24
Giu
2016

“La gente raramente fa ciò in cui crede, fa quello che è conveniente e poi si pente” (Bob Dylan)

Nel Queens Speech del maggio 2016 si legge la seguente dichiarazione: “My government will hold a referendum on membership of the european union. Proposals will be brought forward for a British bill of Righst”.

Il British Bill of Right è uno dei punti fondamentali degli ultimi due programmi 2010 e 2015 del governo conservatore britannico. Cameron chiede di cambiare la legge sui diritti umani, la human rights act adottata nel 1998 dai laburisti a ratifica della convezioni europea dei diritti umani e sostituirla con un patto sui diritti britannico, alternativo a quella europea ratificata dai laburisti che affidarono così l’ultima parola sui diritti umani alla Corte di Strasburgo al posto della Corte Suprema Britannica . Perché Cameron vuole questo? Forse perché gli inglesi vogliono reintrodurre la schiavitù o le torture? E anche l’impiccagione? Si è anche cercato di farcelo credere quando la deputata tory Theresa Mae venne accusata di questo solo perché richiedeva di poter rispedire un efferato criminale e terrorista arabo nel suo paese. Ma la convezione europea dei diritti umani nel 1950 fu proprio ispirata dai valori di libertà e democrazia che sono il tesoro del regno britannico, personificati da sir Winston Churchill. Oggi il problema è l’illegittima occupazione da parte dei giudici di Strasburgo del territorio politico britannico, interventi che travalicano pesantemente i confini dell’interpretazione secondo lo spirito originario della carta europea dei diritti umani sia nel metodo che nel merito.

Per la corte di Strasburgo ormai tutte le prestazioni sociali stanno diventando “diritti umani”. Per fare solo un esempio, ma rilevante, ciò è stato espresso relativamente alle pensioni di anzianità, considerate come “strumento di protezione di diritti fondamentali garantiti dalla convenzione” un vero e proprio diritto naturale, assimilato a quello di proprietà, tanto che, sempre la corte europea, intende come “possesso” l’aspettava al diritto di percepirle.   Il rischio è che i giudici di Strasburgo costruiscano la loro Europa contro le idee ed i principi individuati con il voto dal popolo britannico. Dell’uscita del Regno Unito dalla UE si è parlato in termini di buoni contro cattivi, al più delle ragioni economiche, calcoli, rischi, opportunità, ma non è solo questo. È molto ma molto di più. È esattamente l’opposto di quanto sostenuto da chi ha dipinto il referendum britannico come il cinico gioco di un politico, Cameron, attaccato solo alla poltrona ed alla continuità del suo partito. E’ fare ciò in cui si crede, è la tenacia della politica del convincimento. Si tratta di una sfida politica ben precisa, alla base della quale c’è la profonda convinzione di una idea di società e di rapporto governo cittadini, una convinzione che ha una salda connotazioni ideologica nel liberalismo.

Nel 1998 nessun labour chiamò gli inglesi a decidere la ratifica della convenzione europea dei diritti umani: ora Cameron, al contrario, li ha chiamati a pronunciarsi e questo passaggio è ineludibile nella democrazia simbolo del mondo se si vuole costruire un alternativo British Bill of Rights. Se c’è stata una fase iniziale in cui le istituzioni europee sono state promotrici dei principi di libero mercato, concorrenza, libera circolazione di persone merci capitali ecc ., certamente non ancora a pieno perseguite, ora si sta imponendo l’azione di una Corte di Strasburgo che agisce come grande “ammortizzatore sociale”. La giustizia di Strasburgo diventa il braccio esecutivo di una idea di assistenzialismo europeo come unica risposta alla crisi, contro l’idea liberale di politica in base alla quale il libero mercato, i liberi scambi e contrattazioni, la libera iniziativa potranno risollevare gli europei dalla crisi e contro l’altrettanto fondamentale idea liberale che per esercitare l’opzione democratica conferita dai cittadini ad un governo, ora liberale ora socialista che sia, è indispensabile che le decisioni riguardanti la tassazione e la distribuzione delle risorse rimangano saldamente nelle mani dei governi eletti, fosse anche chissà , un giorno, il governo eletto degli Stati Uniti d’Europa. Ma certamente non nelle mani dei tribunali.

24
Giu
2016

Riforma della previdenza: chi paga il conto dell’assicurazione? – di Bruno Loffredo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Bruno Loffredo.

L’ennesimo intervento fatto sulla Previdenza volto a garantire un po’ di flessibilità in uscita, si configura come un prestito che i futuri pensionati dovranno rimborsare nei decenni successivi a fronte di un anticipo di qualche anno della futura quiescenza.
Tuttavia, quello che balza agli occhi, ma fino ad oggi poco approfondito è l’aspetto attuariale-assicurativo della operazione. Si dice che chi andrà in pensione in maniera anticipata avrà una copertura assicurativa che in caso di decesso interverrà nel versare alla Banca (Assicurazione) la parte del Prestito ancora non pagato. Alcune domande sorgono immediate:
1) se un pensionando al momento del ritiro del lavoro presenta una grave malattia o una patologia cronica, come si comporterà l’Assicurazione (Banca) al momento della stipula? Assicurerà lo stesso il pensionato? (Meccanismo di Selezione Avversa)
2) fino ad oggi le compagnie Assicurative/Bancarie prevedono generalmente come età massima assicurabile i 75 anni, trattandosi di coperture assicurative che supereranno gli 80 anni, cosa implicherà questa nuova variazione?
3) trattandosi di soggetti che presentano una probabilità di decesso non piccola e via via rapidamente crescente, chi paga il conto dell’assicurazione sulla vita? Read More

23
Giu
2016

Basta pregiudizi: Uk ha interpretato la Ue meglio di noi e beati loro

Mentre è in corso il referendum britannico per restare nell’Unione Europea o uscirne, si può fare il punto su un pregiudizio pesante che è emerso in Italia e nel dibattito continentale. europeo. A preferire la Brexit non sono solo i suoi sostenitori britannici, l’Ukip di Farage, una bella fetta dei Tories, e una parte minoritaria ma vedremo quanto forte anche degli elettori laburisti dell’Inghilterra profonda, che non compartecipa ai dividendi di banche, finanza e prezzi immobiliari. A casa nostra e in mezza Europa, a volere sia pure a mezza voce la Brexit, ci sono anche parecchi europeisti “spinti”, coloro che continuano a sognare una Ue Super-Stato con sempre più politiche centralizzate e dirigiste, malgrado l’evidente stallo di un’Europa che non riesce a darsi nemmeno una comune politica sull’immigrazione. Per fare due nomi, Monti e Prodi negli ultimi giorni hanno entrambi ricordato che il Regno Unito ha sempre frenato nei decenni ogni sviluppo europeo, e tutto sommato se ora decide di uscire sarà pure un peccato ma almeno si chiarisce una volta per sempre il grande equivoco.

Libero ciascuno di pensarla come vuole. Personalmente non ho alcun dubbio: farei a cambio coi britannici subito e su due piedi, sia se restano in Ue sia se decidono di uscire.  Comunque, se invece di demonizzare tentiamo di capire meglio la linea britannica verso l’Europa dagli anni Settanta a oggi, le cose stanno diversamente da quanto dicono Monti e Prodi. Conservatori e laburisti, in realtà, sin dall’inizio sull’Europa hanno perseguito una linea d’interesse nazionale che affondava le radici in condizioni oggettive, storiche ed economiche. Il Regno Unito ancora alla fine del secondo conflitto mondiale attraverso il Commonwealth comprendeva quasi un quarto delle terre emerse e un quinto della popolazione mondiale.  Il brutale ridimensionamento della sua potenza e l’indipendenza di molte delle sue ex colonie non l’hanno privato né della potenza nucleare, né del diritto di veto al Consiglio di sicurezza dell’ONU, né della sua forza straordinaria sulla scena della finanza mondiale.

La dottrina europea del Regno Unito rimane scolpita in due famosi interventi della Thatcher: quello a Bruges del settembre 1988, in cui veniva espresso un chiaro no a un’Europa Super-Stato centralizzato, e la preferenza invece per una libera convergenza di Stati in nome del libero mercato e della concorrenza; e il triplice “no, no, no” pronunciato tra fragorosi applausi alla Camera dei Comuni nell’ottobre del 1990, in cui il no deciso era a una moneta unica realizzata con il pieno esproprio del dovere della politica monetaria non a prendere ordini, ma a render conto di sé alla politica e a parlamenti eletti.

Col senno di poi, le due premesse della posizione britannica si sono rivelate così sbagliate? Non mi pare proprio. L’evidenza di questi ultimi anni mostra che la Commissione Europea ha cessato da tempo di essere motore d’integrazione, perché sono gli Stati nazionali, a cominciare dal più forte cioè la Germania, a dettare l’agenda. E ciò vale per l’immigrazione, come per l’euro. Ma, se è così, allora le ampie facoltà di deroga alle regole comunitarie strappate negli anni da Londra non hanno rappresentato un sabotaggio all’integrazione europea, bensì una dose di maggior realismo sui suoi limiti congeniti che i britannici hanno intravisto per tempo, rispetto alle illusioni poi infrante dalla crisi.

Prima della convocazione del referendum che si tiene domani, il Regno Unito già godeva di quattro fondamentali deroghe o opt-out, come si chiamano in gergo tecnico: ovviamente dall’euro; dagli accordi di Schengen, che presiedono alla libera circolazione delle persone; in materia di giustizia e affari interni, riservandosi il diritto caso per caso di far prevalere il proprio diritto domestico; e sulla Carta dei Diritti Europei resa vincolante dal Trattato di Lisbona, escludendo cioè di poter essere chiamati in giudizio da altri paesi membri davanti alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee. Tony Blair abrogò un quinto opt-out che aveva ottenuto Major, quello relativo al protocollo sociale che tutela il lavoro. A queste deroghe David Cameron nel febbraio scorso, nel tentativo di “smontare” la forza di Brexit nel referendum, ha ottenuto trattando con la Ue di aggiungerne altre tre: la facoltà di poter impugnare eventuali misure dell’eurozona che danneggiassero l’economia britannica e la sterlina; il diritto dei parlamenti nazionali che rappresentassero il 55% dei voti del Consiglio europeo a poter obbligare la Commissione Europea a riesaminare i suoi atti; e la facoltà riconosciuta a livello nazionale di sospendere o limitare l’applicazione del proprio welfare a cittadini di altri paesi Ue residenti o immigrati in Uk.

L’accusa degli europeisti antibritannici è che con tali deroghe il Regno Unito mini dalle fondamenta l’avanzamento del processo europeo.  E spinga altri paesi a fare la stessa cosa. Anzi, con una spinta ancora maggiore se domani gli elettori britannici dovessero decidere di restare nell’Unione, invece di uscirne. E’ una visione miope. Conferma l’errore europeo di fondo: quello di una costruzione centralizzata e omologante, creata e amministrata “dall’alto” da tecnocrati o non eletti, come sono i membri della Commissione Ue.  In realtà il Regno Unito ha difeso non solo il proprio interesse nazionale, ma anche l’idea più generale di un’Unione basata sulla sussidiarietà e le differenze volontariamente difese e contrattate secondo gli interessi di ciascuno, invece che sull’omologazione centralista che, come si vede nell’euroarea dal 2011 a oggi, non funziona.

Per molti versi, in conclusione, beati i britannici che hanno avuto leader capaci di battersi per tutto questo, rispetto a chi firma patti e regole europee, e poi davanti ai propri elettorati le disconosce dimenticando di averle votate. Come capita in Italia.

22
Giu
2016

I metadati ancora misconosciuti dalla politica italiana: M5S e Pd a confronto

Uno dei luoghi comuni più abusati del dibattito pubblico italiano è ripetere che la rete e internet da anni hanno cambiato la politica, non solo la sua comunicazione ma ontologicamente il suo modo di essere. Al di là delle apparenze,  in realtà la politica italiana vive e riproduce lo stesso gap che scontiamo nelle comparazioni internazionali sulla bassa penetrazione della banda larga. E si direbbe che i troppi milioni di italiani che ancora non usano internet  in politica producano una conseguenza: a usare passabilmente bene le possibilità di internet è una minoranza assoluta dei partiti, e il più dei politici ne fa un utilizzo rozzo, limitandosi a sostituire con twitter e facebook i vecchi manifesti o le dichiarazioni alle agenzie.

Lo scimmiottamento americano da noi è un must. Ma è un mito privo di sostanza. Negli USA, la struttura nazionale del partito  democratico ha iniziato a investire nel 2004 progressivamente pacchi sempre più consistenti di milioni di dollari nell’accumulo e nell’interpretazione dei metadati ricavabili dai social network. Nel 2008, Obama vinse alla grande le presidenziali perché migliaia di volontari del partito non battevano le strade porta a porta come scioccamente si ripete, ma perché erano muniti distretto per distretto e Stato per Stato di indirizzi di potenziali elettori per le primarie e per le presidenziali, profilati nel tempo secondo le opinioni che avevano espresso sui social, le attività a cui avevano partecipato, i temi su cui discutevano, il modo in cui lo facevano, gli stili di consumo e di vita che praticavano.  Grandissime società di social analytics come Crimson Hexagon si sono sviluppate negli Usa dedicando centinaia di ricercatori allo sviluppo di algoritmi per dare ordine interpretativo  a milioni di messaggi, per poi passarli ad altri specialisti capaci di interpretarli secondo griglie pubbliche o private, a seconda che i committenti siano politici, istituzionali, o aziende che usano i big data e internet non solo per ottimizzare la propria offerta – ormai quella è la preistoria di internet – ma per identificare , coltivare e organizzare la propria domanda sul mercato. Per capirci, la Crimson Hexagon collabora da anni con università primarie della Ivy League come la Kennedy School of Government di Harvard.

In Italia, niente ancora di tutto questo. O meglio, ci sono due visioni e modelli molto diversi.

C’è una forza politica che sin dalla sua nascita ormai diversi anni fa, grazie a Roberto Casaleggio, ha capito che la rete non è solo uno strumento di comunicazione mass market just in time, ma molto di più: il moderno strumento per sostituire la vecchia organizzazione dei partiti a “struttura fisica”. Di qui il modello del movimento 5 stelle che fa storcere il naso alla “vecchia” politica italiana: coltivare dall’alto la rete “anche” come strumento di comunicazione, ma innanzitutto per tre altre funzioni: una piattaforma identitaria, una catena di focalizzazione, e uno strumento di controllo.  La priorità dei Casaleggio, prima del padre e oggi del figlio Davide, non è tanto e solo comunicare le posizioni del movimento ai 6-8 milioni di italiani che esprimono e formano le proprie opinioni sui social, ma sostituirsi in rete ai vecchi segretari organizzativi delle federazioni territoriali, al segretario politico nazionale, e anche ai collegi dei probiviri dei vecchi partiti.

Dall’altra parte c’è il Pd. Che, per molti versi incredibilmente, si trova nelle condizioni di aver accumulato in teoria negli anni milioni di metadati “a prescindere dalla rete”, grazie alla sua persistente – anche se ormai sempre più liquida – antica struttura territoriale. Eppure il Pd quei dati ancora mostra di non sapere come usarli. O forse non ha capito per tempo quanto erano preziosi.

Dal 2004 si sono tenute infatti nel nostro paese ben 41 elezioni primarie nel nostro paese per scegliere candidati premier, segretari di partito, candidati sindaci o presidenti di Regione. Ben 39 volte su 41, erano primarie del Pd o aperte agli alleati del Pd. Solo 2 volte erano primarie del centrodestra, e solo una volta a partecipazione rilevante,  quando nel febbraio 2014 fu scelta Giorgia Meloni leader di Fratelli d’Italia con 250mila partecipanti. Per Prodi premier nel 2005 alle primarie parteciparono 4 milioni e 300mila votanti. Per Veltroni segretario, nel 2005, 3 milioni e mezzo. Per Bersani, nel 2009, 3,1 milioni. Altrettanti in quelle per la segreteria del Pd in cui Bersani sconfisse Renzi, nel novembre 2012. E 2,8 milioni parteciparono per Renzi segretario, nel dicembre 2013. Quei milioni e milioni di identità personali avrebbero dovuto essere tutte digitalizzate per costituire il tesoretto degli analytics del Pd, l’equivalente del patrimonio di dati da cui partì 12 anni fa il partito democratico americano. Invece, rivolgendosi ai responsabili della comunicazione del partito, Francesco Nicodemo e Alessia Rotta, la risposta è che quando il Pd era la “vecchia ditta” nessuno ci ha pensato o ha avuto i soldi e la professionalità per farlo.  I dati sono stati affidati alle tecniche di conservazione delle diverse strutture territoriali, in anni in cui però organizzazione e competenze interne del partito da una parte dimagrivano, dall’altra mutavano a ogni leader l’un contro l’altro armato.

Il risultato è che il Pd, anche sotto Renzi che pure all’importanza dei metadati dichiara di credere molto, ha organizzato sì in maniera ferrea i propri influencer eletti secondo temi e campagne che vengono controllati e diramati da palazzo Chigi. Ma siamo ancora al cecchinaggio degli avversari e alle campagne tematiche e d’opinione, lontani anni luce dal market targeting che i metadati ben analizzati dovrebbero produrre, per contattare indecisi potenziali ed elettori dubbiosi. Certo, è stato assoldato Jim Messina che per 4 anni è stato chief of staff di Obama e che dei metadati fa il suo credo. Girano indiscrezioni sul fatto che forse il lavoro di “pesca a strascico” sugli stili di consumo sia stato appaltato all’esterno a qualche grande multinazionale digitale, che fatica meno a procurarseli a suon di bigliettoni dagli over the top americani come Twitter e Facebook e Google – in Italia in realtà c’è un complesso tema di severe disposizioni sulla privacy da rispettare, almeno in teoria – ma ufficialmente di questa nuova “attività riservata” del Pd non si sa nulla. Dai bilanci delle fondazioni “personali” dei leader pd, come la renziana Fondazione Open che è subentrata a Big Bang, non sembrerebbe che questa attività sia svolta. Negli incontri con gli accademici e i tecnici della comunicazione politica digitale, ci dice la professoressa Sara Bentivegna autrice dei testi più avanzati in materia nel nostro paese, Nicodemo presenta i dati dei contatti realizzati da Renzi e dalla struttura che rilancia le sue parole d’ordine: ma tutto ciò non c’entra nulla coi metadati. Anzi, lo stile di questa comunicazione ha finito per rappresentare a propria volta un autogol, troppo inficiato com’è dalla character assassination dell’avversario.  E’ vissuta da molti ormai sui social con crescente fastidio, è uno dei fattori di crisi della credibilità della leadership renziana.

Per converso, il modello Casaleggio attira molte critiche, ma guarda “oltre”. Non è vero che sia una piattaforma aperta, perché anche nella nuova app Rousseau, che viene rilasciata “a fette” progressive di questi tempi, i 130mila iscritti sono rigidamente compartimentati secondo diversi livelli: ottenuta la chiave di accesso per identità, un livello di compartimentazione è quello orizzontale-territoriale, a cui se ne somma uno verticale per diversa carica occupata, dai Comuni al Parlamento Europeo. Sta di fatto che ai semplici iscritti a Torino non risulta agevole farsi un’idea dei dibattito sui rifiuti o sulle partecipate aperto a Roma, e viceversa. Ma, contemporaneamente, Rousseau è un formidabile strumento per indirizzare-controllare quelli che prima del turno amministrativi erano i 1796 eletti certificati del movimento ai diversi livelli, e che ora sono diventati molti di più. E oltre alla dimensione identitaria-organizzativa-controllo, la Casaleggio Associati sin dall’inizio ha iniziato a raccogliere e interpretare metadati in rete per scegliere toni e candidati, e per escludere la concessione del simbolo. Una grande riservatezza sin dall’inizio copre questa attività, perché dai suoi bilanci la Casaleggio sembra non avere la mole di risorse finanziarie per elaborare e perfezionare la serie di algoritmi necessari a raccogliere e interpretare milioni e milioni di conversazioni sui più diversi argomenti, e anche la Casaleggio come il Pd non risulta aver coinvolto accademici e tecnici nel lavoro d’interpretazione dei dati. Ma è proprio il mutare del sentiment attraverso l’analisi di metadati, dicono alcuni, ad aver spinto Casaleggio prima della sua scomparsa a convincere Grillo al passo indietro.

In conclusione, siamo ancora ai primi passi.  Ci sono competenze per applicare i metadati alla politica anche in Italia, come lo spin off universitario realizzato a Milano da Andrea Ceron e Luigi Curini, o società come Blogmeter che lavora soprattutto per le grandi reti del consumo. Ma in politica i tanto criticati 5 stelle hanno alla propria testa un ferreo e motivato circolo chiuso d’indirizzo sui metadati, il Pd mostra di averlo capito ma ancora non lo pratica (e comunque vi osterebbe l’odio fortissimo reciproco nutrito dai suoi leader), gli altri balbettano.

 

22
Giu
2016

Il senso del legislatore italiano per la concorrenza

Un recente Focus IBL, curato da Serena Sileoni, ha ben evidenziato come, in Italia, la via della concorrenza continui ad essere irta di ostacoli, che talora si annidano anche ove meno ci si aspetterebbe di trovarli: in questo caso, nel disegno di legge intitolato alla concorrenza stessa. In particolare, alcuni sub-emendamenti hanno proposto l’abrogazione dell’art. 8, c. 2-quater, della legge c.d. antitrust (l. n. 287/1990): secondo questa norma, le imprese che esercitano la gestione di servizi di interesse economico generale (SIEG), o operano in regime di monopolio, e rendono disponibili alle proprie partecipate o controllate beni o servizi, anche informativi, acquisiti in via esclusiva per la gestione del SIEG, sono tenute a rendere accessibili tali beni e servizi anche ai concorrenti delle proprie partecipate o controllate, a condizioni equivalenti rispetto a quelle praticate a queste ultime.  Read More

21
Giu
2016

Difesa del referendum su Ue, 3 scenari se vince Brexit, cosa rischiamo noi

Quando nel 1975 i cittadini del Regno Unito furono chiamati a referendum sul restare o meno in quella che allora era la CEE, votarono in quasi 26 milioni sui 40 milioni aventi diritto, e il sì vinse con il 67%. Il referendum era stato convocato da un governo laburista, il che dà torto a chi oggi dice che far decidere ai cittadini sia una mania dei conservatori antieuropeisti o dei populisti “di pancia”.

Mario Monti ha dichiarato alla Stampa che il referendum britannico del 23 giugno è un disastro, non solo perché voluto dal premier conservatore Cameron per rafforzare la sua leadership interna, ma soprattutto perché manda all’aria decenni di paziente tessitura europea da parte di statisti e governi. Sergio Romano oggi sul Corriere ringrazia i costituenti per la loro saggezza, perché la Costituzione vieta agli italiani referendum su spesa pubblica, fisco e Trattati internazionali ergo anche sulla Ue.  E’ un punto di vista singolare. Non lo condivido. L’integrazione europea è lenta e ha moltissimi difetti sempre più evidenti in questi anni di crisi, basta pensare all’incapacità di una vera comune politica dell’immigrazione, oppure al “fai da te” con cui tra mille scontri in questi anni la BCE si è inoltrata nelle politiche monetarie non ortodosse per contenere la crisi. Ma proprio per questo o l’Europa è un grande principio capace di generare benefici e i politici sanno spiegarlo agli elettori, appellandosi ai loro portafogli e alle loro teste ma anche ai loro cuori e alla loro emotività; oppure se perdono nei referendum si deve al fatto che quei benefici o non sono abbastanza forti, o i politici non sanno spiegarli.  I populisti emotivi e i nazionalisti in politica ci sono sempre stati. La differenza è se i loro avversari riescono a batterli con argomenti convincenti, oppure no. Se gli argomenti convincenti mancano, la risposta non può essere “vietiamo i referendum”.

E’ proprio questo il primo punto importante del referendum britannico del 23 giugno. Viene persino prima delle conseguenze economiche. Riguarda la trasformazione del tono della politica. E accomuna attualmente non solo l’intero continente europeo, ma anche gli Stati Uniti. Anche nel Regno Unito nella campagna pre-assassinio il fronte pro Brexit le ha sparate grossissime.  Ha brutalmente barato sul contributo lordo e netto di Uk al bilancio comunitario, ha parlato di ondate di profughi in arrivo dalla Turchia con manifesti per i quali Farage si è beccato una denuncia (cosa rarissima, non come da noi dove politica uguale tribunali). La campagna ha ottenuto effetto: in alcuni sondaggi i britannici mostrano di credere che gli immigrati provenienti dalla Ue in Uk siano il 15% della popolazione mentre sono il 5%, che la percentuale di bilancio Ue spesa per costi amministrativi sia del 27% mentre è il 6%, che gli investimenti diretti europei in Uk siano il 30% del totale mentre sono il 49%, e che quelli cinesi siano il 19% mentre sono l’1%. Ma se i britannici pensano questo, se gli americani per Trump nei sondaggi sono multipli rispetto a quanto prevedessero media e intellettuali, se gli argomenti e i toni usati contro eurocrati e immigrati – i due cavali di battaglia di Brexit – sono gli stessi che portano barche di voti a AfD in Germania, FN in Francia, FPÖ in Austria, Lega e M5S da noi, e via via continuando in Polonia, Ungheria eccetera, di tutto questo portano la responsabilità classi dirigenti che in ogni paese sono compromesse con malgoverno e malaffare, incapaci di rigenerarsi e di parlare una lingua più convincente di quella della pura e dura protesta.  Non è certo evitando referendum ed elezioni, che si batte il populismo e l’istinto autarchico.

Facciamo un confronto con chi, nel Regno Unito, seppe unire testa e pancia.  La Thatcher ripetè per anni ai britannici che l’Unione europea – l’euro no, rimase sempre ferreamente contraria – era conveniente a Londra per il mercato unico, e che Londra non avrebbe mai comunque abdicato ai suoi princìpi. E’ andata esattamente così, ed è per questo che Londra ha goduto e gode di un’amplissima lista di opting out – finanziari e in materia di legislazione e diritti-  a favore della propria sovranità.

Che cosa avverrà a questo punto, se i britannici comunque sceglieranno di uscire? La risposta a questa domanda è: nessuno lo sa. Formalmente, il referendum è consultivo. Ma Londra non è Roma dove la politica, dalla Rai al finanziamento dei partiti, ha aggirato anche referendum abrogativi vincolanti. A Londra è fuori discussione che, se vince Brexit, il governo dovrà presentare al Consiglio Europeo una richiesta formale secondo le procedure fissate dall’articolo 50 del Trattato europeo. Forse a farlo – dipende dall’ampiezza della vittoria eventuale di Brexit – non sarebbe un governo Cameron, perché il premier che ha difeso le ragioni della Ue dovrebbe o potrebbe dimettersi, sostituito da un altro del suo partito, visto che sono 53 i parlamentari Tories per l’uscita con 5 ministri, guidati dal combattivissimo segretario alla Giustizia Michael Gove.

Dopo di che il Consiglio europeo sarebbe chiamato a votare all’unanimità le linee guida del negoziato che la Commissione Europea dovrebbe aprire con Londra per l’uscita dalla Ue. Il processo può durare due anni, ulteriormente protraibili. L’accordo finale, quando raggiunto, andrebbe votato nel Consiglio Europeo da una maggioranza qualificata (20 dei 27 paesi membri restanti, rappresentanti almeno il 65% della popolazione Ue). E l’accordo finale andrebbe approvato anche dal Parlamento Europeo, a maggioranza semplice. Durante tutto questo periodo, Londra dovrebbe comunque continuare a rispettare i Trattati europei.

A fianco di questo “accordo di separazione” partirebbe poi il negoziato sulle future relazioni tra Regno Unito e Ue. L’unico precedente, non di uno Stato membro della Ue ma di un territorio che ne è uscito, è quello della Groenlandia – territorio atlantico della Danimarca – che votò in referendum l’uscita nel 1982. E la piccola Groenlandia impiegò più di tre anni per negoziare il suo nuovo status rispetto alla CEE di allora.

Londra si troverebbe a dover dire se preferisca negoziare un accordo con la Ue come membro della EEA, l’area economica europea alla quale appartengono Norvegia, Islanda e Liechtenstein, per i quali valgono moltissime delle regole del Mercato Unico dei beni e dei servizi della Ue. O se invece, con un rapporto più lasco, negoziarlo come membro dell’EFTA, l’area europea di libero commercio, similarmente alla Svizzera. La Svizzera ha impiegato 30 anni, per sottoscrivere con la Ue le 155 intese bilaterali che ne disciplinano i rapporti. La Svizzera aderisce però anche agli accordi sulla libertà delle persone di Schengen, l’esatto opposto di quanto vuole chi nel Regno Unito vuole uscire dalla Ue.

Quel che è sicuro è che il governo tedesco ha già dichiarato che, in caso di Brexit, Berlino non sarà morbida nel negoziato, e negherà l’accesso ai benefici del mercato unico: Londra potrebbe trovarsi a dover negoziare daccapo un accordo sui dazi con la Ue che copra tutti i prodotti industriali ma non quelli dell’agricoltura, servizi e gare per forniture pubbliche, come quello vigente con la Turchia. In ogni caso, l’argomento usato dal fronte Brexit – usciamo dalla Ue per liberarci dagli standard dei burocrati di Bruxelles sui nostri prodotti – non è vero neanche a metà. Liberissimi di stabilirne altri: ma a quel punto non potrebbero venderli in area Ue, verso la quale attualmente è rivolto il 46% dell’intero export britannico.

In caso di Brexit la sterlina si troverebbe a svalutare, secondo opinioni degli analisti, e la forbice massima si spinge fino a un ulteriore 15%. Ma il traino a favore dell’export potrebbe essere breve e problematico, visto che molti prodotti dovrebbero reindirizzarsi verso mercati extra-Ue. Un impatto maggiore avverrebbe sul cuore dell’economia britannica, che non è la manifattura ma il settore dei servizi che pesa per il 78% del PIL, e in particolare su quelli finanziari, che contribuiscono da soli a quasi il 10% del PIL. Molti headequarters di banche europee potrebbero rispostare nei propri paesi le attività oggi insediate a Londra. Salterebbe automaticamente la facoltà che era stata concessa nel 2015 di far permanere nel Regno Unito le stanze di compensazione delle operazioni denominate in euro. L’impatto negativo su banche e finanza si estenderebbe ai servizi professionali e di consulenza. E avrebbe un impatto anche sui prezzi immobiliari, che a Londra sono di nuovo in bolla ma che “muovono” molta economia reale.

E’ vero, Bank of England riattiverebbe massicciamente il proprio QE, ha già fatto capire il suo attuale governatore, Carney, che non ha evitato di far pubblicare alla banca report moto severi sulle conseguenze economiche di Brexit sull’economia. Ma ciò non basterebbe a evitare una considerevole frenata dell’attuale crescita. Le stime per il PIL britannico in caso di Brexit sono le più varie: tra quelle negative, per la London School of Economics vale una forbice da -2,2% negli anni a seguire in caso di intese rapide con la Ue, fino a meno 6,5%-9% in caso di grandi o grandissime complicazioni. La CBI, la Confindustria britannica, stima la minor crescita tra -4% e -5%. Ovviamente sono tutte proiezioni radicalmente respinte dal fronte Brexit: per l’UKIP di Farage restare nella Ue costa a Uk addirittura il 10% del PIL ogni anno.

Ma con Brexit le conseguenze non sarebbero affatto solo britanniche. Per la Ue, il primo effetto è di perdere una potenza nucleare che rafforzerebbe la sua propria alleanza con gli USA, e avrebbe le mani più libere con Putin, per i cui oligarchi Brexit è una manna perché significa meno rischi di trasparenza sui loro capitali in Uk. Economicamente, bisogna invece fare due distinti ragionamenti.

Il primo è quello dei paesi più direttamente esposti, cioè quelli che hanno un maggior flusso con Uk di scambi commerciali, flussi migratori, investimenti diretti reciproci, e interrelazioni bancarie dirette. Sommando i quattro fattori, mentre con Brexit l’Irlanda Lussemburgo Cipro e Olanda rischiano tra l’1 e il 2% del proprio PIL, la Germania si ferma a meno di mezzo punto e l’Italia è in coda tra i paesi meno esposti, per qualche minima frazione di punto. Cosa diversa è immaginare cosa accade invece se riparte, come effetto dell’indebolimento complessivo della Ue, il ballo dello spread. In quel caso la BCE dovrebbe ulteriormente accrescere i suoi 80 miliardi di euro mensili di acquisti sul mercato, ma non ci possiamo illudere: come testimoniato dalle massicce perdite della Borsa nostrana nelle ultime settimane, l’Italia è il paese dell’euroarea subito dopo la Grecia sulla quale i mercati si accaniscono di più, per effetto del nostro alto debito pubblico e della montagna di crediti deteriorati delle banche nostrane.

Credere che in tali condizioni Germania e paesi nordici accettino una svolta verso una Ue “unione dei trasferimenti mutualistici”, a sostegno dei paesi più indebitati e con banche più scassate come l’Italia che chiede tale svolta, è francamente un’illusione. Resa impossibile dal fatto che prima delle elezioni tedesche del 2017 la Merkel e il suo partito – ma anche la SPD – non possono assolutamente fare un simile regalo a AfD, che avrebbe gioco facile nell’ottenere valanghe di voti contro gli “spreconi latini”. Quanto più in altri paesi europei forze politiche nazionaliste e antieuropee chiedessero referendum analoghi a quello britannico, in caso di Brexit, e quanto più ripartissero istanze autonomiste come quella catalana e scozzese, tanto più i mercati si accanirebbero. A ragione: perché in un tale processo di crisi non è inimmaginabile un punto di rottura, di una duplice struttura Ue-Euro così poco coesa.  Nella speranza che però, di fronte a rischi tanto forti, le classi dirigenti europee sappiano uscire dalla trappola infernale dei veti.

I casi sono tre, per chi come noi pensa che l’Italia dovrebbe concentrarsi – euro o meno – su decisi interventi di ridimensionamento della finanza pubblica, del fisco e della presenza pubblica nell’economia, nonché su riforme per la produttività stagnante da 20 anni, e per la concorrenza aprendo all’efficienza di mercato le troppo vaste aree dell’economia italiana che le restano sottratte. Bene se UK resta dentro la Ue, battendosi per mostrare che c’è un’alternativa al SuperStato dirigista. Bene anche se, uscendo, dimostrasse comunque che l’idea di far pagare ai tedeschi i nostri debiti è infondata.  Malissimo invece se il tutto si avvita in tempi lunghissimi e senza esiti chiari, con elezioni a raffica vinte nei diversi paesi membri da antimercato e statalisti. Se vince Brexit, l’ultimo appare oggi purtroppo l’effetto più probabile. E senza dubbio più oneroso per l’Italia, alla lunga.

20
Giu
2016

Brexit, facciamo ordine – di Nicolò Bragazza

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Nicolò Bragazza.

Sia che vinca il sì che il no, il referendum britannico sulla permanenza nell’Unione Europea sarà destinato ad essere una pietra miliare nella storia europea. Questo referendum costituisce un precedente che, seppur previsto nei trattati, non era considerato politicamente realizzabile per una serie di considerazioni economiche e geopolitiche e che, come tale è destinato ad ispirare altri Paesi nella riconsiderazione del progetto dell’Unione Europea.
Negli ultimi tempi, con alcune eccezioni, molti commentatori si sono concentrati troppo sui costi di Brexit piuttosto che analizzare le ricadute a livello economico, ma soprattutto politico per l’Unione Europea. E questo sulla scia anche degli studi pubblicati che spesso si concentrano sui costi immediati e di lungo periodo per UK e tralasciano invece di considerare questo evento come economicamente rilevante per l’Europa a livello aggregato. Le conseguenze politiche invece sono state riconosciute tra le più pericolose per il processo di integrazione Europea, soprattutto per il fatto che BREXIT potrebbe ispirare atti emulativi da parte di altri Paesi interessati a riconquistare margini di autonomia rispetto all’UE. Read More

15
Giu
2016

Negazionismo: la via breve e illiberale della pena

Abbiamo impiegato secoli per affrancare la libertà di pensiero dalla censura e dall’Inquisizione. Sorridiamo oggi all’idea che fino a pochi decenni fa ci fosse un Indice dei libri proibiti. Abbiamo esultato all’abrogazione dei reati di opinione come alla fine degli autoritarismi. Abbiamo combattuto perché il giudizio sulla bontà delle opinioni non avvenisse nei tribunali, ma nei giornali, nei convegni, nelle aule di studio, nei mezzi di comunicazione. Abbiamo imparato dalla storia che “écrasez l’infame” può essere solo un’esortazione nel libero mercato delle idee e non il dispositivo di una sentenza. Le polemiche sul Mein Kampf di questi giorni ne sono esempio. Read More

14
Giu
2016

Tetto alle commissioni interbancarie, chi pagherà davvero? – di Michele Pisano

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Michele Pisano.

Dal 9 giugno il regolamento europeo sulle Commissioni Interbancarie per le operazioni con carta di pagamento è pienamente efficace. Il 2015/751 ha apportato ulteriori modifiche al testo, resesi necessarie in seguito alle variazioni di prezzo delle commissioni applicate da Mastercard.
L’occasione è utile per tornare a sottolineare gli effetti invisibili del tetto alle commissioni interbancarie.
L’aspetto più importante del regolamento è infatti dato dalle disposizioni previste che impongono un tetto alle commissioni per le transizioni con carta, pari allo 0,2 per cento per le carte di debito e allo 0,3 per quelle di credito.
L’intervento dell’Unione europea rischia però di penalizzare i consumatori, benché Bruxelles abbia affermato che in realtà sia stato necessario intervenire sull’Interchange Fee al fine di garantire maggiore trasparenza e potere decisionale per il compratore stesso. Read More