La mazzata Ue a Apple piace ai più, ma ha evidenti falle legali
La guerra fiscale tra Apple e la Commissione Europea scoppiata ieri sarà uno dei casi del secolo. Ma intanto, alla notizia della mazzata vibrata dalla commissaria Ue alla Concorrenza Margreth Vestager al gigante guidato da Tim Cook, i più in Europa hanno esultato. Finalmente l’Europa si fa sentire, è il coro espresso dal più dei governi, dai media e da chi in Europa subisce quella che considera una concorrenza impropria da parte delle multinazionali della rete come Google, Facebook e Amazon: cioè editori, autori, produttori di contenuti multimediali e imprese europee delle tlc. Come del resto avviene a ogni iniziativa Ue contro i giganti della rete, iniziative delle quali l’Istituto Bruno Leoni ha invece puntualmente cercato di sottolineare la purtroppo ricorrente pretestuosità tecnica (vedi per esempio qui, qui, qui e qui)
In effetti, ogni previsione questa volta è stata superata: il dossier aperto dalla Vestager sugli accordi fiscali agevolati – tax rulings, in gergo tecnico – tra Apple e Irlanda non sfocia in una sanzione da 1 miliardo di euro come immaginava l’Economist, ma nella bellezza di 13 miliardi di euro di minori imposte pagate tra 2003 e 2014, somma che ora tocca all’Irlanda recuperare sommandovi gli interessi. Ma l’Irlanda impugnerà la decisione, sulla stessa base con cui lo farà Apple. Ed è intorno a questo caso, multiplo come grandezza finanziaria rispetto all’arcifamosa sanzione comminata nel 2004 da Monti commissario Ue a Microsoft per 497 milioni di euro, che ora per lungo tempo divamperà una guerra. Tra le due rive dell’Oceano, ma anche tra paesi europei a bassa tassazione d’impresa e quelli che invece considerano i primi come paradisi fiscali. Al di là dei vasti consensi all’azione Ue, il fondamento legale della decisione è fragile, rischioso e irto di contraddizioni.
Come può l’autorità europea che vigila sulla concorrenza assumere i poteri di un’autorità fiscale, pur essendo le politiche tributarie di competenza nazionale? La Vestager parte dal presupposto che i tax rulings configurino in realtà aiuti di Stato, ergo violazioni della concorrenza. E su questa base giuridica ha indagato Apple, come ha già fatto per Starbucks, Fiat ed altri, estendendo le indagini non solo all’Irlanda, ma all’Olanda e al Lussemburgo. La Commissione ammette tuttavia anche di “non avere competenza in materia tributaria”, e affida ai governi ora il recupero delle risorse. Se l’aliquota sui redditi d’impresa irlandese è al 12,5% – cosa che fa imbestialire i grandi paesi europei ad alte aliquote (nemici della concorrenza fiscale che è invece buona cosa) che invano tentarono di farla alzare agli irlandesi in cambio degli aiuti Ue alle loro banche – allora sono illegittimi gli accordi che hanno consentito ad Apple di pagare via via dall’1% fino solo allo 0,005% di imposta a Dublino. Senonché i tax rulings non sono eccezione in Irlanda e Lussemburgo ma centinaia e centinaia (nel novembre 2014 Wikileaks ne pubblicò oltre 500 offerti dal Lussemburgo a oltre 340 imprese multinazionali, nei soli anni 2002-2010). Cioè rappresentano un’articolazione ordinaria della politica fiscale di quei paesi europei per attirare imprese, non straordinaria. Inoltre, la decisione della Commissione “obbliga” uno Stato Ue a una tassazione retroattiva secondo norme diverse da quelle che esso si era dato: una scelta che dovrebbe far sobbalzare i sovranisti in tutti i paesi europei, e questa volta a piena ragione. Qui per esteso le ragioni tecniche per le quali non condivido la pretesa base legale della Commissione, esposte da Massimiliano Trovato in un paper IBL.
Ma sono obiezioni di carattere formalistico, è la reazione dominante. Il punto è invece che non si può consentire a imprese che realizzano profitti per centinaia di miliardi la possibilità di pagare imposte per pochi milioni. E di non riconoscere i diritti alle imprese editoriali di cui veicolano i contenuti sui loro motori di ricerca. E di non compartecipare alle spese infrastrutturali per realizzare reti a banda larga da parte delle imprese di tlc, quando il più della banda finiscono per occuparlo loro coi loro contenuti. E via continuando. E’ un’osservazione sostanziale, tuttavia bisogna ricordare alcune questioni, prima di vedere se e come la maxi-sanzione europea sopravviverà al contenzioso e fisserà un precedente, oppure no.
E’ vero che la tassazione dei grandi gruppi trans-nazionali è un grande problema irrisolto della globalizzazione. L’OCSE stima che l’elusione delle multinazionali raggiunga l’effetto di 240 miliardi di dollari di minori tasse pagate l’anno, circa il 10% delle imposte raccolte sui redditi d’impresa a livello mondiale. Tuttavia, per identificare criteri comuni su cosa sia reddito imponibile e da pagare in quale paese, occorrerebbe un grande accordo tra autorità fiscali continentali, Stati Uniti, Europa e Cina. Solo così si potrebbero identificare regole comuni alle quali attenersi. Ma non è la strada che è stata intrapresa.
Il G20 affidò all’OCSE la stesura di linee guida orientative che sono state illustrate nell’autunno scorso, le cosiddette BEPS (“Base Erosion and Profit Shifting”). Molto articolate, in cinque grandi capitoli: fissando come obiettivo quello di report nazionali paese per paese in cui ogni grande gruppo dichiari dove ha stabile organizzazione e dove incardina invece fiscalmente i suoi cespiti (interessi, dividendi, diritti da brevetti e proprietà intellettuale, con questi ultimi aspetti “intangibili” essenziali per la produzione di reddito delle grandi imprese della rete). Sulla base di uno scambio d’informazioni sempre più capillare tra Stati, e contenendo sempre più la possibilità di triangolazioni che vedano i flussi di profitto sparire magari in società controllate dai grandi gruppi ma in paradisi fiscali “veri”, dalle Bahamas alle Cayman. Tuttavia, quelle linee guida OCSE sono solo la base per accordi fiscali bilaterali e multilaterali tra nazioni, e sinora siamo molto ma molto indietro.
Si aggiungono anche altre difficoltà.
Molti paesi hanno tentato di imboccare una via autonoma, minacciando le multinazionali di creare basi imponibili “presuntive” partendo non dalla stima degli utili ma del fatturato realizzato nazionalmente attraverso clienti e intermediari. Era questa la base anche di alcune proposte di legge – la cosiddetta “web tax” – proposte anche nel parlamento italiano, ma sulle quali il governo ha deciso per fortuna sinora di soprassedere, scegliendo l’approccio multilaterale. Quando dico “per fortuna” intendo che a oggi, assumere i ricavi come base imponibile presuntiva farebbe a pugni con la definizione di reddito d’impresa secondo il Testo Unico dei redditi vigente ( vedi qui e qui). Ma ciò è comunque bastato per raggiungere accordi fiscali di maggiori introiti. Proprio Apple ha versato 319 milioni di euro nello scorso autunno all’Italia chiudendo un contenzioso molto maggiore, per 880 milioni, notificatole dall’Agenzia delle Entrate e dalla procura di Milano. E un analogo fascicolo è aperto con Google. Ma ammettiamolo: proprio l’esiguità delle transazioni finali rispetto alle contestazioni iniziali italiane dimostrano che, in assenza di una base normativa chiara e condivisa internazionalmente, la pretesa delle autorità tributarie nazionali deve accontentarsi di soluzioni extragiudiziali. I paesi “deboli” rischiano altrimenti di vedere i giganti della rete disintermediare i loro clienti. Solo il Regno Unito, contando di essere troppo finanziariamente rilevante agli occhi delle multinazionali, ha sin qui adottato una discussa misura – la Diverted Profit Tax – che identifica con il modello dei prezzi di trasferimento nella catena delle diverse società controllate all’estero dalle multinazionali, ma calcolati a valore di mercato e non quello dichiarato dai gruppi, una stima presuntiva dei redditi sottratti, da tassare al 25%. Ma occhio: è la stessa Gran Bretagna che ieri ha fatto ponti d’oro ad Apple appena appresa la decisione della Commissione, dicendo: noi non siamo più sottoposti alla Ue, venite da noi e ci metteremo d’accordo.
Infine, la decisione della Vestager comporta un’altra incognita. Se l’aria è cambiata in questi ultimi anni con massicci accordi bilaterali di cooperazione fiscale – a cominciare dal segreto bancario di fatto caduto in Svizzera, Lussemburgo e Austria – si deve alla svolta avvenuta negli USA con il protocollo FATCA. E anche nell’attuale campagna per le presidenziali un tema al centro del dibattito è cosa fare per superare l’attuale norma fiscale statunitense, che ha portato circa 1,1 trilioni di dollari di utili di multinazionali americane parcheggiati in altri ordinamenti fiscali (la stima mondiale è di circa 2 trilioni), per evitare la tassazione del 35% al reimpatrio negli States. Per questa ragione la definizione congiunta di che cosa configuri “stabile organizzazione” e dove si tassino i cespiti di una multinazionale, dovrebbe essere primario interesse dell’Europa. Che però sinora è divisa, perché ciascuno è in piena concorrenza fiscale col vicino per aggiudicarsi presenza e investimenti diretti esteri da parte delle multinazionali in questione. Mentre la mazzata di ieri ha portato automaticamente il governo USA a difendere Apple e i suoi giganti della rete, quegli stessi che al Congresso critica come elusori fiscali. L’effetto opposto cioè di quanto serve se vogliamo che il fisco USA e quello dei diversi paesi Ue raggiungano mai un accordo comune.
Conclusione. La via nazionale a tassare i giganti della rete secondo ricavi stimati ha basi legali fragili e crea danni ai mercati dei paesi che l’applicassero. La via europea di usare l’antitrust per riscrivere retroattivamente le norme fiscali nazionali è inaccettabile. Un accordo vero è efficace solo se condiviso tra grandi autorità fiscali e abbiamo il massimo interesse a un accordo con gli USA, mentre la decisione della Commissione è un guanto di sfida che porta – come si è visto ieri – le autorità americane a difendere le proprie multinazionali, che pur contesta a Washington.
Vedremo come va a finire. Senza una buona soluzione, è un’altra potente spinta a far regredire la globalizzazione. La giusta tassazione non va mai confusa con l’anatema alla concorrenza fiscale. Finché ci saranno paesi con aliquote più basse, quelli con aliquote troppo levate saranno costretti comunque a ridurle. E così facendo crescono di più, non di meno. E’ esattamente questo che non piace, a molti di coloro che applaudono la Vestager.