25
Mag
2016

FOIA italiano: sarà vera trasparenza?*

E’ stato definitivamente approvato il c.d. Freedom of Information Act (FOIA) italiano, che riconosce al cittadino il diritto alla richiesta di atti inerenti alle P.A., a qualunque fine e senza necessità di motivazioni, e aggiunge alla preesistente disclosure di tipo “proattivo”, ossia realizzata mediante la pubblicazione obbligatoria dei dati e delle notizie indicati dalla legge sui siti web delle amministrazioni, una trasparenza di tipo “reattivo”, cioè in risposta alle istanze di conoscenza avanzate dagli interessati. Il provvedimento ha lo scopo “di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”. Al di là delle buone intenzioni con cui è stata lastricata la strada verso la trasparenza, occorre valutare se la disciplina varata consenta realmente di concretizzarle. Read More

24
Mag
2016

Una moneta più sana con le cripto-valute

Negli ultimi mesi ho iniziato a studiare le potenzialità della tecnologia a registro distribuito che consente l’esistenza delle cripto-valute. Trovandomi recentemente in una discussione riguardante bitcoin, mi sono accorto di un fenomeno. Mentre sulle cripto-valute molti hanno chiari i rischi connessi, sono comprensibilmente guardinghi nell’utilizzarle e nell’immaginare una loro diffusione di massa, ho incontrato – al di fuori dei circoli libertarian – molta meno consapevolezza riguardo l’attuale sistema monetario basato su cartamoneta inconvertibile e delle sue conseguenze nel lungo termine.

Tante persone hanno spiegato meglio di me i danni causati dal potere concentrato nella banca centrale di espandere artificialmente l’offerta di moneta per stimolare l’economia. Con questo post vorrei elencarne i principali – invito il lettore ad aggiungere eventuali dimenticanze – immaginando di dover spiegare i vizi dell’attuale sistema monetario a qualcuno che non abbia mai messo in discussione la bontà della cartamoneta.

A questo scopo, credo che la metafora dell’abuso di alcool sia la migliore, come usata nel video Fear the boom and bust ideato da Russ Roberts. Utilizzare la moneta per stimolare l’economia è come usare l’alcool per essere felici. Viviamo in un sistema economico drogato dalla moneta. E’ sufficiente aprire un quotidiano finanziario e osservare l’attenzione data alla politica monetaria: il mondo finanziario-economico (di)pende dalle labbra dei banchieri centrali.

  1. Gli stimoli monetari sono come l’abuso di alcool, la droga, il doping. Aumentano le performance economiche dell’economia, ma rendono l’economia dipendente. O l’economia si depura, con un momento di down economico, oppure per mantenere quell’high richiederà un nuova dose.
  2. Come l’azione dell’alcool  su una persona che si metta al volante, gli stimoli monetari aumentano l’assunzione di rischi. Se il sistema finanziario sceglie prodotti sempre più rischiosi è anche un’effetto delle iniezioni di liquidità. Riducendo infatti i tassi di interesse di riferimento, gli operatori che vogliono rendimenti più alti tendono a scegliere prodotti più rischiosi.
  3. Come una persona euforica che si trovasse a prendere decisioni economiche, gli stimoli monetari incoraggiano il breve termine a scapito del lungo termine e il consumo invece del risparmio. Se viviamo in un mondo di montagne di debito, pubblico e privato, è anche per questo motivo. Stampare moneta e ridurre il costo del denaro favoriscono il debitore e sfavoriscono il creditore. Bolle di cattivi investimenti, scambiati per opulenza, si susseguono ininterrottamente. L’economia vive sopra le proprie possibilità, prendendo a prestito il futuro.

In che misura la quantità di moneta attualmente in circolazione nelle vene dell’economia globale può essere considerata un “abuso”? Non so se si possa misurare. Quello che so è che l’idea diffusa per cui le crisi economiche si curano attraverso stimoli di moneta ci accompagna da diversi decenni ed è stata ripetutamente messa in pratica, soprattutto dalla Federal Reserve.

Se c’è una cosa positiva delle cripto-valute è che nel loro paradigma emergente gli stimoli monetari non saranno possibili. Con bitcoin l’emissione di nuova valuta, possibile in questo periodo in remunerazione ai nodi che verificano le transazioni, è destinato a terminare. Il programma infatti prevede un limite all’emissione di bitcoin, 21 milioni e attualmente sono già stati emessi più di 15,5 milioni.

E’ vero che oggi bitcoin è molto usato in traffici e commerci illegali. E’ vero che il sistema bitcoin funziona fino a prova contraria: nato 7 anni fa, possiamo aspettarci ancora di tutto nella sua evoluzione. Vero è anche che la capitalizzazione attuale di bitcoin (sette miliardi di dollari – ed è ancora la cripto-valuta più capitalizzata) è una frazione infinitesimale della cartamoneta in circolazione.

Detto questo, il design di questa cripto-valuta è molto superiore rispetto al progetto della cartamoneta, nella misura in cui non si espone i problemi esposti sopra. Una moneta progettata così (e sono le idee, in particolare le meta-idee quelle più importanti nel dare forma al mondo) può portare ad un sistema economico molto più sano. Più di tutto, le cripto-valute riconoscono il denaro per la funzione con cui è nato: un mezzo di scambio e non una soluzione per quelli che noi chiamiamo i “problemi” dell’economia.

23
Mag
2016

In ITA la vera diseguaglianza è quella contro i giovani: 4 rimedi (no bonus, grazie)

Il problema più rilevante delle diseguaglianze in Italia è quello a danno dei giovani. E’ questa l’amarissima lezione del rapporto annuale 2016 dell’Istat, rilasciato venerdì scorso. E per riequilibrare la bilancia occorrerebbero diversi mutamenti di fondo. Anzi. Bisognerebbe proprio che la politica nazionale facesse una scelta strategica completamente diversa, rispetto a quelle che dominano l’agenda pubblica economica nazionale. Essa è oggi tutta concentrata sulla sostenibilità della finanza pubblica a breve, sulle frazioni di punto di PIL di più deficit concessici dall’Europa, su quali bonus a questi e quelli, decisi discrezionalmente dalla politica sotto elezioni e referendum. E’ tutto al contrario, che bisognerebbe procedere. Poiché l’ingiustizia tra generazioni determina conseguenze sempre più disastrose nel lungo periodo, la politica dovrebbe anteporre a tutto scelte di pungo periodo invece di pensare ai sondaggi a breve. Come dite? Pensate sia impossibile? Bene, allora però bisogna saperlo: andremo a sbattere, è assolutamente certo.

Ricordiamo almeno qualcuno dei dati Istat che descrivono l’inferno giovanile in Italia. Il 70,1% dei maschi tra i 25 e i 29 anni e il 54,7% delle loro coetanee vive ancora in famiglia nel 2015, per mancanza di reddito. Il tasso di occupazione italiano nel 2015 è stato del 56,3%, rispetto a una media UE del 65,6%. Ma il punto è che malgrado Jobs Act e massiccia decontribuzione alle imprese per i nuovi contratti, gli occupati giovani non salgono ma scendono. Quelli tra i 15 e i 34 anni di età erano a fine 2015 solo 39,2% in Italia, rispetto a una media europea del 55,7%, mentre quelli 35-49enni da noi sono il 71,9% rispetto a 80,2% in Ue, e tra gli over 50enni italiani il 56,3% sono occupati, rispetto al 61,8% europeo. Si registrano in Italia tra i 15 e i 29enni oltre 2,3 milioni di individui non occupati e non in formazione (i famosi-famigerati NEET), e il 96% tra loro ha tra i 18- e i 29 anni.

Queste terrificanti statistiche hanno puntuale conferma nei dati sull’andamento del reddito e della ricchezza per coorti di età, rilevati dalla Banca d’Italia. Fatto pari a 100 il reddito medio equivalente del 1995, quello degli italiani ultra 64enni a fine 2014 era salito a 117, quello della fascia tra 19 e 34 anni era sceso a 88. Sempre fatto pari a 100 lo stock di ricchezza media (mobiliare e immobiliare, al netto delle passività finanziarie) del 1995, a fine 2014 per età del capofamiglia essa era salita da 100 a 160 in caso di ultra 65enni, mentre è scesa da 100 a 40 (sì, non è un errore di battitura) per chi ha tra i 19 e i 34 anni.

In sintesi estrema, questo è ciò che riserviamo ai giovani. Ingresso tardivissimo sul mercato del lavoro. Inizio ad età avanzata di regolarità contributiva previdenziale. Possibilità decrescente di vivere in proprio, e tanto meno di dedicarsi a un progetto-famiglia con casa e figli. Reddito bassissimo, di patrimonio poi meglio non parlarne (tranne quello eventualmente ereditato). Altissimo tasso di dipendenza dalle reti d’integrazione familiare, in presenza di un forte coefficiente tendenziale d’invecchiamento medio di genitori e nonni. Conseguenze di medio-lungo periodo: alta e persistente inoccupazione giovanile; bassi consumi nella coorte d’età che ha la più alta propensione a farlo sul reddito disponibile, rispetto agli anziani; squilibrio crescente dei conti previdenziali, visto che il nostro resta un sistema a ripartizione, cioè chiediamo ai giovani che lavorano tardi e con contratti a tempo di pagare le pensioni retributive in essere di milioni di italiani più anziani, quelle pensioni che i giovani mai matureranno e che, col sistema contributivo, saranno in ogni caso assai più basse di quelle che coi loro contributi fanno pagare oggi ogni mese; demografia sempre più compromessa, e di conseguenza crescente bisogno di immigrati – con tutti i problemi connessi – per sostenere i conti di lungo periodo del welfare italiano, cioè l’equilibrio tra gettito di imposte e contribuiti da una parte e prestazioni dall’altra (in ovvia crescita, con l’invecchiamento dell’età media della popolazione).

Il combinato disposto di tutti questi fattori concomitanti rende l’Italia oggi un paese nel quale per i giovani l’ascensore sociale sperimentato dalle generazioni precedenti nel proprio arco vitale tende invece a non funzionare. L’effetto di trasmissione del reddito dei padri a quello dei figli – i figli dei ricchi restano ricchi, i figli dei poveri restano poveri – è significativamente più elevato oggi in Italia che in Francia, Danimarca, Spagna, e in ambito europeo solo nel Regno Unito è più forte che da noi (cfr. Figura 5-11 a pag 216 del rapporto Istat). Se questo è il (terribile) quadro di fronte a noi, cerchiamo allora di individuare almeno alcuni, dei “cambi di prospettiva” che bisognerebbe realizzare. Nessuno di questi  si determina attraverso bonus discrezionali a tempo, servono misure universali e di lungo periodo.

Scuola. I milioni di disoccupati e NEET giovani non si spiegano solo per la crisi e la carente offerta di lavoro. C’è un problema gigantesco in Italia, dovuto al fatto che scuola e università pubbliche continuano a non fornire le skills oggi richieste dal mix delle specializzazioni dell’economia italiana: secondo diversi studi empirici quasi il 40% degli inoccupati giovani (tra chi cerca attivamente lavoro) e dei NEET che né più studiano né cercano lavoro, si spiega infatti col fatto che i loro diplomi e lauree valgono praticamente nulla agli occhi delle imprese. E di ciò rappresenta un gap ancora più serio in un paese che ha la seconda manifattura in Europa dopo quella tedesca, e che quindi ha bisogno di tecnici preparati già alla fine del ciclo secondario. Purtroppo, la riforma della Buona Scuola ha sì avviato a soluzione il precariato dei docenti nella scuola, ma non ha minimamente affrontato con serietà il riorientamento del ciclo secondario, terziario e post terziario secondo il modello “duale” tedesco, che attribuisce alla formazione professionalizzante – decisa insieme alle imprese, che la finanziano – uno scopo pariteticamente “degno” rispetto a quello di una formazione meramente accademica. Anzi, in Italia il più dei docenti trasmette agli studenti una sacrale contrarietà a tale scelta: “fuori le aziende dalla scuola pubblica” è il mantra autolesionista che ancora domina.

Lavoro. Politica e sindacati maggioritariamente pensano oggi che solo prepensionando gli anziani, rispetto ai tetti di vecchiaia stabiliti dalle legge Fornero, daremo più occupazione ai giovani. E’ un errore: non c’è nessun dato che confermi tale impostazione. Lo stessa relazione Istat che abbiamo citato all’inizio dedica un capitolo intero allo studio della questione (pagg 131-137), e conclude che la diversità delle skills tra aspiranti lavoratori giovani e disoccupati over 50enni già formati spinge le aziende comunque ad assumere i secondi e non i giovani, in caso di prepensionamenti. La staffetta generazionale è un’illusione. Come del resto si desume dal fatto che la stragrande maggioranza dei 186 mila occupati aggiuntivi in Italia nel 2015 grazie alla decontribuzione massiccia alle imprese si è concentrata nella fascia over50, mentre gli occupati giovani sono diminuiti. Aumentando le coorti dei prepensionati, crescerà invece l’onere sulle spalle dei più giovani che ogni mese ne pagheranno le pensioni, prima del tempo. Servirebbe molto più una diversa scelta, per sgravare e non aggravare ciò che lo Stato chiede ai giovani, quando e se iniziano a lavorare.

Fisco. Ecco la scelta strategica: per dare più reddito disponibile ai giovani bisogna rimettere mano a uno dei caposaldi del nostro ordinamento fiscale. Da decenni abbiamo adottato la progressività rispetto al reddito. Bisogna invece riscriverla rispetto all’età. In altre parole, a parità di reddito realizzato, ai giovani chiedere aliquote tributarie e contributive più basse rispetto ai lavoratori che vantano maggiore età contributiva. Per far salire invece le aliquote col tempo, man mano che l’anzianità contributiva di ciascuno si eleva. In termini attuariali, ogni cittadino italiano pagherebbe allo Stato la stessa cifra nel percorso vitate: ma da subito ai giovani resterebbero più soldi in tasca, cioè raddrizzeremmo quei terrificanti dati su reddito e patrimonio rilevati da Bankitalia e che abbiamo ricordato prima. Avrà mai la politica la forza per una simile scelta, visto che metà e più degli elettori potenziali (cioè quelli che in media nelle ultime occasioni si sono recati alle urne, pesati per coorte anagrafica) ha più di 50 anni? Rispondetevi da soli, non si tratta di essere pessimisti..

Credito. Non pesano solo fattori “pubblici”: un freno enorme è anche rappresentato dal fatto che il sistema bancario italiano a propria volta frena le possibilità dei più giovani. Afflitto com’è da bassa patrimonializzazione e da una mole schiacciante di crediti deteriorati, tranne poche iniziative per lo più propagandistiche il sistema bancario non ha affatto avviato massicci programmi di “rating ad hoc “ per la concessione di credito ai giovani. Ovviamente, non significa dare denaro automaticamente a chi ha meno anni: le banche non sono la san Vincenzo. Significa invece per esempio: munirsi di un sistema che pesi il valore reale attribuito dalle imprese a percorsi formativi in questo quell’indirizzo e in questa o quella Università (il valore legale del titolo di studio è una finzione in Italia come l’obbligatorietà dell’azione penale: il mercato distingue benissimo tra uno stesso indirizzo d’ingegneria conseguito al Politecnico di Milano e Torino rispetto ad altre facoltà italiane..), per concedere credito a universitari da ripagare con orizzonti temporali e rate solo a occupazione avvenuta (e qui fanno testo le medie retributive che, appunto, le Università dovrebbero rilevare e in alcuni casi lo fanno, insieme alle percentuali di occupati a distanza di anni dal diploma…). Significa inoltre: mutui a condizioni distinte per coorte anagrafica di nascita, finanziamenti a startup giovanili a minor copertura effettuata attraverso invece garanzie reali. E via continuando.

Certo, aiuterebbe infine un’ultima cosa. Invece di chiedere di più a uno Stato che con le sue regole attuali offre loro l’inferno, i giovani potrebbero decidere di provare a disintermediare l’attuale offerta politica e organizzarsi in proprio. Un bel “partito della giustizia tra generazioni” scuoterebbe la politica molto più di tutto il resto e di considerazioni in punta di dati e analisi, temo.

 

19
Mag
2016

“La Terra è un paradiso. L’inferno è non accorgersene” (Jorge Luis Borges)

L‘isola di Budelli è un paradiso. L’inferno è stato non accorgersene da parte dell’ente parco della Maddalena. Il paradiso di Budelli, infatti, venne distrutto dalle masse irresponsabili di vacanzieri e dai loro barconi, del tutto fuori controllo, che per avere un po’ della sabbia rosa che la ricopre, un sacchetto oggi, un sacchetto domani, l’hanno deturpata, in concorso con un’altra sciagura, quella, appunto, dell’amministrazioni pubblica che ne ha provocato il degrado per inerzia ed insipienza. La Spiaggia Rosa, immortalata da Michelangelo Antonioni nel film “Deserto Rosso”, è stata, così, chiusa per anni. Lo scandalo Budelli scoppia infatti negli anni ’90: l’ente parco ed i soggetti pubblici preposti al controllo non riuscirono ed evitare lo scempio. L’unico rimedio trovato dal Parco Nazionale dell’Arcipelago della Maddalena è stato chiuderla alla balneazione, al transito e all’ancoraggio delle imbarcazioni in un intricarsi di dissidi tra autorità e risorse sprecate inutilmente. Per fortuna, mentre gli enti pubblici dormono e litigano la natura si autorigenera e la sabbia rosa anche, così dopo vent’anni Budelli viene riaperta. Ma il problema della gestione permane. Fallisce la società proprietaria dell’isola. Si fa avanti, allora, un ricco magnate e naturalista neozelandese, Michael Harte, un signore che compra pezzi di meraviglie terrestri in giro per il mondo e le preserva, facendole fruire e godere dalle persone. Harte compra Budelli per 3 milioni di euro ed è solo allora che lo stesso ente parco che l’aveva abbandonata al suo degrado e chiusa al mondo, nel solco della migliore tradizione benecomunista, decide di esercitare il diritto di prelazione, con denari stanziati apposta, in barba alla legge di stabilità, dal governo Letta. Naturalmente seguono fuochi e fiamme di ricorsi fino al Consiglio di Stato. E proprio il Consiglio di Stato dà ragione ad Harte: “L’isola di Budelli è di proprietà privata da epoca precedente all’istituzione del parco della Maddalena (..) L’appartenenza alla proprietà privata ha comunque sempre comportato l’applicazione delle norme che nel tempo hanno preservato i valori ambientali e paesaggistici dell’isola e che rimangono in vigore nella loro interezza indipendentemente dall’esercizio della prelazione da parte dell’Ente parco, dato che la tutela prescinde dalla titolarità della proprietà e dal relativo regime, pubblico o privato che sia (..). A ciò va aggiunto, come conferma della non conflittualità del regime privatistico della proprietà con la tutela del pubblico interesse, l’insieme degli impegni, ribaditi anche in occasione dell’odierna udienza, assunti dal ricorrente il cittadino neozelandese Michael Harte per la protezione dell’isola, impegni il cui elenco è contenuto negli atti di causa e che prevedono anche la costituzione della fondazione onlus La Maddalena Osservatorio della Vita Marina, il cui atto costitutivo e il cui statuto, in bozza, sono depositati in causa e che vede nel comitato di indirizzo il presidente del parco marino, il sindaco della Maddalena, i rappresentanti del Fai e di Legambiente e, nel comitato scientifico, docenti universitari di biologia marina ed esperti dell’Enea (Agenzia Centro Ricerche ambiente marino della Spezia)”. Il Consiglio di Stato lamenta poi il fatto assai grave che nel frattempo il Parco Nazionale dell’Arcipelago della Maddalena non aveva nemmeno adottato il piano previsto dalla legge quadro sulle aree protette. E allora bravo, bravissimo Mr. Harte che vuole comprare e tutelare Budelli per il suo ed il nostro piacere. Eravamo così orgogliosi che la virtù privata avesse vinto sui vizi pubblici. Invece no. Harte, sfiancato, ha poi ritirato l’offerta. Oggi l’isola di Budelli passa ufficialmente e definitivamente nel patrimonio pubblico dell’ente Parco della Maddalena. Lo ha stabilito il giudice delle esecuzioni competente, chiudendo la procedura dell’asta giudiziaria che gravava sul paradiso rosa. Così Budelli dal progetto da sogno nelle mani private, cadrà nell’incubo della mano pubblica.

 

17
Mag
2016

Uso di suolo e consumo di libertà—di Marco Romano

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Marco Romano.

Questa del consumo di suolo è una delle molte trovate di un certo stile autoritario radicato nel solito principio di conoscere il vero bene collettivo e di imporlo ai legittimi desideri dei singoli cittadini.

In questo caso è il legittimo desiderio di possedere una casa, perché il possesso della casa è da mille anni la condizione stessa della cittadinanza, come oggi quando chiedi la carta d’identità ti viene chiesto il tuo indirizzo.

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14
Mag
2016

Expo è costato 3,5 mld. (218 euro per visitatore di cui 78 a carico del contribuente)

Con la pubblicazione del bilancio finale di Expo 2015 S.p.A. nel documento di liquidazione della società è finalmente possibile conoscere i costi totali sostenuti per la realizzazione della manifestazione e quanti di essi sono stati posti a carico della collettività. Al riguardo Repubblica del 12 maggio titolava: Expo è costata 2,2 miliardi di Euro, precisando che per andare in pareggio con i soli soldi dei visitatori (21,5 milioni di persone) il biglietto sarebbe dovuto costare poco più di 100 euro: Read More

10
Mag
2016

Grecia: all’euroarea servono regole precise per ristrutturare i debiti sovrani

Sull’ennesimo capitolo della crisi greca, comincio dal fondo. Tra le tante pecche sin qui mostrate dalle regole dell’euro, manca un capitolo che definisca le condizioni estreme nelle quali por mano a ristrutturazioni dei debiti sovrani di un paese membro. E’ un difetto essenziale. La storia è purtroppo piena, di ristrutturazioni di debiti pubblici. E a maggior ragione il rischio si corre in anni di deflazione o, se andrà bene, di inflazione bassissima, per paesi rispetto alla media dell’eurozona incapaci di convergenza nel breve-medio periodo per forti squilibri economici e fortissimi squilibri sociali, come la Grecia. Meglio sarebbe avere dunque regole chiare, per consentire emergenzialmente ristrutturazioni almeno secondo regole chiare, tali da non allarmare i mercati e generare quell’effetto panico che da anni devasta la Grecia. Da due anni a questa parte, dacché Syriza vinse le elezioni a maggio 2014 (qui un utile cronoprogramma della crisi greca fino ad allora), la crisi del debito della Grecia avrebbe dovuto insegnarlo ai vertici dell’eurozona. Invece no, e continuiamo a sbattere la testa sullo stesso muro: dopo i 110 miliardi del primo programma di aiuti varato nel 2010, i 130 miliardi del secondo pacchetto varato nel 2011, la prima ristrutturazione del debito del marzo 2012 in forma PSI cioè superiore al 50% del valore facciale ma per i soli creditori privati della Grecia, gli 86 miliardi del terzo pacchetto firmato a luglio scorso e che dovrebbero accompagnare il risanamento greco fino al 2018.

Torniamo alla cronaca. Non è andato in porto l’Eurogruppo di ieri dedicato alla Grecia: si tratta di sbloccare una nuova tranche degli 86 miliardi di aiuti firmati a luglio scorso con Tsipras, finalizzati a coprire interessi e restituzione del debito pubblico di Atene dovuto fino a metà del 2018, quando il programma dovrebbe terminare. O meglio, è andato in porto per uno dei tre argomenti che erano da mesi sul tavolo, sui nuovi impegni assunti dal governo greco per rafforzare l’avanzo primario del bilancio greco, grazie al voto che Tsipras ha ottenuto dalla sua ristrettissima maggioranza domenica in parlamento. I ministri delle finanze europei aspettano altri chiarimenti su un secondo punto. Ma il capitolo fondamentale aperto è il terzo, a cui Tsipras tiene molto e sul quale, pur avendo in realtà l‘accordo del FMI, ha giocato malissimo la partita, inimicandoselo due settimane fa.

Cerchiamo di capire di che si tratta, per poi tornare al terzo punto che è quello centrale: cioè la riduzione del debito greco. Ponendoci il problema se sia fondato oppure no, e quali ragioni abbia la tenace opposizione tedesca.

La Grecia aveva ripreso a crescere timidamente fino a metà 2015, prima di chiudere l’anno di nuovo con due trimestri a crescita negativa sotto l’incalzare della tumultuosa trattiva europea, con il doppio colpo di scena successivo del referendum vinto da Tsipras, e poi delle nuove elezioni in cui, dopo aver fatto repentina marcia indietro rispetto al no all’accordo, ha riottenuto una maggioranza appesa a pochissimi seggi. Di fatto, il paese ha un debito pubblico in salita verso il 180% del PIL, grazie anche e soprattutto al fatto che di PIL ha perso dal 2007 lo spaventoso ammontare di 25 punti percentuali. Da tre anni la Grecia è a crescita demografica negativa, per effetto della crisi. Ha una disoccupazione che resta disastrosamente al 25%, e a poco meno del 48% tra i giovani, in troppo lento calo rispetto al 52,2% a cui era arrivata a marzo 2015. Su meno di 11 milioni di abitanti, 2,5 milioni sono sotto la soglia di povertà, e altrettanti lottano per non cadervi, di poco sopra la soglia.

Il pacchetto di misure taglia deficit approvato da Tsipras nel 2015 ha prodotto ciò malgrado un avanzo primario di bilancio dello 0,7% di PIL, al quale Ue e Fmi non hanno creduto troppo. E che resta comunque di gran lunga inferiore all’1,5% che serve come tappa intermedia, per realizzare il 3,5% di avanzo annuale al 2018. Per poi restarvi inchiodato per moltissimi anni, al fine di abbassare gradualmente il debito pubblico contando su una crescita che torni verso il 2% annuo. Di qui le nuove richieste avanzate da Ue e Fmi a Tsipras, se vuole che si stacchi un assegno capace di consentire alla Grecia di onorare i 2,5 miliardi di interessi che Atene deve ripagare a luglio ai propri debitori. La richiesta era di un pacchetto di misure su tasse e pensioni pari al 3% di PIL di minor deficit per circa 5 miliardi di euro, più fin da subito in altro pacchetto di tagli automatici per un altro paio di punti di PIL cioè altri 3,5 miliardi, nel caso in cui il primo blocco di misure si dimostrassero tali – come capitato sempre, sin qui – da fallire l’obiettivo. La Grecia ha puntato i piedi contro i tagli automatici, e per ora il pacchetto votato domenica scorsa dal parlamento greco non è lontano – sulla carta – dagli obiettivi richiesti solo per la prima tranche. Si tratta di un 1% di Pil da maggiori tasse sul reddito, un altro 1% dall’aumento dell’IVA al 24%, e infine un altro punto di PIL da interventi sulle pensioni. Quel che ancora non piace ai rigoristi è che la soglia di esenzione dall’IRPEF resta ancora tropo alta: era a 9600 euro cioè più alta che in Germania e Italia, e anche dopo il taglio a poco meno di 9100 euro resta tale. Resta aperta la trattativa sui tagli automatici, e su questo l’Eurogruppo si aspetta una risposta già entro giovedì. Un capitolo a parte è quello sulla riduzione dei crediti deteriorati e del risanamento delle 4 maggiori banche elleniche. In 3 anni, gli istituti di credito greci hanno visto scendere i depositi da quasi 250 miliardi a circa 130, e ancora a febbraio sono scesi di altri 5-600 milioni.

Ma il punto vero della trattativa, su cui fin dall’inizio ha puntato Tsipras, è il terzo: la riduzione del debito. Tsipras ha posto la questione sin dalla sua prima elezione a premier ma in maniera pragmatica, giocando sul tempo e contando sul fatto che negli anni la Ue dovrà arrendersi alla sua inevitabilità. Mentre Varoufakis ne aveva fatto una richiesta “tutto e subito”, ed è finito a fare il conferenziere internazionale, sostituito da Tsakalotos al ministero delle Finanze, pur sempre un marxista ma proprio per questo più realista e duttile, rispetto all’antagonista rigido per definizione.

Dijsselbloem, il capo dell’Eurogruppo, ha ribadito ieri che i ministri delle Finanze europei sono d’accordo per escludere assolutamente il taglio nominale del debito. Ma la discussione il 24 maggio ci sarà comunque, per valutare almeno ulteriori aumenti delle scadenze e aggiuntive riduzioni dei tassi d’interesse. Su questo tema, l’atteggiamento del governo greco è stato autolesionista. Da anni il Fmi si batte per una ristrutturazione sostanziale del debito greco. E ha mille volte ragione: credere che per 20 anni la Grecia sia capace di produrre avanzi primari annuali pari ad almeno il 3,5% del PIl è lunare, soprattutto nelle condizioni di bassa crescita reale europea che restano di fronte a noi nell’orizzonte previsivo attuale, per anni e anni. Tanto vale, afferma il FMI da 2 anni a questa parte, fare un bis della ristrutturazione sostanziale che alla Grecia fu concessa nel 2012, fino al 50-60% del valore facciale del debito sovrano ma per la sola componente allora detenuta da banche e creditori privati (chi sostiene che le banche di Francia e Germania rientrarono dall’esposizione greca, dimenticano questo piccolo particolare..)

Attualmente i creditori della Grecia sono però in larghissima misura pubblici. Atene deve oggi circa  53 miliardi ai paesi membri della Ue, con prestiti bilaterali della maturità media trentennale; poi 131 miliardi all’EFSF europeo con scadenza a 32 anni e mezzo, e altri 21,5 miliardi all’ESM, sempre europeo e con pari scadenza; infine 14,3 miliardi al FMI a scadenza tra i 3 e i 10 anni. L’interesse pagato sul debito è pari a una media annuale tra il 2 e il 3,5% del PIL, sempre che il PIL non cada ulteriormente ma ricresca. La minor scadenza dei debiti contratti col Fondo Monetario spiega perché il Fmi non creda sostenibile il debito greco. Ma, invece di tenersi buono il Fondo che rimprovera ai tedeschi l’opposizione alla ristrutturazione del debito, il governo di Atene due settimane fa ha frontalmente accusato il Fondo di voler strangolare la Grecia: perché l’idea dei tagli automatici come scudo di garanzia  è nata proprio a Washington, sperando che Atene dicesse no e che la Germania capisse che non c’è alternativa a un taglio ulteriore del debito.

Il problema fondamentale è sempre lo stesso: la Merkel non può dire al suo partito che si condona una parte del debito ad Atene, perché sarebbero punti elettorali guadagnati dai nazionalisti di AFD, e in primis la CSU e Schaueble sono contrarissimi. Bisognerà aspettare che cosa votano i britannici nel referendum del 23 giugno, e poi riaprire il negoziato coi greci. Perché un punto a me almeno apre chiaro. La tumultuosa e drammatica vicenda greca avrebbe dovuto farci capire da anni che occorrono regole precise per ristrutturare i debiti sovrani. Ripeto:  meglio regole chiare, per consentire emergenzialmente ristrutturazioni almeno secondo princìpi e procedure definiti, che suscitare ogni volta lo tsunami dei mercati.

 

 

10
Mag
2016

L’apparenza non inganna ovvero il diritto ad un giudice imparziale

All’inizio di quest’anno il direttore de il Foglio è stato contestato da Magistratura Democratica per aver attribuito frasi errate allo statuto dell’associazione, ad esempio: MD è una “componente del movimento di classe”, che nasce per dare vita a una “giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle loro estreme conseguenze i principî eversivi all’apparato normativo borghese” attraverso “l’interpretazione evolutiva del diritto”. In realtà tali frasi non erano contenute nello statuto, ma in un vecchio documento di MD datato 1971. MD ribatteva, inoltre, rassicurando che “la separazione dei poteri e l’indipendenza della giurisdizione sono tra le cose che più ci stanno a cuore”. Riportiamo direttamente dal sito di MD un esempio di comunicato degli anni recenti e precisamente del 2012, riguardante una legge entrata in vigore quell’anno, la cd. Legge Fornero. Con l’uso del grassetto evidenziamo alcuni passaggi.

RAVENNASi è svolto venerdì e sabato 27-28 settembre 2012 a Ravenna il V seminario promosso dal gruppo lavoro di MD sulla riforma Fornero. Sono stati due giorni di riflessione attenta e di intenso dibattito, che sono serviti a mettere a fuoco come questa legge costituisca l’ultimo anello di un processo di destrutturazione unidirezionale delle regole del lavoro che negli ultimi 20 anni hanno portato ad impoverire sempre di più le persone, sia sul piano della dignità sia sul piano economico. La riforma è stata analizzata sotto il profilo formaleattraverso l’analisi delle norme che, demolendo l’articolo 18, costruiscono plurime sotto fattispecie che rimettono nelle mani del datore di lavoro la scelta del fatto da contestare, dalla cui manifesta insussistenza dipende la possibilità di accedere alla reintegra;  e sotto il profilo sostanziale, mettendosi in rilievo come essa –  attraverso un abnorme ed apparente dilatazione dei poteri  discrezionali del giudice –  miri in realtà ad attuare un aggravamento della condizione di sottomissione insita nel rapporto di lavoro, restituendola ai livelli di ricattabilità esistenti nel periodo pre-Statuto dei lavoratori ( …”non mi piaci, ti pago e te ne vai”…).  (…) Si è sottolineato come la riforma costituisca il riflesso dello scarso valore sociale oggi assunto dal lavoro e come sia indifferibile ripensare ad un nuovo diritto del lavoro che, tenendo conto delle esigenze dell’economia, riesca a riportare il punto di equilibrio delle tutele sulla linea del secondo comma dell’articolo 41 Cost. Questo compito, primariamente spettante alla politica e al sindacato, potrebbe accompagnarsi ad uno sforzo interpretativo della giurisprudenza che porti a valorizzare la dipendenza economica ed a ricondurre al lavoro subordinato le numerose figure atipiche oggi esistenti, sostanzialmente non ridotte dalla riforma. Le relazioni hanno sottolineato l’irrazionalità di un nuovo rito per i processi di impugnativa dei licenziamenti che, immutati gli organici e le forze, sarà fonte di ulteriori disuguaglianze dal punto di vista dei lavoratori. Nel corso dei lavori è stato ricordato pure che sono stati già depositati i quesiti referendari per l’abrogazione delle norme più regressive di questa legge; sul punto il Gruppo lavoro chiede  che Magistratura Democratica voglia prendere pubblica posizione sostenendo l’iniziativa referendaria, anche allo scopo di promuovere un largo coinvolgimento dei cittadini nella discussione sui veri contenuti di questa normativa, oscurati in nome di un pensiero unico dominante che oramai tutto conforma all’insegna del primato della economia e dei mercati, ribaltando nei fatti il precetto che promana dall’art. 41, 2 comma della nostra Costituzione”.

Siamo obbligati a fidarci dei giudici. E per questo non dobbiamo sapere cosa pensano delle leggi che devono interpretare e applicare. “(…) Perché nell’esercizio della loro funzione essi devono non solo essere, ma anche apparire come terzi imparziali”. Noi cittadini dobbiamo essere sicuri che i magistrati siano imparziali, per questo lo devono apparire. L’apparire imparziale di un giudice è il biglietto da visita della certezza di essere giudicati in modo imparziale. Chi ha scritto quel documento appare imparziale? Si può essere sicuri della sua imparzialità? Quei giudici ci appaiono davvero come “soggetti soltanto alla legge (art. 101 Cost.)?

“Con questo non si vuole dire né che i magistrati non debbano avere un pensiero politico, né che i comportamenti dei magistrati che fanno politica sono necessariamente ingiusti: laddove il giudice politicizzato persegue e punisce chi deve esserlo non vi è prevaricazione né ingiustizia. Si vuol dire soltanto che la politicizzazione può condurre ad una giustizia a senso unico, e cioè a una distorsione della funzione (Aldo Maria Sandulli, Corriere della Sera, 27 luglio 1981 da “Un giurista per la democrazia“ Ed.Jovene ).