruzione, tuttavia la legge Severino ha allungato i termini, aumentando le pene. Ma per i magistrati in caso di reati contro la PA o per reati d’impresa la prescrizione minima deve passare da 10 ad almeno 20 anni, se non più. E la domanda diventa: non bastano 10 anni per un giusto processo, con il massacro mediatico-giudiziario oggi praticato per questo tipo di reati? Che cosa resta dopo 21 anni, di un imputato eventualmente assolto?

L’argomento opposto da molti magistrati  è che in altri ordinamenti la prescrizione non funziona affatto come da noi. Verissimo. Ma quel che ai magistrati italiani non piace sentirsi dire è che in quei paesi l’ordinamento giudiziario è totalmente diverso dal nostro. E’ verissimo che in Francia i termini di prescrizione di 10 anni per i delitti più gravi possono essere interrotti da qualunque atto d’istruzione e azione giudiziaria, o che nel Regno Unito la prescrizione esiste solo per i reati più brevi. Ma ci si dimentica di che in nessuno di quei paesi esiste l’equivalente della nostra (ipocrita) obbligatorietà dell’azione penale affidata a una magistratura totalmente indipendente. In Francia l’accusa è sottoposta al ministro di Giustizia che elabora le priorità penali da perseguire. Nel Regno Unito è il giudice, non l’accusa, che valuta per qualunque reato l’interesse pubblico all’azione penale. In Germania per i reati commessi da membri del parlamento e delle assemblee dei Laender la prescrizione scatta dall’inizio dell’azione penale e non dal compimento del reato, mai magistrati delle procure sono sottoposti all’esecutivo.

Tra i dati diffusi ieri dal ministro Orlando, bisogna riflettere soprattutto su due aspetti. Il primo comprova che ancora nel 2014 oltre il 56% delle prescrizioni matura nella fase predibattimentale, di cui il dominus è il Pm e il GIP: ergo è ben difficile sostenere che il più delle prescrizioni dipenda da artifici degli imputati e avvocati per difendersi “dal” processo contando sulla prescrizione, visto che essa scatta quando ancora non sono rinviati a giudizio. Il secondo è che le percentuali di prescrizioni variano in maniera impressionante: nella fase predibattimentale si va dallo 0,1% di Pordenone al 40% di Torino; In Corte d’Appello si passa dal 2% di Trento al 40% di Napoli. E’ la miglior dimostrazione che il CSM dovrebbe darsi molto da fare per redistribuire gli organici e impartire istruzioni direttive precise ai capi degli uffici su come smaltire il carico degli arretrati: tutto ciò dipende da problemi organizzativi, non dalle leggi vigenti da cambiare.

Ma il braccio di ferro tra governo, infiacchito da indagini clamorose a raffica nel Pd, e magistratura all’attacco prevede che, con ogni probabilità, si accetteranno invece buona parte delle richieste dei magistrati: sull’allungamento sostanziale della prescrizione relativa a reati come quelli contro la PA e i reati societari, più un aumento della prescrizione in relazione ai diversi gradi di giudizio. Quando invece misure di questo tipo avrebbero senso solo nell’ambito di una revisione complessiva delle norme ordinamentali, rendendo coerente l’articolo 112 della Costituzione – l’obbligatorietà dell’azione penale – con l’articolo 111- la ragionevole durata di un giusto processo. E cioè toccando con forza non solo il regime delle impugnative da parte dell’accusa in caso di sentenze assolutorie, oltre al regime delle notifiche e a quello delle nullità. Ma anche quanto meno la separazione delle carriere, e l’indicazione di criteri generali in ordine ai reati da perseguire, che non ha affatto bisogno di una modifica dell’articolo 112 della Costituzione per essere possibile. C’è invece da scommettere che niente di tutto questo avverrà. E si continuerà magari ad additare l’esempio degli Stati Uniti, dimenticando che in quel paese neanche il 10% dei rinviati a giudizio va in dibattimento, oppure che nel Regno Unito per chi si dichiara subito colpevole si esclude ogni azione probatoria, e si passa subito a una condanna che niente ha a che vedere coi massimi edittali di pena previsti in Italia, in continuo aumento.

7
Mag
2016

Expo 2015: è tutto ‘indotto’ quel che luccica?

E’ stata presentata nei giorni scorsi un’interessante ricerca condotta da SDA Bocconi per la Camera di commercio di Milano ed Expo 2015 S.p.A. sugli effetti economici di Expo 2015. Si tratta della versione aggiornata di una precedente ricerca condotta nel 2014, prima che l’evento fosse realizzato. Qui si può leggere la sintesi della ricerca e qui invece la presentazione, illustrata nel convegno del 5 maggio e commentata  dal ministro dell’Economia e delle Finanze Padoan, dal presidente della Camera di Commercio Sangalli, dal sindaco di Milano Pisapia, dal ministro del Mipaf Martina e dal vicepresidente della Regione Lombardia Fabrizio Sala. Read More

4
Mag
2016

Thumbtack: un’azienda per il mercato

Pochi giorni fa ho avuto un problema con le carrucole dello stendino di casa. Essendo io piuttosto impedito, ho pensato di chiamare qualcuno a risolvere il problema. Sarebbe stato molto utile avere a disposizione un sito come quello di Thumbtack, un’azienda con sede a San Francisco. Ma purtroppo in Italia non l’abbiamo.

L’attività principale di Thumbtack consiste in una piattaforma che collega domanda e offerta per tutti quei “servizi locali” che non sono medicina o servizi legali: giardinieri, meccanici, idraulici, pasticceri, insegnanti di pianoforte, imbianchini, fotografi, e chi più ne ha più ne metta.

Oltre a collegare domanda e offerta, Thumbtack si occupa anche di incrociare le informazioni in modo tale da mostrare all’utente quei servizi a cui potrebbe essere interessato, sulla base delle decisioni di spesa passate e delle visite sul sito di altri servizi. Ai fornitori (giardinieri, meccanici, idraulici, insegnanti di pianoforte ecc.) offrono servizi su misura di vario tipo, dalla calendarizzazione degli appuntamenti al marketing.

In sostanza, Thumbtack da un lato si fa carico di alcuni costi di gestione dei fornitori (la calendarizzazione né è un esempio) e, dall’altro, soprattutto, riduce gran parte dei cosiddetti costi di transazione, facilitando di molto l’incontro tra domanda e offerta.

I costi di transazione, insiti in ogni tipo di attività economica (per esempio quei costi, in termini di tempo e denaro, per organizzare e definire un accordo, costi di ricerca di informazioni riguardanti il mercato ed i suoi agenti, costi per far rispettare gli accordi e i contratti una volta che questi siano stati stipulati), sono analizzati e spiegati da Ronald Coase, premio Nobel per l’economia nel 1991, nel suo classico The Nature of the Firm, la cui traduzione è inclusa nel libro dell’Istituto Bruno Leoni Tra Stato e Mercato a cura di Pulitini (IBL sta per pubblicare una raccolta di 15 saggi di Coase – Sull’economia e gli economisti – in cui vengono prese in esame le teorie di alcuni economisti, tra cui Smith, Marshall e Stigler, mostrando tra l’altro i loro contributi specifici per chi disegna politiche pubbliche). In The Nature of the Firm egli si propone di colmare una discrepanza osservata nelle assunzioni degli economisti riguardo l’allocazione delle risorse e gli strumenti di coordinamento; talvolta lo strumento principale viene assunto essere il meccanismo dei prezzi, altre volte si assume che gli imprenditori siano i principali “mezzi” di coordinamento, ma non si spiega quali sono le condizioni a determinare l’una o l’altra scelta. Coase spiega che se non esistessero i costi di transazione, semplificando ed estremizzando, ciascuno lavorerebbe per conto suo ad una parte dei beni o dei servizi finali e alla fine scambierebbe la propria merce con il mercato. Dal momento che tali costi esistono, talvolta interviene l’imprenditore, e quindi l’impresa, a internalizzarli in modo tale che il processo di allocazione delle risorse ne risulti più efficiente.

E’ difficile credere che per una famiglia sia una scelta efficiente internalizzare i costi di transazione per tutti i servizi offerti da Thumbtack. O almeno è difficile crederlo per la stragrande maggioranza delle famiglie. Ciò significherebbe avere alle proprie dipendenze un giardiniere, un meccanico, un idraulico, un insegnante di pianoforte ecc. Thumbtack ha creato un prodotto tale per cui dal lato della domanda non è necessario assumere nessuno per limitare al minimo i costi di transazione mentre dal lato dell’offerta non ci si deve far carico di molte attività (come la pubblicità) necessarie a portare avanti nel migliore dei modi il proprio core business.

Non accadrà domani, ma l’ipotesi è quella di un mercato nel quale domanda e offerta si incontrano senza bisogno che internalizzino tutta una serie di costi, e se ne fanno carico semplicemente corrispondendo un prezzo a una terza parte. L’innovazione tecnologica e l’inventiva imprenditoriale, in questo come in altri casi (si pensi alla sharing economy o alle app tramite cui oggi prenotiamo alberghi, ristoranti, viaggi), stanno riducendo molto i costi di transazione indirizzandoci verso un mondo in cui l’assunzione degli economisti secondo cui il meccanismo dei prezzi è il principale strumento di coordinamento sarà sempre più utile a spiegare la realtà. Stati permettendo, ça va sans dire.

@paolobelardinel

3
Mag
2016

Chi protegge i consumatori digitali?

Diceva Milton Friedman che spesso le persone chiedono ai governi di proteggere i consumatori, mentre un problema molto più urgente sarebbe proteggere i consumatori dai governi. Specialmente in Europa, la protezione dei consumatori è uno dei capisaldi della (supposta) tutela dei più deboli dai soprusi del mercato.

Interminabili procedure autorizzative, licenze, ordini professionali, autorità indipendenti, oscure normative tecniche su metodi e standard produttivi, garanzie obbligatorie, atti notarili sono tutte facce della stessa medaglia: proteggere l’agnellino consumatore dal lupo capitalista.

La giustificazione, dietro alla montagna di tempo, energie e risorse destinate alla ‘protezione’ del consumatore, è la sua (presunta) ignoranza. La visione dominante è che non tutti siano in grado di comprendere le caratteristiche di un prodotto o di un servizio, e pertanto sia compito del governo farlo per loro, aiutandoli a identificare quei produttori e fornitori che rispettano sufficienti standard di qualità e sicurezza. Né del resto – si dice – il mercato avrebbe ragione di pensarci da sé: il costo necessario a testare, identificare, interpretare e comunicare ai consumatori le caratteristiche di beni e servizi sarebbe di gran lunga superiore al conseguente ritorno economico. Trattasi, insomma, di un fallimento del mercato, cui i governi sono tenuti a porre rimedio.

A ben vedere, la storia è piena di esempi in cui i mercati, quando non asfissiati da regole bizantine, ovviassero al problema, generando meccanismi di assicurazione e facendo dell’informazione una vera e propria commodity. Giornali specialistici, gossip, pubblicità e passaparola hanno contribuito egregiamente a formare la ‘reputazione’ di prodotti, servizi e operatori economici, e così a orientare le scelte dei consumatori. Ci sono, poi, servizi in cui produttori e consumatori interagiscono raramente, ed è pertanto più difficile che si formi una reputazione: si pensi ai medici o agli avvocati divorzisti. L’esistenza di intermediari che facciano da ‘ponti di fiducia’ tra consumatore e produttore, come consorzi e studi legali affermati, altro non è che una risposta a quella domanda di ‘garanzie’.

Nel tempo, questa serie di funzioni è stata via via assorbita dai governi, su pressione delle diverse categorie professionali coinvolte. È interessante e abbastanza emblematico come la richiesta di tutela pubblica sia arrivata quasi sempre da rappresentanti dell’offerta del prodotto o servizio in questione, e non dai consumatori. Basta un filo di logica, infatti, per capire che la stragrandissima maggioranza delle tutele potrebbe benissimo reggersi su un sistema di certificazione facoltativo: chi lo desidera ottiene il bollino governativo, chi non lo desidera può operare sul mercato ugualmente, a parità di condizioni. E invece no: la tutela si è spesso tramutata nel monopolio pubblico della scelta di chi può lavorare e chi no.

Negli ultimi anni, tuttavia, il paradigma sta entrando in crisi. Non certo per la forza contrattuale dei consumatori, sempre troppo diluita per avere la meglio sull’aggressività delle corporazioni organizzate. Ma grazie a un alleato silenzioso: internet. La possibilità di scambiare quasi gratis e in tempo reale informazioni, opinioni, desideri ed esperienze letteralmente su qualsiasi cosa ha creato, piano piano, un patrimonio di conoscenza sulla bontà di prodotti e servizi inevitabilmente più completo, preciso e aggiornato di qualsiasi agenzia o sistema di certificazione. Jimmy Wales ha fondato Wikipedia sulla base del pensiero sulla conoscenza diffusa di Hayek, ma è internet, più in generale, ad essere un prodotto 100% hayekiano.

Il web non ha creato solo un patrimonio inestimabile e prima inimmaginabile di informazioni su prodotti e servizi. Ha anche trovato il modo di ovviare al problema della reputazione, per rendere possibili e sicuri gli scambi a distanza. Agli inizi, eBay chiedeva alle persone di ‘valutare’ le controparti delle loro transazioni: rendendo pubbliche queste valutazioni, gli utenti potevano così farsi un’idea dell’affidabilità di tutti gli altri. Oggi, i sistemi di creazione della reputazione sono alla base di molti dei giganti del web, da Amazon a Uber. Per completare l’opera, internet sta pian piano iniziando a erodere, come onde sugli scogli, le terze parti, a partire da banche e notai. La blockchain – la tecnologia che sostiene bitcoin – si sta rivelando incredibilmente efficace e sicura nel vagliare la legittimità di scambi di denaro, pur in assenza di un ente centrale che metta il bollino (intascandosi il costo della transazione). Miracoli dell’intelligenza distribuita e della cooperazione volontaria.

Le nuove generazioni sono sempre più intolleranti ai mostri burocratici che i loro genitori, negli ultimi quarant’anni, hanno messo in piedi per ‘proteggerli’. I consumatori digitali si sentono sempre più protetti dalla tecnologia, e sempre meno dai parlamenti. Una ragione in più per tutelare l’autonomia di internet dall’ingerenza della politica: probabilmente, se fosse ancora tra noi, Milton Friedman aggiornerebbe il suo aforisma: oggi, per proprietà transitiva, difendere l’indipendenza di internet significa sempre di più tutelare i consumatori.

Twitter: @glmannheimer

1
Mag
2016

Spending review e project review: soluzioni senza convinzioni—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

“This is a Budget that gets investors investing, savers saving, businesses doing business; so that we build for working people a low tax, enterprise Britain; secure at home, strong in the world. I commend to the House a Budget that puts the next generation first.” Sono queste le ispirate e convinte parole, sintesi del manifesto ideale – politico che concludono il discorso di George Osborne, attuale Cancelliere dello scacchiere britannico (il nostro ministro delle finanze) e che motivano il suo programma quinquennale di spending review presentato lo scorso marzo che ha come obiettivo portare il debito pubblico inglese al 36% del PIL nel 2020 (www.gov.uk, The Budget speech in full).

Il discorso ed il documento cartaceo è rinchiuso dall’epoca di William Ewart Gladstone nella red box più famosa di tutte, il budget box, elegante 24 ore di pelle rossa. L’idea forte fortissima di George Osborne e del Governo che rappresenta è quella dell’Enabling State cioè l’idea che lo stato principalmente e preliminarmente autorizza e delega i cittadini a dispiegare innanzitutto le proprie capacità e risorse nella sfera economico sociale. Ed è questa la convinzione forte e liberale di “Stato sussidiario” rispetto alla primaria azione dei cittadini che anima e sta alla base delle scelte di spending review proposte. Read More