31
Ago
2016

La mazzata Ue a Apple piace ai più, ma ha evidenti falle legali

La guerra fiscale tra Apple e la Commissione Europea scoppiata ieri sarà uno dei casi del secolo. Ma intanto, alla notizia della mazzata vibrata dalla commissaria Ue alla Concorrenza Margreth Vestager al gigante guidato da Tim Cook, i più in Europa hanno esultato. Finalmente l’Europa si fa sentire, è il coro espresso dal più dei governi, dai media e da chi in Europa subisce quella che considera una concorrenza impropria da parte delle multinazionali della rete come Google, Facebook e Amazon: cioè editori,  autori, produttori di contenuti multimediali e imprese europee delle tlc. Come del resto avviene a ogni iniziativa Ue contro i giganti della rete, iniziative delle quali l’Istituto Bruno Leoni ha invece puntualmente cercato di sottolineare la purtroppo ricorrente pretestuosità tecnica (vedi per esempio qui, qui, qui e qui)

In effetti, ogni previsione questa volta è stata superata: il dossier aperto dalla Vestager sugli accordi fiscali agevolati – tax rulings, in gergo tecnico – tra Apple e Irlanda non sfocia in una sanzione da 1 miliardo di euro come immaginava l’Economist, ma nella bellezza di 13 miliardi di euro di minori imposte pagate tra 2003 e 2014, somma che ora tocca all’Irlanda recuperare sommandovi gli interessi. Ma l’Irlanda impugnerà la decisione, sulla stessa base con cui lo farà Apple. Ed è intorno a questo caso, multiplo come grandezza finanziaria rispetto all’arcifamosa sanzione comminata nel 2004 da Monti commissario Ue a Microsoft per 497 milioni di euro, che ora per lungo tempo divamperà una guerra. Tra le due rive dell’Oceano, ma anche tra paesi europei a bassa tassazione d’impresa e quelli che invece considerano i primi come paradisi fiscali. Al di là dei vasti consensi all’azione Ue, il fondamento legale della decisione è fragile, rischioso e irto di contraddizioni.

Come può l’autorità europea che vigila sulla concorrenza assumere i poteri di un’autorità fiscale, pur essendo le politiche tributarie di competenza nazionale?  La Vestager parte dal presupposto che i tax rulings configurino in realtà aiuti di Stato, ergo violazioni della concorrenza. E su questa base giuridica ha indagato Apple, come ha già fatto per Starbucks, Fiat ed altri, estendendo le indagini non solo all’Irlanda, ma all’Olanda e al Lussemburgo. La Commissione ammette tuttavia anche di “non avere competenza in materia tributaria”, e affida ai governi ora il recupero delle risorse. Se l’aliquota sui redditi d’impresa irlandese è al 12,5% – cosa che fa imbestialire i grandi paesi europei ad alte aliquote (nemici della concorrenza fiscale che è invece buona cosa) che invano tentarono di farla alzare agli irlandesi in cambio degli aiuti Ue alle loro banche – allora sono illegittimi gli accordi che hanno consentito ad Apple di pagare via via dall’1% fino solo allo 0,005% di imposta a Dublino. Senonché i tax rulings non sono eccezione in Irlanda e  Lussemburgo ma centinaia e centinaia (nel novembre 2014 Wikileaks ne pubblicò oltre 500 offerti dal Lussemburgo a oltre 340 imprese multinazionali, nei soli anni 2002-2010). Cioè rappresentano un’articolazione ordinaria della politica fiscale di quei paesi europei per attirare imprese, non straordinaria.  Inoltre, la decisione della Commissione “obbliga” uno Stato Ue a una tassazione retroattiva secondo norme diverse da quelle che esso si era dato: una scelta che dovrebbe far sobbalzare i sovranisti in tutti i paesi europei, e questa volta a piena ragione. Qui per esteso le ragioni tecniche per le quali non condivido la pretesa base legale della Commissione, esposte da Massimiliano Trovato in un paper IBL.

Ma sono obiezioni di carattere formalistico, è la reazione dominante. Il punto è invece che non si può consentire a imprese che realizzano profitti per centinaia di miliardi la possibilità di pagare imposte per pochi milioni. E di non riconoscere i diritti alle imprese editoriali di cui veicolano i contenuti sui loro motori di ricerca. E di non compartecipare alle spese infrastrutturali per realizzare reti a banda larga da parte delle imprese di tlc, quando il più della banda finiscono per occuparlo loro coi loro contenuti. E via continuando. E’ un’osservazione sostanziale, tuttavia bisogna ricordare alcune questioni, prima di vedere se e come la maxi-sanzione europea sopravviverà al contenzioso e fisserà un precedente, oppure no.

E’ vero che la tassazione dei grandi gruppi trans-nazionali è un grande problema irrisolto della globalizzazione. L’OCSE stima che l’elusione delle multinazionali raggiunga l’effetto di 240 miliardi di dollari di minori tasse pagate l’anno, circa il 10% delle imposte raccolte sui redditi d’impresa a livello mondiale. Tuttavia, per identificare criteri comuni su cosa sia reddito imponibile e da pagare in quale paese, occorrerebbe un grande accordo tra autorità fiscali continentali, Stati Uniti, Europa e Cina. Solo così si potrebbero identificare regole comuni alle quali attenersi. Ma non è la strada che è stata intrapresa.

Il G20 affidò all’OCSE la stesura di linee guida orientative che sono state illustrate nell’autunno scorso, le cosiddette BEPS (“Base Erosion and Profit Shifting”). Molto articolate, in cinque grandi capitoli: fissando come obiettivo quello di report nazionali paese per paese in cui ogni grande gruppo dichiari dove ha stabile organizzazione e dove incardina invece fiscalmente i suoi cespiti (interessi, dividendi, diritti da brevetti e proprietà intellettuale, con questi ultimi aspetti “intangibili” essenziali per la produzione di reddito delle grandi imprese della rete). Sulla base di uno scambio d’informazioni sempre più capillare tra Stati, e contenendo sempre più la possibilità di triangolazioni che vedano i flussi di profitto sparire magari in società controllate dai grandi gruppi ma in paradisi fiscali “veri”, dalle Bahamas alle Cayman. Tuttavia, quelle linee guida OCSE sono solo la base per accordi fiscali bilaterali e multilaterali tra nazioni, e sinora siamo molto ma molto indietro.

Si aggiungono anche altre difficoltà.

Molti paesi hanno tentato di imboccare una via autonoma, minacciando le multinazionali di creare basi imponibili “presuntive” partendo non dalla stima degli utili ma del fatturato realizzato nazionalmente attraverso clienti e intermediari. Era questa la base anche di alcune proposte di legge – la cosiddetta “web tax” – proposte anche nel parlamento italiano, ma sulle quali il governo ha deciso per fortuna sinora di soprassedere, scegliendo l’approccio multilaterale. Quando dico “per fortuna” intendo che a oggi, assumere i ricavi come base imponibile presuntiva farebbe a pugni con la definizione di reddito d’impresa secondo il Testo Unico dei redditi vigente ( vedi qui e qui). Ma ciò è comunque bastato per raggiungere accordi fiscali di maggiori introiti. Proprio Apple ha versato 319 milioni di euro nello scorso autunno all’Italia chiudendo un contenzioso molto maggiore, per 880 milioni, notificatole dall’Agenzia delle Entrate e dalla procura di Milano. E un analogo fascicolo è aperto con Google. Ma ammettiamolo: proprio l’esiguità delle transazioni finali rispetto alle contestazioni iniziali italiane dimostrano che, in assenza di una base normativa chiara e condivisa internazionalmente, la pretesa delle autorità tributarie nazionali deve accontentarsi di soluzioni extragiudiziali. I paesi “deboli” rischiano altrimenti di vedere i giganti della rete disintermediare i loro clienti. Solo il Regno Unito, contando di essere troppo finanziariamente rilevante agli occhi delle multinazionali, ha sin qui adottato una discussa misura – la Diverted Profit Tax – che identifica con il modello dei prezzi di trasferimento nella catena delle diverse società controllate all’estero dalle multinazionali, ma calcolati a valore di mercato e non quello dichiarato dai gruppi,  una stima presuntiva dei redditi sottratti, da tassare al 25%. Ma occhio: è la stessa Gran Bretagna che ieri ha fatto ponti d’oro ad Apple appena appresa la decisione della Commissione, dicendo: noi non siamo più sottoposti alla Ue, venite da noi e ci metteremo d’accordo.

Infine, la decisione della Vestager comporta un’altra incognita. Se l’aria è cambiata in questi ultimi anni con massicci accordi bilaterali di cooperazione fiscale – a cominciare dal segreto bancario di fatto caduto in Svizzera, Lussemburgo e Austria – si deve alla svolta avvenuta negli USA con il protocollo FATCA.  E anche nell’attuale campagna per le presidenziali un tema al centro del dibattito è cosa fare per superare l’attuale norma fiscale statunitense, che ha portato circa 1,1 trilioni di dollari di utili di multinazionali americane parcheggiati in altri ordinamenti fiscali (la stima mondiale è di circa 2 trilioni), per evitare la tassazione del 35% al reimpatrio negli States. Per questa ragione la definizione congiunta di che cosa configuri “stabile organizzazione” e dove si tassino i cespiti di una multinazionale, dovrebbe essere primario interesse dell’Europa. Che però sinora è divisa, perché ciascuno è in piena concorrenza fiscale col vicino per aggiudicarsi presenza e investimenti diretti esteri da parte delle multinazionali in questione. Mentre la mazzata di ieri ha portato automaticamente il governo USA a difendere Apple e i suoi giganti della rete, quegli stessi che al Congresso critica come elusori fiscali. L’effetto opposto cioè di quanto serve se vogliamo che il fisco USA e quello dei diversi paesi Ue raggiungano mai un accordo comune.

Conclusione. La via nazionale a tassare i giganti della rete secondo ricavi stimati ha basi legali fragili e crea danni ai mercati dei paesi che l’applicassero. La via europea di usare l’antitrust per riscrivere retroattivamente le norme fiscali nazionali è inaccettabile. Un accordo vero è efficace solo se condiviso tra grandi autorità fiscali e abbiamo il massimo interesse a un accordo con gli USA, mentre la decisione della Commissione è un guanto di sfida che porta – come si è visto ieri – le autorità americane a difendere le proprie multinazionali, che pur contesta a Washington.

Vedremo come va a finire. Senza una buona soluzione, è un’altra potente spinta a far regredire la globalizzazione.  La giusta tassazione non va mai confusa con l’anatema alla concorrenza fiscale. Finché ci saranno paesi con aliquote più basse, quelli con aliquote troppo levate saranno costretti comunque a ridurle. E così facendo crescono di più, non di meno. E’ esattamente questo che non piace, a molti di coloro che applaudono la Vestager.

29
Ago
2016

Terremoto: vittime anche per le folli norme di Stato

No, non è solo questione di illegalità, ma anche di legalità asinina. Entrambe concorrono alla grande strage sismica italiana. A pochi giorni dal terremoto che ha mietuto sinora 290 vittime a cavallo della provincia di Rieti e Ascoli Piceno, cioè nella zona sismica di categoria 1 più esposta a devastazioni in Italia, già abbiamo alcuni dati su cui riflettere. Per capire una volta per tutte che cosa “non” bisogna continuare a fare, ora che grazie al cielo pare manifestarsi l’intenzione di lanciare un programma pluridecennale per la messa in sicurezza delle aree d’Italia più geologicamente a rischio.

Dagli elementi sin qui appurati dai cronisti, tra tutte è la vicenda della scuola Romolo Capranica di Amatrice, quella che già consente una serie di molto amare riflessioni. Intanto, perché il crollo della scuola è un doloroso esempio – per fortuna questa volta senza vittime dirette – dello Stato che non fa quel che deve innanzitutto per il suo patrimonio, di scuole e ospedali, malgrado si conoscano tutti i numeri delle migliaia di presidi pubblici non a norma. Poi, perché come tutti hanno scritto un intervento antisismico sull’edificio, che risale agli anni Trenta, è stato compiuto nel 2012, ma con i penosi risultati che si vedono. Inoltre, perché subito sono scattate le indagini delle autorità giudiziarie, alla luce dei sospetti che ora emergono su chi si aggiudicò quell’appalto, un’impresa calabrese alla cui guida vi sono parenti e soci d’affari di esponenti raggiunti da interdittive antimafia poi annullate, e sull’impresa romana alla quale i lavori furono poi subappaltati. Nonché le indagini sono aperte anche per un successivo appalto che ancora non era entrato in esecuzione, aggiudicato col massimo ribasso alla “Carlo Cricchi”, il figlio del cui proprietario è sotto processo per corruzione, reati fiscali e falso, per un’appalto “pilotato” di 19 milioni nella ricostruzione dell’Aquila.

Tutti particolari che hanno immediatamente fatto accendere i fari delle massime autorità giudiziarie del nostro paese: dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti a, ovviamente, il capo dell’Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone. Entrambi pronti lodevolmente a dire: garantiamo che questa volta nella ricostruzione non ci saranno le amplissime discrezionalità e illegalità diffuse viste per esempio in Irpinia, con la conseguenza di un maxi falò di decine di miliardi di risorse pubbliche. Prendiamone atto e vigliamo tutti, vien da dire.

E tuttavia no, il crollo della scuola Capranica ad Amatrice malgrado l’intervento del 2012 non è solo un potenziale simbolo negativo per l’ombra di illegalità eventualmente compiute nei lavori. Nella vicenda c’è qualcosa di gran lunga peggiore, anche se finora è passato sotto silenzio. Perché investe non l’eventuale verificarsi di violazioni di legge che mettano cinicamente a rischio la vita di insegnanti e ragazzi. Ma che esprime invece l’ordinaria e strutturale conseguenza letale prodotta dalla follia del nostro legalissimo ordinamento istituzionale, dalla sua proliferazione sovrapposta di competenze, dalla bizantina illogicità delle sue prescrizioni, che sembrano fatte apposta per aprire varchi a interessi e tornaconti, non al fine dichiarato della sicurezza della vita e del patrimonio. Vediamo i motivi per giustificare un’accusa tanto grave: rivolta allo Stato per com’è oggi in Italia, non solo ai criminali.

Ricostruiamo allora i diversi stanziamenti per gli interventi antisismisci alla scuola Capranica di Amatrice. Dopo il terremoto 2009 all’Aquila, il governo Berlusconi mise a disposizione oltre 1 miliardo nazionalmente per la messa in sicurezza degli edifici. E tramite la Provincia di Rieti – l’assegnazione delle risorse passava per la Protezione Civile – sembrò che ad Amatrice fosse disponibile uno stanziamento complessivo per la scuola Capranica, di 1 milione e 263mila euro. Sfumato nel nulla, per problemi burocratici sommati alle crescenti difficoltà di cassa della provincia, avviata come tutti i suoi omologhi nelle regioni a statuto ordinario a perdere la qualifica di organo elettivo di primo grado per trasformarsi di fatto in consorzio di Comuni. Tutti elementi anch’essi su cui la procura di Rieti indagherà.

E siamo al 2012, quando appare il finanziamento di 511mila euro, questa volta a carico del fondo edilizia scolastica del MIUR. A cui si aggiungono 200mila euro di natura mista, visto che il più delle risorse viene dalla legge regionale 17/2009 della Regione Lazio, a cui si aggiunge una quota a carico del Comune e una anche della Provincia a mo’ di riscatto della promessa non mantenuta, appalto che porta ai lavori realizzati con grande velocità per consentire il regolare avvio dell’anno scolastico 2012-2013.

Ottimo? No, neanche un po’. Perché l’accordo con cui la provincia di Rieti cede al comune di Amatrice la supervisione sui lavori ricalca un decreto ministeriale sugli interventi antisismici del 1996, ben precedente cioè ai criteri definitivamente rimessi a punto nel 2009 post-Aquila, e secondo quel testo i lavori possono benissimo limitarsi a semplici interventi di “miglioramento”, non di “adeguamento” pieno ai criteri antisismici. Di qui la possibilità legalissima di usare i fondi per intervenire sulle caldaie di riscaldamento, pavimenti o impianti anti-incendio, invece di concentrarsi solo sull’esame accurato di tutti gli interventi possibili coerenti alle lacune di portanza e dei giunti di flessibilità elastica dell’edificio. Ecco perché la scuola è crollata, ed è tutto secondo le legge: dannazione, viene da dire.

E anche il terzo lotto di finanziamenti, quello per 172mila euro, sulla cui aggiudicazione la procura indaga anche se non era ancora nella fase attuativa, nasce dalle stesse fonti finanziarie plurime dell’intervento 2012, ma in teoria avrebbe potuto benissimo risolversi in un intervento del tutto analogo, e dunque non risolutivo. A ciò si aggiunge che la legge regionale del Lazio modificò il criterio dell’intervento relativo ai privati: per vedersi finanziati i privati dovevano essere obbligatoriamente residenti, il che escludeva tutte le seconde e terze case. Di qui neanche 200 assegnatari, nella zona oggi devastata, invece di alcune migliaia: come se crolli e morte non riguardassero coloro che in questi paesi trascorrono una parte dell’estate nelle case ereditate da padri e nonni, come è proprio tragicamente avvenuto ad Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto.

Cosa dedurre da questa ricostruzione? Almeno tre conseguenze, che sono di portata enormemente superiore a quella dei processi a carico di chi ha eventualmente rubato e corrotto sui lavori antisismici.

La prima, ora che si pensa finalmente a un Progetto-Italia pluridecennale (Casa-Italia, lo chiama ora Renzi) da presentare in Europa come una vera e propria “grande riforma” di cui ha bisogno il paese europeo più esposto al rischio sismico insieme alla Grecia, è che occorre massicciamente concentrare regia e controllo sulle decine di migliaia di interventi che saranno necessari, nel patrimonio pubblico e – tramite massicce agevolazioni – in quello privato. Per favore: Stato, Regioni, Province e Comuni non possono a questa vicenda aggiungere e cumulare ciascuno i propri guai e inefficienze. E bisognerebbe anche evitare di confondere in questo progetto ogni altro tipo di intervento pubblico a fini diversi, dalla banda larga a saddioché come sembra invece trapelare dal governo: più si crea un carrozzone, meno funzionerà.

La seconda: occorre un’opera rapida di igiene pubblica su testi di legge, decreti e regolamenti da applicare, visto che ereditiamo decenni di testi superfetati e autoelidenti, pronti a generare effetti mortali com’è accaduto ad Amatrice.

La terza: non ne va solo della vita e sicurezza innanzitutto dei 3 milioni di italiani che vivono nella parte d’Italia a massimo rischio, e dei 10 milioni nella fascia di rischio più esteso, in gioco sono anche i conti pubblici, e le tasche del contribuente.

Ora che tutti speriamo in una grande sfida che negli anni ci porti a non ripetere la conta di morti e dei danni del passato, lo Stato non dimentichi che colossali stanziamenti dispersi tra decine di migliaia di stazioni pubbliche appaltanti portano anch’essi la loro parte di responsabilità delle vittime. E fanno restare senza parole gli italiani dalle cui tasche sono usciti.

29
Ago
2016

Addio a Sir Antony Jay, il creatore della popolare serie tv Yes Minister – di Giovanni Chiampesan

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Giovanni Chiampesan.

Sir Antony Jay è venuto a mancare lo scorso 21 agosto. Non ho mai avuto l’onore né la fortuna di conoscerlo personalmente, ma circa due anni or sono rispose con un’email estremamente stringata ad una richiesta da parte mia e dell’IBL di poter pubblicare il primo volume di Yes Minister in italiano (il testo, in formato ebook, è stato poi pubblicato qualche mese dopo: Yes Minister. I diari dell’Onorevole James Hacker, vol. I). La risposta era “OK by us AJ & JL”. Era talmente telegrafica e tempestiva e all’apparenza così poco British – All right è, o almeno era, la forma preferita nel Regno Unito all’espressione americana OK – che mi sentii in obbligo di verificarne l’autenticità prima di procedere. L’esatto contrario del modus operandi di Sir Humphrey Appleby, Direttore Generale del Ministero degli Affari Amministrativi, il personaggio più famoso scaturito dalla penna di Sir Antony Jay e Jonathan Lynn (le seconde iniziali nell’email sono le sue). Sir Humphrey è la quintessenza del burocrate subdolo ed equivoco, la cui risposta preferita, per sua stessa ammissione, è “Yes and no”, e rappresenta il vero ostacolo al cambiamento del funzionamento della macchina dello Stato, più che i politici benintenzionati che vanno e vengono. La realtà è che i Sir Humphreys di questo mondo non vanno e vengono, ma dobbiamo sorbirceli ogni giorno fino alla fine della loro carriera, come scopre il Ministro degli Affari Amministrativi, James Hacker, e passano le giornate a dare una parvenza di cambiamento per poi in realtà non cambiare nulla. Il Ministero degli Affari Amministrativi era stato creato ad hoc per controllare ed eliminare tutti gli sprechi e le inefficienze degli altri ministeri – vedi i nostri vari e impotenti Commissari alla Spending Review – ma come viene spiegato nella Nota dei Redattori che fa da prefazione al libro, “Purtroppo, anche se il Ministero degli Affari Amministrativi era stato creato per controllare la Pubblica Amministrazione, sarebbe stata la stessa Pubblica Amministrazione a gestirlo. I lettori saranno quindi ben consapevoli di ciò che fu l’inevitabile risultato delle fatiche di Hacker”.

Scrittore, sceneggiatore, giornalista televisivo e regista Sir Antony Jay ha avuto il grande merito di aver reso popolari le idee di “Public Choice” ad un pubblico di non addetti ai lavori prevalentemente anglosassone, dato che in Italia e in Francia le traduzioni della serie completa non sono ancora disponibili, salvo che per il primo volume edito da IBL – a partire dai primi anni Ottanta. Come ha scritto Peter Kurrild-Klitgaard nella sua introduzione a Le motivazioni del voto di Gordon Tullock, “È un’ipotesi fondata che gli autori della fortunata serie televisiva inglese Yes Minister e Yes Prime Minister, andata in onda nel corso degli anni Ottanta, avessero almeno in parte una loro evidente familiarità con le tesi della Public Choice, relative al comportamento di politici, burocrati e gruppi di interesse, sulla base della lettura della piccola monografia edita dallo IEA”.

E’ per questo motivo che gli fu conferita l’onorificenza di CBE. Jay fu inoltre l’autore satirico preferito di F.A. Hayek e Margaret Thatcher, la quale insisté per scrivere assieme a lui un breve sketch intitolato “Il piano del Primo Ministro”, nel quale si ordinava a Sir Humphrey di abolire gli “economisti” per risparmiare sulle spese. In questo caso pensiamo che il riferimento fosse ai “macroeconometristi di scuola Keynesiana”, criticati da Hayek non solo per la fallacia delle loro tesi, ma perché avevano la falsa pretesa di poter simulare il funzionamento dell’economia reale attraverso complicate formule matematiche congegnate ad hoc senza utilizzare alcun metodo scientifico.

26
Ago
2016

Come reagirete se ai vostri figli toccherà un insegnante appena bocciato al concorsone?

Come reagirete da genitori, quando a settembre magari ai vostri figli toccheranno insegnanti appena bocciati al concorsone in via di svolgimento? Farete impugnativa? No, non potete. Questo paradosso non solo avverrà, ma è la legge a consentirlo. E l’unica attenuante che si può trovare alla norma, è che nemmeno Ercole sarebbe riuscito nella gigantesca impresa di sanare di botto l’oceano di precari della scuola ereditato dal passato.

I primi dati attendibili ormai lo confermano. Per ottemperare alle sentenze della Corte di Giustizia Europea, contro l’abuso vergognoso perpetrato per decenni in Italia a danno di centinaia di migliaia di precari nella scuola, nemmeno la pur ingente leva di massa decisa dal governo Renzi sarà in grado di sanare la situazione. E non si eviteranno alla scuola italiana nuovi e dolorosi paradossi. Purtroppo, i precari – insegnanti non di ruolo ma chiamati a esercitarne le funzioni – resteranno, molti meno di prima ma comunque decine e decine di migliaia. Ma il paradosso nuovo è tragicomico: perché alle cattedre saranno giocoforza chiamati proprio magari molti di coloro che, all’attuale concorsone, non hanno superato le prove.

Che dei precari comunque restassero, lo si sapeva. Gli 87 mila messi in ruolo dopo la riforma Giannini hanno riguardato soprattutto la cosiddetta prima fascia delle graduatorie a esaurimento, mentre la seconda era riservata agli abilitati e la terza ai non abilitati, a cui si sommavano inoltre le graduatorie provinciali per le supplenze. Il concorsone subito bandito e in corso riguarda invece la messa in ruolo per altre 63 mila cattedre nel triennio che comincia a settembre, ed è soprattutto per gli abilitati GAE di seconda fascia. Ma già qui il meccanismo si è inceppato. Rivelando in maniera impietosa ciò che invano alcuni hanno tentato di ricordare mentre la riforma era discussa, e cioè che i titoli abilitanti di molte migliaia di precari erano in realtà deboli e talvolta debolissimi, e che non avrebbero retto a una cernita seria.

Infatti è quel che clamorosamente sta avvenendo. Dobbiamo alle puntigliose e approfondite radiografie svolte da Tuttoscuola una serie di dati illuminanti. E terribili. Dei 175 mila circa – nota bene: tutti abilitati all’insegnamento, per il cervellotico e obbrobrioso sistema praticato dai governi italiani per decenni – partecipanti teorici per classi di materie e gradi d’insegnamento nelle 825 commissioni d’esame, ne sono stati esaminati sinora oltre 70mila per le prove scritte. Ma il 55% di loro non è stato ammesso agli orali. Una percentuale che nei respinti alimenta polemiche sulla qualità delle prove sostenute, ma che in realtà certifica le ragioni minoritarie sostenute da chi ha tentato da una parte di riconoscere che il precariato doveva cessare, ma che dall’altra la messa in ruolo non poteva avvenire senza una selezione dura della qualità dei docenti. Purtroppo, se per decenni i governi ti tengono sotto il ricatto delle chiamate a tempo, giocoforza ciò rappresenta per i precari un potentissimo disincentivo al perfezionamento.

A questo si aggiunge che, delle 825 commissioni di concorso, 315 sono comunque in grave ritardo, e non riusciranno a procedere alla fine dei loro lavori entro il 15 settembre come previsto, cioè in tempo utile per le assegnazioni dell’anno scolastico 2016-17. Sommando l’ulteriore selezione agli orali inevitabilmente prevedibile a questo punto per le 510 commissioni che concluderanno i lavori in tempo utile, con una stima di almeno 10 mila cattedre non assegnate, e altrettante almeno che mancheranno per via delle commissioni in ritardo, la stima attuale è di almeno 20mila cattedre non coperte su 63mila bandite. Con alcune regioni che rischiano molto più di altre, a cominciare dalla Lombardia  che vede sin qui la più bassa percentuale di ammessi agli orali, solo il 30,7%. E un clamoroso allarme rosso che riguarda le scuole primarie e l’infanzia, ben 24 mila posti dei 63mila banditi, ma che sin qui vedono una terrificante percentuale pari solo al 22% di ammessi agli orali dopo gli scritti.

Che cosa avverrà, per evitare che l’anno scolastico resti a cattedre scoperte? Ovvio. Si farà ricorso ai precari. Dove sono ancora attive le graduatorie ad esaurimento i posti previsti e non assegnati saranno assegnati agli iscritti in GAE prima fascia, dove siano esaurite si farà invece ricorso a supplenze annue, attingendo alle graduatorie di fascia inferiore. E’ altrettanto ovvio che tra i precari abilitati di seconda fascia finirà in cattedra magari proprio chi è stato bocciato agli scritti del concorsone in atto. Come dicevano all’inizio: preparatevi, perché non potrete protestare se a isnegnare ai vostri figli c’è chi non ha suiperato le prove scritte o è stato respinto agli orali.

E ancora una volta non avremo spezzato la diabolica macchina del ricatto: vaglielo a spiegare, a chi non ha superato il concorso, che ha senso un simile meccanismo di selezione se poi lo Stato è costretto comunque, per porre rimedio all’oceanico errore ereditato, ad affidarti comunque una cattedra ma dicendoti che vale solo per un anno. Passeranno almeno tre anni così, prima che si possa risolvere questo nuovo guaio. Che comunque insegna già con lampante evidenza tre cose.

La prima riguarda il passato. I ministri che al MIUR per decenni hanno tollerato il precariato di massa, e i tanti magistrati componenti delle Alte Corti italiane che nel tempo hanno confermato quel sistema, dovrebbero tutti sentire il dovere di partecipare a un grande rituale pubblico in cui offrire le proprie scuse al paese: come si usa in Giappone, simbolico quanto volete, ma necessario. Non avverrà, ma è un peccato. Non solo perché anche di simboli si nutre la vita pubblica. Soprattutto perché la qualità della scuola è decaduta – sia pure a macchia di leopardo, come si vede dai testi PISA e da quelli INVALSI – per effetto potente di quell’orrendo meccanismo.

La seconda riguarda il presente. E’ molto difficile, ce ne rendiamo conto, ma al ministero dovrebbero ora con urgenza tentare di escogitare un meccanismo giuridicamente credibile, che eviti sia l’affidamento d’insegnamenti a chi non è palesemente all’altezza, sia il proliferare di impugnative.

La terza riguarda il futuro. Mai più concorsoni per l’insegnamento fondati su graduatorie i cui titoli si accumulavano innanzitutto per anzianità. Mai più, per favore. Perché queste percentuali di respinti alle prove scritte sono un segnale di pericolo per il futuro dell’Italia molto ma molto più grave persino di qualche zerovirgola di PIL di deficit pubblico in più.

25
Ago
2016

Sismi e dissesti: i numeri per non continuare a morire affidandosi ai tarocchi

Quando non si tratta di tsunami o di frane, quasi sempre non sono i terremoti a uccidere gli uomini, ma le strutture costruite male dall’uomo. Da questa amara constatazione bisogna ripartire ogni volta che un sisma miete vittime nel nostro paese. Cioè ogni pochissimi anni, visto che siamo un paese interessato da forti rischi sismici, regolarmente studiati e censiti dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. E ogni 6-7 anni registriamo un evento di magnitudo fino a 6. La zona del Lazio, Umbria e Marche colpita ieri dal terremoto di magnitudo 6 rientra nella zona 1 della classificazione sismica, la più alta. Eppure, a ogni schiera di morti è come se la lezione non l’avessimo mai imparata.

Come ha detto ieri il sismologo Massimo Cocco dell’INVG, in una zona di rischio 1 “tutti gli edifici nuovi devono essere costruiti seguendo regole adeguate, e quelli più vecchi devono essere messi in sicurezza”. In questo paese abbiamo perseguito penalmente i sismologi per non aver saputo predire il terremoto dell’Aquila in un processo che fatto ridere il mondo, ma alle cose serie documentate da decenni dalla comunità scientifica italiana no, continuiamo a non dare retta. O meglio: i criteri antisismici per gli edifici nuovi esistono per legge dal 2009, mentre la classificazione delle classi di rischio per gli edifici pre-esistenti cioè il 99%, elaborata da un’apposita commissione, si è persa al momento nel passaggio di consegne tra l’ex ministro Lupi e quello attuale.

Oltre al dolore per le vittime e alla solidarietà per tutti i colpiti, e al massimo del sostegno a tutte le forze dello Stato e del volontariato che ieri si sono adoperate da subito nell’area a cavallo tra la provincia di Rieti e di Ascoli Piceno, ieri la prima reazione è stata appunto quella dell’insofferenza, nel pensare che paesi del mondo interessati da analoghi rischi tellurici da decenni hanno messo in atto una vera rivoluzione nell’edilizia, mentre da noi ci si continua ad affidare al fato.

Facciamo un solo esempio, di quanto amara possa essere la conseguenza del nostro incredibile atteggiamento nazionale. Tra il 14 e il 16 aprile scorso la prefettura di Kumamoto in Giappone è stata colpita da un terrificante sciame di scosse telluriche, oltre mille, con le due punte massime a 6,2 e 7 gradi di magnitudo. La prima delle due è del tutto paragonabile a quella che ieri ha devastato Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Una magnitudo 6 equivale, nella scala Richter, all’energia sprigionata dall’esplosione entro 100 km di un milione di tonnellate di tritolo, e per capirci la bomba di Hiroshima equivaleva solo a 13mila tonnellate. Una magnitudo 7, poiché le scale sono logaritmiche, equivale invece all’esplosione di 31,6 milioni di tonnellate. Di scosse di magnitudo 6, come quella che ha colpito il centro Italia ieri, se ne registrano in media 120 l’anno sul nostro pianeta. Di magnitudo 7, solo 18.  L’area interessata dal sisma giapponese ad aprile ha oltre 2 milioni di abitanti, di cui 800mila nel solo capoluogo Kumamoto. Eppure, malgrado l’alta densità antropica e un sisma tanto più potente di quello che ha colpito l’Italia ieri, le vittime giapponesi furono solo 49. Mentre da noi il bilancio è ancora purtroppo non definitivo, ed è oggi salito ad almeno 240 vittime: in un’area in cui i residenti complessivi nei diversi piccoli Comuni colpiti sono poche decine di migliaia, non milioni come in Giappone.

Eppure ieri è bastato dirlo, che dovremmo fare anche noi col nostro patrimonio edilizio quel che da decenni fanno Giappone e California, per scatenare un’ondata di riprovazione. Poi rintuzzata dal parere accreditato di geologi e sismologi, che naturalmente hanno battuto sullo stesso punto. Ma, in generale, la convinzione diffusa resta che no, noi non possiamo credere di poter fare come altri paesi, perché noi abbiamo centri storici e piccoli paesi che sono il frutto di un’evoluzione bimillenaria, mica possiamo radere al suolo e ricostruire come fanno gli altri.

E’ una convinzione sbagliata. L’alternativa irrazionale è tra radere al suolo e morire sfidando il fato. Quella razionale è tra il mettere finalmente mano a un enorme piano pluriennale di messa in sicurezza del patrimonio esistente – sì, anche quello storico, di edifici che hanno uno, due, o magari tre-quattro secoli – e di radicale ottemperanza ai criteri antisismici per le costruzioni nuove. In caso contrario, ricordarsi bene che la colpa delle vittime è nostra.

Anche perché poi non è affatto vero che a crollare e a far vittime siano solo gli edifici in pietra grezza, legno e vecchia calce e cartongesso dei paesini collinari e montani. Nei terremoti italiani ogni volta se ne scendono a pezzi i palazzi dello Stato edificati pochi anni, o al massimo 2-3 decenni fa. Ricordate la strage di San Giuliano di Puglia, il 31 ottobre 2002, quando sotto i mattoni della scuola completamente distrutta da una scossa di magnitudo 6 morirono 27 bambini e una maestra? Non vi è tornato in mente, osservando ieri le immagini devastate dell’ospedale di Amatrice, inagibile per le scosse malgrado risalga alla fine degli anni Settanta? E malgrado sia stato destinatario di fondi anche per la messa in sicurezza dopo il sisma dell’Aquila del 2009, fondi naturalmente non spesi e dunque senza realizzare le opere di consolidamento previste? E della scuola rimessa in sicurezza e reinaugurata nel 2012 ma ugualmente crollata, ne vogliamo parlare?

La strage di San Giuliano ha visto condannati fino alla Cassazione i responsabili: non la natura aspra e matrigna coi suoi terremoti, ma i costruttori e progettisti, il tecnico comunale e il sindaco dell’epoca, che di quella scuola non a norma portavano la colpa. Da allora, c’è stata una radiografia nazionale dell’intero sistema di edifici pubblici sanitari, svolta dalla Commissione che ha consegnato i lavori a febbraio 2016 (vedi qui da pag. 30), da cui abbiamo appreso che il 75% degli oltre mille presidi sanitari italiani corre il serio rischio di crollare, in presenza di scosse di magnitudo 6 come quella che ieri ha preteso nuove vittime. L’ordine dei geologi a ogni inizio anno scolastico ricorda che nel nostro paese sono 24mila le scuole ad alto rischio sismico, e 7mila a rischio idrogeologico. Ma nell’osservatorio per l’edilizia scolastica, che esiste da 20 anni, i geologi non ci sono.

L’ordine di grandezza dei danni patiti dall’Italia per eventi sismici e idrogeologici dal dopoguerra a oggi – sisma di ieri escluso, ovviamente – è di 250 miliardi di euro, stimato dall’ANCE (4 anni fa, per questo va arrotondato). Solo dal Belice a oggi lo Stato direttamente ha speso circa la metà, ma bisogna aggiungere le spese dei privati. Con oltre 4500 vittime se solo ci limitiamo agli ultimi 40 anni, dal terremoto del Friuli a quello dell’Irpinia, fino all’Aquila nel 2009 e all’Emilia nel 2012.

E’ verissimo. Per lo Stato la messa in sicurezza di decine di migliaia di propri edifici comporterebbe costi elevati. Molto più elevati ancora i costi poi per l’intervento sul patrimonio immobiliare privato, intervento che dovrebbe essere incentivato da potentissimi sgravi fiscali. Interventi che dovrebbero essere realizzati anche evitando l’azzeramento del valore in portafoglio alle famiglie, e da una politica ossessivamente volta all’assicurazione degli immobili contro il rischio sismico e idrogeologico, assicurazione non obbligatoria ma fortemente incentivata fiscalmente, visto che farebbe risalire il valore di un immobile “storico” certificato come ad alto rischio sismico, finché i privati non realizzassero i lavori di messa in sicurezza (anch’essi fiscalmente da super-incentivare) .

Diciamo che, come ordine di grandezza, secondo ingegneri e geologi siamo nell’ordine di 80-90 miliardi di euro, per un programma ventennale da 4-5 miliardi di euro l’anno. Ma quando si ha alle spalle un bilancio di sangue e finanziario così disastroso per non averlo fatto, continuare a non farlo è da imbecilli. E se abbiamo dato di colpo 10 miliardi per il bonus 80 euro, interrogarsi per favore su cosa sia più urgente, prioritario ed economicamente efficiente. Oltretutto, sommando la dorsale appenninica, la sua propaggine nel nord della Puglia e l’intera Calabria fino a inglobare Messina (dove nel 1908 si stima che morirono oltre 80mila persone) stiamo parlando complessivamente di non oltre un sesto della popolazione italiana,mentre  residenti nelle zone ad altissimo rischio sono solo 3 milioni (vedi ripartizione qui della popolazione per fasce di rischio, effettuata dal centro studi del consiglio nazionale dei geologi). Ci sarebbe anche l’emergenza delle centinaia di migliaia di persone assiepate in abitazioni presso il Vesuvio dove non dovrebbero stare, ma è oggettivamente un problema diverso anche se serissimo.

Nessuno può immaginare che ci vogliano pochi mesi o un paio d’anni. Dev’essere una scelta decennale, da presentare in Europa come una priorità assoluta. E del resto, l’Unione Europea per prima s’inventò nel 2002 il FSUE, il fondo di solidarietà contro le calamità naturali, a seguito delle inondazioni che allora avevano colpito il centro Europa (da cui abbiamo attinto più di 3 miliardi).  Non è vero neanche che vi siano veti invalicabili nel Fiscal Compact a queste spese, come subito ieri hanno preso a gridare i militanti dell’entieuropeismo:  nel Fiscal Compact, e nelle sue interpretazioni autentiche date dalla Commissione Europea, sta scritto esplicitamente Stati contraenti possono deviare temporaneamente dall’obiettivo di medio termine di rientro del deficit pubblico al ricorrere di circostanze eccezionali e per eventi imprevedibili (oltre che in caso di grave recessione), e le calamità naturali rientrano esattamente in tale definizione. Coerentemente sta scritto al comma 2 dell’articolo 81 (rivisto) della nostra Costituzione che “il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”.

Ovvio che nell’eccezione al deficit contrattato con l’Europa rientrino le spese per fronteggiare l’emergenza, i salvataggi, la messa in sicurezza dei crolli, l’assistenza agli sfollati, il ripristino delle infrastrutture. Non invece il complesso di interventi decennali per la messa in sicurezza dell’intero patrimonio edilizio nelle aree a maggior rischio sismico del nostro paese. Quella deve essere presentata e contratta in Europa come una vera e propria “grande riforma” strutturale. Perché i suoi costi sono minori di quanto spendiamo altrimenti per far fronte a distruzioni e morti. Noi, come paese più sismico e a rischio idrogeologico della UE (nel primo fattore insieme alla Grecia, sommando i due purtroppo la battiamo), dobbiamo provarci seriamente, a convincere i partner del fatto che non possiamo continuare a morire per colpa nostra. Il punto è crederci, volerlo intensamente, metterlo al centro dell’agenda nazionale. E controllare poi maniacalmente come si effettuano i lavori, visto che le procure continuano a istruire processi sui lavori pubblici da latrocinio dopo i quali le opere crollano comunque. Non commettiamo ancora una volta l’errore di affidarci ai tarocchi. E teniamo bene a mente il disastro del post terremoto Irpinia: negli anni i 36 Comuni inizialmente colpiti divennero 687, l’8% del totale dei Comuni italiani,  e si è finito per spendere 70 miliardi di euro di cui 17 solo a Napoli, confondendo terremoti con assistenzialismo elettorale.

19
Ago
2016

Contratti pubblici: senza produttività, no ai miliardi

Sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego si sta decisamente partendo col piede sbagliato. Sono fermi dal 2010, e dal governo Berlusconi tutti i successivi hanno confermato lo stop delle procedure negoziali e degli scatti economici individuali. Poi ci ha pensato la Corte costituzionale, con la sentenza 178 del luglio 2015, a stabilire che il fermo doveva cessare, e bisognava rinnovare i contratti. Di qui all’ultimo giorno in cui la legge di stabilità 2017 uscirà dal parlamento – e ci sarà il referendum sulla Costituzione di mezzo – è ora aperto lo scontro su quante risorse destinare al rinnovo. Il governo aveva “provocatoriamente” appostato 300 milioni, i sindacati arrivano fino a 7 miliardi, chiesti dalla Cgil.
Così però si parte dal fondo, cioè l’ammontare medio della retribuzione contrattuale lorda aggiuntiva per ciascuno dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici, invece che da ciò che dovrebbe costituire l’inizio. E cioè: a 8 anni dal vecchio rinnovo, nel nuovo contratto si gettano davvero le basi operative per avviare nella PA la rivoluzione della produttività, oppure resta tutto come prima? Ecco, è da qui che bisogna partire. Ma prima di vedere come, sono necessarie alcune premesse.
Primo, parliamo di numeri. Diamo un occhio agli effetti dello stop retributivo pubblico. E’ ovvio, comprensibile e giusto che i sindacati del pubblico impiego considerino molto grave che, fatta 100 la base retributiva pubblica del 2010, essa sia la stessa a giugno 2016, sicché in termini reali i dipendenti pubblici hanno perso potere d’acquisto. Mentre le retribuzioni del settore privato sono passate da 100 del 2010 a 109,9. Bisogna però equilibrare questo dato con un altro, più di lungo periodo. Le retribuzioni pubbliche conoscevano da decenni andamenti nel complesso superiori rispetto a quelle private. Nel solo periodo 2001-2009, cioè prima dello stop, l’incremento complessivo nominale delle retribuzioni di fatto pubbliche è stato secondo l’Istat del 31,9%, a fronte del 27% nell’industria privata e del 23,% nei servizi di mercato. Ma anche nel ventennio precedente era stato così, tranne una frenata del più rapido aumento pubblico a metà anni Novanta. Ergo: ora è giusto che cessi lo stop di questi ultimi 7 anni, ma – anche se ai sindacati del settore pubblico non piace ammetterlo – il suo effetto è stato comunque di riequilibrare il vantaggio dei dipendenti pubblici, per tanto tempo protrattosi in precedenza.
Secondo, occhio alla lezione del passato. Se la Fondazione Bertelsmann due giorni fa ha classificato l’Italia solo al 32° posto su 41 paesi tra i più avanzati per capacità di offrire servizi pubblici efficienti, ciò non dipende certo dal fatto che la spesa pubblica sia bassa visto che supera la metà il PIL, ma consegue alla bassa efficienza della nostra pubblica amministrazione. Ecco perché serve la rivoluzione della produttività nei servizi pubblici, e per questo bisogna mettere produttività e merito al centro dei nuovi contratti pubblici. Quando diciamo al centro significa proprio al centro, come un vero nuovo e rivoluzionario asse portante, non come parte accessoria e trascurabile rispetto al totale degli aumenti retributivi.
Qual è la lezione del passato? Che sinora la rivoluzione della produttività pubblica e del salario di merito nella PA non ha funzionato, malgrado fosse già prevista da tempo dalla legge, proprio perché non era incardinata se non en passant nei vecchi contratti pubblici. Il tentativo del d.lgs. 150/2009, il cosiddetto decreto Brunetta, di identificarne con maggior chiarezza alcuni elementi fondamentali e alcuni criteri, da applicarsi direttamente dalle Amministrazioni statali mentre per gli Enti locali costituivano principi generali cui i singoli ordinamenti delle varie Amministrazioni avrebbero dovuto attenersi, non ha di fatto estirpato la prassi – a cominciare dai dirigenti – di “spalmare” a tutti retribuzione accessoria secondo metriche discrezionali, che non identificano risultati ma premiano collusioni, come ha recentemente anche confermato la Banca d’Italia.
La definizione del ciclo delle performance da individuare come metriche del risultato, della trasparenza del giudizio, e della valorizzazione dell’apporto individuale di ogni dipendente, per tutte le amministrazioni pubbliche era affidato alla CIVIT, la Commissione per la Valutazione dell’Integrità e della Trasparenza nelle Amministrazioni pubbliche, la cui competenza è oggi compresa in quelle dell’ANAC. Ma se quella competenza è finita all’Autorità Anticorruzione, è appunto perché il salario accessorio nella PA ha finito per rappresentare un elemento scandaloso di de-merito collettivo, non di premio al merito individuale. Con casi come Roma, dove il cosiddetto salario accessorio finiva per appresentare anche il 40% della retribuzione ordinaria per tutti i quasi 23mila dipendenti comunali, e Regioni in cui la retribuzione di fatto dei dirigenti è salita a livelli sconosciuti alle amministrazioni centrali.
La lezione di questo fallimento è una: i criteri di individuazione del risultato prefisso a ogni unità della PA, su cui misurare il dirigente – vedremo il decreto attuativo della riforma Madia che la settimana scorsa è stato rinviato.. – e su cui calibrare il premio a tutti coloro che sotto di lui vi cooperano, deve entrare a far parte costituiva e dettagliata dei nuovi contratti pubblici. E aiuta che i comparti della PA siano passati da 12 a 4 – amministrazioni centrali, periferiche, sanita, scuola e ricerca – perché diminuisce la dispersione dei criteri che un tempo erano così frastagliati da impedirne ogni vero controllo.
Due ultime osservazioni. La manovra finanziaria prossima potrà essere di 25 o magari di 30 miliardi come si ipotizza, a seconda di quanto la Ue concederà davvero a Renzi di deficit aggiuntivo. Ma se un terzo o un quarto della manovra andassero ai nuovi contratti pubblici senza rivoluzione della produttività e con aumenti a pioggia. ebbene sarebbe difficile a chiunque spacciarla come fondamentale priorità rispetto a ciò che serve per uscire dalla crescita “a zerovirgola”. Infine: non è vero che i sindacati la pensino tutti allo stesso modo, e che il governo non avrebbe interlocutori al tavolo della produttività pubblica.
Per tutte queste ragioni, dopo l’Atto di indirizzo sui 4 nuovi comparti pubblici che il governo ha impartito all’ARAN per aprire formalmente la stagione dei rinnovi, pensiamo che sarebbe più giusto un nuovo Atto di indirizzo sulla centralità del salario e delle metriche di merito nel contratto pubblico. E solo una vista registrata l’opinione dei sindacati, decidere il quantum degli stanziamenti per i rinnovi. In un paese a produttività stagnante da un decennio, il gap non si supera solo con i contratti di produttività nel privato. E’ il settore pubblico, il primo buon nero della produttività italiana.

13
Ago
2016

La ripresa s’è fermata, non l’errore politico di evitare misure radicali

La tossicchiante ripresa italiana s’è fermata. Perché i guai sono sempre gli stessi, da vent’anni dicono i numeri. E assume forme diverse nel tempo comunque un’analoga risposta della politica: incolpare le circostanze esterne, evitare i necessari rimedi radicali, inventarsi costose strategie per compiacere il voto e prendere a calci la lattina. Il declino italiano continua, rispetto agli altri paesi. E la tanto decantata carica del governo Renzi appare ferma, spenta, incartata.

Le attese sulla prima stima del PIL italiano nel secondo trimestre 2016 sul precedente già scontavano un rallentamento rispetto al primo, che si era chiuso su un +0,3%. Che era comunque positivo, se si pensa che l’andamento del 2015 era stato in continuo décalage: dal +0,4% del primo trimestre, a +0,3%, +0,2% +0.1% nei trimestri successivi. La frenata era attesa, ma ci si aspettava comunque un sia pur risicato segno “più”. Invece la crescita zero ci fa tornare a una ripresa italiana che non riesce proprio a ingranare la marcia. Come già annunciato, del resto, dal dato di giugno della produzione industriale, in contrazione dell1% su base annua.

I fattori esterni sono noti, e spingono alla frenata. Ma non è vero che spieghino tutto. Da diversi trimestri infatti la crisi delle ex economie emergenti e le continue stime al ribasso del commercio mondiale producevano – per un paese esportatore quale siamo – un contributo esterno sempre più modesto e poi negativo, alla crescita del valore aggiunto nazionale trimestrale. Ma il fattore positivo era rappresentato dai primi – per quanto modesti – segni di ripresa della domanda interna e dei consumi. Nel secondo trimestre 2016 la crisi internazionale resta, ma al contrario l’ISTAT ci informa che la componente netta import-export offre un contributo positivo alla crescita, mentre è quella dei consumi interni a dare un apporto negativo.

Certo, conta Brexit: ma fino a ieri la stima egli effetti del voto per l’uscita di Londra dalla Ue vedevano l’Italia come uno dei paesi meno “impattati” dalla secessione. La Brexit, la crisi turca e l’attacco di DAESH c’è per tutti, ma intanto i paesi dell’euroarea sono cresciuti dello 0,3% nel secondo trimestre e dell’1,6% rispetto a fine giugno del 2015, noi siamo a zero nel secondo trimestre e a +0,7% su metà 2015. Il che significa, tristemente, che continuiamo ad andar peggio degli altri quando ci sono frenate internazionali, e peggio pure quando invece la congiuntura europea e mondiale volge al meglio.

Limitiamoci a tre osservazioni su questa doccia fredda: che cosa può derivarne per i conti italiani, cosa sarebbe auspicabile, e una valutazione invece di realismo politico.

E’ ora ovvio che le prospettive di crescita dell’1,2% del PIL nel 2016 e dell’1,4% nel 2017, avanzate dal governo ad aprile scorso, non reggano più. Il PIL 2016 dell’Italia può oggi limitare il suo aumento reale tra lo 0,6% e lo 0,7%. Meno del 2015.

E’ lo stesso MEF ad aver stimato che una crescita 2016 inferiore di mezzo punto al previsto può comportare un deficit per l’anno in corso che sfiora o supera il 3% del PIL, mentre il debito pubblico non scenderebbe più di quel soffio promesso – dal 132,7% al 132,4% del PIL – ma crescerebbe fino al 134%. Il governo ha già dichiarato che era sua intenzione chiedere alla Ue un altro mezzo punto di PIL in più di deficit – dall’1,8% previsto nel 2017 sino al 2,3%. Ma tale richiesta diventa più complessa, se intanto si mancano per l’ennesima volta gli obiettivi che erano stati assunti con Bruxelles per il 2016. Tra parentesi: dacché il governo attuale è in carica ha già beneficiato di 1,7% di PIL di deficit aggiuntivo negli anni rispetto agli obiettivi contrattati dal governo precedente, non è vero che viviamo in un regime di austerità cieca e inflessibile.

Il Tesoro in queste settimane ha prennunciato che sino al 27 settembre, quando consegnerà la prevista nota di aggiornamento al DEF, limerà e correggerà le sue cifre per capire quali siano i margini della manovra di bilancio 2017.

Ma una cosa è sicura, ci saranno parecchi miliardi in meno rispetto alla rosee attese di qualche mese fa. E la minor crescita non aiuta certo nemmeno l’altro punto dolente italiano: quella della solidità complessiva del sistema bancario italiano, il cui margine di intermediazione da attività caratteristica – ergo la redditività – scenderà ulteriormente. Non proprio ciò che dovrebbe aiutare la complessa manovra in atto su MPS, o le attese per l’aumento di capitale di Unicredit.

Quanto agli auspici, e cioè cosa sarebbe preferibile, è un discorso lungo, che dipende dalla lettura che si dà della crisi italiana. Se si guarda ai numeri, l’Italia ha una crisi di produttività stagnante ventennale, da metà degli anni ‘90. E da allora – non dal 2008 o dal 2011 – gli investimenti netti delle migliaia di imprese industriali censite da Mediobanca sono inferiori alla quota annuale di ammortamenti: cioè la quota investita per nuovi impianti, innovazione di prodotto e processo, distributiva e di capitale umano è minore di quella spalmata nei bilanci annuali per “spesare” le innovazioni del passato (chi volesse approfondire questo e molti altri dati, li trova in questo bel librino di Riccardo Gallo) . Del resto, rileva sempre Mediobanca, il margine industriale delle imprese resta, nei bilanci 2015, inferiore del 37% a quello del 2007 e del 20% per le imprese manifatturiere: e non solo per la crisi del mercato interno, ma grazie a tasse che gravano anche se il reddito è zero o negativo. E Restiamo in Italia con una quota di occupati del 57%, rispetto al 78% della Germania, 77% della Gran Bretagna, 76,5% di Danimarca e Olanda.

In un paese con questi ritardi strutturali, servirebbero da anni interventi radicali per accrescere la produttività, abbattere il fisco su imprese e su lavoro, accrescere verticalmente la concorrenza, visto che il più dell’offerta dei servizi pubblici e privati ne restano escluse. E poiché per abbattere davvero il fisco di diversi punti di PIL occorre rivedere energicamente il perimetro dello Stato, come accrescere la concorrenza significa scontentare infinite lobby, è esattamente quel che la politica italiana di ogni colore ha diluito ed evitato di fare.

Se però dagli auspici passiamo al realismo politico, avverrà altro da quanto serve. Prevale l’idea generale che la colpa sia di una stagnazione secolare: ma essa non spiega perché noi andavamo e andiamo peggio degli altri, se non fosse per difetti domestici. Non si guarda all’effetto paradossale di aver chiesto alle banche centrali di comprare tempo con tassi negativi, che abbattono sì gli oneri per i debiti pubblici, ma nel tempo ottengono effetti sempre più distorsivi se gli interventi energici della politica mancano. Ci si accapiglia sulle regole europee: che hanno certo molte approssimazioni e difetti, ma così facendo in tutti i paesi europei si dà sempre più fiato a chi auspica l’esplosione della stessa Ue come soluzione alle responsabilità proprie.

La prossima legge finanziaria cade malauguratamente a cavallo del referendum sulla riforma costituzionale, sul quale Renzi e il governo hanno scommesso tutto. Ciò non aiuta, rispetto al bilancio che occorrebbe fare di interventi e bonus che sin qui hanno mobilitato ingenti risorse di bilancio, con però non ingenti risultati. E’ ovvio che il “segno” della manovra sia inteso invece dal governo al fine di convincere quella parte di oppositori al referendum che più il governo teme: sinistra Pd e sindacati. Ed ecco perché da mesi e mesi parliamo di prepensionamenti a chi un lavoro ce l’ha, invece di misure che sarebbero ben più urgenti per la ripresa italiana. Il declino continua rispetto agli altri paesi, buon referendum a tutti.

 

10
Ago
2016

La vera partita sui prepensionamenti: quando si dice una non-priorità

Per abbattere l’incertezza che ormai sull’Italia si espande nei mercati, per l’esito molto incerto del prossimo referendum e una nuova possibile instabilità governativa, bisognerebbe PRIMA del referendum approvare la prossima legge finanziaria, e SMETTERLA di fare annunci quotidiani su pre-pensionamenti senza numeri, perché nel dubbio i pensionati per cautela consumano ancora meno. Lo scrive oggi sul Corriere della sera Francesco Giavazzi: ma sono considerazioni da mondo ragionevole ideale, qui da noi avverrà l’esatto opposto. Tanto vale allora parlarne chiaramente, delle incertezze che gravano sulla prossima legge finanziaria, e della partita vera che si gioca sui prepensionamenti.

La manovra finanziaria in arrivo è appesa ancora a molte incognite. Sui saldi, il governo intende chiedere in Europa un altro mezzo punto di PIL di deficit in più rispetto al concordato, salendo al 2,3% invece dell’1,8%. Ballano dunque per questo 8 miliardi, non noccioline, e al di là degli effetti di Brexit e del rallentamento della congiuntura per il governo è la differenza tra una manovra che consenta di inviare più segnali alla sinistra del pd e al sindacato, oppure no. Esattamente questa è la seconda incognita, quella politica, di una manovra che sarà a metà dell’esame parlamentare quando verrà proclamato il risultato del referendum sulle modifiche costituzionali, diventato per il governo la partita della vita.

Il governo è impegnato ad annullare per un punto di PIL le clausola di garanzia fiscali che vedrebbero l’aumento di IVA e accise. E che a questo si aggiunge la discesa dell’aliquota IRES per le imprese dal 27,5 al 24%, già prevista per il 2017 nel tendenziale pluriennale approvato con la legge di stabilità 2016. Malgrado i molti annunci di Renzi è praticamente impossibile immaginare un anticipo dell’intervento sull’IRPEF previsto per il 2018, in assenza di tagli di spesa che non fanno parte dell’orizzonte di questo governo. Ma è sulla previdenza, che da 9 mesi a questa parte un pezzo del Pd e ovviamente il sindacato hanno incatenato il governo alla necessità di vasti interventi “sociali”.

Molto ci sarebbe da dire, sul fatto che dalla sinistra alla destra tanto ci s’incaponisca sul teme di prepensionare chi un lavoro ce l’ha, invece di considerare prioritario destinare incentivi all’aumento della produttività – la cui stagnazione ventennale è il problema numero uno dell’Italia – e varare politiche attive dell’occupazione per chi un lavoro non ce l’ha, e ha già cumulato un enorme problema di continuità contributiva. Ma è inutile obiettare in nome di queste ragioni: in politica conta la forza della rappresentanza. Quella dei giovani è inesistente, debole è quella delle imprese. Mentre Renzi e il suo governo, per come stanno le cose, non possono ignorare né un pezzo del Pd né il sindacato.

Ergo sarà prepensionamento, sia pur sotto il nome di “flessibilità in uscita”. Anzi APE, anticipo della pensione. E la battaglia, prima ancora di conoscere i dettagli delle misure, è innanzitutto sulle poste in bilancio: 1 miliardo e mezzo secondo il governo, 2 e mezzo almeno secondo sindacati e chi obietta “da sinistra”.

Alcune delle misure in arrivo hanno una loro equità di fondo, rispetto alla piramide dei redditi italiani. Come per esempio attenuare fortemente fino ad annullare la spropositata onerosità dei ricongiungiumenti per chi ha versato nella vita lavorativa contributi a enti diversi (si tratta di quasi fino a 100mila lavoratori l’anno, se si estende il meccanismo anche a chi si prepensionasse rispetto ai requisiti di vecchiaia oggi vigenti, con un costo potenziale fino ai 400 milioni in 10 anni) . Oppure, in alternativa, alzare la no tax area attuale oltre gli 8mila euro, oppure ancora estendere la platea della 14esima mensilità previdenziale (ma in questo caso, se si passa dall’attribuirla a coloro che come oggi sono sotto i 9787 euro lordi l’anno a chi fosse sotto i 12mila, i 2 milioni di soggetti aggiuntivi beneficiari significherebbero, a dar retta alle ipotesi più generose, anche un onere di circa 600milioni annui).

Il cuore della faccenda però è un altro: a chi riservare la possibilità di andare in pensione con 3 anni e 7 mesi di anticipo rispetto ai requisiti anagrafici di vecchiaia previsti dalla legge Fornero, e con quale ripartizione degli oneri. Le risposte ai due quesiti segnano il confine tra il governo e chi chiede di più.

Non è la differenza muscolare tra chi ha più forza a braccio di ferro. Di mezzo ne va un punto di principio. Se cioè si voglia preservare l’impianto della progressività dei requisiti per la pensione ancorati all’attesa di vita, grazie ai quali abbiamo messo in relativa sicurezza i conti previdenziali italiani, e quando dichiamo “relativa” intendiamo comunque attraverso la devoluzione in pensioni di 4 punti di PIL l’anno più che nella media europea. O se, invece, nella prossima legge di bilancio si dia a quella progressività la spallata iniziale, per farlo crollare poi inesorabilmente anno dopo anno. Inutile dire che la seconda prospettiva fa spallucce sul maggior deficit che ciò comporterà, e sugli aggravi per i più giovani, che continueranno a pagare nel sistema a ripartizione anche le pensioni date prima a chi ne ha maturate come i meno anziani non ne avranno mai.

Vedremo solo in parlamento dove si fermerà il pendolo. Ma sin d’ora la differenza si vede. Il governo fa capire di dividere in due la platea dei soggetti a cui applicare la facoltà della pensione a 63 anni. Solo per coloro che rientrano nelle categorie – vedremo come definite – di disoccupati di lungo periodo prossimi a esaurire la copertura degli ammortizzatori, o di coloro che godono comunque di bassi redditi (anche qui, la soglia è fondamentale), l’onere del prepensionamento dovrebbe essere a carico pubblico, e per questo si parla di 600milioni. Per tutti gli altri, scatterebbe l’abbattimento dell’assegno previdenziale in cambio del prepensionamento, un decalage maggiore maggiore quanto più si è lontani dai 66 anni e 7 mesi del requisito previsto. In pratica: se vuoi andare in pensione prima rinunci a una parte dell’assegno perché ne godrai più a lungo, e in maniera esattamente proporzionata al più lungo godimento. In soldoni: con tagli dell’assegno fino al 15-20%. Perché si tratta di coprire non solo i pagamenti anticipati INPS, ma il costo del rischio – ancora da definire – a cui si esporrebbero le banche chiamate ad anticipare all’INPS gli esborsi, nonché la sua copertura attraverso polizze assicurative, visto che in caso di deprecabile decesso del prepensionato prima che sia terminato l’ammortamento dell’anticipazione le banche non potrebbero certo rivalersi sui superstiti, e sulla loro pensione di reversibilità.

Come si vede, in questa impostazione i tetti della legge Fornero restano, tanto che è rispetto a loro che si calcola il piano di copertura finanziaria a carico del pre-pensionato. Cosa del tutto diversa se invece, oltre ai soggetti “socialmente da tutelare” a cui il governo vuole estendere l’intervento, l’onere dello Stato sarà esteso anche per tutti coloro che non vi rientrano, né perché disoccupati di lungo periodo vicino alla pensione, né perché a reddito bassissimo. In quel caso sarebbe inutile far finta di non vedere la sostanza: è la breccia attraverso cui rimettiamo in discussione tutti i conti dell’INPS per decenni a venire.

E’ un falso problema, sostengono i fautori dello sfondamento. Basta aggiungere ai 600 milioni a carico publico per i prepensionati “sociali” a cui pensa il governo, altri 600 milioni che dall’anno prossimo le imprese non saranno più tenute a versare per il venir meno del contributo a loro carico dello 0,3% del salari lordo per finanziare la vecchia indennità di mobilità, sostituita dai nuovi ammortizzatori previsti dal Jobs Act. Non è un ragionamento, però. Primo non si capisce che senso abbia dire alle imprese che le si sgrava fiscalmente, se poi con la mano sinistra ci si riprende quel che la destra toglie. Secondo: la decisione di pre-pensionarsi è del lavoratore, non dell’impresa. Queste ricorrono a prepensionamenti anche co-finanziati quando vi sono accordi con il sindacato per stato di crisi o per esubero di personale. Ed è tutt’altro paio di maniche.

Ma chi obietta al governo ha un’altra carta in mano. Se prevedete davvero prepensionamenti onerosi a carico di chi li richiede con tagli all’assegno così elevati, ammiccano al governo, la vostra ricetta sarà un flop perché pochissimi vi faranno ricorso. E quell’eventuale flop ci sarà chi lo userà politicamente con durezza.

Sui conti previdenziali bisogna ragionare con un’ottica di lungo periodo, non delle prossime eleziomi. Speriamolo, in nome di chi è più giovane. Ma, allo stesso tempo, disperiamone dando un’occhiata alle dichiarazioni quotidiane.