13
Ago
2016

La ripresa s’è fermata, non l’errore politico di evitare misure radicali

La tossicchiante ripresa italiana s’è fermata. Perché i guai sono sempre gli stessi, da vent’anni dicono i numeri. E assume forme diverse nel tempo comunque un’analoga risposta della politica: incolpare le circostanze esterne, evitare i necessari rimedi radicali, inventarsi costose strategie per compiacere il voto e prendere a calci la lattina. Il declino italiano continua, rispetto agli altri paesi. E la tanto decantata carica del governo Renzi appare ferma, spenta, incartata.

Le attese sulla prima stima del PIL italiano nel secondo trimestre 2016 sul precedente già scontavano un rallentamento rispetto al primo, che si era chiuso su un +0,3%. Che era comunque positivo, se si pensa che l’andamento del 2015 era stato in continuo décalage: dal +0,4% del primo trimestre, a +0,3%, +0,2% +0.1% nei trimestri successivi. La frenata era attesa, ma ci si aspettava comunque un sia pur risicato segno “più”. Invece la crescita zero ci fa tornare a una ripresa italiana che non riesce proprio a ingranare la marcia. Come già annunciato, del resto, dal dato di giugno della produzione industriale, in contrazione dell1% su base annua.

I fattori esterni sono noti, e spingono alla frenata. Ma non è vero che spieghino tutto. Da diversi trimestri infatti la crisi delle ex economie emergenti e le continue stime al ribasso del commercio mondiale producevano – per un paese esportatore quale siamo – un contributo esterno sempre più modesto e poi negativo, alla crescita del valore aggiunto nazionale trimestrale. Ma il fattore positivo era rappresentato dai primi – per quanto modesti – segni di ripresa della domanda interna e dei consumi. Nel secondo trimestre 2016 la crisi internazionale resta, ma al contrario l’ISTAT ci informa che la componente netta import-export offre un contributo positivo alla crescita, mentre è quella dei consumi interni a dare un apporto negativo.

Certo, conta Brexit: ma fino a ieri la stima egli effetti del voto per l’uscita di Londra dalla Ue vedevano l’Italia come uno dei paesi meno “impattati” dalla secessione. La Brexit, la crisi turca e l’attacco di DAESH c’è per tutti, ma intanto i paesi dell’euroarea sono cresciuti dello 0,3% nel secondo trimestre e dell’1,6% rispetto a fine giugno del 2015, noi siamo a zero nel secondo trimestre e a +0,7% su metà 2015. Il che significa, tristemente, che continuiamo ad andar peggio degli altri quando ci sono frenate internazionali, e peggio pure quando invece la congiuntura europea e mondiale volge al meglio.

Limitiamoci a tre osservazioni su questa doccia fredda: che cosa può derivarne per i conti italiani, cosa sarebbe auspicabile, e una valutazione invece di realismo politico.

E’ ora ovvio che le prospettive di crescita dell’1,2% del PIL nel 2016 e dell’1,4% nel 2017, avanzate dal governo ad aprile scorso, non reggano più. Il PIL 2016 dell’Italia può oggi limitare il suo aumento reale tra lo 0,6% e lo 0,7%. Meno del 2015.

E’ lo stesso MEF ad aver stimato che una crescita 2016 inferiore di mezzo punto al previsto può comportare un deficit per l’anno in corso che sfiora o supera il 3% del PIL, mentre il debito pubblico non scenderebbe più di quel soffio promesso – dal 132,7% al 132,4% del PIL – ma crescerebbe fino al 134%. Il governo ha già dichiarato che era sua intenzione chiedere alla Ue un altro mezzo punto di PIL in più di deficit – dall’1,8% previsto nel 2017 sino al 2,3%. Ma tale richiesta diventa più complessa, se intanto si mancano per l’ennesima volta gli obiettivi che erano stati assunti con Bruxelles per il 2016. Tra parentesi: dacché il governo attuale è in carica ha già beneficiato di 1,7% di PIL di deficit aggiuntivo negli anni rispetto agli obiettivi contrattati dal governo precedente, non è vero che viviamo in un regime di austerità cieca e inflessibile.

Il Tesoro in queste settimane ha prennunciato che sino al 27 settembre, quando consegnerà la prevista nota di aggiornamento al DEF, limerà e correggerà le sue cifre per capire quali siano i margini della manovra di bilancio 2017.

Ma una cosa è sicura, ci saranno parecchi miliardi in meno rispetto alla rosee attese di qualche mese fa. E la minor crescita non aiuta certo nemmeno l’altro punto dolente italiano: quella della solidità complessiva del sistema bancario italiano, il cui margine di intermediazione da attività caratteristica – ergo la redditività – scenderà ulteriormente. Non proprio ciò che dovrebbe aiutare la complessa manovra in atto su MPS, o le attese per l’aumento di capitale di Unicredit.

Quanto agli auspici, e cioè cosa sarebbe preferibile, è un discorso lungo, che dipende dalla lettura che si dà della crisi italiana. Se si guarda ai numeri, l’Italia ha una crisi di produttività stagnante ventennale, da metà degli anni ‘90. E da allora – non dal 2008 o dal 2011 – gli investimenti netti delle migliaia di imprese industriali censite da Mediobanca sono inferiori alla quota annuale di ammortamenti: cioè la quota investita per nuovi impianti, innovazione di prodotto e processo, distributiva e di capitale umano è minore di quella spalmata nei bilanci annuali per “spesare” le innovazioni del passato (chi volesse approfondire questo e molti altri dati, li trova in questo bel librino di Riccardo Gallo) . Del resto, rileva sempre Mediobanca, il margine industriale delle imprese resta, nei bilanci 2015, inferiore del 37% a quello del 2007 e del 20% per le imprese manifatturiere: e non solo per la crisi del mercato interno, ma grazie a tasse che gravano anche se il reddito è zero o negativo. E Restiamo in Italia con una quota di occupati del 57%, rispetto al 78% della Germania, 77% della Gran Bretagna, 76,5% di Danimarca e Olanda.

In un paese con questi ritardi strutturali, servirebbero da anni interventi radicali per accrescere la produttività, abbattere il fisco su imprese e su lavoro, accrescere verticalmente la concorrenza, visto che il più dell’offerta dei servizi pubblici e privati ne restano escluse. E poiché per abbattere davvero il fisco di diversi punti di PIL occorre rivedere energicamente il perimetro dello Stato, come accrescere la concorrenza significa scontentare infinite lobby, è esattamente quel che la politica italiana di ogni colore ha diluito ed evitato di fare.

Se però dagli auspici passiamo al realismo politico, avverrà altro da quanto serve. Prevale l’idea generale che la colpa sia di una stagnazione secolare: ma essa non spiega perché noi andavamo e andiamo peggio degli altri, se non fosse per difetti domestici. Non si guarda all’effetto paradossale di aver chiesto alle banche centrali di comprare tempo con tassi negativi, che abbattono sì gli oneri per i debiti pubblici, ma nel tempo ottengono effetti sempre più distorsivi se gli interventi energici della politica mancano. Ci si accapiglia sulle regole europee: che hanno certo molte approssimazioni e difetti, ma così facendo in tutti i paesi europei si dà sempre più fiato a chi auspica l’esplosione della stessa Ue come soluzione alle responsabilità proprie.

La prossima legge finanziaria cade malauguratamente a cavallo del referendum sulla riforma costituzionale, sul quale Renzi e il governo hanno scommesso tutto. Ciò non aiuta, rispetto al bilancio che occorrebbe fare di interventi e bonus che sin qui hanno mobilitato ingenti risorse di bilancio, con però non ingenti risultati. E’ ovvio che il “segno” della manovra sia inteso invece dal governo al fine di convincere quella parte di oppositori al referendum che più il governo teme: sinistra Pd e sindacati. Ed ecco perché da mesi e mesi parliamo di prepensionamenti a chi un lavoro ce l’ha, invece di misure che sarebbero ben più urgenti per la ripresa italiana. Il declino continua rispetto agli altri paesi, buon referendum a tutti.

 

10
Ago
2016

La vera partita sui prepensionamenti: quando si dice una non-priorità

Per abbattere l’incertezza che ormai sull’Italia si espande nei mercati, per l’esito molto incerto del prossimo referendum e una nuova possibile instabilità governativa, bisognerebbe PRIMA del referendum approvare la prossima legge finanziaria, e SMETTERLA di fare annunci quotidiani su pre-pensionamenti senza numeri, perché nel dubbio i pensionati per cautela consumano ancora meno. Lo scrive oggi sul Corriere della sera Francesco Giavazzi: ma sono considerazioni da mondo ragionevole ideale, qui da noi avverrà l’esatto opposto. Tanto vale allora parlarne chiaramente, delle incertezze che gravano sulla prossima legge finanziaria, e della partita vera che si gioca sui prepensionamenti.

La manovra finanziaria in arrivo è appesa ancora a molte incognite. Sui saldi, il governo intende chiedere in Europa un altro mezzo punto di PIL di deficit in più rispetto al concordato, salendo al 2,3% invece dell’1,8%. Ballano dunque per questo 8 miliardi, non noccioline, e al di là degli effetti di Brexit e del rallentamento della congiuntura per il governo è la differenza tra una manovra che consenta di inviare più segnali alla sinistra del pd e al sindacato, oppure no. Esattamente questa è la seconda incognita, quella politica, di una manovra che sarà a metà dell’esame parlamentare quando verrà proclamato il risultato del referendum sulle modifiche costituzionali, diventato per il governo la partita della vita.

Il governo è impegnato ad annullare per un punto di PIL le clausola di garanzia fiscali che vedrebbero l’aumento di IVA e accise. E che a questo si aggiunge la discesa dell’aliquota IRES per le imprese dal 27,5 al 24%, già prevista per il 2017 nel tendenziale pluriennale approvato con la legge di stabilità 2016. Malgrado i molti annunci di Renzi è praticamente impossibile immaginare un anticipo dell’intervento sull’IRPEF previsto per il 2018, in assenza di tagli di spesa che non fanno parte dell’orizzonte di questo governo. Ma è sulla previdenza, che da 9 mesi a questa parte un pezzo del Pd e ovviamente il sindacato hanno incatenato il governo alla necessità di vasti interventi “sociali”.

Molto ci sarebbe da dire, sul fatto che dalla sinistra alla destra tanto ci s’incaponisca sul teme di prepensionare chi un lavoro ce l’ha, invece di considerare prioritario destinare incentivi all’aumento della produttività – la cui stagnazione ventennale è il problema numero uno dell’Italia – e varare politiche attive dell’occupazione per chi un lavoro non ce l’ha, e ha già cumulato un enorme problema di continuità contributiva. Ma è inutile obiettare in nome di queste ragioni: in politica conta la forza della rappresentanza. Quella dei giovani è inesistente, debole è quella delle imprese. Mentre Renzi e il suo governo, per come stanno le cose, non possono ignorare né un pezzo del Pd né il sindacato.

Ergo sarà prepensionamento, sia pur sotto il nome di “flessibilità in uscita”. Anzi APE, anticipo della pensione. E la battaglia, prima ancora di conoscere i dettagli delle misure, è innanzitutto sulle poste in bilancio: 1 miliardo e mezzo secondo il governo, 2 e mezzo almeno secondo sindacati e chi obietta “da sinistra”.

Alcune delle misure in arrivo hanno una loro equità di fondo, rispetto alla piramide dei redditi italiani. Come per esempio attenuare fortemente fino ad annullare la spropositata onerosità dei ricongiungiumenti per chi ha versato nella vita lavorativa contributi a enti diversi (si tratta di quasi fino a 100mila lavoratori l’anno, se si estende il meccanismo anche a chi si prepensionasse rispetto ai requisiti di vecchiaia oggi vigenti, con un costo potenziale fino ai 400 milioni in 10 anni) . Oppure, in alternativa, alzare la no tax area attuale oltre gli 8mila euro, oppure ancora estendere la platea della 14esima mensilità previdenziale (ma in questo caso, se si passa dall’attribuirla a coloro che come oggi sono sotto i 9787 euro lordi l’anno a chi fosse sotto i 12mila, i 2 milioni di soggetti aggiuntivi beneficiari significherebbero, a dar retta alle ipotesi più generose, anche un onere di circa 600milioni annui).

Il cuore della faccenda però è un altro: a chi riservare la possibilità di andare in pensione con 3 anni e 7 mesi di anticipo rispetto ai requisiti anagrafici di vecchiaia previsti dalla legge Fornero, e con quale ripartizione degli oneri. Le risposte ai due quesiti segnano il confine tra il governo e chi chiede di più.

Non è la differenza muscolare tra chi ha più forza a braccio di ferro. Di mezzo ne va un punto di principio. Se cioè si voglia preservare l’impianto della progressività dei requisiti per la pensione ancorati all’attesa di vita, grazie ai quali abbiamo messo in relativa sicurezza i conti previdenziali italiani, e quando dichiamo “relativa” intendiamo comunque attraverso la devoluzione in pensioni di 4 punti di PIL l’anno più che nella media europea. O se, invece, nella prossima legge di bilancio si dia a quella progressività la spallata iniziale, per farlo crollare poi inesorabilmente anno dopo anno. Inutile dire che la seconda prospettiva fa spallucce sul maggior deficit che ciò comporterà, e sugli aggravi per i più giovani, che continueranno a pagare nel sistema a ripartizione anche le pensioni date prima a chi ne ha maturate come i meno anziani non ne avranno mai.

Vedremo solo in parlamento dove si fermerà il pendolo. Ma sin d’ora la differenza si vede. Il governo fa capire di dividere in due la platea dei soggetti a cui applicare la facoltà della pensione a 63 anni. Solo per coloro che rientrano nelle categorie – vedremo come definite – di disoccupati di lungo periodo prossimi a esaurire la copertura degli ammortizzatori, o di coloro che godono comunque di bassi redditi (anche qui, la soglia è fondamentale), l’onere del prepensionamento dovrebbe essere a carico pubblico, e per questo si parla di 600milioni. Per tutti gli altri, scatterebbe l’abbattimento dell’assegno previdenziale in cambio del prepensionamento, un decalage maggiore maggiore quanto più si è lontani dai 66 anni e 7 mesi del requisito previsto. In pratica: se vuoi andare in pensione prima rinunci a una parte dell’assegno perché ne godrai più a lungo, e in maniera esattamente proporzionata al più lungo godimento. In soldoni: con tagli dell’assegno fino al 15-20%. Perché si tratta di coprire non solo i pagamenti anticipati INPS, ma il costo del rischio – ancora da definire – a cui si esporrebbero le banche chiamate ad anticipare all’INPS gli esborsi, nonché la sua copertura attraverso polizze assicurative, visto che in caso di deprecabile decesso del prepensionato prima che sia terminato l’ammortamento dell’anticipazione le banche non potrebbero certo rivalersi sui superstiti, e sulla loro pensione di reversibilità.

Come si vede, in questa impostazione i tetti della legge Fornero restano, tanto che è rispetto a loro che si calcola il piano di copertura finanziaria a carico del pre-pensionato. Cosa del tutto diversa se invece, oltre ai soggetti “socialmente da tutelare” a cui il governo vuole estendere l’intervento, l’onere dello Stato sarà esteso anche per tutti coloro che non vi rientrano, né perché disoccupati di lungo periodo vicino alla pensione, né perché a reddito bassissimo. In quel caso sarebbe inutile far finta di non vedere la sostanza: è la breccia attraverso cui rimettiamo in discussione tutti i conti dell’INPS per decenni a venire.

E’ un falso problema, sostengono i fautori dello sfondamento. Basta aggiungere ai 600 milioni a carico publico per i prepensionati “sociali” a cui pensa il governo, altri 600 milioni che dall’anno prossimo le imprese non saranno più tenute a versare per il venir meno del contributo a loro carico dello 0,3% del salari lordo per finanziare la vecchia indennità di mobilità, sostituita dai nuovi ammortizzatori previsti dal Jobs Act. Non è un ragionamento, però. Primo non si capisce che senso abbia dire alle imprese che le si sgrava fiscalmente, se poi con la mano sinistra ci si riprende quel che la destra toglie. Secondo: la decisione di pre-pensionarsi è del lavoratore, non dell’impresa. Queste ricorrono a prepensionamenti anche co-finanziati quando vi sono accordi con il sindacato per stato di crisi o per esubero di personale. Ed è tutt’altro paio di maniche.

Ma chi obietta al governo ha un’altra carta in mano. Se prevedete davvero prepensionamenti onerosi a carico di chi li richiede con tagli all’assegno così elevati, ammiccano al governo, la vostra ricetta sarà un flop perché pochissimi vi faranno ricorso. E quell’eventuale flop ci sarà chi lo userà politicamente con durezza.

Sui conti previdenziali bisogna ragionare con un’ottica di lungo periodo, non delle prossime eleziomi. Speriamolo, in nome di chi è più giovane. Ma, allo stesso tempo, disperiamone dando un’occhiata alle dichiarazioni quotidiane.

 

 

8
Ago
2016

Il reddito di cittadinanza di de Magistris: il rischio che levi ai poveri per dare ai più poveri (evasori compresi..)

Nella provincia di Trento c’è stato un “reddito di garanzia”, la Puglia di Michele Emiliano ha varato per l’anno prossimo un “reddito di dignità”, la Basilicata dal 2015 ha un “reddito minimo d’inserimento”, a Livorno la giunta pentastellata del sindaco Nogarin ha varato quest’anno un (micro) “reddito di cittadinanza” (riguarda 100 persone in tutto, per 300mila euro). E ora anche Napoli avrà nel 2017 il suo “reddito di cittadinanza”, visto che la scelta, lanciata la scorsa primavera dalla giunta prima della campagna elettorale, è confermata nel bilancio preventivo 2016-18 approvato nella maratona notturna del pre week-end.

I particolari del reddito di cittadinanza napoletano sono ancora da chiarire. Quel che si sa da maggio è che dovrebbe essere destinato ai nuclei familiari con reddito ISEE non superiore ai 3600 euro, residenti a Napoli da almeno 2 anni. Non è nemmeno ancora davvero definito se l’importo in bilancio sarà per 20 milioni oppure per 5, come era sembrato di fronte alla ristrettezze obbligate della condizione pluriennale di predissesto, in cui versano le finanze di palazzo san Giacomo.

Il sindaco de Magistris sin dalla scorsa primavera parla di una misura finanziata dai proventi della lotta all’evasione, ma gli ultimi dati aggiornati dicono che entro agosto il Comune di Napoli aveva riscosso 14 milioni in più da inizio 2016 sul pregresso non incassato tra multe, ratei d’imposta e crediti esigibili: difficile immaginare che entro fine anno si raggiungano i 65 milioni che erano stati indicati come obiettivo. Se invece davvero alla fine la misura dovesse essere finanziata attraverso i 5 milioni in più che si prevede d’incassare attraverso il brutale abbattimento della soglia di reddito per l’esenzione d’imposta dall’addizionale IRPEF comunale, abbattimento previsto nel bilancio preventivo da 15mila a 10 mila euro, sarebbe una soluzione del tutto iniqua. Il fortissimo rischio è levare a chi ha poco ma ha redditi certificati, per dare a chi dichiara pochissimo e magari però ha redditi in nero.

Anche per chi ha in mente il più redistributivo possibile dei modelli fiscali, dovrebbe risultare del tutto indigeribile far pagare 60mila napoletani in più ma comunque a basso reddito. rispetto ai quasi 230mila oggi esentati sotto i 15mila euro annuali (che sono la metà dei contribuenti napoletani) , per alimentare l’illusione di un “reddito di cittadinanza”. L’alternativa è di finanziare l’intervento con Fondi Europei: ma in quel caso, come per la Basilicata che a questo attinge per una quota parte del suo reddito minimo d’inserimento, la formula non può essere quella del reddito di cittadinanza. ma va riferita solo a chi non è coperto dai sussidi previsti dalle leggi sul lavoro né a chi già beneficia dell’assistenza sociale comunale su affitti e sussistenza.

Perché diciamo “illusione”? E’ presto spiegato. La politica italiana da qualche anno a questa parte alimenta una gigantesca confusione tra strumenti del tutto diversi. Chi vuole un reddito di cittadinanza sapendo davvero di cosa sta parlando le proposte di legge “storiche” sono di Sel, poi del M5S, se né aggiunta una di alcuni parlamentari Pd) propone uno strumento universale di lotta alla povertà che è indipendente dall’accertamento delle condizioni economico-patrimoniale dei beneficiari. Anche se tutti dicono che 26 paesi europei su 28 prevedono un simile strumento, è una gigantesca frottola. C’è in Alaska, grazie alla rendita petrolifera. Nella stragrande maggioranza dei paesi europei (vedi qui una spiegazione dettagliata) vi sono invece strumenti che rientrano nel reddito minimo garantito, che è tutt’altra cosa. Esso serve a dare copertura a chi resta escluso da sussidi di disoccupazione e mobilità, è ancorato a livelli di reddito (per chi sotto la povertà assoluta e per chi relativa a seconda dei paesi), prevede una forte condizionalità di assoggettamento coatto a offerte di lavoro pubbliche e private. In altre parole: il reddito minimo garantito, che in alcuni paesi convive con il salario minimo per legge (che in Italia sono i sindacati a non volere) e in altri no, serve a impedire la compresenza di plurimi strumenti di sostegni sociali nazionali, regionali e comunali, magari a favore di soggetti per i quali l’evasione fiscale , il lavoro nero o grigio rappresentano la via per accumularne il vantaggio, rispetto magari a famiglie numerose con un solo stipendio basso da lavoro dipendente, cioè totalmente “in chiaro” per il fisco.

Se guardiamo alle varie soluzioni introdotte in Italia, praticamente sempre di reddito minimo si tratta, non di cittadinanza. Anche se a Livorno i pentastellati l’hanno chiamato di cittadinanza, in omaggio alla loro proposta nazionale che costerebbe un punto di PIl, in realtà è un reddito minimo: 500 euro per 6 mesi a 100 soggetti scelti da un’apposita commissione tra gli aventi diritto, attribuiti a un solo componenti del nucleo familiare con reddito inferiore ai 6530 euro, in cambio però della disponibilità a lavorare per 8 ore almeno settimanali, accogliendo proposte avanzate dal centro per l’impiego oppure in lavori sociali a favore del Comune. Di prestazioni di lavoro e formazione obbligatoria come controprestazione parla anche il “reddito di dignità” varato da Emiliano in Puglia, per 20mila individui sotto i 3mila euro ISEE e residenti in Puglia da almeno 12 mesi.   Mentre lo strumento della Basilicata – 7,5 milioni di euro per circa 6mila soggetti – è chiaramente concepito solo per coloro che escono dalla copertura della disoccupazione e della mobilità, ed è finanziato in gran parte dalle royalties petrolifere incassate dalla regione sui combustibili fossili estratti dal suo sottosuolo (oltre che dai Fondi Europei come ricordato prima).

La distinzione netta tra “reddito di cittadinanza” e “reddito minimo sotto la povertà, ma soggetto a controlli” dovrebbe oggettivamente valere ancor più per una citta come Napoli, il cui disastro di finanza pubblica de Magistris ha – è vero – ereditato alla prima sindacatura – ma che resta ben lungi dall’essere avviato a un percorso di sostenibile rientro dei suoi squilibri. Se il disavanzo annuale è sceso dai mostruosi 850 milioni a 81 milioni del 2015 grazie al taglio dei crediti ormai inesigibili dovuto all’incapacità di incassarli, il “debito tecnico” dovuto al programma di rientro trentennale del predisesto vale 1,6 miliardi, e quello reale a fine 2015 – sommando poste finanziarie debito commerciale, crediti non riscossi – a fine 2015 ammontava a 2,7 miliardi. E tutto ciò mentre i trasferimenti da Roma, come per tutti i Comuni, scendono di centinaia di milioni l’anno. Mentre resta l’incognita negli anni a venire del prezzo di esercizio degli swap sui derivati accesi dalle amministrazioni precedenti. E mentre le entrate straordinarie previste per l’abbattimento del debito – per esempio 700 milioni da cessioni di immobili e terreni – sono così ingenti da far strabuzzare gli occhi, in un’Italia in cui ciò che è pubblico non si riesce mai a cedere davvero al privato.

Vedremo dunque cosa sarà davvero questo reddito di cittadinanza partenopeo. Il sindaco ci tiene molto. A maggior ragione è meglio farne uno strumento mirato e rigoroso, coerente alla troppo frastagliata panoplia di strumenti già esistenti, coperto in maniera che non sia un furto a chi ha comunque poco, e soprattutto applicato a soggetti iper controllati nel loro rapporto col fisco: che deve essere di assoluta trasparenza.

5
Ago
2016

Rifiuti: i partiti litigano, i pm indagano, la TARI sale, ma nessuno lavora alla soluzione

La politica sembra occuparsi dei rifiuti urbani solo per rinfacciarsi l’un contro l’altra parte interessi indicibili.  A Roma, si fa prima a dire che cosa dell’operatività, gare, gestione, assunzioni e collaborazioni dell’AMA non sia sottoposta a inchieste della Procura e dell’ANAC, piuttosto che il contrario. E intanto, dietro le coltri fumogene e le accuse incrociate, l’Italia resta sui rifiuti un paese largamente incivile, inquinatore, e distruttore di valore (oltre che, troppo spesso, corrotto). Sono disposto a scommettere però che agli italiani importi prima sapere oggi entro quando e come risolvere il problema, che aspettare tra anni le sentenze in giudicato del magna-magna sui rifiuti.

Piemonte, Emilia Romagna: in sintesi, è al Nord che continuano ad andare, anno dopo anno, centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti che il Centro Sud non riesce a trattare e riciclare.Così scrivono in molti.  Ma detta così è una generalizzazione ingiusta. Sono i dati – raccolti certosinamente in 350 pagine dal meticoloso rapporto annuale dell’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale – a comprovare che l’Italia dei rifiuti in realtà è a pelle di leopardo: in questi anni c’è chi ha fatto meglio anche nel Centro e al Sud. E quanto a ciò che servirebbe, lo sappiamo benissimo perché ancora una volta i dati lo dimostrano, impietosamente.

Il problema vero sono le resistenze, di sindaci di grandi città e di giunte regionali, a realizzare davvero gli impianti che in molte parti d’Italia continuano a mancare per chiudere il ciclo del trattamento, cioè per evitare danni ambientali e insieme guadagnarci economicamente, invece di lasciarlo fare ad altri. Sui processi tecnologici e i rischi per trattare tutti i diversi segmenti di materiali che confluiscono nei rifiuti urbani, girano da anni allarmismi demagogici. Alimentano da una parte il miglior terreno per continuare a usare disastrose discariche senza rifiuti pretrattati, al fine di diminuirne la frazione umida e renderli biologicamente stabili, discariche che sono bombe a cielo aperto e per le falde freatiche. Dall’altra, è così che si crea spazio per le ecomafie (che insistono però soprattutto sui rifiuti industriali).

Diamo prima un occhio a come siamo messi in Europa, come Italia. Malino: mentre in Germania, Svezia, Olanda, Danimarca, Austria la percentuale del totale dei rifiuti urbani che finisce in discarica oscilla tra lo 0% (tedesco) e il 5% massimo, da noi le discariche si vedono conferire ancora il 37% dei 30 milioni di tonnellate prodotti annualmente in Italia. Abbiamo una quota di rifiuti inceneriti di poco superiore al 20%, rispetto a poco meno o poco più del 50% di Svezia, Belgio, Olanda e Danimarca. Abbiamo fatto grandi passi avanti sul riciclaggio delle materie, che arriva al 25% (ma rispetto al quasi 50% tedesco), e ce la caviamo abbastanza bene come quota avviata al compostaggio cioè ai trattamenti bio-meccanici, poco meno del 15%, di poco inferiore alla quota tedesca mentre l’Austria è al 35%. Già da questi dati grezzi si inferisce un primo elemento: per azzerare le discariche servono molti più inceneritori (temuti come la peste dalla demagogia, che ne ignora le nuove tecnologie di recupero dei prodotti di risulta).

Addentriamoci sulla pelle di leopardo italiana. Cominciamo dalla raccolta differenziata. L’obiettivo per fine 2012 fissato nel 2006 di giungere a un 65% nazionale di raccolta differenziata si è rivelato illusorio: siamo ancora 20 punti sotto, con il Nord sopra il 50%, il Centro al 40%, il Sud poco oltre il 30%. Ma rispetto al 40% del Centro il Lazio fa molto peggio, solo il 32% rispetto al 57% delle Marche. E al Sud la Campania registra un 47%, rispetto al 34% della Liguria al Nord, o al 26% della Puglia, al 18% della Calabria e al terrificante 12% della Sicilia.

La provincia di Benevento è la settima in Italia per percentuale più elevata di differenziata, al 68.9% del totale dei rifiuti urbani prodotti. La provincia di Salerno sta a quasi il 58%, 4 punti più di quella di Milano e 10 meglio di quella di Bologna. E’ la provincia di Napoli che abbassa la media campana, col suo 41%. In Puglia, Brindisi e provincia stanno al 48%, mentre Taranto e Lecce sotto il 20%. In Sicilia è quasi dovunque disastro: Palermo provincia fa differenziata per meno dell’8%, Messina poco sopra, Siracusa poco sotto, Enna addirittura al 6%. Le province di Nuoro e Oristano, sopra il 60%, sono Scandinavia in confronto.

Se guardiamo alle 13 Città metropolitane italiane, Roma è la peggiore del Centro Nord col suo 33%, di 8 punti inferiore a Napoli, Palermo la peggiore del Sud col suo 7,8%. Ma attenzione: se dall’ambito della Città Metropolitana napoletana scendiamo invece al solo Comune di Napoli, il dato della differenziata si dimezza, scende al 22%. A Napoli l’emergenza resta eccome.

Quanto al raggiungimento entro il 2016 dell’obiettivo dello smaltimento in discarica dei rifiuti biodegradabili al 35% di quelli prodotti nel 1995, fino alla totale eliminazione dalla discarica dei rifiuti organici non trattati, anche su questo siamo ancora lontani. Per tipo di impianti, quelli di compostaggio in Italia al 2015 erano

279, di cui 179 al Nord, 44 al centro e 56 al Sud. In Campania solo 5 con 60 mila tonnellate trattate, rispetto ai 9 della Puglia con 268mila tonnellate, il Lazio incredibilmente solo 218mila tonnellate rispetto a 1,4milioni della Lombardia.

Gli impianti di TMB, cioè di trattamento meccanico-biologico, erano in Italia l’anno scorso 117, di cui 38 al Nord, 32 al centro e 47 al Sud. Non è un buon dato, al contrario. Mentre al Nord la quantità di rifiuti avviati a TMB decresce a ritmi del 7% annuo, al Centro e al Sud aumenta del +2,9% e del +2,1%, perché questo tipo di impianti rappresentano il modo per ovviare all’emergenza, senza chiudere il ciclo e con maggiori rischi ambientali, visto che la frazione umida e quella di percolati resta elevata. Oltre il 50% di queste lavorazioni, infatti, finisce poi in discarica. Al Sud, meno del 15% all’incinerazione e meno dell’1% in recupero materiali.

Se infine andiamo agli inceneritori, erano 51 in esercizio in Italia l’anno scorso: 28 al Nord, 13 al centro, solo 10 al Sud. Il Nord pesa per il 70% del totale nazionale delle quantità avviate a inceneritori, la Campania per avere un raffronto sta al 13,3% del totale dei suoi rifiuti rispetto al 36% della Lombardia. Si tenga conto che gli inceneritori hanno generato nel 2014 4,6 milioni di MWh di energia elettrica, e 1,6 milioni di MWh di energia termica. Non averne, significa essere anche più dipendenti energeticamente.

Ed eccoci alle discariche: nelle 55 censite nel Sud (quelle ufficiali) nel 2014 sono state avviate l’esatta somma , 4 milioni e mezzo di tonnellate di rifiuti, del Nord e del Centro insieme. Serve a poco consolarsi col fatto che in Campania il 45% dei rifiuti in discarica viene dichiarato pretrattato, rispetto a poco più di 0% della Puglia, perché in Val d’Aosta la percentuale è del 100%. Qui i dati regionali vanno “pesati” per via del turismo domestico dei rifiuti: il 47% dei rifiuti in discarica della Calabria sale in realtà al 70% tenendo conto di quelli “esportati”. Al contrario il 75% della Puglia scende al 53%, al netto dei rifiuti in discarica importati da Campania, Lazio e Calabria.

In conclusione: laddove esiste un ciclo integrato dei rifiuti grazie ad un parco adeguato di impianti, si riduce l’uso delle discariche. In Friuli Venezia Giulia lo smaltimento in discarica è ridotto al 6% del totale di rifiuti, in Lombardia al 7%, in Veneto al 12%. Nelle stesse regioni la raccolta differenziata è pari rispettivamente al 60,4%, al 56,3% ed al 67,6%, e consistenti quote di rifiuti vengono trattate in impianti di incenerimento con recupero di energia. In Sicilia, i rifiuti urbani smaltiti in discarica rappresentano ancora l’84% del totale. L’incenerimento non è un disincentivo alla raccolta differenziata, come risulta evidente in Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Sardegna. In queste regioni, infatti, a fronte di percentuali d’incenerimento tra il 40 e il 20% del totale dei rifiuti prodotti, la differenziata sta sempre tra il 60 e il 50%.

La sfida per il miglioramento è quella tra i 13,5 milioni di tonnellate della raccolta differenziata su 30 milioni, e i 12 milioni di tonnellate in discarica. Più sale la quota dei 5 milioni agli inceneritori, più scende quella in discarica. Ma è una formula che la politica non riesce a sostenere. Preferisce le polemiche su chi è più o meno vicino agli interessi di chi gestisce gli impianti. Mentre nel frattempo la TARI è sempre salita.

3
Ago
2016

La bellezza dimenticata di TANSTAAFL

La Foundation for Economic Education descrive “There ain’t no such thing as a free lunch” (TANSTAAFL) come uno dei concetti fondamentali dell’economia, uno di quei principi che potrebbe a buon diritto essere iscritto nelle Tavole della Legge della disciplina cara ad Adam Smith.

“Non ci sono pasti gratis” é una frase che ho spesso sentito citare come una condanna per l’uomo. Come a dire: in questo mondo, in questa economia, non c’é spazio per comportamenti altruistici, non c’é posto per aiuto disinteressato al prossimo. Stai in guardia da chi dice di aiutarti perché sicuramente si aspetterà qualcosa in cambio. Do ut des e guai a chi si concede il lusso di essere umano.

La vita quotidiana nega l’ineluttabilità di quella idea che Hobbes sintetizzò in “homo homini lupus”: le mense che volontari, chiese, associazioni preparano per chi non può pagare per il proprio cibo ne sono un esempio. Pasti caldi che non hanno una contropartita se non nel piacere che tante persone traggono dall’essere in servizio agli altri.

“Non ci sono pasti gratis” é in realtà una legge dell’economia che potrebbe ricordare la legge di gravità nella fisica. Per sollevare un corpo devo esercitare una forza, per muovere un oggetto nello spazio devo esercitare del lavoro. Così in economia le cose che hanno un valore per qualcuno sono generalmente il frutto del suo lavoro o del lavoro di qualcun’altro.

Dimenticare questo concetto porta a quei mondi immaginari dove intellettuali e leader promettono la “fine dell’economia” ovvero la possibilità di pasti gratis per qualcuno – salvo poi ritrovarsi in un’economia a rotoli. Penso al Venezuela di questi ultimi tempi. La stessa promessa che alcuni politici hanno fatto e continuano a fare di educazione o sanità o cultura “gratuita”, giusto per dare qualche esempio, utilizza un lessico che ignora la legge di cui sopra: non esistono beni o servizi gratuiti, qualcuno ne dovrà sempre pagare il prezzo. A meno di non voler fare montagne di debito (vedi debt-clock italiano); in tal caso a pagarne il prezzo saranno le generazioni future.

Personalmente, quando sento la frase “non ci sono pasti gratis” mi viene in mente un allenatore sportivo americano che ho seguito per un certo tempo e che diceva: “you have to give some to get some” – devi dare qualcosa (in termini di lavoro fisico) per ottenere qualcosa (un cambiamento nel fisico). Per vederlo da un altro punto di vista, ricorda il saggio consiglio “per avere qualcosa di diverso devo fare qualcosa di diverso”.

Così che, per concludere, “non ci sono pasti gratis” (per usare l’acronimo inglese, TANSTAAFL) non é una legge né fredda né calda, né bella né brutta: é semplicemente quello che é, il modo in cui funziona l’universo fisico e quindi anche la produzione di beni e servizi – fenomeno al cui studio si dedica l’economia. Possiamo vederla dal punto di vista di chi si rassegna ad un mondo in crisi e giustifica scelte economiche sempre più disumane. Possiamo vederla dal punto di vista di chi vuole costruire un futuro diverso sapendo che ogni cosa é raggiungibile se siamo disposti a superare gli ostacoli nel mezzo. Se é vero che non ci sono pasti gratis, ogni cosa é possibile se siamo disposti a pagarne il prezzo. Nel mezzo c’é solo lavoro e pazienza. E in un mondo abituato alla rassegnazione e a ignorare il lungo periodo, é facile dimenticarlo.

28
Lug
2016

Banche: su MPS si misura il gap tra la realtà e 6 mesi di proclami dei regolatori italiani

Domani conosceremo gli esiti del nuovo round di stress test delle maggiori banche europee, tra cui 5 italiane. Da mesi la tensione si è concentrata in Italia sul risultato del Montepaschi. Mesi in cui l’indice bancario italiano ha perso più di qualunque altro in Europa tranne che in Grecia, grazie anche alla campagna tambureggiante che politica e autorità di regolazione italiane hanno montato contro le regole europee.  E’ stato un boomerang: tanto alta è stata la polemica contro il principio del burden sharing – la compartecipazione ai costi di rafforzamento o risoluzione delle banche da parte degli azionisti e degli obbligazionisti subordinati entro l’8% delle passività – che alla fine media e analisti finanziari di tutto il mondo hanno individuato di nuovo l’Italia come il ventre molle dell’Europa post Brexit. Nel 2011 fu per il debito pubblico, oggi per i crediti deteriorati delle banche: quasi il 18% del totale degli impieghi, un terzo di quelli dell’euroarea, 360miliardi di euro tra incagli e sofferenze, di queste ultime più di 80 miliardi netti.

Era necessario? No. Nelle settimane la mala parata istituzionale dell’Italia è apparsa sempre più chiara. Dalla richiesta esplicita di sospendere la direttiva europea BRRD in quanto addirittura incostituzionale, a quella di evitare il burden sharing, al consentire allo Stato di entrare nel capitale bancario senza che avvenga in proporzioni pari a nuovo equity bancario risultante da conversione di obbligazioni degli stessi istituti, alla fine MEF e palazzo Chigi hanno dovuto sempre più decisamente ripiegare dicendo “ma no, nessuna deroga, a cominciare da MPS  gli interventi necessari osserveranno i criteri di mercato e le regole Ue”. I portavoce e i sostenitori delle autorità italiane possono dire quel che vogliono, ma è ovvio e macroscopicamente evidente che hanno sbattuto contro un muro, mal giudicato la situazione, e sbagliato la terapia alla quale si erano abbarbicati con toni sempre più ultimativi.

Per il caso MPS, l’errore è ancor più clamoroso.  Da 5 anni, esplosi i conti dell’istituto senese dopo gli anni di Mussari, il prezzo pagato per l’acquisizione di Antonveneta, e i tentativi di nasoconderne gli effetti, i regolatori hanno battuto una strada che i fatti hanno dimostrato sbagliata. Nel 2012 – quando le regole europee lo consentivano – era preferibile far intervenire in MPS lo Stato, azzerare gli azionisti, convertire in equity parte delle obbligazioni, in maniera diretta o tramite warrant come accadde per il Nuovo Ambrosiano, ripulire gli attivi, e ricederla al mercato. Invece si scelse di salvare nel tempo la Fondazione cara al Pd, sia pur facendole cedere il controllo della banca, e impiccare quest’ultima, priva di redditività com’era, a pagare i pingui interessi dei Monti bonds concessile. Dopo 10 miliardi di successivi aumenti di capitale bruciati, e malgrado il volenteroso nuovo management , ora siamo ancora a quel che andava fatto allora.

Domani dovremmo conoscere gli interventi deliberati su MPS prima del risultato degli stress test, previsto in tarda serata. MPS dovrebbe cedere circa 27 miliardi di NPL lordi cioè 9,7-10 miliardi netti, dando una bella botta al mote complessivo che ha in pancia. E ricapitalizzarsi, seguendo le procedure e le regole previste per una banca in difficoltà sì, ma ancora solubile.

La richiesta italiana di cedere questi crediti deteriorati al valore di libro, che stante il tasso di copertura attuale a Siena è di 37 centesimi per 100 di nominale, non è passata perché viola la regole. Se il prezzo sarà intorno a 30 centesimi, allora l’aumento di capitale necessario a MPS sarebbe nell’ordine dei 4-6 miliardi: 2 circa per fronteggiare le minusvalenze sul prezzo di cessione dei NPL, e il resto dovuto per portarsi avanti nell’innalzamento della copertura dei crediti deteriorati che i regolatori europei chiedono di innalzare al 55% del valore nominale al 2018, e per ammortizzare gli schemi interni della banca, di valutazione del passaggio da incagli a sofferenze. Un aumento di capitale di mercato coordinato da Mediobanca e JPMorgan (per il quale si sono fatti i nomi di primarie banche mondiali interessate, vedere per credere) con garanzia pubblica per l’inoptato che potrebbe non scattare se davvero le grandi banche estere partecipano, visto che altrimenti metà dell’inoptato dovrebbe essere coperta da conversione di una parte delle subordinate in equity, e l’altra metà dell’inoptato eventualmente assunta dallo Stato: poiché a queste condizioni i regolatori europei non avrebbero nulla da dire. Mentre i 10 miliardi di NPL verrebbero assunti in tre modalità diverse secondo coefficiente dio rischio:  la parte junior più rischiosa si dice dagli stessi maggiori azionisti di MPS per quota parte detenuta, la parte mezzanine da Atlante, che ha in pancia ancora 1,7 miliardi dopo aver assunto Popolare Vicenza e Veneto Banca (ma non potrebbe impiegarli tutti, visto che qualcosa deve restarle in pancia per sopperire alle esigenze “venete”), e la parte senior con GACS di Stato che però, avendo tempi lunghi per i rating necessari, ha senso nell’immediato solo grazie a un maxiprestito ponte di 6-7 miliardi garantito ancora una volta da JpMorgan, di cui MPS era uno dei maggiori clienti europei.

Parliamoci chiaro. E’ solo il primo passo. Siena deve trovare poi casa ed essere acquisita da altri, vediamo se da Ubi Banca o da chi. Unicredit a propria volta ha bisogno di un rafforzamento del capitale, vedremo se e di quanto inferiore a 8-9 miliardi. Le 4 banche risolte a novembre sono state un altro secchio di ghiaccio per l’ottimismo dei regolatori italiani, visto che al Fondo mutualistico interbancario la loro messa in sicurezza è costata 1,7 miliardi mentre le proposte per rilevarne le good banks avanzate da Apollo e Lone Star non arrivano a 500 milioni. E questo significa che abbiamo impegnato per i prossimi tre anni a venire l’intero ammontare del fondo interbancario, per fargli intanto incassare una bella perdita che andrà subuito ricostituita. E se guardiamo più avanti, la richiesta di BCE di far salire entro il 2018 al 55% la copertura del monte NPL del sistema bancario italiano significa, per le sole banche quotate, altri 27 miliardi di maggior capitale necessario.

Questi i numeri.  I derivati in pancia a Deutsche Bank non c’entrano nulla. Era chiaro sin dal 2011-2012 che sarebbe esploso il monte crediti deteriorati, in un paese tanto bancocentrico ed esposto nel tempo alla perdita del 25% di produzione industriale. Ma allora i governi Monti e Letta non vollero percorrere la strada di Spagna e Irlanda, per non sottoporsi a programmi di sostegno europeo “vincolati”: si è preferito ripetere a vuoto che il nostro sistema era solido, dando del matto e del traditore dell’Italia a chiuque – tra cui chi qui scrive – numeri alla mano ha argomentato l’opposto. Quando ogni inchiesta penale aperta sulle 4 banche risolte a novembre, sulla Vicenza e su Veneto Banca, comprova massicce prassi di credito relazionale, prestiti a soci e amministratori senza garanzie, patrimoni di vigilanza autofinanziati per anni vendendo proprie azioni e obbligazioni a chi voleva mutui e prestiti. Nel silenzio dei regolatori. E’ su queste gravissime, estese e purtroppo a lungo tollerate prassi, che i sostenitori del “sistema solido” e “tutta colpa dei tedeschi” vogliono stendere un silenzio tombale. La “tutela dei risparmiatori” nasconde invece uno scudo totale di impunità per i regolatori.

Il governo ha avuto il merito di azzeccare la riforma delle popolari, a febbraio 2015, e i regolatori il torto di aver ritardato e diluito quella delle BCC. Sono stati opportuni gli interventi per accelerare i tempi del recupero crediti nella giustizia civile (hanno un alto impatto nel determinare il basso valore che il mercato riconosce ai NPL italiani), e utile ma assolutamente non risolutrice la GACS, la garanzia di Stato sulle tranche senior delle cartolarizzazioni bancarie (che come si vede da sola NON evita ricapitalizzazioni alle banche, in caso di inadeguato tasso di copertura dei NPL) .  Ma in un mondo in cui la politica chiede alla Bce tassi negativi a oltranza per diminuire l’onere dei debiti pubblici – e quello italiano ancora cresce – per le banche non c’è margine di intermediazione, e in cui la crescita attesa del PIl intanto frena, per il credito deteriorato bancario italiano è come se si stesse di nuovo riscaldando il liquido refrigerante che impedisce la fissione alle sbarre di uranio di una centrale atomica. Gli incagli continueranno a diventare sofferenze.

Era meglio pensarci nel 2011, ed è meglio oggi capire che occorrono grandi fusioni di banche piccole, e non chiedere alle banche sane di continuare a svenarsi per quelle scassate. Un’ultima cosa: è una pagina nera aver piegato la mano alle casse previdenziali private, per estorcere loro mezzo miliardo da dare ad Atlante per rilevare rischiosamente i crediti deteriorati delle banche. Le casse previdenziali devono investire in maniera cauta. Invece prima due anni  fa questo governo ha brutalmente alzato loro le tasse, e oggi ha detto loro “ve le abbassiamo, se ci date il vostro patrimonio”. Viva la cassa dei dottori commercialisti, la prima che ha avuto il coraggio e la coerenza di opporre un secco no alla richiesta del governo, un buon esempio seguito da altre, mentre l’associazione di settore ha vergognosamente issato bandiera bianca. Atlante1 sarà di nuovo vuota di capitali, dopo MPS. E vedremo quanti miliardi raccoglierà davvero Atlante2, sommando i denari chiesti dalò governo a Generali, Unipol, PosteVita e alle casse previdenziali.  Le reiterate dichiarazioni di voler addirittura tramite Atlante riprezzare l’intero stock nazionale di azioni, obbligazioni e NPL bancari oggi appare anche al più strenuo ripetitore di slogan come una velleità insostenibile: ma c’è stato chi ha avuto l’onestà intellettuale di dirlo sin dal primo giorno. Ma è stato trattato come un paria, prima che i fatti ammutolissero i propagandisti.

Speriamo dunque che serva la marcia indietro che si profila domani – vedere per credere, naturalmente. Restiamo sin qui inchiodati a immaginare soluzioni di retroguardia per questa o quella piaga, invece di imboccare con decisione le scelte necessarie per una profonda trasformazione dell’intero sistema bancario: non solo della numerosità eccessiva dei suoi attori e del peso insostenibile dei suoi costi fissi, ma del loro modello gestionale, industriale e commerciale. E’ a questo che si dovrebbe pensare.  Inutile continuare ad almanaccare su alternative alle ricapitalizzazioni di mercato, fusioni e rispetto delle regole europee. A meno di non pensare che l’euro l’anno prossimo salti insieme all’unione bancaria: un obiettivo che – da quanto letto in questi mesi – ormai non sembra più perseguito esplicitamente solo da un numero crescente di politici italiani, ma contemplato da estesi ambienti delle stesse autorità di regolazione italiane. Visto che la contestazione frontale che esse alimentano non è solo alla BRRD e al burden sharing: è ai criteri degli stress test, a quelli per valutare gli asset pesati per i rischi, alle ispezioni di vigilanza BCE e a come si comunicano i loro risultati, ai crescenti coefficienti di capitale previsti dagli accordi di Basilea, e via continuando immaginando un sistema bancario italiano che si automisura su parametri solo nostrani, respingendo tutti quelli comuni e fondamentali per i mercati…

19
Lug
2016

La Brexit potrebbe non essere un fenomeno “sui generis” – di Alessandro D’Amico

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Alessandro D’Amico.

L’Unione Europea continuerà a fallire finché la sua classe dirigente non smetterà di vivere nel mondo dei “mi piacerebbe che”, tipico di coloro che non solo sperano, ma si aspettano, che la realtà aderisca ai loro canoni morali.
Il problema dell’Unione Europea non è in primis quello della collusione tra burocrazia e lobby, che genera barriere (tariffarie e non), bensì il problema dell’attitudine culturale che la sua élite ha assunto dalla fine della guerra fredda in poi, caratterizzandone le politiche interne, estere e finanziarie. Read More

13
Lug
2016

Se non dite con cosa la sostituite, con che aggi e regole operative, abolire Equitalia è pura demagogia

Abolire Equitalia è diventata una grande gara nazionale. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, a maggio aveva detto che Equitalia non sarebbe arrivata al 2018.  Lunedì ha stretto i tempi, ha precisato che non arriverà a fine anno.  Finora, ad averlo proposto negli anni erano state la Lega e il Movimento 5 stelle, ma sinora la maggioranza aveva in più occasioni politiche e parlamentari opposto un muro impenetrabile. Tanto che oggi sono proprio loro ad accusare Renzi di demagogia, cosa però che automaticamente dovrebbe inficiare le loro stesse proposte.

Il rischio della demagogia esiste eccome. Il punto infatti non è abolire Equitalia come se fosse il braccio operativo della riscossione fiscale ad autodeterminare i propri aggi sul riscosso, i trattamenti ai suoi 8mila dipendenti, le modalità di pignoramento e riscossione su ogni singolo cespite di reddito, rispetto al quale l’amministrazione tributaria emette un titolo esecutivo all’incasso di gettito.

Non è così: Equitalia agisce, su ognuno di questi singoli punti, secondo nome stabilite da governo, parlamento e amministrazione tributaria.  Non ha minimamente l’autonomia operativa che l’Agenzia delle Entrate si è presa di fatto negli anni, diventando consulente primario della stessa stesura dei testi di legge tributari, e comunque titolare di un enorme potere attuativo e interpretativo delle modalità di adempimento dei doveri fiscali, attraverso le sue circolari che hanno finito per diventare fonti primarie di diritto. Con tanti saluti all’articolo 23 della Costituzione, e alla riserva di legge assoluta disposta per imporre tasse ai cittadini.

Ergo basterebbe cambiare le norme generali che disciplinano l’operatività di Equitalia, per avere un fisco meno oppressivo nella sua riscossione, cioè meno incapace di giudicare caso per caso la singola capacità di pagamento per reddito venuto meno di persone fisiche e giuridiche, rispetto al petitum imperativo dello Stato.  Ma la politica è fatta così: accusa ogni giorno gli elettori di essere facili prede di demagogia e populismo, ma è la prima ad assecondare entrambe le tendenze, per tornaconto di consensi .

Cerchiamo allora di ricapitolare tre punti. Che cos’è Equitalia oggi. Che cosa raccoglie, e per conto di chi. E cosa può avvenire a seconda di come, abolitala per darsene il merito, sarà organizzato il soggetto che le subentra. Perché una cosa è sicura, lo Stato non può fare a meno di un apparato  volto alla riscossione.

Oggi Equitalia è una società pubblica, per il 51% dell’Agenzia delle Entrate e per il 49% dell’INPS.  Non c’è un precedente passato glorioso della riscossione fiscale da rimpiangere. La riforma da cui due anni dopo nacque Equitalia la vollero Berlusconi e Tremonti, nel 2005, ponendo fine a decenni in cui la riscossione per ogni singolo livello provinciale e subprovinciale era demandata dallo Stato a società di emanazione bancaria, che trattenevano aggi a doppia cifra percentuale sul raccolto. Con prassi spessissimo scandalosamente discrezionali nel mancato recupero su questa o quella classe di contribuenti, che alla banca stavano a cuore in quanto soci, clienti e prenditori. La Sicilia ha continuato a fare eccezione e ha una propria società di riscossione, e solo grazie alla recente guida di Antonio Fiumefreddo – contrastata dall’attuale giunta regionale – ha per la prima volta in questi mesi iniziato a esercitare la riscossione verso enti regionali, Comuni e politici eletti: prima e per decenni orrendamente esentati dal pagare cartelle erariali!

Nel 2015, Equitalia ha riscosso 8,24 miliardi di euro, con un incremento dell’11,2% rispetto al 2014, migliorando per la prima volta i 7,5 miliardi dell’anno 2011, quando scoppiò l’eurocrisi e per suo effetto rientrammo in recessione. Va ricordato che Equitalia non agisce solo per conto di AgEntrate e Inps, ma anche per migliaia di enti creditori, erariali, enti locali, albi professionali, e istituti di previdenza. Il 51,6% degli 8,24 miliardi è andato ad AgEntrate, il 28,8% all’Inps, il 6,7% ai Comuni, analoga percentuali ad altri enti pubblici tra cui le Camere di Commercio, il 5% ad altri Enti erariali tra i quali al primo posto le Regioni, l’1,4%all’Inail,

Una volta abolitala, come si pensa di sostituire Equitalia? Non lo sappiamo. A seconda della soluzione scelta, può o meno mutare l’aggio riconosciutole sulle somme iscritte a ruolo, oggi sceso a circa il 6% dall’8% che era alla sua nascita, per successivi interventi di legge: una somma comunque che fa a pugni con l’articolo 107 del Trattato Ue sugli aiuti di Stato anche secondo alcune pronunce di Commissioni Tributarie provinciali, visto che in realtà Equitalia non anticipa nulla agli enti per cui agisce, né l’aggio appare giustificato davvero in base all’evoluzione dei costi operativi per pignoramenti, fermi giudiziari e via proseguendo. Inoltre, esiste il problema del contratto degli attuali quasi 8mila dipendenti di Equitalia: per evoluzione dalla vecchia delega a società creditizie, è ancor oggi è ancor oggi un contratto bancario. Comunque diverso da quello della PA.

La prima ipotesi è di incardinare la nuova Equitalia – chiamatela come volete, ma per favore non Fisco Amico o simili altre melensaggini stucchevoli – presso l’Agenzia delle Entrate. La seconda presso il Mef. La terza sotto la presidenza del Consiglio. In tutti e tre i casi, il problema dell’aggio e dei contratti può avere soluzioni diverse. Ma non agevoli. La prima ipotesi è ovviamente sostenuta da AgEntrate. La seconda e la terza da chi si batte – con ottimi argomenti, che condivido – a favore di una netta separazione tra l’attività tributaria deputata ad accertamenti e controlli, e quella invece incaricata della riscossione. Bisognerà vedere poi se resta la facoltà, oggi praticata da un numero crescente di Enti Locali, di auto organizzarsi con proprie società di riscossione in house. E’ la linea seguita da un numero crescente di sindaci “amici” dei contribuenti (oltre 2mila sindaci l’hanno annunciato, che è cosa diversa dall’avere messo in piedi strutture operative..), ma le risorse umane e organizzative necessarie per una riscossione efficace a fronte di bassi ratei di pagamento storici appaiono non alla portata se non di Comuni in attivo di bilancio e molto efficienti: non proprio la regole, nella scassatissima fotografia degli Enti Locali italiani, soprattutto al Sud.

Il punto di fondo è però un altro. In questi anni, faticosamente e in ritardo, la politica ha capito che occorreva aumentare le rateazioni a favore di famiglie e soggetti d’impresa colpiti dalla crisi, evitare il pignoramento della prima casa in situazioni di conclamata emergenza reddituale, e via proseguendo per non infittire la sconfinata lista delle vittime della crisi. Ma siamo ancora lontani da un fisco davvero capace di valutare oggettivamente le condizioni reali di possibile pagamento del contribuente colpito da titoli esecutivi.

Diciamo la verità: perché l’abolizione di Equitalia non sia una presa per i fondelli, dovrebbe avvenire contestualmente a una riforma fiscale generale che abbassi le aliquote medie e mediane, il total tax rate alle imprese, e la pianti una volta per tutte di alzare prelievi sia diretti, sia indiretti sia patrimoniali com’è avvenuto in tutti questi ultimi anni.

12
Lug
2016

Pensioni: le loffie ragioni che esentano dipendenti Regione Sicilia da legge Fornero

Un qualunque lavoratore dipendente italiano, per maturare la pensione di vecchiaia, in questo 2016 deve avere almeno 66 anni e 7 mesi di età anagrafica (per Poste e Ferrovie un anno in meno), e non meno di 20 anni di anzianità contributiva. Per la pensione di anzianità, servono invece almeno 42 anni e 6 mesi di versamenti.  Sono gli effetti della riforma Fornero, adottata dal governo Monti per contenere gli squilibri del bilancio previdenziale, per accelerare nel tempo l’unificazione dei trattamenti di anzianità e vecchiaia, nonché per agganciare automaticamente i requisiti stessi allo sviluppo nel tempo dell’attesa media di vita. Ma se questo è lo stato delle cose, non lo è mica per tutti.

La Regione Sicilia, nel maggio dell’anno scorso, ha disposto prepensionamenti dei suoi dipendenti –  un migliaio, i beneficiari – come se la legge Fornero non fosse mai esistita. Tutti coloro che avrebbero maturato entro il 2020 i requisiti previdenziali hanno potuto presentare entro luglio scorso domanda di prepensionamento. Ma attenzione: stiamo parlando di tutti coloro che al 2020 avrebbero maturato la pensione non secondo i dettami della legge Fornero, ma secondo i criteri precedenti, molto meno rigorosi. Per capirci, in questo 2016 senza legge Fornero si andrebbe in pensione di vecchiaia con 12 mesi in meno di età anagrafica, mentre per la pensione di anzianità servirebbero la bellezza di 7 anni e mezzo di contributi versati in meno, basterebbero 35 anni e non 42 anni e mezzo.  E a questi prepensionati d’eccezione la Regione Sicilia ha riservato per di più solo una mini decurtazione, comunque non tale da far scendere l’assegno pensionistico sotto il 90% della media degli ultimi 5 anni di retribuzione per chi avrebbe maturato i requisiti pre Fornero entro il 2017, e sotto l’85% nel caso di maturazione tra il 2017 e il 2020.

Come si vede, tre eccezioni in una: prepensionamenti che ai normali lavoratori dipendenti italiani sono oggi vietati; prepensionamenti concessi subito anche se i requisiti sarebbero stati maturati entro i 5 anni successivi; prepensionamenti utilizzando come criterio per l’assegno quello pienamente retributivo, e non contributivo neanche per quota parte.

Perché tollerare tutto questo? Qual è la base giuridica di una simile gigantesca asimmetria di diritti e garanzie? E’ forse la legge Fornero, ad avere graziato la Sicilia, ponendola fuori dall’ordinamento italiano? No, non è così. Al contrario, la Regione Sicilia rappresenta un mondo a parte previdenziale insieme ad alcune altre particolari realtà istituzionali italiane, ma per ragioni che con la legge Fornero non c’entrano nulla.  A non comunicare i propri dati previdenziali all’Anagrafe Previdenziale Nazionale, come sono tenuti a fare tutti i soggetti gestori di previdenza obbligatoria secondo la legge 243 del 2004, sono gli organi costituzionali (Camera e Senato, per dipendenti e vitalizi dei parlamentari; Corte Costituzionale, per dipendenti e  giudici; il Quirinale, per il personale) più le Regioni per i vitalizi di favore ai politici ex consiglieri. E infine, appunto, la Regione Sicilia, l’unica regione a non comunicare i dati della previdenza dei propri dipendenti. Al 2014 si stimava fossero 16.377 le pensioni in essere degli ex dipendenti siciliani, su un totale di 30mila circa di tutti i soggetti con gestioni privilegiate sopra elencati.

Ma perché solo la Sicilia, visto che intuitivamente verrebbe da pensare che forse il privilegio dovrebbe riguardare allo stesso modo almeno tutte le Regioni a Statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano? Perché viviamo in un paese di Arlecchino. Anche le Regioni a Statuto speciale differiscono tra loro. L’autonomia speciale rafforzata concessa alla Sicilia sin dall’origine è più “speciale” delle altre.  In realtà, non esiste alcun testo di legge che consenta apertamente l’adozione di criteri previdenziali per i propri dipendenti diversi da quelli nazionali. Tanto è vero che le altre Regioni a Statuto speciale si sono uniformate per i propri lavoratori alla legge Fornero. Trento e Bolzano possono proporre all’Inps l’integrazione di alcune centinaia di euro al mese per gli assegni dei propri dipendenti, che versano regolarmente all’istituto che svolge la funzione di pubblico ufficiale pagatore. Ma la Sicilia no, perché grazie alla propria interpretazione dell’autonomia rafforzata si è data una propria distinta gestione previdenziale, e ha fatto di tale gestione separata il pilastro di requisiti previdenziali diversi da quelli nazionali, allegramente fregandosene dell’equilibrio necessario tra contributi raccolti e assegni in pagamento. Tanto che i poco meno di 700 milioni di euro della spesa previdenziale per i propri dipendenti nel 2015 avviene a fronte di uno squilibrio cumulato che alcuni tecnici stimano nell’ordine dei 9 miliardi di euro.

Direte voi: ma se questi sono i flebili presupposti di legge, possibile che lo Stato non abbia mai avuto a che ridire? Giusto. Tre anni fa la sezione regionale della Corte dei Conti attaccò frontalmente la gestione previdenziale siciliana, sempre più lontana da criteri di equilibrio gestionale e finanziario. Ma la così finì lì. Il ministro del Lavoro di allora e quelli sin qui succedutisi hanno fatto finta di non vedere.  Del resto, il testo unico delle leggi previdenziali era al 75% pronto 5 ministri fa, eppure a nessuno è importato portare a conclusione l’opera.

Ecco dunque spiegate le vere ragioni del privilegio dei dipendenti della Regione Sicilia. Primo: poiché gli organici sono già ipersaturi  (58mila dipendenti con contratti regionali in senso ampio comprendendo gli enti, e 18mila dipendenti diretti rispetto ai 3200 della Lombardia, che però ha il doppio degli abitanti), solo prepensionando con criteri allegri si liberano posti per nuovi assunti, di cui la politica è sempre desiderosa. Secondo: perché sia i nuovi assunti sia i prepensionati sono voti da coltivare. Al resto degli italiani non resta che maledire il caso, che decide dove ciascuno nasce.  Perché sinora, a raddrizzare in termini di legge questa ennesima schifezza consumata al riparo della “santa” autonomia siciliana, non ci pensa nessuno.