13
Lug
2016

Se non dite con cosa la sostituite, con che aggi e regole operative, abolire Equitalia è pura demagogia

Abolire Equitalia è diventata una grande gara nazionale. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, a maggio aveva detto che Equitalia non sarebbe arrivata al 2018.  Lunedì ha stretto i tempi, ha precisato che non arriverà a fine anno.  Finora, ad averlo proposto negli anni erano state la Lega e il Movimento 5 stelle, ma sinora la maggioranza aveva in più occasioni politiche e parlamentari opposto un muro impenetrabile. Tanto che oggi sono proprio loro ad accusare Renzi di demagogia, cosa però che automaticamente dovrebbe inficiare le loro stesse proposte.

Il rischio della demagogia esiste eccome. Il punto infatti non è abolire Equitalia come se fosse il braccio operativo della riscossione fiscale ad autodeterminare i propri aggi sul riscosso, i trattamenti ai suoi 8mila dipendenti, le modalità di pignoramento e riscossione su ogni singolo cespite di reddito, rispetto al quale l’amministrazione tributaria emette un titolo esecutivo all’incasso di gettito.

Non è così: Equitalia agisce, su ognuno di questi singoli punti, secondo nome stabilite da governo, parlamento e amministrazione tributaria.  Non ha minimamente l’autonomia operativa che l’Agenzia delle Entrate si è presa di fatto negli anni, diventando consulente primario della stessa stesura dei testi di legge tributari, e comunque titolare di un enorme potere attuativo e interpretativo delle modalità di adempimento dei doveri fiscali, attraverso le sue circolari che hanno finito per diventare fonti primarie di diritto. Con tanti saluti all’articolo 23 della Costituzione, e alla riserva di legge assoluta disposta per imporre tasse ai cittadini.

Ergo basterebbe cambiare le norme generali che disciplinano l’operatività di Equitalia, per avere un fisco meno oppressivo nella sua riscossione, cioè meno incapace di giudicare caso per caso la singola capacità di pagamento per reddito venuto meno di persone fisiche e giuridiche, rispetto al petitum imperativo dello Stato.  Ma la politica è fatta così: accusa ogni giorno gli elettori di essere facili prede di demagogia e populismo, ma è la prima ad assecondare entrambe le tendenze, per tornaconto di consensi .

Cerchiamo allora di ricapitolare tre punti. Che cos’è Equitalia oggi. Che cosa raccoglie, e per conto di chi. E cosa può avvenire a seconda di come, abolitala per darsene il merito, sarà organizzato il soggetto che le subentra. Perché una cosa è sicura, lo Stato non può fare a meno di un apparato  volto alla riscossione.

Oggi Equitalia è una società pubblica, per il 51% dell’Agenzia delle Entrate e per il 49% dell’INPS.  Non c’è un precedente passato glorioso della riscossione fiscale da rimpiangere. La riforma da cui due anni dopo nacque Equitalia la vollero Berlusconi e Tremonti, nel 2005, ponendo fine a decenni in cui la riscossione per ogni singolo livello provinciale e subprovinciale era demandata dallo Stato a società di emanazione bancaria, che trattenevano aggi a doppia cifra percentuale sul raccolto. Con prassi spessissimo scandalosamente discrezionali nel mancato recupero su questa o quella classe di contribuenti, che alla banca stavano a cuore in quanto soci, clienti e prenditori. La Sicilia ha continuato a fare eccezione e ha una propria società di riscossione, e solo grazie alla recente guida di Antonio Fiumefreddo – contrastata dall’attuale giunta regionale – ha per la prima volta in questi mesi iniziato a esercitare la riscossione verso enti regionali, Comuni e politici eletti: prima e per decenni orrendamente esentati dal pagare cartelle erariali!

Nel 2015, Equitalia ha riscosso 8,24 miliardi di euro, con un incremento dell’11,2% rispetto al 2014, migliorando per la prima volta i 7,5 miliardi dell’anno 2011, quando scoppiò l’eurocrisi e per suo effetto rientrammo in recessione. Va ricordato che Equitalia non agisce solo per conto di AgEntrate e Inps, ma anche per migliaia di enti creditori, erariali, enti locali, albi professionali, e istituti di previdenza. Il 51,6% degli 8,24 miliardi è andato ad AgEntrate, il 28,8% all’Inps, il 6,7% ai Comuni, analoga percentuali ad altri enti pubblici tra cui le Camere di Commercio, il 5% ad altri Enti erariali tra i quali al primo posto le Regioni, l’1,4%all’Inail,

Una volta abolitala, come si pensa di sostituire Equitalia? Non lo sappiamo. A seconda della soluzione scelta, può o meno mutare l’aggio riconosciutole sulle somme iscritte a ruolo, oggi sceso a circa il 6% dall’8% che era alla sua nascita, per successivi interventi di legge: una somma comunque che fa a pugni con l’articolo 107 del Trattato Ue sugli aiuti di Stato anche secondo alcune pronunce di Commissioni Tributarie provinciali, visto che in realtà Equitalia non anticipa nulla agli enti per cui agisce, né l’aggio appare giustificato davvero in base all’evoluzione dei costi operativi per pignoramenti, fermi giudiziari e via proseguendo. Inoltre, esiste il problema del contratto degli attuali quasi 8mila dipendenti di Equitalia: per evoluzione dalla vecchia delega a società creditizie, è ancor oggi è ancor oggi un contratto bancario. Comunque diverso da quello della PA.

La prima ipotesi è di incardinare la nuova Equitalia – chiamatela come volete, ma per favore non Fisco Amico o simili altre melensaggini stucchevoli – presso l’Agenzia delle Entrate. La seconda presso il Mef. La terza sotto la presidenza del Consiglio. In tutti e tre i casi, il problema dell’aggio e dei contratti può avere soluzioni diverse. Ma non agevoli. La prima ipotesi è ovviamente sostenuta da AgEntrate. La seconda e la terza da chi si batte – con ottimi argomenti, che condivido – a favore di una netta separazione tra l’attività tributaria deputata ad accertamenti e controlli, e quella invece incaricata della riscossione. Bisognerà vedere poi se resta la facoltà, oggi praticata da un numero crescente di Enti Locali, di auto organizzarsi con proprie società di riscossione in house. E’ la linea seguita da un numero crescente di sindaci “amici” dei contribuenti (oltre 2mila sindaci l’hanno annunciato, che è cosa diversa dall’avere messo in piedi strutture operative..), ma le risorse umane e organizzative necessarie per una riscossione efficace a fronte di bassi ratei di pagamento storici appaiono non alla portata se non di Comuni in attivo di bilancio e molto efficienti: non proprio la regole, nella scassatissima fotografia degli Enti Locali italiani, soprattutto al Sud.

Il punto di fondo è però un altro. In questi anni, faticosamente e in ritardo, la politica ha capito che occorreva aumentare le rateazioni a favore di famiglie e soggetti d’impresa colpiti dalla crisi, evitare il pignoramento della prima casa in situazioni di conclamata emergenza reddituale, e via proseguendo per non infittire la sconfinata lista delle vittime della crisi. Ma siamo ancora lontani da un fisco davvero capace di valutare oggettivamente le condizioni reali di possibile pagamento del contribuente colpito da titoli esecutivi.

Diciamo la verità: perché l’abolizione di Equitalia non sia una presa per i fondelli, dovrebbe avvenire contestualmente a una riforma fiscale generale che abbassi le aliquote medie e mediane, il total tax rate alle imprese, e la pianti una volta per tutte di alzare prelievi sia diretti, sia indiretti sia patrimoniali com’è avvenuto in tutti questi ultimi anni.

12
Lug
2016

Pensioni: le loffie ragioni che esentano dipendenti Regione Sicilia da legge Fornero

Un qualunque lavoratore dipendente italiano, per maturare la pensione di vecchiaia, in questo 2016 deve avere almeno 66 anni e 7 mesi di età anagrafica (per Poste e Ferrovie un anno in meno), e non meno di 20 anni di anzianità contributiva. Per la pensione di anzianità, servono invece almeno 42 anni e 6 mesi di versamenti.  Sono gli effetti della riforma Fornero, adottata dal governo Monti per contenere gli squilibri del bilancio previdenziale, per accelerare nel tempo l’unificazione dei trattamenti di anzianità e vecchiaia, nonché per agganciare automaticamente i requisiti stessi allo sviluppo nel tempo dell’attesa media di vita. Ma se questo è lo stato delle cose, non lo è mica per tutti.

La Regione Sicilia, nel maggio dell’anno scorso, ha disposto prepensionamenti dei suoi dipendenti –  un migliaio, i beneficiari – come se la legge Fornero non fosse mai esistita. Tutti coloro che avrebbero maturato entro il 2020 i requisiti previdenziali hanno potuto presentare entro luglio scorso domanda di prepensionamento. Ma attenzione: stiamo parlando di tutti coloro che al 2020 avrebbero maturato la pensione non secondo i dettami della legge Fornero, ma secondo i criteri precedenti, molto meno rigorosi. Per capirci, in questo 2016 senza legge Fornero si andrebbe in pensione di vecchiaia con 12 mesi in meno di età anagrafica, mentre per la pensione di anzianità servirebbero la bellezza di 7 anni e mezzo di contributi versati in meno, basterebbero 35 anni e non 42 anni e mezzo.  E a questi prepensionati d’eccezione la Regione Sicilia ha riservato per di più solo una mini decurtazione, comunque non tale da far scendere l’assegno pensionistico sotto il 90% della media degli ultimi 5 anni di retribuzione per chi avrebbe maturato i requisiti pre Fornero entro il 2017, e sotto l’85% nel caso di maturazione tra il 2017 e il 2020.

Come si vede, tre eccezioni in una: prepensionamenti che ai normali lavoratori dipendenti italiani sono oggi vietati; prepensionamenti concessi subito anche se i requisiti sarebbero stati maturati entro i 5 anni successivi; prepensionamenti utilizzando come criterio per l’assegno quello pienamente retributivo, e non contributivo neanche per quota parte.

Perché tollerare tutto questo? Qual è la base giuridica di una simile gigantesca asimmetria di diritti e garanzie? E’ forse la legge Fornero, ad avere graziato la Sicilia, ponendola fuori dall’ordinamento italiano? No, non è così. Al contrario, la Regione Sicilia rappresenta un mondo a parte previdenziale insieme ad alcune altre particolari realtà istituzionali italiane, ma per ragioni che con la legge Fornero non c’entrano nulla.  A non comunicare i propri dati previdenziali all’Anagrafe Previdenziale Nazionale, come sono tenuti a fare tutti i soggetti gestori di previdenza obbligatoria secondo la legge 243 del 2004, sono gli organi costituzionali (Camera e Senato, per dipendenti e vitalizi dei parlamentari; Corte Costituzionale, per dipendenti e  giudici; il Quirinale, per il personale) più le Regioni per i vitalizi di favore ai politici ex consiglieri. E infine, appunto, la Regione Sicilia, l’unica regione a non comunicare i dati della previdenza dei propri dipendenti. Al 2014 si stimava fossero 16.377 le pensioni in essere degli ex dipendenti siciliani, su un totale di 30mila circa di tutti i soggetti con gestioni privilegiate sopra elencati.

Ma perché solo la Sicilia, visto che intuitivamente verrebbe da pensare che forse il privilegio dovrebbe riguardare allo stesso modo almeno tutte le Regioni a Statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano? Perché viviamo in un paese di Arlecchino. Anche le Regioni a Statuto speciale differiscono tra loro. L’autonomia speciale rafforzata concessa alla Sicilia sin dall’origine è più “speciale” delle altre.  In realtà, non esiste alcun testo di legge che consenta apertamente l’adozione di criteri previdenziali per i propri dipendenti diversi da quelli nazionali. Tanto è vero che le altre Regioni a Statuto speciale si sono uniformate per i propri lavoratori alla legge Fornero. Trento e Bolzano possono proporre all’Inps l’integrazione di alcune centinaia di euro al mese per gli assegni dei propri dipendenti, che versano regolarmente all’istituto che svolge la funzione di pubblico ufficiale pagatore. Ma la Sicilia no, perché grazie alla propria interpretazione dell’autonomia rafforzata si è data una propria distinta gestione previdenziale, e ha fatto di tale gestione separata il pilastro di requisiti previdenziali diversi da quelli nazionali, allegramente fregandosene dell’equilibrio necessario tra contributi raccolti e assegni in pagamento. Tanto che i poco meno di 700 milioni di euro della spesa previdenziale per i propri dipendenti nel 2015 avviene a fronte di uno squilibrio cumulato che alcuni tecnici stimano nell’ordine dei 9 miliardi di euro.

Direte voi: ma se questi sono i flebili presupposti di legge, possibile che lo Stato non abbia mai avuto a che ridire? Giusto. Tre anni fa la sezione regionale della Corte dei Conti attaccò frontalmente la gestione previdenziale siciliana, sempre più lontana da criteri di equilibrio gestionale e finanziario. Ma la così finì lì. Il ministro del Lavoro di allora e quelli sin qui succedutisi hanno fatto finta di non vedere.  Del resto, il testo unico delle leggi previdenziali era al 75% pronto 5 ministri fa, eppure a nessuno è importato portare a conclusione l’opera.

Ecco dunque spiegate le vere ragioni del privilegio dei dipendenti della Regione Sicilia. Primo: poiché gli organici sono già ipersaturi  (58mila dipendenti con contratti regionali in senso ampio comprendendo gli enti, e 18mila dipendenti diretti rispetto ai 3200 della Lombardia, che però ha il doppio degli abitanti), solo prepensionando con criteri allegri si liberano posti per nuovi assunti, di cui la politica è sempre desiderosa. Secondo: perché sia i nuovi assunti sia i prepensionati sono voti da coltivare. Al resto degli italiani non resta che maledire il caso, che decide dove ciascuno nasce.  Perché sinora, a raddrizzare in termini di legge questa ennesima schifezza consumata al riparo della “santa” autonomia siciliana, non ci pensa nessuno.

 

8
Lug
2016

Storia di un locale sfitto causa burocrazia–di Michele Pisano

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Michele Pisano.

In occasione del policy breakfast IBL di ieri mattina Stefano Caviglia ha presentato il suo libro “Storia di un locale sfitto, viaggio allucinante nei meandri della burocrazia” (Rubbettino 2016). Caviglia, giornalista di Panorama, si occupa di economia e di Pubblica amministrazione. Nel suo libro racconta una storia vera, la sua, che spiega bene quanto la burocrazia possa mettere i bastoni tra le ruote al cittadino e rischiare di vanificare qualsiasi sforzo e volontà produttiva. L’incredibile vicenda viene raccontata dall’autore-protagonista con un’analisi dello stato della Pubblica amministrazione italiana, dei suoi limiti, dei suoi inefficienti apparati e incomprensibili decisioni o silenzi. Già nel 2007, un altro giornalista, Luigi Furini, scrisse qualcosa di simile nel libro “Volevo solo vendere la pizza. Le disavventure di un piccolo imprenditore“, raccontando le innumerevoli peripezie in cui è dovuto incappare quando decise di aprire una pizzeria al taglio. Magari non sapremmo scriverla bene come Caviglia o Furini, ma tutti noi probabilmente abbiamo una storia da raccontare, su una esperienza conflittuale, vissuta sulla nostra pelle, con la Pubblica amministrazione. Read More

7
Lug
2016

Una prospettiva di lungo periodo sulla Brexit: Liberalismo, Nazionalismo e Socialismo–di Deirdre N. McCloskey

Concludiamo il nostro “Seminario on line” sulla Brexit con un contributo di Deirdre McCloskey. McCloskey, Distinguished Professor of Economics, History, English, and Communication at the University of Illinois at Chicago, è fra i maggiori storici contemporanei dell’economia ed è autrice di una fondamentale trilogia sulle “virtù borghesi”. IBL Libri ha pubblicato il suo “I vizi degli economisti, le virtù della borghesia”. Ringraziamo la Professoressa McCloskey per il suo contributo. La versione originale dell’articolo è disponibile qui.

Nel corso degli ultimi tre secoli quello che potremmo definire il “clero laico” d’Europa si è ispirato, in economia e in politica, a tre idee: una è molto, molto buona, mentre le altre sono decisamente pessime. La prima idea, nata nel Diciottesimo secolo dalla penna di pensatori del calibro di Voltaire, Tom Paine, Mary Wollstonecraft e, più di ogni altro, il beato Adam Smith può essere definita usando proprio le parole di quest’ultimo: «consentire a ciascun di perseguire autonomamente il suo proprio interesse personale, su un piano di uguaglianza, di libertà e di giustizia». La realizzazione pratica del liberalismo nel Diciannovesimo secolo, così come nel Ventesimo, quando riuscì a prevalere sulle due idee ad esso opposte, produsse frutti straordinari. Diede alle persone comuni il coraggio di sottoporre le opere del loro ingegno alla prova del mercato. Questo processo ebbe come esito quello che chiamiamo il “Grande Arricchimento”, vale a dire l’aumento dei redditi europei, grosso modo dal 1800 a oggi, di qualcosa come il 3000 (tremila!) per cento. Read More

7
Lug
2016

The Long View on Brexit: Liberalism, Nationalism, and Socialism–by Deirdre Nansen McCloskey

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Deirdre Nansen McCloskey. La versione italiana dell’articolo è disponibile qui.

In the past three centuries the European clerisy has had, when it comes to politics and economics, three ideas, one of them very, very good and the two others very, very bad. The first one, emerging in the eighteenth century from the pens of people like Voltaire, Tom Paine, Mary Wollstonecraft, and above all the Blessed Adam Smith, is what Smith called “allowing every man [or woman, dear] to pursue his own interest in his own way, upon the liberal plan of equality, liberty, and justice.” The implementation of liberalism in the nineteenth century, and in the twentieth, when it could make its way against the two bad ideas, was astounding it its fruits. It made ordinary people bold, bold to try out betterments in a market test. Their boldness in pursuing their own interests resulted in the Great Enrichment, which is to say the rise of European incomes per head by 3,000 percent, 1800 to the present. Read More

7
Lug
2016

Pensioni d’oro, Corte costituzionale e Stato di diritto

Non conosciamo ancora la motivazione che ha permesso alla Corte costituzionale di ritenere compatibile con la Costituzione il contributo di solidarietà sulle cosiddette pensioni d’oro che lo Stato è autorizzato a prelevare sino alla conclusione dell’anno in corso.

Lo scarno comunicato stampa emesso dal Palazzo della Consulta unitamente a qualche precedente pronuncia della medesima Corte sulla stessa materia ci permettono tuttavia di fare alcune prime seppur brevi considerazioni. Read More

5
Lug
2016

Brexit, un seminario on line. Parte 2

Seconda parte dei commenti sulla Brexit. La prima parte è stata pubblicata il 1 luglio scorso.


Il voto del 23 giugno 2016 è stato qualcosa di molto rilevante nella storia europea e credo che un giorno sarà davvero ricordato come la caduta del muro di Berlino dell’Europa occidentale.

Gli inglesi (dico questo perché il voto per uscire dalla UE è prevalentemente inglese) hanno salvato più di una volta il Continente europeo dai tentativi di imperializzazione – da Napoleone a Hitler – e con il voto hanno certificato che anche l’unificazione perseguita per via di accordi fra governi democratici non stava creando un spazio di libertà, ma una gabbia che era solo il paradiso dei burocrati e il fortilizio a difesa delle aree più tassate al mondo. Read More

1
Lug
2016

Brexit, un seminario on line

LeoniBlog ospita oggi una prima parte di commenti su Brexit, scritti da studiosi italiani e stranieri che, dalla prospettiva delle loro competenze e dei loro studi, possono aiutare a comprendere aspetti singoli e implicazioni particolari rimasti all’ombra dei pareri e delle reazioni di questi giorni.

Una seconda parte del «seminario on line» verrà pubblicata martedì prossimo. Read More

30
Giu
2016

Diritti di proprietà e libertà di impresa: chi li salverà?

L’accettazione cieca del punto di vista giuridico contemporaneo condurrà alla distruzione graduale della libertà individuale di scelta nella politica come nel mercato e nella vita privata, perché il punto di vista giuridico contemporaneo comporta una sempre maggiore sostituzione delle decisioni collettive alle scelte individuali e l’eliminazione progressiva degli aggiustamenti spontanei, non solo fra domanda ed offerta, ma anche fra ogni tipo di comportamento, attraverso procedure rigide e coercitive come quella della regola della maggioranza.

Con queste parole tratte dalla sua opera più importante, La libertà e la legge, il filosofo del diritto Bruno Leoni già nel 1961 metteva in guardia i suoi lettori dal considerare la democrazia come un campo di battaglia sul cui terreno, all’esito dello scontro elettorale, la maggioranza possa innalzare il vessillo della vittoria a danno delle minoranze. Read More