1
Lug
2016

Brexit, un seminario on line

LeoniBlog ospita oggi una prima parte di commenti su Brexit, scritti da studiosi italiani e stranieri che, dalla prospettiva delle loro competenze e dei loro studi, possono aiutare a comprendere aspetti singoli e implicazioni particolari rimasti all’ombra dei pareri e delle reazioni di questi giorni.

Una seconda parte del «seminario on line» verrà pubblicata martedì prossimo. Read More

30
Giu
2016

Diritti di proprietà e libertà di impresa: chi li salverà?

L’accettazione cieca del punto di vista giuridico contemporaneo condurrà alla distruzione graduale della libertà individuale di scelta nella politica come nel mercato e nella vita privata, perché il punto di vista giuridico contemporaneo comporta una sempre maggiore sostituzione delle decisioni collettive alle scelte individuali e l’eliminazione progressiva degli aggiustamenti spontanei, non solo fra domanda ed offerta, ma anche fra ogni tipo di comportamento, attraverso procedure rigide e coercitive come quella della regola della maggioranza.

Con queste parole tratte dalla sua opera più importante, La libertà e la legge, il filosofo del diritto Bruno Leoni già nel 1961 metteva in guardia i suoi lettori dal considerare la democrazia come un campo di battaglia sul cui terreno, all’esito dello scontro elettorale, la maggioranza possa innalzare il vessillo della vittoria a danno delle minoranze. Read More

27
Giu
2016

Elezioni spagnole, perde il populismo–di Diego Sànchez de la Cruz

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Diego Sànchez de la Cruz.

I risultati elettorali di domenica in Spagna confermano che un’ampia maggioranza degli elettori rifiuta il populismo autoritario di Podemos e dei suoi alleati. In appena un semestre, i voti raccolti dalla estrema sinistra si sono ridotti di 1,1 milione.

Nel frattempo, il Partito popolare ha rafforzato i suoi risultati elettorali condividendo un messaggio riformista in cui sono ricomparse, dopo anni di incertezza, le proposte liberali. Read More

27
Giu
2016

La ripresa non arriverà il prossimo anno: quello dopo.

La scorsa settimana l’esito inaspettato del referendum sulla Brexit ha dato ragione a quell’adagio per cui “è più facile inventare il futuro che predirlo”. Questa frase vale anche per tante delle previsioni fatte dagli economisti che spesso si rivelano non tanto diverse da ciò che gli inglesi chiamano wishful thinking, pensieri positivi ma che poi non si realizzano.

Qualche tempo fa avevo messo a confronto le previsioni sulla crescita economica emesse da alcune istituzioni internazionali con i valori successivamente registrati. La commissione europea pubblica ogni autunno un documento, intitolato European Economic Forecasts, in cui fornisce una previsione della crescita del PIL reale per i due anni successivi. Nell’autunno 2011, per esempio, stimava una crescita dello 0,1% per il 2012 e dello 0,7% per il 2013. Ex-post, l’Eurostat ha rilevato una variazione pari a -2,8% e -1,7%, rispettivamente, con un errore  di previsione a un anno pari a -2,9 punti percentuali (p.p.) e pari a -2,4 punti nella previsione a due anni.

Tasso di crescita del PIL reale in Italia (valori percentuali) secondo le previsioni European Economic Forecasts

Anno di

previsione

2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015
2004 1,8
2005 1,5 1,6
2006 1,4 1,4
2007 1,4 1,6
2008 0 0,6
2009 0,7 1,4
2010 1,1 1,4
2011 0,1 0,7
2012 -0,5 0,8
2013 0,7 1,2
2014 0.6
Ex-post* 2 1,5 -1,1 -5,5 1,7 0,6 -2,8 -1,7 -0,3 0,8
*Fonte: Eurostat

Sorge allora la necessità di interrogarsi autonomamente sulle prospettive future della nostra economia. Quando torneremo a crescere? Come sarà l’economia italiana tra 5 o 10 anni? Come adattare le nostre scelte individuali rispetto a tali scenari?

La tabella mostra l’ampiezza degli errori di previsione. Di fronte alla domanda “quando torneremo a crescere?” non consiglierei insomma a nessuno di affidarsi alle previsioni “ufficiali”. Mi sembra infatti che queste previsioni abbiano chiaro solo su un punto: la promessa di una ripresa non il prossimo anno, quello dopo. Prospettiva, questa, certamente non sgradevole e che però – alla luce della tabella di cui sopra – suona un po’ come quei cartelli che certi ristoranti americani appendono all’entrata: “free lunch tomorrow”.

A quasi dieci anni dall’inizio della crisi finanziaria, ci si domanda se ci sarà mai una ripresa, se l’economia italiana tornerà ad essere come l’abbiamo conosciuta in passato. Mettendo da parte l’andamento altalenante e imprevedibile del PIL, sono tanti i trend che fanno pensare ad un continuo deterioramento dell’economia italiana nel medio e nel lungo periodo. Il debito pubblico che continua a crescere, la tassazione che non accenna a diminuire, la politica che non accenna a stabilizzarsi. Vorrei qui mettere l’accento su una variabile che più di tutte influisce sulle prospettive di lungo termine dell’economia: la demografia.

Da questo punto di vista assistiamo al ben noto fenomeno dell’invecchiamento demografico. Tra il 2002 e il 2016 l’Istat registrava la crescita dell’indice di dipendenza anziani – rapporto tra popolazione di 65 anni e più e popolazione in età attiva (15-64 anni), moltiplicato per 100. Una simile dinamica veniva registrata nell’indice di vecchiaia – rapporto tra popolazione di 65 anni e più e popolazione di età 0-14 anni, moltiplicato per 100 – e nell’età media. Quest’ultima è aumentata di quasi tre anni nell’arco di 15 anni, passando da 41,9 a 44,7.

Indice di dipendenza anziani Indice di vecchiaia Età media
2002 27,9 131,7 41,9
2003 28,4 133,5 42,2
2004 28,8 135,7 42,3
2005 29,4 138,1 42,5
2006 30,1 140,6 42,7
2007 30,5 142,3 42,9
2008 30,7 143,4 43,1
2009 30,9 144,1 43,2
2010 31,2 144,8 43,4
2011 31,3 145,7 43,6
2012 32,0 148,6 43,8
2013 32,7 151,4 44,0
2014 33,1 154,1 44,2
2015 33,7 157,7 44,4
2016 34,3 161,4 44,7

Tanti osservatori hanno spiegato cosa questo invecchiamento demografico significhi per l’economia italiana, soprattutto per la spesa pubblica (attraverso pensioni e sanità). Da un punto di vista più generale, e volendo restare nella metafora, ci si potrebbe chiedere quale destino attenda una società che continua a invecchiare: fatale. L’iceberg verso cui l’Europa sta facendo rotta, come ha detto José Piñera.

E a questo punto torna la domanda ineluttabile: un trend è un destino? La fine dell’economia italiana per come l’abbiamo conosciuta è irreversibile? Si dice che un destino è creato dalle abitudini, le abitudini sono create dalle azioni e le azioni sono create dai pensieri. Sicuramente il trend non si invertirà senza mettere in discussione alcune idee fondamentali che hanno dato forma alla economia in cui viviamo, ad esempio il patto intergenerazionale. E’ anche certo che non sarà la prossima riforma economica a cambiare questo destino, ma solo iniziative individuali potranno re-inventare il futuro. Nel bene e nel male, negli scorsi giorni abbiamo avuto – in politica – la prova che anche qualcosa che sembrava irreversibile, non lo era (semi-cit).

24
Giu
2016

“La gente raramente fa ciò in cui crede, fa quello che è conveniente e poi si pente” (Bob Dylan)

Nel Queens Speech del maggio 2016 si legge la seguente dichiarazione: “My government will hold a referendum on membership of the european union. Proposals will be brought forward for a British bill of Righst”.

Il British Bill of Right è uno dei punti fondamentali degli ultimi due programmi 2010 e 2015 del governo conservatore britannico. Cameron chiede di cambiare la legge sui diritti umani, la human rights act adottata nel 1998 dai laburisti a ratifica della convezioni europea dei diritti umani e sostituirla con un patto sui diritti britannico, alternativo a quella europea ratificata dai laburisti che affidarono così l’ultima parola sui diritti umani alla Corte di Strasburgo al posto della Corte Suprema Britannica . Perché Cameron vuole questo? Forse perché gli inglesi vogliono reintrodurre la schiavitù o le torture? E anche l’impiccagione? Si è anche cercato di farcelo credere quando la deputata tory Theresa Mae venne accusata di questo solo perché richiedeva di poter rispedire un efferato criminale e terrorista arabo nel suo paese. Ma la convezione europea dei diritti umani nel 1950 fu proprio ispirata dai valori di libertà e democrazia che sono il tesoro del regno britannico, personificati da sir Winston Churchill. Oggi il problema è l’illegittima occupazione da parte dei giudici di Strasburgo del territorio politico britannico, interventi che travalicano pesantemente i confini dell’interpretazione secondo lo spirito originario della carta europea dei diritti umani sia nel metodo che nel merito.

Per la corte di Strasburgo ormai tutte le prestazioni sociali stanno diventando “diritti umani”. Per fare solo un esempio, ma rilevante, ciò è stato espresso relativamente alle pensioni di anzianità, considerate come “strumento di protezione di diritti fondamentali garantiti dalla convenzione” un vero e proprio diritto naturale, assimilato a quello di proprietà, tanto che, sempre la corte europea, intende come “possesso” l’aspettava al diritto di percepirle.   Il rischio è che i giudici di Strasburgo costruiscano la loro Europa contro le idee ed i principi individuati con il voto dal popolo britannico. Dell’uscita del Regno Unito dalla UE si è parlato in termini di buoni contro cattivi, al più delle ragioni economiche, calcoli, rischi, opportunità, ma non è solo questo. È molto ma molto di più. È esattamente l’opposto di quanto sostenuto da chi ha dipinto il referendum britannico come il cinico gioco di un politico, Cameron, attaccato solo alla poltrona ed alla continuità del suo partito. E’ fare ciò in cui si crede, è la tenacia della politica del convincimento. Si tratta di una sfida politica ben precisa, alla base della quale c’è la profonda convinzione di una idea di società e di rapporto governo cittadini, una convinzione che ha una salda connotazioni ideologica nel liberalismo.

Nel 1998 nessun labour chiamò gli inglesi a decidere la ratifica della convenzione europea dei diritti umani: ora Cameron, al contrario, li ha chiamati a pronunciarsi e questo passaggio è ineludibile nella democrazia simbolo del mondo se si vuole costruire un alternativo British Bill of Rights. Se c’è stata una fase iniziale in cui le istituzioni europee sono state promotrici dei principi di libero mercato, concorrenza, libera circolazione di persone merci capitali ecc ., certamente non ancora a pieno perseguite, ora si sta imponendo l’azione di una Corte di Strasburgo che agisce come grande “ammortizzatore sociale”. La giustizia di Strasburgo diventa il braccio esecutivo di una idea di assistenzialismo europeo come unica risposta alla crisi, contro l’idea liberale di politica in base alla quale il libero mercato, i liberi scambi e contrattazioni, la libera iniziativa potranno risollevare gli europei dalla crisi e contro l’altrettanto fondamentale idea liberale che per esercitare l’opzione democratica conferita dai cittadini ad un governo, ora liberale ora socialista che sia, è indispensabile che le decisioni riguardanti la tassazione e la distribuzione delle risorse rimangano saldamente nelle mani dei governi eletti, fosse anche chissà , un giorno, il governo eletto degli Stati Uniti d’Europa. Ma certamente non nelle mani dei tribunali.

24
Giu
2016

Riforma della previdenza: chi paga il conto dell’assicurazione? – di Bruno Loffredo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Bruno Loffredo.

L’ennesimo intervento fatto sulla Previdenza volto a garantire un po’ di flessibilità in uscita, si configura come un prestito che i futuri pensionati dovranno rimborsare nei decenni successivi a fronte di un anticipo di qualche anno della futura quiescenza.
Tuttavia, quello che balza agli occhi, ma fino ad oggi poco approfondito è l’aspetto attuariale-assicurativo della operazione. Si dice che chi andrà in pensione in maniera anticipata avrà una copertura assicurativa che in caso di decesso interverrà nel versare alla Banca (Assicurazione) la parte del Prestito ancora non pagato. Alcune domande sorgono immediate:
1) se un pensionando al momento del ritiro del lavoro presenta una grave malattia o una patologia cronica, come si comporterà l’Assicurazione (Banca) al momento della stipula? Assicurerà lo stesso il pensionato? (Meccanismo di Selezione Avversa)
2) fino ad oggi le compagnie Assicurative/Bancarie prevedono generalmente come età massima assicurabile i 75 anni, trattandosi di coperture assicurative che supereranno gli 80 anni, cosa implicherà questa nuova variazione?
3) trattandosi di soggetti che presentano una probabilità di decesso non piccola e via via rapidamente crescente, chi paga il conto dell’assicurazione sulla vita? Read More

23
Giu
2016

Basta pregiudizi: Uk ha interpretato la Ue meglio di noi e beati loro

Mentre è in corso il referendum britannico per restare nell’Unione Europea o uscirne, si può fare il punto su un pregiudizio pesante che è emerso in Italia e nel dibattito continentale. europeo. A preferire la Brexit non sono solo i suoi sostenitori britannici, l’Ukip di Farage, una bella fetta dei Tories, e una parte minoritaria ma vedremo quanto forte anche degli elettori laburisti dell’Inghilterra profonda, che non compartecipa ai dividendi di banche, finanza e prezzi immobiliari. A casa nostra e in mezza Europa, a volere sia pure a mezza voce la Brexit, ci sono anche parecchi europeisti “spinti”, coloro che continuano a sognare una Ue Super-Stato con sempre più politiche centralizzate e dirigiste, malgrado l’evidente stallo di un’Europa che non riesce a darsi nemmeno una comune politica sull’immigrazione. Per fare due nomi, Monti e Prodi negli ultimi giorni hanno entrambi ricordato che il Regno Unito ha sempre frenato nei decenni ogni sviluppo europeo, e tutto sommato se ora decide di uscire sarà pure un peccato ma almeno si chiarisce una volta per sempre il grande equivoco.

Libero ciascuno di pensarla come vuole. Personalmente non ho alcun dubbio: farei a cambio coi britannici subito e su due piedi, sia se restano in Ue sia se decidono di uscire.  Comunque, se invece di demonizzare tentiamo di capire meglio la linea britannica verso l’Europa dagli anni Settanta a oggi, le cose stanno diversamente da quanto dicono Monti e Prodi. Conservatori e laburisti, in realtà, sin dall’inizio sull’Europa hanno perseguito una linea d’interesse nazionale che affondava le radici in condizioni oggettive, storiche ed economiche. Il Regno Unito ancora alla fine del secondo conflitto mondiale attraverso il Commonwealth comprendeva quasi un quarto delle terre emerse e un quinto della popolazione mondiale.  Il brutale ridimensionamento della sua potenza e l’indipendenza di molte delle sue ex colonie non l’hanno privato né della potenza nucleare, né del diritto di veto al Consiglio di sicurezza dell’ONU, né della sua forza straordinaria sulla scena della finanza mondiale.

La dottrina europea del Regno Unito rimane scolpita in due famosi interventi della Thatcher: quello a Bruges del settembre 1988, in cui veniva espresso un chiaro no a un’Europa Super-Stato centralizzato, e la preferenza invece per una libera convergenza di Stati in nome del libero mercato e della concorrenza; e il triplice “no, no, no” pronunciato tra fragorosi applausi alla Camera dei Comuni nell’ottobre del 1990, in cui il no deciso era a una moneta unica realizzata con il pieno esproprio del dovere della politica monetaria non a prendere ordini, ma a render conto di sé alla politica e a parlamenti eletti.

Col senno di poi, le due premesse della posizione britannica si sono rivelate così sbagliate? Non mi pare proprio. L’evidenza di questi ultimi anni mostra che la Commissione Europea ha cessato da tempo di essere motore d’integrazione, perché sono gli Stati nazionali, a cominciare dal più forte cioè la Germania, a dettare l’agenda. E ciò vale per l’immigrazione, come per l’euro. Ma, se è così, allora le ampie facoltà di deroga alle regole comunitarie strappate negli anni da Londra non hanno rappresentato un sabotaggio all’integrazione europea, bensì una dose di maggior realismo sui suoi limiti congeniti che i britannici hanno intravisto per tempo, rispetto alle illusioni poi infrante dalla crisi.

Prima della convocazione del referendum che si tiene domani, il Regno Unito già godeva di quattro fondamentali deroghe o opt-out, come si chiamano in gergo tecnico: ovviamente dall’euro; dagli accordi di Schengen, che presiedono alla libera circolazione delle persone; in materia di giustizia e affari interni, riservandosi il diritto caso per caso di far prevalere il proprio diritto domestico; e sulla Carta dei Diritti Europei resa vincolante dal Trattato di Lisbona, escludendo cioè di poter essere chiamati in giudizio da altri paesi membri davanti alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee. Tony Blair abrogò un quinto opt-out che aveva ottenuto Major, quello relativo al protocollo sociale che tutela il lavoro. A queste deroghe David Cameron nel febbraio scorso, nel tentativo di “smontare” la forza di Brexit nel referendum, ha ottenuto trattando con la Ue di aggiungerne altre tre: la facoltà di poter impugnare eventuali misure dell’eurozona che danneggiassero l’economia britannica e la sterlina; il diritto dei parlamenti nazionali che rappresentassero il 55% dei voti del Consiglio europeo a poter obbligare la Commissione Europea a riesaminare i suoi atti; e la facoltà riconosciuta a livello nazionale di sospendere o limitare l’applicazione del proprio welfare a cittadini di altri paesi Ue residenti o immigrati in Uk.

L’accusa degli europeisti antibritannici è che con tali deroghe il Regno Unito mini dalle fondamenta l’avanzamento del processo europeo.  E spinga altri paesi a fare la stessa cosa. Anzi, con una spinta ancora maggiore se domani gli elettori britannici dovessero decidere di restare nell’Unione, invece di uscirne. E’ una visione miope. Conferma l’errore europeo di fondo: quello di una costruzione centralizzata e omologante, creata e amministrata “dall’alto” da tecnocrati o non eletti, come sono i membri della Commissione Ue.  In realtà il Regno Unito ha difeso non solo il proprio interesse nazionale, ma anche l’idea più generale di un’Unione basata sulla sussidiarietà e le differenze volontariamente difese e contrattate secondo gli interessi di ciascuno, invece che sull’omologazione centralista che, come si vede nell’euroarea dal 2011 a oggi, non funziona.

Per molti versi, in conclusione, beati i britannici che hanno avuto leader capaci di battersi per tutto questo, rispetto a chi firma patti e regole europee, e poi davanti ai propri elettorati le disconosce dimenticando di averle votate. Come capita in Italia.

22
Giu
2016

I metadati ancora misconosciuti dalla politica italiana: M5S e Pd a confronto

Uno dei luoghi comuni più abusati del dibattito pubblico italiano è ripetere che la rete e internet da anni hanno cambiato la politica, non solo la sua comunicazione ma ontologicamente il suo modo di essere. Al di là delle apparenze,  in realtà la politica italiana vive e riproduce lo stesso gap che scontiamo nelle comparazioni internazionali sulla bassa penetrazione della banda larga. E si direbbe che i troppi milioni di italiani che ancora non usano internet  in politica producano una conseguenza: a usare passabilmente bene le possibilità di internet è una minoranza assoluta dei partiti, e il più dei politici ne fa un utilizzo rozzo, limitandosi a sostituire con twitter e facebook i vecchi manifesti o le dichiarazioni alle agenzie.

Lo scimmiottamento americano da noi è un must. Ma è un mito privo di sostanza. Negli USA, la struttura nazionale del partito  democratico ha iniziato a investire nel 2004 progressivamente pacchi sempre più consistenti di milioni di dollari nell’accumulo e nell’interpretazione dei metadati ricavabili dai social network. Nel 2008, Obama vinse alla grande le presidenziali perché migliaia di volontari del partito non battevano le strade porta a porta come scioccamente si ripete, ma perché erano muniti distretto per distretto e Stato per Stato di indirizzi di potenziali elettori per le primarie e per le presidenziali, profilati nel tempo secondo le opinioni che avevano espresso sui social, le attività a cui avevano partecipato, i temi su cui discutevano, il modo in cui lo facevano, gli stili di consumo e di vita che praticavano.  Grandissime società di social analytics come Crimson Hexagon si sono sviluppate negli Usa dedicando centinaia di ricercatori allo sviluppo di algoritmi per dare ordine interpretativo  a milioni di messaggi, per poi passarli ad altri specialisti capaci di interpretarli secondo griglie pubbliche o private, a seconda che i committenti siano politici, istituzionali, o aziende che usano i big data e internet non solo per ottimizzare la propria offerta – ormai quella è la preistoria di internet – ma per identificare , coltivare e organizzare la propria domanda sul mercato. Per capirci, la Crimson Hexagon collabora da anni con università primarie della Ivy League come la Kennedy School of Government di Harvard.

In Italia, niente ancora di tutto questo. O meglio, ci sono due visioni e modelli molto diversi.

C’è una forza politica che sin dalla sua nascita ormai diversi anni fa, grazie a Roberto Casaleggio, ha capito che la rete non è solo uno strumento di comunicazione mass market just in time, ma molto di più: il moderno strumento per sostituire la vecchia organizzazione dei partiti a “struttura fisica”. Di qui il modello del movimento 5 stelle che fa storcere il naso alla “vecchia” politica italiana: coltivare dall’alto la rete “anche” come strumento di comunicazione, ma innanzitutto per tre altre funzioni: una piattaforma identitaria, una catena di focalizzazione, e uno strumento di controllo.  La priorità dei Casaleggio, prima del padre e oggi del figlio Davide, non è tanto e solo comunicare le posizioni del movimento ai 6-8 milioni di italiani che esprimono e formano le proprie opinioni sui social, ma sostituirsi in rete ai vecchi segretari organizzativi delle federazioni territoriali, al segretario politico nazionale, e anche ai collegi dei probiviri dei vecchi partiti.

Dall’altra parte c’è il Pd. Che, per molti versi incredibilmente, si trova nelle condizioni di aver accumulato in teoria negli anni milioni di metadati “a prescindere dalla rete”, grazie alla sua persistente – anche se ormai sempre più liquida – antica struttura territoriale. Eppure il Pd quei dati ancora mostra di non sapere come usarli. O forse non ha capito per tempo quanto erano preziosi.

Dal 2004 si sono tenute infatti nel nostro paese ben 41 elezioni primarie nel nostro paese per scegliere candidati premier, segretari di partito, candidati sindaci o presidenti di Regione. Ben 39 volte su 41, erano primarie del Pd o aperte agli alleati del Pd. Solo 2 volte erano primarie del centrodestra, e solo una volta a partecipazione rilevante,  quando nel febbraio 2014 fu scelta Giorgia Meloni leader di Fratelli d’Italia con 250mila partecipanti. Per Prodi premier nel 2005 alle primarie parteciparono 4 milioni e 300mila votanti. Per Veltroni segretario, nel 2005, 3 milioni e mezzo. Per Bersani, nel 2009, 3,1 milioni. Altrettanti in quelle per la segreteria del Pd in cui Bersani sconfisse Renzi, nel novembre 2012. E 2,8 milioni parteciparono per Renzi segretario, nel dicembre 2013. Quei milioni e milioni di identità personali avrebbero dovuto essere tutte digitalizzate per costituire il tesoretto degli analytics del Pd, l’equivalente del patrimonio di dati da cui partì 12 anni fa il partito democratico americano. Invece, rivolgendosi ai responsabili della comunicazione del partito, Francesco Nicodemo e Alessia Rotta, la risposta è che quando il Pd era la “vecchia ditta” nessuno ci ha pensato o ha avuto i soldi e la professionalità per farlo.  I dati sono stati affidati alle tecniche di conservazione delle diverse strutture territoriali, in anni in cui però organizzazione e competenze interne del partito da una parte dimagrivano, dall’altra mutavano a ogni leader l’un contro l’altro armato.

Il risultato è che il Pd, anche sotto Renzi che pure all’importanza dei metadati dichiara di credere molto, ha organizzato sì in maniera ferrea i propri influencer eletti secondo temi e campagne che vengono controllati e diramati da palazzo Chigi. Ma siamo ancora al cecchinaggio degli avversari e alle campagne tematiche e d’opinione, lontani anni luce dal market targeting che i metadati ben analizzati dovrebbero produrre, per contattare indecisi potenziali ed elettori dubbiosi. Certo, è stato assoldato Jim Messina che per 4 anni è stato chief of staff di Obama e che dei metadati fa il suo credo. Girano indiscrezioni sul fatto che forse il lavoro di “pesca a strascico” sugli stili di consumo sia stato appaltato all’esterno a qualche grande multinazionale digitale, che fatica meno a procurarseli a suon di bigliettoni dagli over the top americani come Twitter e Facebook e Google – in Italia in realtà c’è un complesso tema di severe disposizioni sulla privacy da rispettare, almeno in teoria – ma ufficialmente di questa nuova “attività riservata” del Pd non si sa nulla. Dai bilanci delle fondazioni “personali” dei leader pd, come la renziana Fondazione Open che è subentrata a Big Bang, non sembrerebbe che questa attività sia svolta. Negli incontri con gli accademici e i tecnici della comunicazione politica digitale, ci dice la professoressa Sara Bentivegna autrice dei testi più avanzati in materia nel nostro paese, Nicodemo presenta i dati dei contatti realizzati da Renzi e dalla struttura che rilancia le sue parole d’ordine: ma tutto ciò non c’entra nulla coi metadati. Anzi, lo stile di questa comunicazione ha finito per rappresentare a propria volta un autogol, troppo inficiato com’è dalla character assassination dell’avversario.  E’ vissuta da molti ormai sui social con crescente fastidio, è uno dei fattori di crisi della credibilità della leadership renziana.

Per converso, il modello Casaleggio attira molte critiche, ma guarda “oltre”. Non è vero che sia una piattaforma aperta, perché anche nella nuova app Rousseau, che viene rilasciata “a fette” progressive di questi tempi, i 130mila iscritti sono rigidamente compartimentati secondo diversi livelli: ottenuta la chiave di accesso per identità, un livello di compartimentazione è quello orizzontale-territoriale, a cui se ne somma uno verticale per diversa carica occupata, dai Comuni al Parlamento Europeo. Sta di fatto che ai semplici iscritti a Torino non risulta agevole farsi un’idea dei dibattito sui rifiuti o sulle partecipate aperto a Roma, e viceversa. Ma, contemporaneamente, Rousseau è un formidabile strumento per indirizzare-controllare quelli che prima del turno amministrativi erano i 1796 eletti certificati del movimento ai diversi livelli, e che ora sono diventati molti di più. E oltre alla dimensione identitaria-organizzativa-controllo, la Casaleggio Associati sin dall’inizio ha iniziato a raccogliere e interpretare metadati in rete per scegliere toni e candidati, e per escludere la concessione del simbolo. Una grande riservatezza sin dall’inizio copre questa attività, perché dai suoi bilanci la Casaleggio sembra non avere la mole di risorse finanziarie per elaborare e perfezionare la serie di algoritmi necessari a raccogliere e interpretare milioni e milioni di conversazioni sui più diversi argomenti, e anche la Casaleggio come il Pd non risulta aver coinvolto accademici e tecnici nel lavoro d’interpretazione dei dati. Ma è proprio il mutare del sentiment attraverso l’analisi di metadati, dicono alcuni, ad aver spinto Casaleggio prima della sua scomparsa a convincere Grillo al passo indietro.

In conclusione, siamo ancora ai primi passi.  Ci sono competenze per applicare i metadati alla politica anche in Italia, come lo spin off universitario realizzato a Milano da Andrea Ceron e Luigi Curini, o società come Blogmeter che lavora soprattutto per le grandi reti del consumo. Ma in politica i tanto criticati 5 stelle hanno alla propria testa un ferreo e motivato circolo chiuso d’indirizzo sui metadati, il Pd mostra di averlo capito ma ancora non lo pratica (e comunque vi osterebbe l’odio fortissimo reciproco nutrito dai suoi leader), gli altri balbettano.

 

22
Giu
2016

Il senso del legislatore italiano per la concorrenza

Un recente Focus IBL, curato da Serena Sileoni, ha ben evidenziato come, in Italia, la via della concorrenza continui ad essere irta di ostacoli, che talora si annidano anche ove meno ci si aspetterebbe di trovarli: in questo caso, nel disegno di legge intitolato alla concorrenza stessa. In particolare, alcuni sub-emendamenti hanno proposto l’abrogazione dell’art. 8, c. 2-quater, della legge c.d. antitrust (l. n. 287/1990): secondo questa norma, le imprese che esercitano la gestione di servizi di interesse economico generale (SIEG), o operano in regime di monopolio, e rendono disponibili alle proprie partecipate o controllate beni o servizi, anche informativi, acquisiti in via esclusiva per la gestione del SIEG, sono tenute a rendere accessibili tali beni e servizi anche ai concorrenti delle proprie partecipate o controllate, a condizioni equivalenti rispetto a quelle praticate a queste ultime.  Read More