21
Giu
2016

Difesa del referendum su Ue, 3 scenari se vince Brexit, cosa rischiamo noi

Quando nel 1975 i cittadini del Regno Unito furono chiamati a referendum sul restare o meno in quella che allora era la CEE, votarono in quasi 26 milioni sui 40 milioni aventi diritto, e il sì vinse con il 67%. Il referendum era stato convocato da un governo laburista, il che dà torto a chi oggi dice che far decidere ai cittadini sia una mania dei conservatori antieuropeisti o dei populisti “di pancia”.

Mario Monti ha dichiarato alla Stampa che il referendum britannico del 23 giugno è un disastro, non solo perché voluto dal premier conservatore Cameron per rafforzare la sua leadership interna, ma soprattutto perché manda all’aria decenni di paziente tessitura europea da parte di statisti e governi. Sergio Romano oggi sul Corriere ringrazia i costituenti per la loro saggezza, perché la Costituzione vieta agli italiani referendum su spesa pubblica, fisco e Trattati internazionali ergo anche sulla Ue.  E’ un punto di vista singolare. Non lo condivido. L’integrazione europea è lenta e ha moltissimi difetti sempre più evidenti in questi anni di crisi, basta pensare all’incapacità di una vera comune politica dell’immigrazione, oppure al “fai da te” con cui tra mille scontri in questi anni la BCE si è inoltrata nelle politiche monetarie non ortodosse per contenere la crisi. Ma proprio per questo o l’Europa è un grande principio capace di generare benefici e i politici sanno spiegarlo agli elettori, appellandosi ai loro portafogli e alle loro teste ma anche ai loro cuori e alla loro emotività; oppure se perdono nei referendum si deve al fatto che quei benefici o non sono abbastanza forti, o i politici non sanno spiegarli.  I populisti emotivi e i nazionalisti in politica ci sono sempre stati. La differenza è se i loro avversari riescono a batterli con argomenti convincenti, oppure no. Se gli argomenti convincenti mancano, la risposta non può essere “vietiamo i referendum”.

E’ proprio questo il primo punto importante del referendum britannico del 23 giugno. Viene persino prima delle conseguenze economiche. Riguarda la trasformazione del tono della politica. E accomuna attualmente non solo l’intero continente europeo, ma anche gli Stati Uniti. Anche nel Regno Unito nella campagna pre-assassinio il fronte pro Brexit le ha sparate grossissime.  Ha brutalmente barato sul contributo lordo e netto di Uk al bilancio comunitario, ha parlato di ondate di profughi in arrivo dalla Turchia con manifesti per i quali Farage si è beccato una denuncia (cosa rarissima, non come da noi dove politica uguale tribunali). La campagna ha ottenuto effetto: in alcuni sondaggi i britannici mostrano di credere che gli immigrati provenienti dalla Ue in Uk siano il 15% della popolazione mentre sono il 5%, che la percentuale di bilancio Ue spesa per costi amministrativi sia del 27% mentre è il 6%, che gli investimenti diretti europei in Uk siano il 30% del totale mentre sono il 49%, e che quelli cinesi siano il 19% mentre sono l’1%. Ma se i britannici pensano questo, se gli americani per Trump nei sondaggi sono multipli rispetto a quanto prevedessero media e intellettuali, se gli argomenti e i toni usati contro eurocrati e immigrati – i due cavali di battaglia di Brexit – sono gli stessi che portano barche di voti a AfD in Germania, FN in Francia, FPÖ in Austria, Lega e M5S da noi, e via via continuando in Polonia, Ungheria eccetera, di tutto questo portano la responsabilità classi dirigenti che in ogni paese sono compromesse con malgoverno e malaffare, incapaci di rigenerarsi e di parlare una lingua più convincente di quella della pura e dura protesta.  Non è certo evitando referendum ed elezioni, che si batte il populismo e l’istinto autarchico.

Facciamo un confronto con chi, nel Regno Unito, seppe unire testa e pancia.  La Thatcher ripetè per anni ai britannici che l’Unione europea – l’euro no, rimase sempre ferreamente contraria – era conveniente a Londra per il mercato unico, e che Londra non avrebbe mai comunque abdicato ai suoi princìpi. E’ andata esattamente così, ed è per questo che Londra ha goduto e gode di un’amplissima lista di opting out – finanziari e in materia di legislazione e diritti-  a favore della propria sovranità.

Che cosa avverrà a questo punto, se i britannici comunque sceglieranno di uscire? La risposta a questa domanda è: nessuno lo sa. Formalmente, il referendum è consultivo. Ma Londra non è Roma dove la politica, dalla Rai al finanziamento dei partiti, ha aggirato anche referendum abrogativi vincolanti. A Londra è fuori discussione che, se vince Brexit, il governo dovrà presentare al Consiglio Europeo una richiesta formale secondo le procedure fissate dall’articolo 50 del Trattato europeo. Forse a farlo – dipende dall’ampiezza della vittoria eventuale di Brexit – non sarebbe un governo Cameron, perché il premier che ha difeso le ragioni della Ue dovrebbe o potrebbe dimettersi, sostituito da un altro del suo partito, visto che sono 53 i parlamentari Tories per l’uscita con 5 ministri, guidati dal combattivissimo segretario alla Giustizia Michael Gove.

Dopo di che il Consiglio europeo sarebbe chiamato a votare all’unanimità le linee guida del negoziato che la Commissione Europea dovrebbe aprire con Londra per l’uscita dalla Ue. Il processo può durare due anni, ulteriormente protraibili. L’accordo finale, quando raggiunto, andrebbe votato nel Consiglio Europeo da una maggioranza qualificata (20 dei 27 paesi membri restanti, rappresentanti almeno il 65% della popolazione Ue). E l’accordo finale andrebbe approvato anche dal Parlamento Europeo, a maggioranza semplice. Durante tutto questo periodo, Londra dovrebbe comunque continuare a rispettare i Trattati europei.

A fianco di questo “accordo di separazione” partirebbe poi il negoziato sulle future relazioni tra Regno Unito e Ue. L’unico precedente, non di uno Stato membro della Ue ma di un territorio che ne è uscito, è quello della Groenlandia – territorio atlantico della Danimarca – che votò in referendum l’uscita nel 1982. E la piccola Groenlandia impiegò più di tre anni per negoziare il suo nuovo status rispetto alla CEE di allora.

Londra si troverebbe a dover dire se preferisca negoziare un accordo con la Ue come membro della EEA, l’area economica europea alla quale appartengono Norvegia, Islanda e Liechtenstein, per i quali valgono moltissime delle regole del Mercato Unico dei beni e dei servizi della Ue. O se invece, con un rapporto più lasco, negoziarlo come membro dell’EFTA, l’area europea di libero commercio, similarmente alla Svizzera. La Svizzera ha impiegato 30 anni, per sottoscrivere con la Ue le 155 intese bilaterali che ne disciplinano i rapporti. La Svizzera aderisce però anche agli accordi sulla libertà delle persone di Schengen, l’esatto opposto di quanto vuole chi nel Regno Unito vuole uscire dalla Ue.

Quel che è sicuro è che il governo tedesco ha già dichiarato che, in caso di Brexit, Berlino non sarà morbida nel negoziato, e negherà l’accesso ai benefici del mercato unico: Londra potrebbe trovarsi a dover negoziare daccapo un accordo sui dazi con la Ue che copra tutti i prodotti industriali ma non quelli dell’agricoltura, servizi e gare per forniture pubbliche, come quello vigente con la Turchia. In ogni caso, l’argomento usato dal fronte Brexit – usciamo dalla Ue per liberarci dagli standard dei burocrati di Bruxelles sui nostri prodotti – non è vero neanche a metà. Liberissimi di stabilirne altri: ma a quel punto non potrebbero venderli in area Ue, verso la quale attualmente è rivolto il 46% dell’intero export britannico.

In caso di Brexit la sterlina si troverebbe a svalutare, secondo opinioni degli analisti, e la forbice massima si spinge fino a un ulteriore 15%. Ma il traino a favore dell’export potrebbe essere breve e problematico, visto che molti prodotti dovrebbero reindirizzarsi verso mercati extra-Ue. Un impatto maggiore avverrebbe sul cuore dell’economia britannica, che non è la manifattura ma il settore dei servizi che pesa per il 78% del PIL, e in particolare su quelli finanziari, che contribuiscono da soli a quasi il 10% del PIL. Molti headequarters di banche europee potrebbero rispostare nei propri paesi le attività oggi insediate a Londra. Salterebbe automaticamente la facoltà che era stata concessa nel 2015 di far permanere nel Regno Unito le stanze di compensazione delle operazioni denominate in euro. L’impatto negativo su banche e finanza si estenderebbe ai servizi professionali e di consulenza. E avrebbe un impatto anche sui prezzi immobiliari, che a Londra sono di nuovo in bolla ma che “muovono” molta economia reale.

E’ vero, Bank of England riattiverebbe massicciamente il proprio QE, ha già fatto capire il suo attuale governatore, Carney, che non ha evitato di far pubblicare alla banca report moto severi sulle conseguenze economiche di Brexit sull’economia. Ma ciò non basterebbe a evitare una considerevole frenata dell’attuale crescita. Le stime per il PIL britannico in caso di Brexit sono le più varie: tra quelle negative, per la London School of Economics vale una forbice da -2,2% negli anni a seguire in caso di intese rapide con la Ue, fino a meno 6,5%-9% in caso di grandi o grandissime complicazioni. La CBI, la Confindustria britannica, stima la minor crescita tra -4% e -5%. Ovviamente sono tutte proiezioni radicalmente respinte dal fronte Brexit: per l’UKIP di Farage restare nella Ue costa a Uk addirittura il 10% del PIL ogni anno.

Ma con Brexit le conseguenze non sarebbero affatto solo britanniche. Per la Ue, il primo effetto è di perdere una potenza nucleare che rafforzerebbe la sua propria alleanza con gli USA, e avrebbe le mani più libere con Putin, per i cui oligarchi Brexit è una manna perché significa meno rischi di trasparenza sui loro capitali in Uk. Economicamente, bisogna invece fare due distinti ragionamenti.

Il primo è quello dei paesi più direttamente esposti, cioè quelli che hanno un maggior flusso con Uk di scambi commerciali, flussi migratori, investimenti diretti reciproci, e interrelazioni bancarie dirette. Sommando i quattro fattori, mentre con Brexit l’Irlanda Lussemburgo Cipro e Olanda rischiano tra l’1 e il 2% del proprio PIL, la Germania si ferma a meno di mezzo punto e l’Italia è in coda tra i paesi meno esposti, per qualche minima frazione di punto. Cosa diversa è immaginare cosa accade invece se riparte, come effetto dell’indebolimento complessivo della Ue, il ballo dello spread. In quel caso la BCE dovrebbe ulteriormente accrescere i suoi 80 miliardi di euro mensili di acquisti sul mercato, ma non ci possiamo illudere: come testimoniato dalle massicce perdite della Borsa nostrana nelle ultime settimane, l’Italia è il paese dell’euroarea subito dopo la Grecia sulla quale i mercati si accaniscono di più, per effetto del nostro alto debito pubblico e della montagna di crediti deteriorati delle banche nostrane.

Credere che in tali condizioni Germania e paesi nordici accettino una svolta verso una Ue “unione dei trasferimenti mutualistici”, a sostegno dei paesi più indebitati e con banche più scassate come l’Italia che chiede tale svolta, è francamente un’illusione. Resa impossibile dal fatto che prima delle elezioni tedesche del 2017 la Merkel e il suo partito – ma anche la SPD – non possono assolutamente fare un simile regalo a AfD, che avrebbe gioco facile nell’ottenere valanghe di voti contro gli “spreconi latini”. Quanto più in altri paesi europei forze politiche nazionaliste e antieuropee chiedessero referendum analoghi a quello britannico, in caso di Brexit, e quanto più ripartissero istanze autonomiste come quella catalana e scozzese, tanto più i mercati si accanirebbero. A ragione: perché in un tale processo di crisi non è inimmaginabile un punto di rottura, di una duplice struttura Ue-Euro così poco coesa.  Nella speranza che però, di fronte a rischi tanto forti, le classi dirigenti europee sappiano uscire dalla trappola infernale dei veti.

I casi sono tre, per chi come noi pensa che l’Italia dovrebbe concentrarsi – euro o meno – su decisi interventi di ridimensionamento della finanza pubblica, del fisco e della presenza pubblica nell’economia, nonché su riforme per la produttività stagnante da 20 anni, e per la concorrenza aprendo all’efficienza di mercato le troppo vaste aree dell’economia italiana che le restano sottratte. Bene se UK resta dentro la Ue, battendosi per mostrare che c’è un’alternativa al SuperStato dirigista. Bene anche se, uscendo, dimostrasse comunque che l’idea di far pagare ai tedeschi i nostri debiti è infondata.  Malissimo invece se il tutto si avvita in tempi lunghissimi e senza esiti chiari, con elezioni a raffica vinte nei diversi paesi membri da antimercato e statalisti. Se vince Brexit, l’ultimo appare oggi purtroppo l’effetto più probabile. E senza dubbio più oneroso per l’Italia, alla lunga.

20
Giu
2016

Brexit, facciamo ordine – di Nicolò Bragazza

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Nicolò Bragazza.

Sia che vinca il sì che il no, il referendum britannico sulla permanenza nell’Unione Europea sarà destinato ad essere una pietra miliare nella storia europea. Questo referendum costituisce un precedente che, seppur previsto nei trattati, non era considerato politicamente realizzabile per una serie di considerazioni economiche e geopolitiche e che, come tale è destinato ad ispirare altri Paesi nella riconsiderazione del progetto dell’Unione Europea.
Negli ultimi tempi, con alcune eccezioni, molti commentatori si sono concentrati troppo sui costi di Brexit piuttosto che analizzare le ricadute a livello economico, ma soprattutto politico per l’Unione Europea. E questo sulla scia anche degli studi pubblicati che spesso si concentrano sui costi immediati e di lungo periodo per UK e tralasciano invece di considerare questo evento come economicamente rilevante per l’Europa a livello aggregato. Le conseguenze politiche invece sono state riconosciute tra le più pericolose per il processo di integrazione Europea, soprattutto per il fatto che BREXIT potrebbe ispirare atti emulativi da parte di altri Paesi interessati a riconquistare margini di autonomia rispetto all’UE. Read More

15
Giu
2016

Negazionismo: la via breve e illiberale della pena

Abbiamo impiegato secoli per affrancare la libertà di pensiero dalla censura e dall’Inquisizione. Sorridiamo oggi all’idea che fino a pochi decenni fa ci fosse un Indice dei libri proibiti. Abbiamo esultato all’abrogazione dei reati di opinione come alla fine degli autoritarismi. Abbiamo combattuto perché il giudizio sulla bontà delle opinioni non avvenisse nei tribunali, ma nei giornali, nei convegni, nelle aule di studio, nei mezzi di comunicazione. Abbiamo imparato dalla storia che “écrasez l’infame” può essere solo un’esortazione nel libero mercato delle idee e non il dispositivo di una sentenza. Le polemiche sul Mein Kampf di questi giorni ne sono esempio. Read More

14
Giu
2016

Tetto alle commissioni interbancarie, chi pagherà davvero? – di Michele Pisano

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Michele Pisano.

Dal 9 giugno il regolamento europeo sulle Commissioni Interbancarie per le operazioni con carta di pagamento è pienamente efficace. Il 2015/751 ha apportato ulteriori modifiche al testo, resesi necessarie in seguito alle variazioni di prezzo delle commissioni applicate da Mastercard.
L’occasione è utile per tornare a sottolineare gli effetti invisibili del tetto alle commissioni interbancarie.
L’aspetto più importante del regolamento è infatti dato dalle disposizioni previste che impongono un tetto alle commissioni per le transizioni con carta, pari allo 0,2 per cento per le carte di debito e allo 0,3 per quelle di credito.
L’intervento dell’Unione europea rischia però di penalizzare i consumatori, benché Bruxelles abbia affermato che in realtà sia stato necessario intervenire sull’Interchange Fee al fine di garantire maggiore trasparenza e potere decisionale per il compratore stesso. Read More

14
Giu
2016

I “deficisti” nostrani tifano Brexit e Podemos, noi no

Le cronache politiche italiane sono sature di ogni minimo scambio d battute in vista del ballotaggio ammnistrativo, domenica. In realtà sono molto più importanti altre due tornate: soprattutto il voto al referendum britannico il prossimo 23 giugno, ma anche le elezioni spagnole tre giorni dopo. Con tutto il rispetto per chi uscirà vincitore a Torino, Milano, Roma e Napoli, il quadro europeo rischia in pochi giorni di essere investito da un maremoto. Forse uno tsunami, se i britannici il 23 scelgono alle urne l’uscita dall’Unione Europea. E l’Italia si illude, se ancora una volta pensa di essere immune dagli effetti della possibile tempesta.

Una tempesta che da possibile sembra divenire sempre più probabile, stando ai sondaggi che vedono nel Regno Unito attualmente in vantaggio l’ipotesi di uscita dall’Unione. Quando tre anni fa il premier britannico David Cameron, in vista delle elezioni del 2015, promise agli elettori il voto sull’appartenenza alla UE, non si rese probabilmente ben conto del pandemonio che scatenava. Ha rivinto alla grande le elezioni, l’anno scorso. E grazie ai laburisti ha battuto al referendum in Scozia l’indipendenza del Nord del paese da Londra (che riprenderà fiato, in caso di Brexit). Ma non ha drenato l’opposizione del nazionalista Ukip dI Farage, primo partito alle europee del 2014 e ancora gratificato di oltre il 12% dei voti alle politiche del 2015. Né ha impedito che i Tories vadano al referendum spaccati, con circa metà dei parlamentari e cinque ministri pronti a riconoscere l’ex sindaco di Londra Boris Johnson come leader del partito, e capo riconosciuto dell’uscita di Londra dalla Ue.

Serve a poco ricordare che la Thatcher a metà anni Settanta propose ai britannici i vantaggi dell’Europa in cambio di una strenua difesa delle “eccezioni” garantite alla sovranità britannica. Eccezioni che Cameron ha ulteriormente rafforzato col pieno consenso europeo pochi mesi fa. La Thatcher ha avuto ragione. L’Europa con la sua politica tassa-spendi e il forte interventismo statale non ha impedito affatto al Regno Unito la rivoluzione liberal-liberista che ha segnato il suo rilancio mondiale, e che Tony Blair si guardò bene dallo smontare.  Ogni sforzo è stato fatto ora per ricordare ai britannici che se votano col portafoglio conviene loro restare nella Ue: rimarrebbero col primato continentale dei loro servizi finanziari, e continuerebbero ad avvantaggiarsene nell’economia reale, visto che il 45% dell’export è verso la Ue. Ma questa Europa attuale non è più misurata dagli elettorati sulle convenienze reali. E’ il cuore di milioni di europei, che Bruxelles ha perso. Persino nella nostra Italia. Figuriamoci dei britannici.  Agli occhi di molti dei quali l’Unione è diventata un pericoloso ponte per accelerare la crescita del quasi 14% di stranieri residenti nel Paese, a spese del proprio welfare.

Cameron e la business community ribadiscono ogni giorno stime sempre più allarmanti della perdita che Brexit comporterebbe per il Regno Unito: meno export e meno crescita, il trasferimento degli headquarters di molti gruppi finanziari, l’illusione che la svalutazione della sterlina possa compensare le perdite, visto che occorrerebbero molti anni prima di ottenere con la Ue le oltre 150 intese commerciali bilaterali che consentono alla Svizzera di prosperare ed essere “europea” pur fuori dalla Ue. Il superministro delle Finanze tedesco Schaueble è stato chiaro, in proposito. Berlino ha bisogno di Londra per equilibrare il ruolo statalista e deficista di Parigi: ma se Londra esce, non s‘illuda di trovare nei tedeschi una sponda collaborativa per rapide nuove intese commerciali.

Il perché è presto detto. Se esce Londra, non è la Grecia. E’ una potenza nucleare, che se ne va facendo restare in piedi la sua intesa militare bilaterale con la Francia, che è potenza nucleare anch’essa. Ed è un segnale ad altri grandi e piccoli paesi europei: un segnale che parla alle forze antieuropeiste e antitedesche che in molti di essi sono sempre più forti. Poco importa loro, nel nostro paese, che l’Italia non abbia le banche britanniche né un posto fisso al Consiglio di sicurezza dell’Onu grazie alle sue atomiche. In Italia parti rilevanti della destra e della sinistra e dei pentastellati sono pronti, chi più chi meno, a rilanciare la carta tricolore dell’uscita da euro e Ue.

La narrativa italiana predominante è diventata quella che accolla ai tedeschi le colpe dei problemi che noi non abbiamo risolto: il nostro eccesso di debito pubblico, la bassissima produttività, la persistente chiusura alla concorrenza ed efficienza dei servizi pubblici e anche di vasta parte dei servizi alle imprese sul mercato domestico (a cominciare dalle professioni), l’amplissima connivenza del privato con regole falsate nei 140 miliardi di forniture pubbliche. Destra e populisti predicano il ritorno salvifico alla liretta e alle sue svalutazioni, celando o sminuendo all’opinione pubblica la botta mostruosa che nel breve registrerebbe il valore di ogni reddito risparmio e patrimonio nostrani, riconvertiti in lirette. Mentre Pd e sinistra estrema preferiscono parlare, in caso di Brexit, di un grande attacco all’ ”austerity” – la parola a me fa ridere, vista la spesa pubblica in Italia l’austerity è stata solo del contribuente per rincorrere la spesa corrente ..- di  Berlino, per costringerla ad accettare l’Europa mutualistica: quella in cui i tedeschi, olandesi e finlandesi si accollano la ristrutturazione di 30-40 punti di PIL del nostro debito, e perché no, anche dello smaltimento dei nostri crediti bancari deteriorati, che sono un terzo di quelli dell’intera euroarea. I leader politici del Pd sanno benissimo che è una strategia irrealistica: tanto più prima delle elezioni tedesche previste nel 2017. Finora, l’idea di costruire intorno all’Italia la grande alleanza dei paesi deficisti non è mai riuscita ad aggregare la maggioranza dei paesi membri. Ma tant’è, la politica vive ormai di storytelling.

Gli antieuropeisti nostrani hanno venature diverse: dalla nostalgia dell’autarchia all’antimercatismo diffuso, al ritorno a una Banca d’Italia che batta moneta e torni a vigilare discrezionalmente un credito relazionale che, grazie alla vigilanza della BCE, è finalmente esploso in tutte le sue contraddizioni negli ultimi 2 anni. E’ una vera trasformazione quella avvenuta a via Nazionale: da battistrada delle scelte europee dell’Italia a portabandiera della contestazione frontale alle regole comuni. Mentre in altri paesi europei la protesta antieuropea “dal basso” s’identifica nello slogan  “basta coi banchieri”, il paradosso da noi è che al vertice delle istituzioni finanziarie abbia invece come slogan “viva i banchieri amici degli amici”. Ed è anche per questo che Tesoro e Bankitalia in queste settimane hanno sminuito il rischio per l’Italia, in caso di Brexit. Smentiti drasticamente dalle cadute in serie della Borsa italiana, la peggiore in Europa dopo quella di Atene: perché se con Brexit riparte la spread-dance, malgrado il QE della BCE la verità è che i mercati riprenderanno ad aggredire noi non perché siano cattivi o “tedeschi”, ma per i nostri purtroppo ancora deboli fondamentali, che hanno bisogno di anni di cure e riforme.

Ma, pur con tutte le loro differenze, gli antieuropeisti sperano che, dopo Brexit o anche a prescindere da Brexit, in ogni caso in Spagna tre giorni dopo vinca in Spagna Unidos Podemos di Pablo Iglesias, succhiando un bel po’ di altri voti ai socialisti di Pedro Sanchez che nei sondaggi sono in grande difficoltà, e dando vita in Spagna a quel punto a un governo destinato a spazzare vie tutte le riforme liberali di questi ultimi anni, in nome del deficit spacciato come la vera via alla giustizia sociale.

Nessuno, oggi, è in grado di dire davvero l’esito del gorgo che può aprirsi per l’euro e l’Europa, se con Brexit si smentisce l’irreversibilità del processo europeo e della moneta comune. Niente è scritto una volta per tutte, nella storia. Per chi è liberal-liberista meglio Uk dentro la Ue che fuori, perché è una sponda per contenere statalismo e dirigismo continentale. Ma, in caso di uscita, certo il Regno Unito continuerebbe ad avere una forza che, con tutto il rispetto per i moltissimi ormai che la pensano al contrario in Italia, noi al momento possiamo solo sognare. All’Europa latina del deficit libero ci penserebbero i mercati a presentare presto o tardi il conto, in un mondo reso instabilissimo dalla crisi dei BRICs, dal rallentamento della Cina, dall’oscillazione ondivaga del barile, e dal terrorismo islamista.

 

12
Giu
2016

FMI e neoliberismo: Conversione ma non troppo

Pochi giorni fa, sulla rivista Finance and Development del Fondo Monetario Internazionale, è stato pubblicato un saggio dal titolo “Neoliberalism: Oversold?” a firma di Ostry, vice direttore del dipartimento di ricerca, Loungani, capo della divisione macroeconomia dello sviluppo, e Furceri, economista italiano in forza al dipartimento di ricerca.

Il contenuto del saggio è meno sorprendente di quanto non sia il titolo, nonostante molti commentatori, italiani e non (qui e qui un esempio dei primi e dei secondi), si siano affrettati a celebrare la tanto attesa “conversione” del FMI. Una volta definita l’agenda neoliberista come un’agenda che poggia sui principi della concorrenza e di un ruolo ridotto dello Stato nell’economia, gli autori infatti chiariscono come un’agenda di questo tipo abbia dalla sua innumerevoli ragioni per essere sostenuta: “l’espansione del commercio mondiale ha liberato milioni di persone dalla povertà. Gli investimenti stranieri sono spesso stati un modo per trasferire tecnologie e conoscenza alle economie in via di sviluppo. La privatizzazione di imprese statali ha spesso portato a un’offerta più efficiente dei servizi pubblici e a una riduzione della pressione fiscale da parte dei governi”.

Nondimeno, secondo gli autori, due specifiche politiche di ispirazione neoliberista nel senso appena spiegato, ovvero la liberalizzazione del movimento dei capitali (in particolare dei capitali destinati a investimenti a breve termine) e le politiche di consolidamento fiscale (l’austerità), avrebbero comportato conseguenze inintenzionali negative: dubbi benefici in termini di crescita nel breve termine e un aumento delle disuguaglianze che a sua volta minerebbe la sostenibilità e il livello della crescita nel lungo termine.

Nel caso della liberalizzazione del movimento dei capitali, è comunque importante sottolineare come i nostri autori non abbiano dubbi circa i vantaggi che scaturiscono dall’apertura finanziaria. Consentire che i capitali siano diretti dove possono ottenere un rendimento più elevato è alla base dell’efficienza economica ed è ciò che ha consentito a milioni di persone nei paesi in via di sviluppo di liberarsi rapidamente dalla povertà estrema. Tuttavia essi sostengono che gli investimenti a breve termine non sarebbero tanto benefici quanto quelli a lungo termine. Un modo di semplificare la questione che va a svantaggio della chiarezza. Sarebbe il caso di domandarsi perché un paese, a differenza di altri, non riesce a trattenere capitali per lungo tempo. Obbligare chi investe a farlo “a lungo” ex ante, significa impedirgli di decidere di cambiare strada nel malaugurato caso si accorga di aver fatto un investimento sbagliato.

Quanto all’austerity, i detrattori di casa nostra si calmino subito. Gli autori scrivono a chiare lettere che “non c’è dubbio che molti paesi (come quelli dell’Europa del sud) non hanno altra scelta che intraprendere una strada di consolidazione fiscale, dal momento che i mercati non gli permetterebbero di continuare a prendere a prestito”. Tuttavia, proseguono, che alcuni paesi abbiano la necessità di consolidare le finanze pubbliche non significa che la stessa strada sia quella auspicabile per tutti i paesi. “Gli episodi di consolidamento fiscale sono seguiti, in media, a cadute del prodotto più che a espansioni”.

Intanto si direbbe che un’analisi “in media” non renda giustizia a una pubblicazione del FMI. In ogni caso, nulla di nuovo è stato detto. Innanzitutto, come già sapevamo, se lo Stato italiano vuole continuare a ottenere prestiti non ha altra scelta se non quella del consolidamento. Inoltre, già qualche tempo fa la Banca Centrale Europea aveva pubblicato uno studio in cui si sosteneva che non tutte le forme di austerità funzionano allo stesso modo. In particolare, nello studio veniva mostrato che l’austerità migliore se si vuole perseguire la crescita è quella che non viene fatta pagare ai contribuenti, ma al contrario viene applicata attraverso tagli alla spesa pubblica (qui un commento dello studio). Sappiamo bene quanto questi siano rari.

Per finire, è evidente che a parità di crescita saremmo tutti felici di avere meno disuguaglianza. Ma le società più uguali nel corso della storia sono state quelle in cui tutti erano cacciatori o raccoglitori. La disuguaglianza è cominciata ad aumentare non appena le società sono diventate più ampie e si è introdotta la specializzazione del lavoro. Tutti ne hanno beneficiato e qualcuno si è arricchito molto più di altri. Grazie a questa dinamica, la grande maggioranza di noi gode oggi di benefici che fino a poco tempo fa rappresentavano un lusso per pochi (aria condizionata, viaggi intercontinentali, comunicazione istantanea con fratelli, amici e cari dall’altra parte del mondo). E’ curioso che il problema della disuguaglianza sia percepito come tale soprattutto in periodi in cui non si cresce. Forse perché il vero problema non è tanto la disuguaglianza, quanto il numero di persone che viene costretto alle condizioni di povertà. Per ridurre questo numero al minimo, come viene velatamente ricordato anche dagli autori di questo saggio, fino a oggi non è stato trovato nulla di altrettanto efficace a quanto tanto piace ai neoliberisti: il libero mercato.

@paolobelardinel

10
Giu
2016

La bestialità di tutele diverse tra lavoro pubblico e privato: ma è colpa dei governi, non dei giudici

L’Italia è un paese dove la legge dovrebbe essere uguale per tutti. Naturalmente, non è così. Politici e magistrati fanno a gara a impedirlo. A cominciare dal mercato del lavoro. I diritti fondamentali nei rapporti di lavoro sono diversi tra dipendenti privati e pubblici? No, direbbe il buon senso. Invece sì, ha sentenziato molte volte la Corte Costituzionale. Ma almeno è chiaro se le riforme approvate in questi anni limitatamente allo Statuto dei Lavoratori si applicano anche ai dipendenti pubblici, come sembrerebbe ovvio visto il rinvio esplicito che il Testo Unico del Pubblico Impiego fa allo Statuto? Sì, certo, direbbe il buon senso: se il Testo Unico rinvia alla legge 300 del 1970 ed essa viene modificata, è ovvio che le modifiche valgano per tutti allo stesso modo. E invece no, dicono due diverse sentenze della Corte di Cassazione, la 24157/2015 del novembre scorso, e la 11868/2016 depositata ieri. Sentenze che verrebbe facile definire di senso opposto: la prima infatti è favorevole all’omologazione privato-pubblico delle modifiche in materia di articolo 18 dello Statuto sui licenziamenti, operati dalla riforma Fornero prima nel 2012 (la sentenza si riferiva a quella modifica) ed ergo per estensione poi dal Jobs Act del governo Renzi; mentre quella di ieri sostiene il contrario. Motivo per il quale molte delle prime reazioni ieri hanno sottolineato il paradosso di tesi contrapposte, mentre ovviamente sindacati e politici contrari al nuovo articolo 18 esultano.

Prendersela coi giudici filopubblicisti e statalisti, dunque? Per rispondere bisogna capire, e per capire occorre un po’ di pazienza. Le sentenze della Cassazione, apparentemente opposte, non lo sono poi tanto. Entrambe richiamano la necessità di esplicite norme di armonizzazione, quando si interviene nel diritto del lavoro, per sancirne l’applicazione anche ai dipendenti pubblici: ed è una tesi molte volte motivata in sentenze della Corte Costituzionale. La politica lo sapeva benissimo, che queste norme ad hoc esplicite servivano, per applicare alla PA l’articolo 18 modificato dal governo Monti e poi da quello Renzi. Ma non le ha scritte. E, almeno nel caso del governo Renzi, non per dimenticanza o ignoranza, ma perché ha sempre sostenuto che la sua riforma non si applica ai dipendenti pubblici: anche se non l’ha scritto in un testo di legge. Insomma è con la politica che dovete prendervela e non con i magistrati, se come me pensate che sia iniquo (anzi: un vero schifo) avere i dipendenti pubblici più tutelati dei privati, e cioè con molti più margini per ottenere una reintegra giudiziale in caso di licenziamento, visto che per i dipendenti privati resta solo nel caso di comprovato licenziamento discriminatorio, mentre c’è solo un’indennità per quelli economici e per giustificato motivo soggettivo.

Ricordiamo però il punto di fondo: la giurisprudenza della Corte Costituzionale, in materia di differenza tra lavoro pubblico e privato. E’ l’ennesima volta che lo faccio in questi anni, ma repetita iuvant. Per esempio la sentenza numero 146 del 2008. “Malgrado la progressiva assimilazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni con quello alle dipendenze dei datori di lavoro privati, sussistono ancora differenze sostanziali che rendono le due situazioni non omogenee. Questa Corte in più occasioni ha ammesso la possibilità di una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite «della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali» (sentenza n. 275 del 2001). La pubblica amministrazione, infatti, «conserva pur sempre – anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato – una connotazione peculiare», essendo tenuta «al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa» (sentenza n. 82 del 2003)”. La Corte costituzionale respinse con quella sentenza del 2008 la pretesa di estendere automaticamente un trattamento dal privato al pubblico, “in nome delle specificità irriducibili del lavoro pubblico per il quale rileva l’articolo 97 della Costituzione”.

Numerose sentenze delle sezioni civili nonché riunite della Corte di Cassazione sono state ispirate alla medesima linea, la perdurante “non omogeneità” del lavoro pubblico e privato. Ma attenzione, la Corte Costituzionale non ha mai escluso la possibilità di omologazione tra lavoro pubblico e privato: ha sempre escluso invece “l’automaticità” dell’applicazione delle riforme alla PA in assenza di norme ad hoc, che contemperassero il rispetto dell’art.97 della Costituzione in materia di autonomia e indipendenza della pubblica amministrazione.

Entrambe le sentenze apparentemente opposte della Cassazione  sopra richiamate, quella di ieri e quella del novembre scorso, esplicitamente anch’esse infatti richiamano la necessità di “norme di armonizzazione”. La differenza delle due sentenze sta nel fatto che la prima riconosceva la nullità di un licenziamento pubblico in Sicilia per violazione delle norme vigenti sui provvedimenti disciplinari, decidendo a favore del ricorrente l’indennità prevista dalla legge Fornero. Mentre la sentenza di ieri dà ragione a un altro dipendente pubblico licenziato per doppio lavoro, ma ancora una volta perché l’amministrazione pubblica non gli ha riconosciuto l’indennità riconosciuta dalla legge Fornero in caso di violazione anche qui avvenuta sulle contestazioni disciplinari, e rinvia la decisione alla Corte d’appello. Come si vede, le sentenze sono molto più analoghe di quanto sembri: la differenza è che questa seconda però prende risolutamente atto del fatto che le norme attuative ad hoc per l’applicazione delle nuove norme alla PA continuano a mancare, ergo in loro assenza per la PA resta il vecchio dettato dello Statuto dei Lavoratori e non il nuovo.

Il governo Renzi è d’accordo: sin dall’inizio ha affermato in interviste che il nuovo articolo 18 no vale per il lavoro pubblico. Nel Pd erano in pochi come il senatore Ichino a sostenere il contrario, insieme al viceministro Enrico Zanetti e ai parlamentari di Scelta Civica. La maggioranza del Pd, come Damiano o Baretta, è sempre stata contro l’omologazione, oltre alla minoranza del partito e naturalmente alla CGIL, UIL e Cobas.

Il risultato è l’ennesima frammentazione del mondo del lavoro. Un’occasione persa. Un errore vero e grande. Non solo la reintegra giudiziale che resterà per i lavoratori pubblici tra gli italiani “privati” è incomprensibile e impopolare, a maggior ragione con i numerosi casi scandalosi che puntualmente avvengono anche a fronte di licenziamenti per macroscopiche mancanze disciplinari. Inoltre, escludere dal lavoro pubblico il contratto a tutele crescenti è un errore anche perché consentirebbe di vagliare meglio la professionalità dei nuovi ingressi, concorso o non concorso vinto per accedere al ruolo. Ma soprattutto perché il fronte sindacale non era affatto unitario, nel difendere l’inapplicabilità ai lavoratori pubblici delle stesse regole del privato. Il segretario della funzione pubblica Cisl Faverin si era detto pronto alla piena parificazione tra pubblico e privato, nell’ambito dei nuovi contratti da scrivere nel pubblico impiego dopo 5 anni di stop. Non cogliere né l’umore profondo degli italiani, né importanti disponibilità sindacali a ragionare in modo nuovo, è una battuta a vuoto per l’innovazione dell’Italia.

 

7
Giu
2016

Monopolio Siae, il mercato fa bene a artisti e..Siae

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato è intervenuta in questi giorni con un proprio parere per sollecitare l’azione del governo e del Parlamento in favore dell’abolizione del monopolio Siae e la conseguente apertura del mercato della gestione collettiva dei diritti d’autore.

Il 10 aprile, infatti, è scaduto il termine per il recepimento della direttiva 2014/26/UE sulla gestione collettiva dei diritti d’autore, senza che il Governo abbia provveduto ad adeguare la normativa nazionale introducendo i nuovi obblighi di trasparenza previsti per le collecting society (leggi Siae) e optando per la liberalizzazione di un mercato che oggi è già aperto alla concorrenza da parte di soggetti esteri.

Secondo l’Antitrust, mantenendo l’attuale divieto di svolgere in Italia l’attività riservata dalla legge alla Siae e per quanto la direttiva non imponga espressamente l’abolizione dei monopoli nazionali, si limiterebbe comunque in modo sostanziale agli artisti la facoltà di scegliere l’organismo di gestione collettiva in violazione della direttiva e si comprimerebbe indebitamente la libera iniziativa economica in un settore che l’Unione europea ha aperto alla concorrenza.

L’autorità, inoltre, osserva come le restrizioni alla libera concorrenza possano essere particolarmente di nocumento per i consumatori e gli aventi diritto in un contesto interessato da continue innovazioni tecnologiche.

E in effetti, da uno studio condotto 6 anni fa per l’Istituto Bruno Leoni Read More

6
Giu
2016

L’Italia è una Repubblica fondata (sulle tasse) sul lavoro.

Ho sempre pensato che il primo fosse uno degli articoli della Costituzione più intrisi di ideologia. Ma a pensarci meglio credo sia vero il contrario, perché ora lo leggo come un’asserzione che corrisponde esattamente alla realtà dei fatti. Su cosa se non sulle risorse sottratte ai contribuenti, ossia i frutti del lavoro di ognuno di noi, si reggono i costi di una repubblica? Read More