31
Mag
2016

Scuola: 13% di addetti con permessi ex lege 104, solo 1,5% nel privato. Ora basta

Bisogna dare atto al governo di esser stato di parola.  Poco dopo il suo insediamento, nel quadro delle misure di ricognizione dei dati della Pubblica amministrazione, aveva annunciato anche l’interpello all’intero sistema scolastico sull’utilizzo della legge 104 del 1992, quella che consente ai lavoratori dipendenti tre giorni di permesso retribuito al mese per assistere congiunti portatori di handicap e malati gravi. II governo ha mantenuto l’impegno. Anche le scuole di ogni ordine e grado sono state dunque sottoposte – come il resto della PA – all’obbligo di comunicazione annuale dei nominativi di chi beneficia dei permessi, dell’assistito e del rapporto di parentela, oltre che del contingente complessivo di giorni e ore di permesso fruiti da ciascun lavoratore nel corso dell’anno in ciascun mese. In teoria l’obbligo vigeva da anni, ribadito dalla legge 183 del 2010 all’articolo 24, ma era rimasto per i più solo sulla carta.

I sindacati della scuola hanno protestato sin dall’inizio, parlando di accanimento contro i diritti dei lavoratori. Ma ora che conosciamo i risultati della ricognizione quelle proteste appaiono del tutto ingiustificate. A fronte dell’1,5% di lavoratori del settore privato che beneficiano della 104, il personale di ruolo della scuola italiana a goderne è invece il 13%, che arriva al 17% nel personate ATA cioè tecnico-amministrativo. Il divario tra le regioni è fortissimo: si va dall’8.9% del Piemonte e al 9,7% del Veneto al 16,3% del Lazio, al 16,7% in Sicilia fino al 18,9% in Sardegna. Tra il personale ATA, vi sono regioni come Umbria e Lazio in cui i benefici della 104 sono riconosciuti a un lavoratore su 4, mentre in Piemonte sono meno di 1 su 8.

Si tratta di percentuali talmente multiple rispetto a quelle del lavoro privato, e talmente disomogenee per regione rispetto agli indici di patologie gravi e disabilità sul totale della popolazione, da rendere purtroppo più che legittimo e fondato un elevato sospetto. Basti il fatto che tra i supplenti la percentuale scende al 5%: ora è vero che sono più giovani, in media, rispetto agli insegnanti di ruolo, ma non poi così giovanissimi – visti i decenni di precariato alle spalle, per cui ne è stata decisa dal governo la massiccia regolarizzazione – da giustificare un indice inferiore di quasi sette decimi a quello di chi è in ruolo.

A questo punto, una ovvia precisazione. Non intendo minimamente negare la piena fondatezza di una legge e di un diritto che sono nati prendendo atto delle insufficienze della sanità e del welfare pubblico, rispetto ai carichi gravosi lasciati sulle famiglie in caso di serie disabilità e patologie. Ma i dati indicano una cosa con chiarezza, a chiunque abbia un minimo di senso della giustizia ed equità.  Bisogna farla finita con i furbi, quindi bisogna rivedere e potenziare i controlli. Proprio per distinguere chi ha pieno diritto a dover alleviare le proprie sofferenze in famiglia, da chi invece ne approfitta bassamente per lavorare meno. Non è possibile  accettare un mondo del lavoro in cui il privato segue regole rigorose, e il pubblico concepisce e attua invece la 104 come se garantisse un minor carico di lavoro rispetto a quello contrattuale, a spese del sistema sanitario nazionale chiamato a rifondere all’INPS le somme che esso anticipa.

Fino a oggi l’andazzo è stato troppo tollerato. Ieri, ai microfoni della trasmissione che conduco a radio24, il vicepresidente dell’associazione nazionale presidi Mario Rusconi ha raccontato di quando, denunciata da parte sua alla procura un’insegnante che fruiva di ben tre permessi ex lege 104 e che era risultata non averne diritto alle verifiche disposte, dopo il licenziamento per giusta causa disposto dall’amministrazione scolastica il giudice aveva invece deciso per la reintegra. Un chiaro segnale a tutti i dirigenti scolastici: fatevi i fatti vostri.

Un tale atteggiamento di compiacenza deve sparire. Perciò bisogna rimettere mano ai controlli. Le sentenze della Corte di Cassazione accumulatesi negli ultimi anni ne hanno già posto le basi. L’abuso della 104 può avvenire sia violando i requisiti delle patologie e disabilità previste dalla legge per i soggetti da assistere, sia l’oggettività del rapporto che solo eccezionalmente può essere esteso ai parenti di terzo grado, sia se al posto dell’effettiva assistenza nelle ore di permesso ci si dedica a diverse attività private o lavorative. A seconda della gravità delle violazioni, le sanzioni disciplinari pubbliche arrivano sino al licenziamento per giusta causa. E in quel caso si possono configurare anche le aggravanti della truffa e del danno erariale. La Cassazione ha legittimato anche il cosiddetto “controllo occulto difensivo”, respingendo le impugnative di lavoratori licenziati a seguito del ricorso da parte dei datori di lavoro a investigatori privati, per accertare l’effettivo comportamento dei dipendenti durante i permessi accordati secondo la legge 104. E alle sanzioni disciplinari pubbliche si accompagnano quelle INPS, con il recupero delle somme erogate.

Esiste senza dubbio un problema di potenziamento del personale da destinare ai controlli, sia nell’ambito del servizio sanitario nazionale sia nell’INPS.  Oggi, per poter chiedere di avvalersi della 104, un lavoratore dipendente deve aver ottenuto da una commissione medica incaricata il riconoscimento per il familiare da assistere di soggetto portatore dell’handicap e patologie indicate dalla legge. Se ne occupa una commissione in ogni Asl preposta all’accertamento. Per essere effettivi, i controlli dovrebbero sempre essere effettuati da una Asl diversa da quella di origine, in maniera che non debba giudicare se stesso chi ha eventualmente certificato abusi magari lucrando, perché oltre ai permessi 104 ha acconsentito anche ad assegni di accompagnamento o a una pensione sociale minima. E qui si aggiunge un problema del tutto analogo al riconoscimento delle invalidità ai fini previdenziali: c’è un lungo contenzioso tecnico tra i medici INPS inseriti nelle commissioni Asl e viceversa, senza la cui soluzione i controlli restano in buona parte inefficaci.

Due considerazioni finali. Il problema non riguarda affatto solo la scuola. In moltissime società controllate pubbliche i beneficiari della 104 sono molto superiori al 13% del sistema scolastico. All’AMA di Roma 2 anni fa scoppiò lo scandalo alla notizia che la percentuale raggiungeva quasi il 25%. E l’anno scorso la società ha licenziato i primi due dipendenti beccati dai controlli a fare shopping ed esercizi in palestra, invece di assistere i parenti disabili. Ma due rondini sole non fanno primavera..

Infine, c’è una vera e propria idea sballata di fondo, da svellere. Quella che aver tenuto gli occhi chiusi su questi fenomeni fosse un modo per equilibrare il fatto che al settore pubblico si riservassero blocco del turnover ergo anche invecchiamento medio dei dipendenti – i nostri insegnanti sono i più anziani tra tutti i paesi OCSE – e blocco dei contratti. E’ un’idea inaccettabile. Ora che anche lo Stato dichiara di tornare a nuovi contratti e, speriamo, si avvia a offrire salari di merito davvero capaci di premiare risultati e impegno, a maggior ragione non si può chiedere ai dipendenti privati di tollerare un simile lassismo pubblico.

 

30
Mag
2016

Esselunga, dal benestante al fuori sede – di Michele Pisano

Perché il fenomeno targato Caprotti piace a molti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Michele Pisano.

Di Esselunga i giornali hanno parlato di recente soprattutto per una causa civile, che – senza entrare nel dettaglio degli aspetti giudiziari – ruotava attorno alle quote di Supermarkets Italiani s.p.a., la holding che controlla Esselunga, e ha coinvolto la famiglia Caprotti, padre e figli, con Bernardo vincitore in appello.

Questi aspetti tuttavia non hanno affatto minato la costante forza del gruppo Esselunga a Milano, e in altre parti d’Italia, in cui c’è grande ammirazione per la società fondata da Bernardo Caprotti.

Un gruppo fortissimo, che negli ultimi anni ha segnato numeri più che positivi: nel 2014 un utile di 212 milioni e vendite per 7 miliardi, con una crescita dello 0,8 per cento e nuove assunzioni in cantiere. Nel 2015 invece l’utile è cresciuto del 37 per cento, arrivando a 290 milioni di euro. Anche le vendite sono cresciute, del 4,3 per cento, pari a 7,3 miliardi, addirittura più del mercato di riferimento che registra una crescita al 2,8. Gli investimenti sono stati di 400 milioni: Esselunga negli ultimi cinque anni ha investito complessivamente 1,8 miliardi. Read More

27
Mag
2016

“Il radicale inventa le opinioni; quando le ha sperimentate, interviene il conservatore e le adotta” (Mark Twain)

“1997 – 1998, Suicidio o trionfo dell’imprenditore italiano: due secoli dopo” (di Marco Pannella)

Il “Terzo Stato” dell’impresa, della produzione, del lavoro e della scienza; dei non garantiti e delle vittime dello “Stato”; dei “padroni” e dei disoccupati; dei sette milioni di partite IVA, dei cinque milioni e mezzo di imprenditori e dei tre milioni di senza lavoro, degli immigrati e dei nonemigranti, dei cittadini senza diritti. Il “Terzo Stato” italiano c’è e vive in un sistema ed in un regime letteralmente fuorilegge e di fuorilegge, sotto un dominio burocratico ed in condizioni prerivoluzionarie. Sette milioni di “partite IVA”. (..) Quattrocentomila “imprenditori” del NordEst. Stato e leggi che soffocano, corrompono, esasperano, falliscono e fanno fallire. La insostenibile pressione fiscale. Non si può assumere perché non si può licenziare. Non c’è libertà politica se non c’è anche libertà economica, d’impresa, di lavoro. Occorre urgentemente riformare lo Stato sociale, la Previdenza, il regime delle pensioni, lo Stato, le istituzioni. La giustizia non funziona, ci vogliono dieci anni per riscuotere un credito, liberare il solo appartamento che si possiede, esser riconosciuto innocente, veder condannati i colpevoli, i corrotti ed i corruttori. Ci vuole l’Unità europea e italiana, la Secessione, il semipresidenzialismo francese corretto all’italiana, alla neozelandese, alla libanese, al diavolo! Se potessimo assumere part time, a domicilio, a tempo determinato, già da subito tutto cambierebbe. Il Sindacato, i sindacalisti, i burocrati parassitari delle Confederazioni, i “caporali” di categoria e di mestiere, i “distaccati” a vita, le Bicamerali con cucina, e, ogni giorno, ogni ora, tutti i giornali, tutte le televisioni, che ripetono lo stesso disco ossessivo: i tavoli di concertazione, con concertati, concertini e blablabla; e i blablabla sui blablabla dei soliti quacquaraqua; “informano” su tutto, tranne che su ciò che potrebbe davvero informare ciascuno di quel che può fare per realizzare quanto vuole realizzare; tranne che su quanto sarebbe già possibile a ciascuno, ora e su quasi tutto, o almeno su quel che gli conviene e gli interessa. Certo, ci sono i pedofili, gli “albanesi”, i pentiti, gli arrestati, e, a gogo, Prodi e Cofferati, D’Alema e Berlusconi, Bertinotti e Ribertinotti: ma mai le lotte civili, ma mai l’epopea quotidiana o la tragedia di una sola fra le seisette milioni di famiglie di imprenditori, di commercianti, di artigiani, di professionisti onesti, di lavoratori dipendenti che con il sostituto d’imposta ritenuta alla fonte in busta paga lavorano fino al 15 del mese per “lo Stato”, e solo dal 16 per sé e per la propria famiglia. Che noia e che nausea, oltre che sdegno! Un sistema, un regime, un ceto dominante burocratico che non conta nemmeno un milione di membri effettivi, cui tutto è delegato, mentre il popolo soffre, mugugna, si rassegna o smadonna, ma non conta o non fa nulla: se non tornare a votare sempre per gli stessi, o gli stessi “diversi” di nomina del potere; se non continuare ad “arrangiarsi” ben sapendo che non potrà farlo all’infinito, ma facendo come se non lo sapesse. Anche oggi il “Terzo Stato” delle sette milioni di partite IVA; dei cinque milioni e mezzo di “imprenditori”; dei 400 mila “imprenditori del NordEst” e dei 3 milioni di disoccupati… Il “Terzo Stato” dei quaranta milioni su cinquanta di elettori italiani, che vorrebbero il sistema “americano”(..); che rigettano con sdegno il “finanziamento pubblico” dei partiti; che rivendicano libertà economica e diritto di iniziativa; che riformerebbero radicalmente l’amministrazione della giustizia e delle finanze in direzione dello Stato di diritto e del mercato; che sono e sono stati per i diritti civili, laici, libertari, contro i DNA delle due grandi chiese mondane, la cattolica e la comunista, difendendo così anche la fede, la coscienza e la libertà dei credenti e dei cittadini (…)”.

26
Mag
2016

Docce fredde su ripresa ITA, fat tails e risposte sul fisco

Benvenuti nel mondo delle fat tails, cioè delle code lunghe e spesse. E’ un’espressione che si usa nello studio delle correlazioni economiche, per misurare le distribuzioni statistiche. E descrive meglio di tante altre la difficoltà di affidabili previsioni, viste molte delle caratteristiche che ha assunto l’economia mondiale. La riprova la stiamo osservando in Italia.

Solo due settimane fa, l’Istat stimava preliminarmente la crescita del PIL italiano nel primo trimestre a +0,3%: finalmente si interrompeva verso l’alto il decalage che ci aveva visto scendere da +0,4% nel primo trimestre 2015 al lumicino dello +0,1%, alla fine dell’anno scorso. Come nei due trimestri precedenti, la ripresina italiana a inizio 2016 non era più trainata dalla domanda estera, visto che il commercio mondiale è in frenata per via della crisi dei BRICs, ma dalla domanda interna, cioè dalla ripresa dei consumi e da primi barlumi di ripresa degli investimenti. Ciò renderebbe possibile un +1% o poco più di aumento del PIL nel 2016, inferiore alle attese del governo e a quanto crescerà in media la Ue: ma comunque la frenata precedente italiana a inizio 2016 cambiava di segno.

Pochi giorni dopo, i dati dell’osservatorio INPS sui contratti di lavoro nel primo trimestre 2016 rispetto al 2015: una doccia gelata. Nei primi tre mesi dell’anno -162mila contratti a tempo indeterminato rispetto al 2015, -31% le trasformazioni da determinato a indeterminato, e al netto delle trasformazioni tra contratti, una differenza tra attivazioni e cessazioni negativa di -53.339 unità cioè peggiore del primo trimestre 2014, quando non c’era la decontribuzione alle imprese, e con solo il 33,2% dei nuovi contratti a tempo indeterminato mentre nel 2014 era il 36,2%.

Ieri, un’altra grandinata. L’Istat rileva che l’industria italiana a marzo registra la peggior frenata per fatturato dall’estate 2013, con un -3,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. In discesa anche gli ordinativi, del -3,3%. A determinare la caduta la prima frenata da fine 2013 della sin qui tumultuosa crescita a due cifre dell’auto, il vero settore a cui dobbiamo grazie a Marchionne il più della ripresina italiana sin qui. E il crollo di quasi un quarto del fatturato del comparto estrattivo e petrolifero (grazie anche alla bella pensata del referendum anti-trivelle).  Dell’auto, ce lo si poteva aspettare dopo 2 anni di “ripresona”. La cosa più preoccupante è invece rappresenta dal calo del fatturato sul mercato domestico – brutto segno rispetto alla ripresa dei consumi di cui si vedevano i primi segni nel dato trimestrale del PIL – e dalla diminuzione degli ordinativi, insieme sia domestici sia esteri.

Torniamo alle code lunghe. Quando per le previsioni si applicano modelli dinamici di probabilità per calcolarne l’effetto di correlazione, se la distribuzione è più alta nel valore centrale con code lunghe e spesse, più sono lunghe e spesse più cresce la probabilità di osservare valori estremi. Fino a eventi-limite come il famoso “cigno nero”, su cui ha costruito la sua fortuna l’ex trader e ora massimo epistemologo dell’incertezza e della difficoltà delle previsioni economiche di crisi epocali, Nassim Taleb.

A determinare andamenti così apparentemente contraddittori, e per altro dovuti alla correlazione di fattori di crescita ciascuno dei quali è – tranne l’auto – di poco superiore al centesimo di punto, sono infatti fenomeni mondiali che procedono a strappi, e che influenzano allo stesso modo le aspettative e le concrete propensioni delle famiglie e delle imprese italiane. Il saliscendi del prezzo del barile, di nuovo ora verso quota 50 dollari, la tenuta della Cina rispetto all’eventualità di una crisi del suo sistema finanziario dovuto alla fuga di capitali e al credito sotto pressione, l’attesa incerta di nuovi aumenti dei tassi della FED rispetto alla ripresa americana, le notizie settimanali sulla crisi brasiliana, i sussulti europei tra crisi di Schengen, voto austriaco e nuovo compromesso ieri sulla Grecia, ma assecondando il no tedesco a una riduzione del suo debito se non dopo le elezioni tedesche del 2017: sono tutti fattori che ogni giorno si riverberano in un complesso gioco di interazioni negative rispetto alla possibilità di tornare a un vero traino dell’economia italiana da parte dell’export, come avvenne nel 2010-2011,e  dal 2013 fino a metà 2015.

Di conseguenza, la lezione delle “code lunghe” e dell’incertezza è che bisognerebbe concentrarsi “a prescindere” – come diceva il grande Totò – sui fattori abilitanti della crescita del mercato domestico: redditi, consumi e investimenti. Il governo Renzi ritiene di aver dato molte risposte: su Imu e Tasi prima casa, gli 80 euro, gli incentivi per i nuovi contratti, l’Imu e l’Irap agricola, il superammortamento al 140% alle imprese, il credito di imposta al sud. Ma l’incertezza rischia di risospingere verso il basso gli indici di fiducia che, per famiglie e imprese italiane, erano ai massimi in tutto l’OCSE a dicembre 2015. Per contrastarla, è ora tempo non più di bonus discrezionali, limitati nella platea e nel tempo, ma di sgravi fiscali universali e a tempo indeterminato: su IRAP, IRES, IRPEF. Più questi interventi saranno rilevanti, generali e irredimibili, cioè con coperture serie sostenibili nel tempo, più l’effetto sarebbe di dare solidità alla ripresa italiana. Non si può contare in eterno sulla BCE e i suoi interventi, che attualmente sono previsti cessare nel 2017. Perché dal mondo, per quanto si può vedere, l’incertezza rimbalzerà su di noi ancora per lungo tempo. C’è da augurarsi dunque che si abbandoni la via dei bonus, e si pensi a tagli strutturali.

25
Mag
2016

FOIA italiano: sarà vera trasparenza?*

E’ stato definitivamente approvato il c.d. Freedom of Information Act (FOIA) italiano, che riconosce al cittadino il diritto alla richiesta di atti inerenti alle P.A., a qualunque fine e senza necessità di motivazioni, e aggiunge alla preesistente disclosure di tipo “proattivo”, ossia realizzata mediante la pubblicazione obbligatoria dei dati e delle notizie indicati dalla legge sui siti web delle amministrazioni, una trasparenza di tipo “reattivo”, cioè in risposta alle istanze di conoscenza avanzate dagli interessati. Il provvedimento ha lo scopo “di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”. Al di là delle buone intenzioni con cui è stata lastricata la strada verso la trasparenza, occorre valutare se la disciplina varata consenta realmente di concretizzarle. Read More

24
Mag
2016

Una moneta più sana con le cripto-valute

Negli ultimi mesi ho iniziato a studiare le potenzialità della tecnologia a registro distribuito che consente l’esistenza delle cripto-valute. Trovandomi recentemente in una discussione riguardante bitcoin, mi sono accorto di un fenomeno. Mentre sulle cripto-valute molti hanno chiari i rischi connessi, sono comprensibilmente guardinghi nell’utilizzarle e nell’immaginare una loro diffusione di massa, ho incontrato – al di fuori dei circoli libertarian – molta meno consapevolezza riguardo l’attuale sistema monetario basato su cartamoneta inconvertibile e delle sue conseguenze nel lungo termine.

Tante persone hanno spiegato meglio di me i danni causati dal potere concentrato nella banca centrale di espandere artificialmente l’offerta di moneta per stimolare l’economia. Con questo post vorrei elencarne i principali – invito il lettore ad aggiungere eventuali dimenticanze – immaginando di dover spiegare i vizi dell’attuale sistema monetario a qualcuno che non abbia mai messo in discussione la bontà della cartamoneta.

A questo scopo, credo che la metafora dell’abuso di alcool sia la migliore, come usata nel video Fear the boom and bust ideato da Russ Roberts. Utilizzare la moneta per stimolare l’economia è come usare l’alcool per essere felici. Viviamo in un sistema economico drogato dalla moneta. E’ sufficiente aprire un quotidiano finanziario e osservare l’attenzione data alla politica monetaria: il mondo finanziario-economico (di)pende dalle labbra dei banchieri centrali.

  1. Gli stimoli monetari sono come l’abuso di alcool, la droga, il doping. Aumentano le performance economiche dell’economia, ma rendono l’economia dipendente. O l’economia si depura, con un momento di down economico, oppure per mantenere quell’high richiederà un nuova dose.
  2. Come l’azione dell’alcool  su una persona che si metta al volante, gli stimoli monetari aumentano l’assunzione di rischi. Se il sistema finanziario sceglie prodotti sempre più rischiosi è anche un’effetto delle iniezioni di liquidità. Riducendo infatti i tassi di interesse di riferimento, gli operatori che vogliono rendimenti più alti tendono a scegliere prodotti più rischiosi.
  3. Come una persona euforica che si trovasse a prendere decisioni economiche, gli stimoli monetari incoraggiano il breve termine a scapito del lungo termine e il consumo invece del risparmio. Se viviamo in un mondo di montagne di debito, pubblico e privato, è anche per questo motivo. Stampare moneta e ridurre il costo del denaro favoriscono il debitore e sfavoriscono il creditore. Bolle di cattivi investimenti, scambiati per opulenza, si susseguono ininterrottamente. L’economia vive sopra le proprie possibilità, prendendo a prestito il futuro.

In che misura la quantità di moneta attualmente in circolazione nelle vene dell’economia globale può essere considerata un “abuso”? Non so se si possa misurare. Quello che so è che l’idea diffusa per cui le crisi economiche si curano attraverso stimoli di moneta ci accompagna da diversi decenni ed è stata ripetutamente messa in pratica, soprattutto dalla Federal Reserve.

Se c’è una cosa positiva delle cripto-valute è che nel loro paradigma emergente gli stimoli monetari non saranno possibili. Con bitcoin l’emissione di nuova valuta, possibile in questo periodo in remunerazione ai nodi che verificano le transazioni, è destinato a terminare. Il programma infatti prevede un limite all’emissione di bitcoin, 21 milioni e attualmente sono già stati emessi più di 15,5 milioni.

E’ vero che oggi bitcoin è molto usato in traffici e commerci illegali. E’ vero che il sistema bitcoin funziona fino a prova contraria: nato 7 anni fa, possiamo aspettarci ancora di tutto nella sua evoluzione. Vero è anche che la capitalizzazione attuale di bitcoin (sette miliardi di dollari – ed è ancora la cripto-valuta più capitalizzata) è una frazione infinitesimale della cartamoneta in circolazione.

Detto questo, il design di questa cripto-valuta è molto superiore rispetto al progetto della cartamoneta, nella misura in cui non si espone i problemi esposti sopra. Una moneta progettata così (e sono le idee, in particolare le meta-idee quelle più importanti nel dare forma al mondo) può portare ad un sistema economico molto più sano. Più di tutto, le cripto-valute riconoscono il denaro per la funzione con cui è nato: un mezzo di scambio e non una soluzione per quelli che noi chiamiamo i “problemi” dell’economia.

23
Mag
2016

In ITA la vera diseguaglianza è quella contro i giovani: 4 rimedi (no bonus, grazie)

Il problema più rilevante delle diseguaglianze in Italia è quello a danno dei giovani. E’ questa l’amarissima lezione del rapporto annuale 2016 dell’Istat, rilasciato venerdì scorso. E per riequilibrare la bilancia occorrerebbero diversi mutamenti di fondo. Anzi. Bisognerebbe proprio che la politica nazionale facesse una scelta strategica completamente diversa, rispetto a quelle che dominano l’agenda pubblica economica nazionale. Essa è oggi tutta concentrata sulla sostenibilità della finanza pubblica a breve, sulle frazioni di punto di PIL di più deficit concessici dall’Europa, su quali bonus a questi e quelli, decisi discrezionalmente dalla politica sotto elezioni e referendum. E’ tutto al contrario, che bisognerebbe procedere. Poiché l’ingiustizia tra generazioni determina conseguenze sempre più disastrose nel lungo periodo, la politica dovrebbe anteporre a tutto scelte di pungo periodo invece di pensare ai sondaggi a breve. Come dite? Pensate sia impossibile? Bene, allora però bisogna saperlo: andremo a sbattere, è assolutamente certo.

Ricordiamo almeno qualcuno dei dati Istat che descrivono l’inferno giovanile in Italia. Il 70,1% dei maschi tra i 25 e i 29 anni e il 54,7% delle loro coetanee vive ancora in famiglia nel 2015, per mancanza di reddito. Il tasso di occupazione italiano nel 2015 è stato del 56,3%, rispetto a una media UE del 65,6%. Ma il punto è che malgrado Jobs Act e massiccia decontribuzione alle imprese per i nuovi contratti, gli occupati giovani non salgono ma scendono. Quelli tra i 15 e i 34 anni di età erano a fine 2015 solo 39,2% in Italia, rispetto a una media europea del 55,7%, mentre quelli 35-49enni da noi sono il 71,9% rispetto a 80,2% in Ue, e tra gli over 50enni italiani il 56,3% sono occupati, rispetto al 61,8% europeo. Si registrano in Italia tra i 15 e i 29enni oltre 2,3 milioni di individui non occupati e non in formazione (i famosi-famigerati NEET), e il 96% tra loro ha tra i 18- e i 29 anni.

Queste terrificanti statistiche hanno puntuale conferma nei dati sull’andamento del reddito e della ricchezza per coorti di età, rilevati dalla Banca d’Italia. Fatto pari a 100 il reddito medio equivalente del 1995, quello degli italiani ultra 64enni a fine 2014 era salito a 117, quello della fascia tra 19 e 34 anni era sceso a 88. Sempre fatto pari a 100 lo stock di ricchezza media (mobiliare e immobiliare, al netto delle passività finanziarie) del 1995, a fine 2014 per età del capofamiglia essa era salita da 100 a 160 in caso di ultra 65enni, mentre è scesa da 100 a 40 (sì, non è un errore di battitura) per chi ha tra i 19 e i 34 anni.

In sintesi estrema, questo è ciò che riserviamo ai giovani. Ingresso tardivissimo sul mercato del lavoro. Inizio ad età avanzata di regolarità contributiva previdenziale. Possibilità decrescente di vivere in proprio, e tanto meno di dedicarsi a un progetto-famiglia con casa e figli. Reddito bassissimo, di patrimonio poi meglio non parlarne (tranne quello eventualmente ereditato). Altissimo tasso di dipendenza dalle reti d’integrazione familiare, in presenza di un forte coefficiente tendenziale d’invecchiamento medio di genitori e nonni. Conseguenze di medio-lungo periodo: alta e persistente inoccupazione giovanile; bassi consumi nella coorte d’età che ha la più alta propensione a farlo sul reddito disponibile, rispetto agli anziani; squilibrio crescente dei conti previdenziali, visto che il nostro resta un sistema a ripartizione, cioè chiediamo ai giovani che lavorano tardi e con contratti a tempo di pagare le pensioni retributive in essere di milioni di italiani più anziani, quelle pensioni che i giovani mai matureranno e che, col sistema contributivo, saranno in ogni caso assai più basse di quelle che coi loro contributi fanno pagare oggi ogni mese; demografia sempre più compromessa, e di conseguenza crescente bisogno di immigrati – con tutti i problemi connessi – per sostenere i conti di lungo periodo del welfare italiano, cioè l’equilibrio tra gettito di imposte e contribuiti da una parte e prestazioni dall’altra (in ovvia crescita, con l’invecchiamento dell’età media della popolazione).

Il combinato disposto di tutti questi fattori concomitanti rende l’Italia oggi un paese nel quale per i giovani l’ascensore sociale sperimentato dalle generazioni precedenti nel proprio arco vitale tende invece a non funzionare. L’effetto di trasmissione del reddito dei padri a quello dei figli – i figli dei ricchi restano ricchi, i figli dei poveri restano poveri – è significativamente più elevato oggi in Italia che in Francia, Danimarca, Spagna, e in ambito europeo solo nel Regno Unito è più forte che da noi (cfr. Figura 5-11 a pag 216 del rapporto Istat). Se questo è il (terribile) quadro di fronte a noi, cerchiamo allora di individuare almeno alcuni, dei “cambi di prospettiva” che bisognerebbe realizzare. Nessuno di questi  si determina attraverso bonus discrezionali a tempo, servono misure universali e di lungo periodo.

Scuola. I milioni di disoccupati e NEET giovani non si spiegano solo per la crisi e la carente offerta di lavoro. C’è un problema gigantesco in Italia, dovuto al fatto che scuola e università pubbliche continuano a non fornire le skills oggi richieste dal mix delle specializzazioni dell’economia italiana: secondo diversi studi empirici quasi il 40% degli inoccupati giovani (tra chi cerca attivamente lavoro) e dei NEET che né più studiano né cercano lavoro, si spiega infatti col fatto che i loro diplomi e lauree valgono praticamente nulla agli occhi delle imprese. E di ciò rappresenta un gap ancora più serio in un paese che ha la seconda manifattura in Europa dopo quella tedesca, e che quindi ha bisogno di tecnici preparati già alla fine del ciclo secondario. Purtroppo, la riforma della Buona Scuola ha sì avviato a soluzione il precariato dei docenti nella scuola, ma non ha minimamente affrontato con serietà il riorientamento del ciclo secondario, terziario e post terziario secondo il modello “duale” tedesco, che attribuisce alla formazione professionalizzante – decisa insieme alle imprese, che la finanziano – uno scopo pariteticamente “degno” rispetto a quello di una formazione meramente accademica. Anzi, in Italia il più dei docenti trasmette agli studenti una sacrale contrarietà a tale scelta: “fuori le aziende dalla scuola pubblica” è il mantra autolesionista che ancora domina.

Lavoro. Politica e sindacati maggioritariamente pensano oggi che solo prepensionando gli anziani, rispetto ai tetti di vecchiaia stabiliti dalle legge Fornero, daremo più occupazione ai giovani. E’ un errore: non c’è nessun dato che confermi tale impostazione. Lo stessa relazione Istat che abbiamo citato all’inizio dedica un capitolo intero allo studio della questione (pagg 131-137), e conclude che la diversità delle skills tra aspiranti lavoratori giovani e disoccupati over 50enni già formati spinge le aziende comunque ad assumere i secondi e non i giovani, in caso di prepensionamenti. La staffetta generazionale è un’illusione. Come del resto si desume dal fatto che la stragrande maggioranza dei 186 mila occupati aggiuntivi in Italia nel 2015 grazie alla decontribuzione massiccia alle imprese si è concentrata nella fascia over50, mentre gli occupati giovani sono diminuiti. Aumentando le coorti dei prepensionati, crescerà invece l’onere sulle spalle dei più giovani che ogni mese ne pagheranno le pensioni, prima del tempo. Servirebbe molto più una diversa scelta, per sgravare e non aggravare ciò che lo Stato chiede ai giovani, quando e se iniziano a lavorare.

Fisco. Ecco la scelta strategica: per dare più reddito disponibile ai giovani bisogna rimettere mano a uno dei caposaldi del nostro ordinamento fiscale. Da decenni abbiamo adottato la progressività rispetto al reddito. Bisogna invece riscriverla rispetto all’età. In altre parole, a parità di reddito realizzato, ai giovani chiedere aliquote tributarie e contributive più basse rispetto ai lavoratori che vantano maggiore età contributiva. Per far salire invece le aliquote col tempo, man mano che l’anzianità contributiva di ciascuno si eleva. In termini attuariali, ogni cittadino italiano pagherebbe allo Stato la stessa cifra nel percorso vitate: ma da subito ai giovani resterebbero più soldi in tasca, cioè raddrizzeremmo quei terrificanti dati su reddito e patrimonio rilevati da Bankitalia e che abbiamo ricordato prima. Avrà mai la politica la forza per una simile scelta, visto che metà e più degli elettori potenziali (cioè quelli che in media nelle ultime occasioni si sono recati alle urne, pesati per coorte anagrafica) ha più di 50 anni? Rispondetevi da soli, non si tratta di essere pessimisti..

Credito. Non pesano solo fattori “pubblici”: un freno enorme è anche rappresentato dal fatto che il sistema bancario italiano a propria volta frena le possibilità dei più giovani. Afflitto com’è da bassa patrimonializzazione e da una mole schiacciante di crediti deteriorati, tranne poche iniziative per lo più propagandistiche il sistema bancario non ha affatto avviato massicci programmi di “rating ad hoc “ per la concessione di credito ai giovani. Ovviamente, non significa dare denaro automaticamente a chi ha meno anni: le banche non sono la san Vincenzo. Significa invece per esempio: munirsi di un sistema che pesi il valore reale attribuito dalle imprese a percorsi formativi in questo quell’indirizzo e in questa o quella Università (il valore legale del titolo di studio è una finzione in Italia come l’obbligatorietà dell’azione penale: il mercato distingue benissimo tra uno stesso indirizzo d’ingegneria conseguito al Politecnico di Milano e Torino rispetto ad altre facoltà italiane..), per concedere credito a universitari da ripagare con orizzonti temporali e rate solo a occupazione avvenuta (e qui fanno testo le medie retributive che, appunto, le Università dovrebbero rilevare e in alcuni casi lo fanno, insieme alle percentuali di occupati a distanza di anni dal diploma…). Significa inoltre: mutui a condizioni distinte per coorte anagrafica di nascita, finanziamenti a startup giovanili a minor copertura effettuata attraverso invece garanzie reali. E via continuando.

Certo, aiuterebbe infine un’ultima cosa. Invece di chiedere di più a uno Stato che con le sue regole attuali offre loro l’inferno, i giovani potrebbero decidere di provare a disintermediare l’attuale offerta politica e organizzarsi in proprio. Un bel “partito della giustizia tra generazioni” scuoterebbe la politica molto più di tutto il resto e di considerazioni in punta di dati e analisi, temo.

 

19
Mag
2016

“La Terra è un paradiso. L’inferno è non accorgersene” (Jorge Luis Borges)

L‘isola di Budelli è un paradiso. L’inferno è stato non accorgersene da parte dell’ente parco della Maddalena. Il paradiso di Budelli, infatti, venne distrutto dalle masse irresponsabili di vacanzieri e dai loro barconi, del tutto fuori controllo, che per avere un po’ della sabbia rosa che la ricopre, un sacchetto oggi, un sacchetto domani, l’hanno deturpata, in concorso con un’altra sciagura, quella, appunto, dell’amministrazioni pubblica che ne ha provocato il degrado per inerzia ed insipienza. La Spiaggia Rosa, immortalata da Michelangelo Antonioni nel film “Deserto Rosso”, è stata, così, chiusa per anni. Lo scandalo Budelli scoppia infatti negli anni ’90: l’ente parco ed i soggetti pubblici preposti al controllo non riuscirono ed evitare lo scempio. L’unico rimedio trovato dal Parco Nazionale dell’Arcipelago della Maddalena è stato chiuderla alla balneazione, al transito e all’ancoraggio delle imbarcazioni in un intricarsi di dissidi tra autorità e risorse sprecate inutilmente. Per fortuna, mentre gli enti pubblici dormono e litigano la natura si autorigenera e la sabbia rosa anche, così dopo vent’anni Budelli viene riaperta. Ma il problema della gestione permane. Fallisce la società proprietaria dell’isola. Si fa avanti, allora, un ricco magnate e naturalista neozelandese, Michael Harte, un signore che compra pezzi di meraviglie terrestri in giro per il mondo e le preserva, facendole fruire e godere dalle persone. Harte compra Budelli per 3 milioni di euro ed è solo allora che lo stesso ente parco che l’aveva abbandonata al suo degrado e chiusa al mondo, nel solco della migliore tradizione benecomunista, decide di esercitare il diritto di prelazione, con denari stanziati apposta, in barba alla legge di stabilità, dal governo Letta. Naturalmente seguono fuochi e fiamme di ricorsi fino al Consiglio di Stato. E proprio il Consiglio di Stato dà ragione ad Harte: “L’isola di Budelli è di proprietà privata da epoca precedente all’istituzione del parco della Maddalena (..) L’appartenenza alla proprietà privata ha comunque sempre comportato l’applicazione delle norme che nel tempo hanno preservato i valori ambientali e paesaggistici dell’isola e che rimangono in vigore nella loro interezza indipendentemente dall’esercizio della prelazione da parte dell’Ente parco, dato che la tutela prescinde dalla titolarità della proprietà e dal relativo regime, pubblico o privato che sia (..). A ciò va aggiunto, come conferma della non conflittualità del regime privatistico della proprietà con la tutela del pubblico interesse, l’insieme degli impegni, ribaditi anche in occasione dell’odierna udienza, assunti dal ricorrente il cittadino neozelandese Michael Harte per la protezione dell’isola, impegni il cui elenco è contenuto negli atti di causa e che prevedono anche la costituzione della fondazione onlus La Maddalena Osservatorio della Vita Marina, il cui atto costitutivo e il cui statuto, in bozza, sono depositati in causa e che vede nel comitato di indirizzo il presidente del parco marino, il sindaco della Maddalena, i rappresentanti del Fai e di Legambiente e, nel comitato scientifico, docenti universitari di biologia marina ed esperti dell’Enea (Agenzia Centro Ricerche ambiente marino della Spezia)”. Il Consiglio di Stato lamenta poi il fatto assai grave che nel frattempo il Parco Nazionale dell’Arcipelago della Maddalena non aveva nemmeno adottato il piano previsto dalla legge quadro sulle aree protette. E allora bravo, bravissimo Mr. Harte che vuole comprare e tutelare Budelli per il suo ed il nostro piacere. Eravamo così orgogliosi che la virtù privata avesse vinto sui vizi pubblici. Invece no. Harte, sfiancato, ha poi ritirato l’offerta. Oggi l’isola di Budelli passa ufficialmente e definitivamente nel patrimonio pubblico dell’ente Parco della Maddalena. Lo ha stabilito il giudice delle esecuzioni competente, chiudendo la procedura dell’asta giudiziaria che gravava sul paradiso rosa. Così Budelli dal progetto da sogno nelle mani private, cadrà nell’incubo della mano pubblica.