Difesa del referendum su Ue, 3 scenari se vince Brexit, cosa rischiamo noi
Quando nel 1975 i cittadini del Regno Unito furono chiamati a referendum sul restare o meno in quella che allora era la CEE, votarono in quasi 26 milioni sui 40 milioni aventi diritto, e il sì vinse con il 67%. Il referendum era stato convocato da un governo laburista, il che dà torto a chi oggi dice che far decidere ai cittadini sia una mania dei conservatori antieuropeisti o dei populisti “di pancia”.
Mario Monti ha dichiarato alla Stampa che il referendum britannico del 23 giugno è un disastro, non solo perché voluto dal premier conservatore Cameron per rafforzare la sua leadership interna, ma soprattutto perché manda all’aria decenni di paziente tessitura europea da parte di statisti e governi. Sergio Romano oggi sul Corriere ringrazia i costituenti per la loro saggezza, perché la Costituzione vieta agli italiani referendum su spesa pubblica, fisco e Trattati internazionali ergo anche sulla Ue. E’ un punto di vista singolare. Non lo condivido. L’integrazione europea è lenta e ha moltissimi difetti sempre più evidenti in questi anni di crisi, basta pensare all’incapacità di una vera comune politica dell’immigrazione, oppure al “fai da te” con cui tra mille scontri in questi anni la BCE si è inoltrata nelle politiche monetarie non ortodosse per contenere la crisi. Ma proprio per questo o l’Europa è un grande principio capace di generare benefici e i politici sanno spiegarlo agli elettori, appellandosi ai loro portafogli e alle loro teste ma anche ai loro cuori e alla loro emotività; oppure se perdono nei referendum si deve al fatto che quei benefici o non sono abbastanza forti, o i politici non sanno spiegarli. I populisti emotivi e i nazionalisti in politica ci sono sempre stati. La differenza è se i loro avversari riescono a batterli con argomenti convincenti, oppure no. Se gli argomenti convincenti mancano, la risposta non può essere “vietiamo i referendum”.
E’ proprio questo il primo punto importante del referendum britannico del 23 giugno. Viene persino prima delle conseguenze economiche. Riguarda la trasformazione del tono della politica. E accomuna attualmente non solo l’intero continente europeo, ma anche gli Stati Uniti. Anche nel Regno Unito nella campagna pre-assassinio il fronte pro Brexit le ha sparate grossissime. Ha brutalmente barato sul contributo lordo e netto di Uk al bilancio comunitario, ha parlato di ondate di profughi in arrivo dalla Turchia con manifesti per i quali Farage si è beccato una denuncia (cosa rarissima, non come da noi dove politica uguale tribunali). La campagna ha ottenuto effetto: in alcuni sondaggi i britannici mostrano di credere che gli immigrati provenienti dalla Ue in Uk siano il 15% della popolazione mentre sono il 5%, che la percentuale di bilancio Ue spesa per costi amministrativi sia del 27% mentre è il 6%, che gli investimenti diretti europei in Uk siano il 30% del totale mentre sono il 49%, e che quelli cinesi siano il 19% mentre sono l’1%. Ma se i britannici pensano questo, se gli americani per Trump nei sondaggi sono multipli rispetto a quanto prevedessero media e intellettuali, se gli argomenti e i toni usati contro eurocrati e immigrati – i due cavali di battaglia di Brexit – sono gli stessi che portano barche di voti a AfD in Germania, FN in Francia, FPÖ in Austria, Lega e M5S da noi, e via via continuando in Polonia, Ungheria eccetera, di tutto questo portano la responsabilità classi dirigenti che in ogni paese sono compromesse con malgoverno e malaffare, incapaci di rigenerarsi e di parlare una lingua più convincente di quella della pura e dura protesta. Non è certo evitando referendum ed elezioni, che si batte il populismo e l’istinto autarchico.
Facciamo un confronto con chi, nel Regno Unito, seppe unire testa e pancia. La Thatcher ripetè per anni ai britannici che l’Unione europea – l’euro no, rimase sempre ferreamente contraria – era conveniente a Londra per il mercato unico, e che Londra non avrebbe mai comunque abdicato ai suoi princìpi. E’ andata esattamente così, ed è per questo che Londra ha goduto e gode di un’amplissima lista di opting out – finanziari e in materia di legislazione e diritti- a favore della propria sovranità.
Che cosa avverrà a questo punto, se i britannici comunque sceglieranno di uscire? La risposta a questa domanda è: nessuno lo sa. Formalmente, il referendum è consultivo. Ma Londra non è Roma dove la politica, dalla Rai al finanziamento dei partiti, ha aggirato anche referendum abrogativi vincolanti. A Londra è fuori discussione che, se vince Brexit, il governo dovrà presentare al Consiglio Europeo una richiesta formale secondo le procedure fissate dall’articolo 50 del Trattato europeo. Forse a farlo – dipende dall’ampiezza della vittoria eventuale di Brexit – non sarebbe un governo Cameron, perché il premier che ha difeso le ragioni della Ue dovrebbe o potrebbe dimettersi, sostituito da un altro del suo partito, visto che sono 53 i parlamentari Tories per l’uscita con 5 ministri, guidati dal combattivissimo segretario alla Giustizia Michael Gove.
Dopo di che il Consiglio europeo sarebbe chiamato a votare all’unanimità le linee guida del negoziato che la Commissione Europea dovrebbe aprire con Londra per l’uscita dalla Ue. Il processo può durare due anni, ulteriormente protraibili. L’accordo finale, quando raggiunto, andrebbe votato nel Consiglio Europeo da una maggioranza qualificata (20 dei 27 paesi membri restanti, rappresentanti almeno il 65% della popolazione Ue). E l’accordo finale andrebbe approvato anche dal Parlamento Europeo, a maggioranza semplice. Durante tutto questo periodo, Londra dovrebbe comunque continuare a rispettare i Trattati europei.
A fianco di questo “accordo di separazione” partirebbe poi il negoziato sulle future relazioni tra Regno Unito e Ue. L’unico precedente, non di uno Stato membro della Ue ma di un territorio che ne è uscito, è quello della Groenlandia – territorio atlantico della Danimarca – che votò in referendum l’uscita nel 1982. E la piccola Groenlandia impiegò più di tre anni per negoziare il suo nuovo status rispetto alla CEE di allora.
Londra si troverebbe a dover dire se preferisca negoziare un accordo con la Ue come membro della EEA, l’area economica europea alla quale appartengono Norvegia, Islanda e Liechtenstein, per i quali valgono moltissime delle regole del Mercato Unico dei beni e dei servizi della Ue. O se invece, con un rapporto più lasco, negoziarlo come membro dell’EFTA, l’area europea di libero commercio, similarmente alla Svizzera. La Svizzera ha impiegato 30 anni, per sottoscrivere con la Ue le 155 intese bilaterali che ne disciplinano i rapporti. La Svizzera aderisce però anche agli accordi sulla libertà delle persone di Schengen, l’esatto opposto di quanto vuole chi nel Regno Unito vuole uscire dalla Ue.
Quel che è sicuro è che il governo tedesco ha già dichiarato che, in caso di Brexit, Berlino non sarà morbida nel negoziato, e negherà l’accesso ai benefici del mercato unico: Londra potrebbe trovarsi a dover negoziare daccapo un accordo sui dazi con la Ue che copra tutti i prodotti industriali ma non quelli dell’agricoltura, servizi e gare per forniture pubbliche, come quello vigente con la Turchia. In ogni caso, l’argomento usato dal fronte Brexit – usciamo dalla Ue per liberarci dagli standard dei burocrati di Bruxelles sui nostri prodotti – non è vero neanche a metà. Liberissimi di stabilirne altri: ma a quel punto non potrebbero venderli in area Ue, verso la quale attualmente è rivolto il 46% dell’intero export britannico.
In caso di Brexit la sterlina si troverebbe a svalutare, secondo opinioni degli analisti, e la forbice massima si spinge fino a un ulteriore 15%. Ma il traino a favore dell’export potrebbe essere breve e problematico, visto che molti prodotti dovrebbero reindirizzarsi verso mercati extra-Ue. Un impatto maggiore avverrebbe sul cuore dell’economia britannica, che non è la manifattura ma il settore dei servizi che pesa per il 78% del PIL, e in particolare su quelli finanziari, che contribuiscono da soli a quasi il 10% del PIL. Molti headequarters di banche europee potrebbero rispostare nei propri paesi le attività oggi insediate a Londra. Salterebbe automaticamente la facoltà che era stata concessa nel 2015 di far permanere nel Regno Unito le stanze di compensazione delle operazioni denominate in euro. L’impatto negativo su banche e finanza si estenderebbe ai servizi professionali e di consulenza. E avrebbe un impatto anche sui prezzi immobiliari, che a Londra sono di nuovo in bolla ma che “muovono” molta economia reale.
E’ vero, Bank of England riattiverebbe massicciamente il proprio QE, ha già fatto capire il suo attuale governatore, Carney, che non ha evitato di far pubblicare alla banca report moto severi sulle conseguenze economiche di Brexit sull’economia. Ma ciò non basterebbe a evitare una considerevole frenata dell’attuale crescita. Le stime per il PIL britannico in caso di Brexit sono le più varie: tra quelle negative, per la London School of Economics vale una forbice da -2,2% negli anni a seguire in caso di intese rapide con la Ue, fino a meno 6,5%-9% in caso di grandi o grandissime complicazioni. La CBI, la Confindustria britannica, stima la minor crescita tra -4% e -5%. Ovviamente sono tutte proiezioni radicalmente respinte dal fronte Brexit: per l’UKIP di Farage restare nella Ue costa a Uk addirittura il 10% del PIL ogni anno.
Ma con Brexit le conseguenze non sarebbero affatto solo britanniche. Per la Ue, il primo effetto è di perdere una potenza nucleare che rafforzerebbe la sua propria alleanza con gli USA, e avrebbe le mani più libere con Putin, per i cui oligarchi Brexit è una manna perché significa meno rischi di trasparenza sui loro capitali in Uk. Economicamente, bisogna invece fare due distinti ragionamenti.
Il primo è quello dei paesi più direttamente esposti, cioè quelli che hanno un maggior flusso con Uk di scambi commerciali, flussi migratori, investimenti diretti reciproci, e interrelazioni bancarie dirette. Sommando i quattro fattori, mentre con Brexit l’Irlanda Lussemburgo Cipro e Olanda rischiano tra l’1 e il 2% del proprio PIL, la Germania si ferma a meno di mezzo punto e l’Italia è in coda tra i paesi meno esposti, per qualche minima frazione di punto. Cosa diversa è immaginare cosa accade invece se riparte, come effetto dell’indebolimento complessivo della Ue, il ballo dello spread. In quel caso la BCE dovrebbe ulteriormente accrescere i suoi 80 miliardi di euro mensili di acquisti sul mercato, ma non ci possiamo illudere: come testimoniato dalle massicce perdite della Borsa nostrana nelle ultime settimane, l’Italia è il paese dell’euroarea subito dopo la Grecia sulla quale i mercati si accaniscono di più, per effetto del nostro alto debito pubblico e della montagna di crediti deteriorati delle banche nostrane.
Credere che in tali condizioni Germania e paesi nordici accettino una svolta verso una Ue “unione dei trasferimenti mutualistici”, a sostegno dei paesi più indebitati e con banche più scassate come l’Italia che chiede tale svolta, è francamente un’illusione. Resa impossibile dal fatto che prima delle elezioni tedesche del 2017 la Merkel e il suo partito – ma anche la SPD – non possono assolutamente fare un simile regalo a AfD, che avrebbe gioco facile nell’ottenere valanghe di voti contro gli “spreconi latini”. Quanto più in altri paesi europei forze politiche nazionaliste e antieuropee chiedessero referendum analoghi a quello britannico, in caso di Brexit, e quanto più ripartissero istanze autonomiste come quella catalana e scozzese, tanto più i mercati si accanirebbero. A ragione: perché in un tale processo di crisi non è inimmaginabile un punto di rottura, di una duplice struttura Ue-Euro così poco coesa. Nella speranza che però, di fronte a rischi tanto forti, le classi dirigenti europee sappiano uscire dalla trappola infernale dei veti.
I casi sono tre, per chi come noi pensa che l’Italia dovrebbe concentrarsi – euro o meno – su decisi interventi di ridimensionamento della finanza pubblica, del fisco e della presenza pubblica nell’economia, nonché su riforme per la produttività stagnante da 20 anni, e per la concorrenza aprendo all’efficienza di mercato le troppo vaste aree dell’economia italiana che le restano sottratte. Bene se UK resta dentro la Ue, battendosi per mostrare che c’è un’alternativa al SuperStato dirigista. Bene anche se, uscendo, dimostrasse comunque che l’idea di far pagare ai tedeschi i nostri debiti è infondata. Malissimo invece se il tutto si avvita in tempi lunghissimi e senza esiti chiari, con elezioni a raffica vinte nei diversi paesi membri da antimercato e statalisti. Se vince Brexit, l’ultimo appare oggi purtroppo l’effetto più probabile. E senza dubbio più oneroso per l’Italia, alla lunga.