14
Giu
2016

I “deficisti” nostrani tifano Brexit e Podemos, noi no

Le cronache politiche italiane sono sature di ogni minimo scambio d battute in vista del ballotaggio ammnistrativo, domenica. In realtà sono molto più importanti altre due tornate: soprattutto il voto al referendum britannico il prossimo 23 giugno, ma anche le elezioni spagnole tre giorni dopo. Con tutto il rispetto per chi uscirà vincitore a Torino, Milano, Roma e Napoli, il quadro europeo rischia in pochi giorni di essere investito da un maremoto. Forse uno tsunami, se i britannici il 23 scelgono alle urne l’uscita dall’Unione Europea. E l’Italia si illude, se ancora una volta pensa di essere immune dagli effetti della possibile tempesta.

Una tempesta che da possibile sembra divenire sempre più probabile, stando ai sondaggi che vedono nel Regno Unito attualmente in vantaggio l’ipotesi di uscita dall’Unione. Quando tre anni fa il premier britannico David Cameron, in vista delle elezioni del 2015, promise agli elettori il voto sull’appartenenza alla UE, non si rese probabilmente ben conto del pandemonio che scatenava. Ha rivinto alla grande le elezioni, l’anno scorso. E grazie ai laburisti ha battuto al referendum in Scozia l’indipendenza del Nord del paese da Londra (che riprenderà fiato, in caso di Brexit). Ma non ha drenato l’opposizione del nazionalista Ukip dI Farage, primo partito alle europee del 2014 e ancora gratificato di oltre il 12% dei voti alle politiche del 2015. Né ha impedito che i Tories vadano al referendum spaccati, con circa metà dei parlamentari e cinque ministri pronti a riconoscere l’ex sindaco di Londra Boris Johnson come leader del partito, e capo riconosciuto dell’uscita di Londra dalla Ue.

Serve a poco ricordare che la Thatcher a metà anni Settanta propose ai britannici i vantaggi dell’Europa in cambio di una strenua difesa delle “eccezioni” garantite alla sovranità britannica. Eccezioni che Cameron ha ulteriormente rafforzato col pieno consenso europeo pochi mesi fa. La Thatcher ha avuto ragione. L’Europa con la sua politica tassa-spendi e il forte interventismo statale non ha impedito affatto al Regno Unito la rivoluzione liberal-liberista che ha segnato il suo rilancio mondiale, e che Tony Blair si guardò bene dallo smontare.  Ogni sforzo è stato fatto ora per ricordare ai britannici che se votano col portafoglio conviene loro restare nella Ue: rimarrebbero col primato continentale dei loro servizi finanziari, e continuerebbero ad avvantaggiarsene nell’economia reale, visto che il 45% dell’export è verso la Ue. Ma questa Europa attuale non è più misurata dagli elettorati sulle convenienze reali. E’ il cuore di milioni di europei, che Bruxelles ha perso. Persino nella nostra Italia. Figuriamoci dei britannici.  Agli occhi di molti dei quali l’Unione è diventata un pericoloso ponte per accelerare la crescita del quasi 14% di stranieri residenti nel Paese, a spese del proprio welfare.

Cameron e la business community ribadiscono ogni giorno stime sempre più allarmanti della perdita che Brexit comporterebbe per il Regno Unito: meno export e meno crescita, il trasferimento degli headquarters di molti gruppi finanziari, l’illusione che la svalutazione della sterlina possa compensare le perdite, visto che occorrerebbero molti anni prima di ottenere con la Ue le oltre 150 intese commerciali bilaterali che consentono alla Svizzera di prosperare ed essere “europea” pur fuori dalla Ue. Il superministro delle Finanze tedesco Schaueble è stato chiaro, in proposito. Berlino ha bisogno di Londra per equilibrare il ruolo statalista e deficista di Parigi: ma se Londra esce, non s‘illuda di trovare nei tedeschi una sponda collaborativa per rapide nuove intese commerciali.

Il perché è presto detto. Se esce Londra, non è la Grecia. E’ una potenza nucleare, che se ne va facendo restare in piedi la sua intesa militare bilaterale con la Francia, che è potenza nucleare anch’essa. Ed è un segnale ad altri grandi e piccoli paesi europei: un segnale che parla alle forze antieuropeiste e antitedesche che in molti di essi sono sempre più forti. Poco importa loro, nel nostro paese, che l’Italia non abbia le banche britanniche né un posto fisso al Consiglio di sicurezza dell’Onu grazie alle sue atomiche. In Italia parti rilevanti della destra e della sinistra e dei pentastellati sono pronti, chi più chi meno, a rilanciare la carta tricolore dell’uscita da euro e Ue.

La narrativa italiana predominante è diventata quella che accolla ai tedeschi le colpe dei problemi che noi non abbiamo risolto: il nostro eccesso di debito pubblico, la bassissima produttività, la persistente chiusura alla concorrenza ed efficienza dei servizi pubblici e anche di vasta parte dei servizi alle imprese sul mercato domestico (a cominciare dalle professioni), l’amplissima connivenza del privato con regole falsate nei 140 miliardi di forniture pubbliche. Destra e populisti predicano il ritorno salvifico alla liretta e alle sue svalutazioni, celando o sminuendo all’opinione pubblica la botta mostruosa che nel breve registrerebbe il valore di ogni reddito risparmio e patrimonio nostrani, riconvertiti in lirette. Mentre Pd e sinistra estrema preferiscono parlare, in caso di Brexit, di un grande attacco all’ ”austerity” – la parola a me fa ridere, vista la spesa pubblica in Italia l’austerity è stata solo del contribuente per rincorrere la spesa corrente ..- di  Berlino, per costringerla ad accettare l’Europa mutualistica: quella in cui i tedeschi, olandesi e finlandesi si accollano la ristrutturazione di 30-40 punti di PIL del nostro debito, e perché no, anche dello smaltimento dei nostri crediti bancari deteriorati, che sono un terzo di quelli dell’intera euroarea. I leader politici del Pd sanno benissimo che è una strategia irrealistica: tanto più prima delle elezioni tedesche previste nel 2017. Finora, l’idea di costruire intorno all’Italia la grande alleanza dei paesi deficisti non è mai riuscita ad aggregare la maggioranza dei paesi membri. Ma tant’è, la politica vive ormai di storytelling.

Gli antieuropeisti nostrani hanno venature diverse: dalla nostalgia dell’autarchia all’antimercatismo diffuso, al ritorno a una Banca d’Italia che batta moneta e torni a vigilare discrezionalmente un credito relazionale che, grazie alla vigilanza della BCE, è finalmente esploso in tutte le sue contraddizioni negli ultimi 2 anni. E’ una vera trasformazione quella avvenuta a via Nazionale: da battistrada delle scelte europee dell’Italia a portabandiera della contestazione frontale alle regole comuni. Mentre in altri paesi europei la protesta antieuropea “dal basso” s’identifica nello slogan  “basta coi banchieri”, il paradosso da noi è che al vertice delle istituzioni finanziarie abbia invece come slogan “viva i banchieri amici degli amici”. Ed è anche per questo che Tesoro e Bankitalia in queste settimane hanno sminuito il rischio per l’Italia, in caso di Brexit. Smentiti drasticamente dalle cadute in serie della Borsa italiana, la peggiore in Europa dopo quella di Atene: perché se con Brexit riparte la spread-dance, malgrado il QE della BCE la verità è che i mercati riprenderanno ad aggredire noi non perché siano cattivi o “tedeschi”, ma per i nostri purtroppo ancora deboli fondamentali, che hanno bisogno di anni di cure e riforme.

Ma, pur con tutte le loro differenze, gli antieuropeisti sperano che, dopo Brexit o anche a prescindere da Brexit, in ogni caso in Spagna tre giorni dopo vinca in Spagna Unidos Podemos di Pablo Iglesias, succhiando un bel po’ di altri voti ai socialisti di Pedro Sanchez che nei sondaggi sono in grande difficoltà, e dando vita in Spagna a quel punto a un governo destinato a spazzare vie tutte le riforme liberali di questi ultimi anni, in nome del deficit spacciato come la vera via alla giustizia sociale.

Nessuno, oggi, è in grado di dire davvero l’esito del gorgo che può aprirsi per l’euro e l’Europa, se con Brexit si smentisce l’irreversibilità del processo europeo e della moneta comune. Niente è scritto una volta per tutte, nella storia. Per chi è liberal-liberista meglio Uk dentro la Ue che fuori, perché è una sponda per contenere statalismo e dirigismo continentale. Ma, in caso di uscita, certo il Regno Unito continuerebbe ad avere una forza che, con tutto il rispetto per i moltissimi ormai che la pensano al contrario in Italia, noi al momento possiamo solo sognare. All’Europa latina del deficit libero ci penserebbero i mercati a presentare presto o tardi il conto, in un mondo reso instabilissimo dalla crisi dei BRICs, dal rallentamento della Cina, dall’oscillazione ondivaga del barile, e dal terrorismo islamista.

 

12
Giu
2016

FMI e neoliberismo: Conversione ma non troppo

Pochi giorni fa, sulla rivista Finance and Development del Fondo Monetario Internazionale, è stato pubblicato un saggio dal titolo “Neoliberalism: Oversold?” a firma di Ostry, vice direttore del dipartimento di ricerca, Loungani, capo della divisione macroeconomia dello sviluppo, e Furceri, economista italiano in forza al dipartimento di ricerca.

Il contenuto del saggio è meno sorprendente di quanto non sia il titolo, nonostante molti commentatori, italiani e non (qui e qui un esempio dei primi e dei secondi), si siano affrettati a celebrare la tanto attesa “conversione” del FMI. Una volta definita l’agenda neoliberista come un’agenda che poggia sui principi della concorrenza e di un ruolo ridotto dello Stato nell’economia, gli autori infatti chiariscono come un’agenda di questo tipo abbia dalla sua innumerevoli ragioni per essere sostenuta: “l’espansione del commercio mondiale ha liberato milioni di persone dalla povertà. Gli investimenti stranieri sono spesso stati un modo per trasferire tecnologie e conoscenza alle economie in via di sviluppo. La privatizzazione di imprese statali ha spesso portato a un’offerta più efficiente dei servizi pubblici e a una riduzione della pressione fiscale da parte dei governi”.

Nondimeno, secondo gli autori, due specifiche politiche di ispirazione neoliberista nel senso appena spiegato, ovvero la liberalizzazione del movimento dei capitali (in particolare dei capitali destinati a investimenti a breve termine) e le politiche di consolidamento fiscale (l’austerità), avrebbero comportato conseguenze inintenzionali negative: dubbi benefici in termini di crescita nel breve termine e un aumento delle disuguaglianze che a sua volta minerebbe la sostenibilità e il livello della crescita nel lungo termine.

Nel caso della liberalizzazione del movimento dei capitali, è comunque importante sottolineare come i nostri autori non abbiano dubbi circa i vantaggi che scaturiscono dall’apertura finanziaria. Consentire che i capitali siano diretti dove possono ottenere un rendimento più elevato è alla base dell’efficienza economica ed è ciò che ha consentito a milioni di persone nei paesi in via di sviluppo di liberarsi rapidamente dalla povertà estrema. Tuttavia essi sostengono che gli investimenti a breve termine non sarebbero tanto benefici quanto quelli a lungo termine. Un modo di semplificare la questione che va a svantaggio della chiarezza. Sarebbe il caso di domandarsi perché un paese, a differenza di altri, non riesce a trattenere capitali per lungo tempo. Obbligare chi investe a farlo “a lungo” ex ante, significa impedirgli di decidere di cambiare strada nel malaugurato caso si accorga di aver fatto un investimento sbagliato.

Quanto all’austerity, i detrattori di casa nostra si calmino subito. Gli autori scrivono a chiare lettere che “non c’è dubbio che molti paesi (come quelli dell’Europa del sud) non hanno altra scelta che intraprendere una strada di consolidazione fiscale, dal momento che i mercati non gli permetterebbero di continuare a prendere a prestito”. Tuttavia, proseguono, che alcuni paesi abbiano la necessità di consolidare le finanze pubbliche non significa che la stessa strada sia quella auspicabile per tutti i paesi. “Gli episodi di consolidamento fiscale sono seguiti, in media, a cadute del prodotto più che a espansioni”.

Intanto si direbbe che un’analisi “in media” non renda giustizia a una pubblicazione del FMI. In ogni caso, nulla di nuovo è stato detto. Innanzitutto, come già sapevamo, se lo Stato italiano vuole continuare a ottenere prestiti non ha altra scelta se non quella del consolidamento. Inoltre, già qualche tempo fa la Banca Centrale Europea aveva pubblicato uno studio in cui si sosteneva che non tutte le forme di austerità funzionano allo stesso modo. In particolare, nello studio veniva mostrato che l’austerità migliore se si vuole perseguire la crescita è quella che non viene fatta pagare ai contribuenti, ma al contrario viene applicata attraverso tagli alla spesa pubblica (qui un commento dello studio). Sappiamo bene quanto questi siano rari.

Per finire, è evidente che a parità di crescita saremmo tutti felici di avere meno disuguaglianza. Ma le società più uguali nel corso della storia sono state quelle in cui tutti erano cacciatori o raccoglitori. La disuguaglianza è cominciata ad aumentare non appena le società sono diventate più ampie e si è introdotta la specializzazione del lavoro. Tutti ne hanno beneficiato e qualcuno si è arricchito molto più di altri. Grazie a questa dinamica, la grande maggioranza di noi gode oggi di benefici che fino a poco tempo fa rappresentavano un lusso per pochi (aria condizionata, viaggi intercontinentali, comunicazione istantanea con fratelli, amici e cari dall’altra parte del mondo). E’ curioso che il problema della disuguaglianza sia percepito come tale soprattutto in periodi in cui non si cresce. Forse perché il vero problema non è tanto la disuguaglianza, quanto il numero di persone che viene costretto alle condizioni di povertà. Per ridurre questo numero al minimo, come viene velatamente ricordato anche dagli autori di questo saggio, fino a oggi non è stato trovato nulla di altrettanto efficace a quanto tanto piace ai neoliberisti: il libero mercato.

@paolobelardinel

10
Giu
2016

La bestialità di tutele diverse tra lavoro pubblico e privato: ma è colpa dei governi, non dei giudici

L’Italia è un paese dove la legge dovrebbe essere uguale per tutti. Naturalmente, non è così. Politici e magistrati fanno a gara a impedirlo. A cominciare dal mercato del lavoro. I diritti fondamentali nei rapporti di lavoro sono diversi tra dipendenti privati e pubblici? No, direbbe il buon senso. Invece sì, ha sentenziato molte volte la Corte Costituzionale. Ma almeno è chiaro se le riforme approvate in questi anni limitatamente allo Statuto dei Lavoratori si applicano anche ai dipendenti pubblici, come sembrerebbe ovvio visto il rinvio esplicito che il Testo Unico del Pubblico Impiego fa allo Statuto? Sì, certo, direbbe il buon senso: se il Testo Unico rinvia alla legge 300 del 1970 ed essa viene modificata, è ovvio che le modifiche valgano per tutti allo stesso modo. E invece no, dicono due diverse sentenze della Corte di Cassazione, la 24157/2015 del novembre scorso, e la 11868/2016 depositata ieri. Sentenze che verrebbe facile definire di senso opposto: la prima infatti è favorevole all’omologazione privato-pubblico delle modifiche in materia di articolo 18 dello Statuto sui licenziamenti, operati dalla riforma Fornero prima nel 2012 (la sentenza si riferiva a quella modifica) ed ergo per estensione poi dal Jobs Act del governo Renzi; mentre quella di ieri sostiene il contrario. Motivo per il quale molte delle prime reazioni ieri hanno sottolineato il paradosso di tesi contrapposte, mentre ovviamente sindacati e politici contrari al nuovo articolo 18 esultano.

Prendersela coi giudici filopubblicisti e statalisti, dunque? Per rispondere bisogna capire, e per capire occorre un po’ di pazienza. Le sentenze della Cassazione, apparentemente opposte, non lo sono poi tanto. Entrambe richiamano la necessità di esplicite norme di armonizzazione, quando si interviene nel diritto del lavoro, per sancirne l’applicazione anche ai dipendenti pubblici: ed è una tesi molte volte motivata in sentenze della Corte Costituzionale. La politica lo sapeva benissimo, che queste norme ad hoc esplicite servivano, per applicare alla PA l’articolo 18 modificato dal governo Monti e poi da quello Renzi. Ma non le ha scritte. E, almeno nel caso del governo Renzi, non per dimenticanza o ignoranza, ma perché ha sempre sostenuto che la sua riforma non si applica ai dipendenti pubblici: anche se non l’ha scritto in un testo di legge. Insomma è con la politica che dovete prendervela e non con i magistrati, se come me pensate che sia iniquo (anzi: un vero schifo) avere i dipendenti pubblici più tutelati dei privati, e cioè con molti più margini per ottenere una reintegra giudiziale in caso di licenziamento, visto che per i dipendenti privati resta solo nel caso di comprovato licenziamento discriminatorio, mentre c’è solo un’indennità per quelli economici e per giustificato motivo soggettivo.

Ricordiamo però il punto di fondo: la giurisprudenza della Corte Costituzionale, in materia di differenza tra lavoro pubblico e privato. E’ l’ennesima volta che lo faccio in questi anni, ma repetita iuvant. Per esempio la sentenza numero 146 del 2008. “Malgrado la progressiva assimilazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni con quello alle dipendenze dei datori di lavoro privati, sussistono ancora differenze sostanziali che rendono le due situazioni non omogenee. Questa Corte in più occasioni ha ammesso la possibilità di una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite «della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali» (sentenza n. 275 del 2001). La pubblica amministrazione, infatti, «conserva pur sempre – anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato – una connotazione peculiare», essendo tenuta «al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa» (sentenza n. 82 del 2003)”. La Corte costituzionale respinse con quella sentenza del 2008 la pretesa di estendere automaticamente un trattamento dal privato al pubblico, “in nome delle specificità irriducibili del lavoro pubblico per il quale rileva l’articolo 97 della Costituzione”.

Numerose sentenze delle sezioni civili nonché riunite della Corte di Cassazione sono state ispirate alla medesima linea, la perdurante “non omogeneità” del lavoro pubblico e privato. Ma attenzione, la Corte Costituzionale non ha mai escluso la possibilità di omologazione tra lavoro pubblico e privato: ha sempre escluso invece “l’automaticità” dell’applicazione delle riforme alla PA in assenza di norme ad hoc, che contemperassero il rispetto dell’art.97 della Costituzione in materia di autonomia e indipendenza della pubblica amministrazione.

Entrambe le sentenze apparentemente opposte della Cassazione  sopra richiamate, quella di ieri e quella del novembre scorso, esplicitamente anch’esse infatti richiamano la necessità di “norme di armonizzazione”. La differenza delle due sentenze sta nel fatto che la prima riconosceva la nullità di un licenziamento pubblico in Sicilia per violazione delle norme vigenti sui provvedimenti disciplinari, decidendo a favore del ricorrente l’indennità prevista dalla legge Fornero. Mentre la sentenza di ieri dà ragione a un altro dipendente pubblico licenziato per doppio lavoro, ma ancora una volta perché l’amministrazione pubblica non gli ha riconosciuto l’indennità riconosciuta dalla legge Fornero in caso di violazione anche qui avvenuta sulle contestazioni disciplinari, e rinvia la decisione alla Corte d’appello. Come si vede, le sentenze sono molto più analoghe di quanto sembri: la differenza è che questa seconda però prende risolutamente atto del fatto che le norme attuative ad hoc per l’applicazione delle nuove norme alla PA continuano a mancare, ergo in loro assenza per la PA resta il vecchio dettato dello Statuto dei Lavoratori e non il nuovo.

Il governo Renzi è d’accordo: sin dall’inizio ha affermato in interviste che il nuovo articolo 18 no vale per il lavoro pubblico. Nel Pd erano in pochi come il senatore Ichino a sostenere il contrario, insieme al viceministro Enrico Zanetti e ai parlamentari di Scelta Civica. La maggioranza del Pd, come Damiano o Baretta, è sempre stata contro l’omologazione, oltre alla minoranza del partito e naturalmente alla CGIL, UIL e Cobas.

Il risultato è l’ennesima frammentazione del mondo del lavoro. Un’occasione persa. Un errore vero e grande. Non solo la reintegra giudiziale che resterà per i lavoratori pubblici tra gli italiani “privati” è incomprensibile e impopolare, a maggior ragione con i numerosi casi scandalosi che puntualmente avvengono anche a fronte di licenziamenti per macroscopiche mancanze disciplinari. Inoltre, escludere dal lavoro pubblico il contratto a tutele crescenti è un errore anche perché consentirebbe di vagliare meglio la professionalità dei nuovi ingressi, concorso o non concorso vinto per accedere al ruolo. Ma soprattutto perché il fronte sindacale non era affatto unitario, nel difendere l’inapplicabilità ai lavoratori pubblici delle stesse regole del privato. Il segretario della funzione pubblica Cisl Faverin si era detto pronto alla piena parificazione tra pubblico e privato, nell’ambito dei nuovi contratti da scrivere nel pubblico impiego dopo 5 anni di stop. Non cogliere né l’umore profondo degli italiani, né importanti disponibilità sindacali a ragionare in modo nuovo, è una battuta a vuoto per l’innovazione dell’Italia.

 

7
Giu
2016

Monopolio Siae, il mercato fa bene a artisti e..Siae

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato è intervenuta in questi giorni con un proprio parere per sollecitare l’azione del governo e del Parlamento in favore dell’abolizione del monopolio Siae e la conseguente apertura del mercato della gestione collettiva dei diritti d’autore.

Il 10 aprile, infatti, è scaduto il termine per il recepimento della direttiva 2014/26/UE sulla gestione collettiva dei diritti d’autore, senza che il Governo abbia provveduto ad adeguare la normativa nazionale introducendo i nuovi obblighi di trasparenza previsti per le collecting society (leggi Siae) e optando per la liberalizzazione di un mercato che oggi è già aperto alla concorrenza da parte di soggetti esteri.

Secondo l’Antitrust, mantenendo l’attuale divieto di svolgere in Italia l’attività riservata dalla legge alla Siae e per quanto la direttiva non imponga espressamente l’abolizione dei monopoli nazionali, si limiterebbe comunque in modo sostanziale agli artisti la facoltà di scegliere l’organismo di gestione collettiva in violazione della direttiva e si comprimerebbe indebitamente la libera iniziativa economica in un settore che l’Unione europea ha aperto alla concorrenza.

L’autorità, inoltre, osserva come le restrizioni alla libera concorrenza possano essere particolarmente di nocumento per i consumatori e gli aventi diritto in un contesto interessato da continue innovazioni tecnologiche.

E in effetti, da uno studio condotto 6 anni fa per l’Istituto Bruno Leoni Read More

6
Giu
2016

L’Italia è una Repubblica fondata (sulle tasse) sul lavoro.

Ho sempre pensato che il primo fosse uno degli articoli della Costituzione più intrisi di ideologia. Ma a pensarci meglio credo sia vero il contrario, perché ora lo leggo come un’asserzione che corrisponde esattamente alla realtà dei fatti. Su cosa se non sulle risorse sottratte ai contribuenti, ossia i frutti del lavoro di ognuno di noi, si reggono i costi di una repubblica? Read More

31
Mag
2016

Scuola: 13% di addetti con permessi ex lege 104, solo 1,5% nel privato. Ora basta

Bisogna dare atto al governo di esser stato di parola.  Poco dopo il suo insediamento, nel quadro delle misure di ricognizione dei dati della Pubblica amministrazione, aveva annunciato anche l’interpello all’intero sistema scolastico sull’utilizzo della legge 104 del 1992, quella che consente ai lavoratori dipendenti tre giorni di permesso retribuito al mese per assistere congiunti portatori di handicap e malati gravi. II governo ha mantenuto l’impegno. Anche le scuole di ogni ordine e grado sono state dunque sottoposte – come il resto della PA – all’obbligo di comunicazione annuale dei nominativi di chi beneficia dei permessi, dell’assistito e del rapporto di parentela, oltre che del contingente complessivo di giorni e ore di permesso fruiti da ciascun lavoratore nel corso dell’anno in ciascun mese. In teoria l’obbligo vigeva da anni, ribadito dalla legge 183 del 2010 all’articolo 24, ma era rimasto per i più solo sulla carta.

I sindacati della scuola hanno protestato sin dall’inizio, parlando di accanimento contro i diritti dei lavoratori. Ma ora che conosciamo i risultati della ricognizione quelle proteste appaiono del tutto ingiustificate. A fronte dell’1,5% di lavoratori del settore privato che beneficiano della 104, il personale di ruolo della scuola italiana a goderne è invece il 13%, che arriva al 17% nel personate ATA cioè tecnico-amministrativo. Il divario tra le regioni è fortissimo: si va dall’8.9% del Piemonte e al 9,7% del Veneto al 16,3% del Lazio, al 16,7% in Sicilia fino al 18,9% in Sardegna. Tra il personale ATA, vi sono regioni come Umbria e Lazio in cui i benefici della 104 sono riconosciuti a un lavoratore su 4, mentre in Piemonte sono meno di 1 su 8.

Si tratta di percentuali talmente multiple rispetto a quelle del lavoro privato, e talmente disomogenee per regione rispetto agli indici di patologie gravi e disabilità sul totale della popolazione, da rendere purtroppo più che legittimo e fondato un elevato sospetto. Basti il fatto che tra i supplenti la percentuale scende al 5%: ora è vero che sono più giovani, in media, rispetto agli insegnanti di ruolo, ma non poi così giovanissimi – visti i decenni di precariato alle spalle, per cui ne è stata decisa dal governo la massiccia regolarizzazione – da giustificare un indice inferiore di quasi sette decimi a quello di chi è in ruolo.

A questo punto, una ovvia precisazione. Non intendo minimamente negare la piena fondatezza di una legge e di un diritto che sono nati prendendo atto delle insufficienze della sanità e del welfare pubblico, rispetto ai carichi gravosi lasciati sulle famiglie in caso di serie disabilità e patologie. Ma i dati indicano una cosa con chiarezza, a chiunque abbia un minimo di senso della giustizia ed equità.  Bisogna farla finita con i furbi, quindi bisogna rivedere e potenziare i controlli. Proprio per distinguere chi ha pieno diritto a dover alleviare le proprie sofferenze in famiglia, da chi invece ne approfitta bassamente per lavorare meno. Non è possibile  accettare un mondo del lavoro in cui il privato segue regole rigorose, e il pubblico concepisce e attua invece la 104 come se garantisse un minor carico di lavoro rispetto a quello contrattuale, a spese del sistema sanitario nazionale chiamato a rifondere all’INPS le somme che esso anticipa.

Fino a oggi l’andazzo è stato troppo tollerato. Ieri, ai microfoni della trasmissione che conduco a radio24, il vicepresidente dell’associazione nazionale presidi Mario Rusconi ha raccontato di quando, denunciata da parte sua alla procura un’insegnante che fruiva di ben tre permessi ex lege 104 e che era risultata non averne diritto alle verifiche disposte, dopo il licenziamento per giusta causa disposto dall’amministrazione scolastica il giudice aveva invece deciso per la reintegra. Un chiaro segnale a tutti i dirigenti scolastici: fatevi i fatti vostri.

Un tale atteggiamento di compiacenza deve sparire. Perciò bisogna rimettere mano ai controlli. Le sentenze della Corte di Cassazione accumulatesi negli ultimi anni ne hanno già posto le basi. L’abuso della 104 può avvenire sia violando i requisiti delle patologie e disabilità previste dalla legge per i soggetti da assistere, sia l’oggettività del rapporto che solo eccezionalmente può essere esteso ai parenti di terzo grado, sia se al posto dell’effettiva assistenza nelle ore di permesso ci si dedica a diverse attività private o lavorative. A seconda della gravità delle violazioni, le sanzioni disciplinari pubbliche arrivano sino al licenziamento per giusta causa. E in quel caso si possono configurare anche le aggravanti della truffa e del danno erariale. La Cassazione ha legittimato anche il cosiddetto “controllo occulto difensivo”, respingendo le impugnative di lavoratori licenziati a seguito del ricorso da parte dei datori di lavoro a investigatori privati, per accertare l’effettivo comportamento dei dipendenti durante i permessi accordati secondo la legge 104. E alle sanzioni disciplinari pubbliche si accompagnano quelle INPS, con il recupero delle somme erogate.

Esiste senza dubbio un problema di potenziamento del personale da destinare ai controlli, sia nell’ambito del servizio sanitario nazionale sia nell’INPS.  Oggi, per poter chiedere di avvalersi della 104, un lavoratore dipendente deve aver ottenuto da una commissione medica incaricata il riconoscimento per il familiare da assistere di soggetto portatore dell’handicap e patologie indicate dalla legge. Se ne occupa una commissione in ogni Asl preposta all’accertamento. Per essere effettivi, i controlli dovrebbero sempre essere effettuati da una Asl diversa da quella di origine, in maniera che non debba giudicare se stesso chi ha eventualmente certificato abusi magari lucrando, perché oltre ai permessi 104 ha acconsentito anche ad assegni di accompagnamento o a una pensione sociale minima. E qui si aggiunge un problema del tutto analogo al riconoscimento delle invalidità ai fini previdenziali: c’è un lungo contenzioso tecnico tra i medici INPS inseriti nelle commissioni Asl e viceversa, senza la cui soluzione i controlli restano in buona parte inefficaci.

Due considerazioni finali. Il problema non riguarda affatto solo la scuola. In moltissime società controllate pubbliche i beneficiari della 104 sono molto superiori al 13% del sistema scolastico. All’AMA di Roma 2 anni fa scoppiò lo scandalo alla notizia che la percentuale raggiungeva quasi il 25%. E l’anno scorso la società ha licenziato i primi due dipendenti beccati dai controlli a fare shopping ed esercizi in palestra, invece di assistere i parenti disabili. Ma due rondini sole non fanno primavera..

Infine, c’è una vera e propria idea sballata di fondo, da svellere. Quella che aver tenuto gli occhi chiusi su questi fenomeni fosse un modo per equilibrare il fatto che al settore pubblico si riservassero blocco del turnover ergo anche invecchiamento medio dei dipendenti – i nostri insegnanti sono i più anziani tra tutti i paesi OCSE – e blocco dei contratti. E’ un’idea inaccettabile. Ora che anche lo Stato dichiara di tornare a nuovi contratti e, speriamo, si avvia a offrire salari di merito davvero capaci di premiare risultati e impegno, a maggior ragione non si può chiedere ai dipendenti privati di tollerare un simile lassismo pubblico.

 

30
Mag
2016

Esselunga, dal benestante al fuori sede – di Michele Pisano

Perché il fenomeno targato Caprotti piace a molti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Michele Pisano.

Di Esselunga i giornali hanno parlato di recente soprattutto per una causa civile, che – senza entrare nel dettaglio degli aspetti giudiziari – ruotava attorno alle quote di Supermarkets Italiani s.p.a., la holding che controlla Esselunga, e ha coinvolto la famiglia Caprotti, padre e figli, con Bernardo vincitore in appello.

Questi aspetti tuttavia non hanno affatto minato la costante forza del gruppo Esselunga a Milano, e in altre parti d’Italia, in cui c’è grande ammirazione per la società fondata da Bernardo Caprotti.

Un gruppo fortissimo, che negli ultimi anni ha segnato numeri più che positivi: nel 2014 un utile di 212 milioni e vendite per 7 miliardi, con una crescita dello 0,8 per cento e nuove assunzioni in cantiere. Nel 2015 invece l’utile è cresciuto del 37 per cento, arrivando a 290 milioni di euro. Anche le vendite sono cresciute, del 4,3 per cento, pari a 7,3 miliardi, addirittura più del mercato di riferimento che registra una crescita al 2,8. Gli investimenti sono stati di 400 milioni: Esselunga negli ultimi cinque anni ha investito complessivamente 1,8 miliardi. Read More

27
Mag
2016

“Il radicale inventa le opinioni; quando le ha sperimentate, interviene il conservatore e le adotta” (Mark Twain)

“1997 – 1998, Suicidio o trionfo dell’imprenditore italiano: due secoli dopo” (di Marco Pannella)

Il “Terzo Stato” dell’impresa, della produzione, del lavoro e della scienza; dei non garantiti e delle vittime dello “Stato”; dei “padroni” e dei disoccupati; dei sette milioni di partite IVA, dei cinque milioni e mezzo di imprenditori e dei tre milioni di senza lavoro, degli immigrati e dei nonemigranti, dei cittadini senza diritti. Il “Terzo Stato” italiano c’è e vive in un sistema ed in un regime letteralmente fuorilegge e di fuorilegge, sotto un dominio burocratico ed in condizioni prerivoluzionarie. Sette milioni di “partite IVA”. (..) Quattrocentomila “imprenditori” del NordEst. Stato e leggi che soffocano, corrompono, esasperano, falliscono e fanno fallire. La insostenibile pressione fiscale. Non si può assumere perché non si può licenziare. Non c’è libertà politica se non c’è anche libertà economica, d’impresa, di lavoro. Occorre urgentemente riformare lo Stato sociale, la Previdenza, il regime delle pensioni, lo Stato, le istituzioni. La giustizia non funziona, ci vogliono dieci anni per riscuotere un credito, liberare il solo appartamento che si possiede, esser riconosciuto innocente, veder condannati i colpevoli, i corrotti ed i corruttori. Ci vuole l’Unità europea e italiana, la Secessione, il semipresidenzialismo francese corretto all’italiana, alla neozelandese, alla libanese, al diavolo! Se potessimo assumere part time, a domicilio, a tempo determinato, già da subito tutto cambierebbe. Il Sindacato, i sindacalisti, i burocrati parassitari delle Confederazioni, i “caporali” di categoria e di mestiere, i “distaccati” a vita, le Bicamerali con cucina, e, ogni giorno, ogni ora, tutti i giornali, tutte le televisioni, che ripetono lo stesso disco ossessivo: i tavoli di concertazione, con concertati, concertini e blablabla; e i blablabla sui blablabla dei soliti quacquaraqua; “informano” su tutto, tranne che su ciò che potrebbe davvero informare ciascuno di quel che può fare per realizzare quanto vuole realizzare; tranne che su quanto sarebbe già possibile a ciascuno, ora e su quasi tutto, o almeno su quel che gli conviene e gli interessa. Certo, ci sono i pedofili, gli “albanesi”, i pentiti, gli arrestati, e, a gogo, Prodi e Cofferati, D’Alema e Berlusconi, Bertinotti e Ribertinotti: ma mai le lotte civili, ma mai l’epopea quotidiana o la tragedia di una sola fra le seisette milioni di famiglie di imprenditori, di commercianti, di artigiani, di professionisti onesti, di lavoratori dipendenti che con il sostituto d’imposta ritenuta alla fonte in busta paga lavorano fino al 15 del mese per “lo Stato”, e solo dal 16 per sé e per la propria famiglia. Che noia e che nausea, oltre che sdegno! Un sistema, un regime, un ceto dominante burocratico che non conta nemmeno un milione di membri effettivi, cui tutto è delegato, mentre il popolo soffre, mugugna, si rassegna o smadonna, ma non conta o non fa nulla: se non tornare a votare sempre per gli stessi, o gli stessi “diversi” di nomina del potere; se non continuare ad “arrangiarsi” ben sapendo che non potrà farlo all’infinito, ma facendo come se non lo sapesse. Anche oggi il “Terzo Stato” delle sette milioni di partite IVA; dei cinque milioni e mezzo di “imprenditori”; dei 400 mila “imprenditori del NordEst” e dei 3 milioni di disoccupati… Il “Terzo Stato” dei quaranta milioni su cinquanta di elettori italiani, che vorrebbero il sistema “americano”(..); che rigettano con sdegno il “finanziamento pubblico” dei partiti; che rivendicano libertà economica e diritto di iniziativa; che riformerebbero radicalmente l’amministrazione della giustizia e delle finanze in direzione dello Stato di diritto e del mercato; che sono e sono stati per i diritti civili, laici, libertari, contro i DNA delle due grandi chiese mondane, la cattolica e la comunista, difendendo così anche la fede, la coscienza e la libertà dei credenti e dei cittadini (…)”.

26
Mag
2016

Docce fredde su ripresa ITA, fat tails e risposte sul fisco

Benvenuti nel mondo delle fat tails, cioè delle code lunghe e spesse. E’ un’espressione che si usa nello studio delle correlazioni economiche, per misurare le distribuzioni statistiche. E descrive meglio di tante altre la difficoltà di affidabili previsioni, viste molte delle caratteristiche che ha assunto l’economia mondiale. La riprova la stiamo osservando in Italia.

Solo due settimane fa, l’Istat stimava preliminarmente la crescita del PIL italiano nel primo trimestre a +0,3%: finalmente si interrompeva verso l’alto il decalage che ci aveva visto scendere da +0,4% nel primo trimestre 2015 al lumicino dello +0,1%, alla fine dell’anno scorso. Come nei due trimestri precedenti, la ripresina italiana a inizio 2016 non era più trainata dalla domanda estera, visto che il commercio mondiale è in frenata per via della crisi dei BRICs, ma dalla domanda interna, cioè dalla ripresa dei consumi e da primi barlumi di ripresa degli investimenti. Ciò renderebbe possibile un +1% o poco più di aumento del PIL nel 2016, inferiore alle attese del governo e a quanto crescerà in media la Ue: ma comunque la frenata precedente italiana a inizio 2016 cambiava di segno.

Pochi giorni dopo, i dati dell’osservatorio INPS sui contratti di lavoro nel primo trimestre 2016 rispetto al 2015: una doccia gelata. Nei primi tre mesi dell’anno -162mila contratti a tempo indeterminato rispetto al 2015, -31% le trasformazioni da determinato a indeterminato, e al netto delle trasformazioni tra contratti, una differenza tra attivazioni e cessazioni negativa di -53.339 unità cioè peggiore del primo trimestre 2014, quando non c’era la decontribuzione alle imprese, e con solo il 33,2% dei nuovi contratti a tempo indeterminato mentre nel 2014 era il 36,2%.

Ieri, un’altra grandinata. L’Istat rileva che l’industria italiana a marzo registra la peggior frenata per fatturato dall’estate 2013, con un -3,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. In discesa anche gli ordinativi, del -3,3%. A determinare la caduta la prima frenata da fine 2013 della sin qui tumultuosa crescita a due cifre dell’auto, il vero settore a cui dobbiamo grazie a Marchionne il più della ripresina italiana sin qui. E il crollo di quasi un quarto del fatturato del comparto estrattivo e petrolifero (grazie anche alla bella pensata del referendum anti-trivelle).  Dell’auto, ce lo si poteva aspettare dopo 2 anni di “ripresona”. La cosa più preoccupante è invece rappresenta dal calo del fatturato sul mercato domestico – brutto segno rispetto alla ripresa dei consumi di cui si vedevano i primi segni nel dato trimestrale del PIL – e dalla diminuzione degli ordinativi, insieme sia domestici sia esteri.

Torniamo alle code lunghe. Quando per le previsioni si applicano modelli dinamici di probabilità per calcolarne l’effetto di correlazione, se la distribuzione è più alta nel valore centrale con code lunghe e spesse, più sono lunghe e spesse più cresce la probabilità di osservare valori estremi. Fino a eventi-limite come il famoso “cigno nero”, su cui ha costruito la sua fortuna l’ex trader e ora massimo epistemologo dell’incertezza e della difficoltà delle previsioni economiche di crisi epocali, Nassim Taleb.

A determinare andamenti così apparentemente contraddittori, e per altro dovuti alla correlazione di fattori di crescita ciascuno dei quali è – tranne l’auto – di poco superiore al centesimo di punto, sono infatti fenomeni mondiali che procedono a strappi, e che influenzano allo stesso modo le aspettative e le concrete propensioni delle famiglie e delle imprese italiane. Il saliscendi del prezzo del barile, di nuovo ora verso quota 50 dollari, la tenuta della Cina rispetto all’eventualità di una crisi del suo sistema finanziario dovuto alla fuga di capitali e al credito sotto pressione, l’attesa incerta di nuovi aumenti dei tassi della FED rispetto alla ripresa americana, le notizie settimanali sulla crisi brasiliana, i sussulti europei tra crisi di Schengen, voto austriaco e nuovo compromesso ieri sulla Grecia, ma assecondando il no tedesco a una riduzione del suo debito se non dopo le elezioni tedesche del 2017: sono tutti fattori che ogni giorno si riverberano in un complesso gioco di interazioni negative rispetto alla possibilità di tornare a un vero traino dell’economia italiana da parte dell’export, come avvenne nel 2010-2011,e  dal 2013 fino a metà 2015.

Di conseguenza, la lezione delle “code lunghe” e dell’incertezza è che bisognerebbe concentrarsi “a prescindere” – come diceva il grande Totò – sui fattori abilitanti della crescita del mercato domestico: redditi, consumi e investimenti. Il governo Renzi ritiene di aver dato molte risposte: su Imu e Tasi prima casa, gli 80 euro, gli incentivi per i nuovi contratti, l’Imu e l’Irap agricola, il superammortamento al 140% alle imprese, il credito di imposta al sud. Ma l’incertezza rischia di risospingere verso il basso gli indici di fiducia che, per famiglie e imprese italiane, erano ai massimi in tutto l’OCSE a dicembre 2015. Per contrastarla, è ora tempo non più di bonus discrezionali, limitati nella platea e nel tempo, ma di sgravi fiscali universali e a tempo indeterminato: su IRAP, IRES, IRPEF. Più questi interventi saranno rilevanti, generali e irredimibili, cioè con coperture serie sostenibili nel tempo, più l’effetto sarebbe di dare solidità alla ripresa italiana. Non si può contare in eterno sulla BCE e i suoi interventi, che attualmente sono previsti cessare nel 2017. Perché dal mondo, per quanto si può vedere, l’incertezza rimbalzerà su di noi ancora per lungo tempo. C’è da augurarsi dunque che si abbandoni la via dei bonus, e si pensi a tagli strutturali.