26
Ago
2016

Come reagirete se ai vostri figli toccherà un insegnante appena bocciato al concorsone?

Come reagirete da genitori, quando a settembre magari ai vostri figli toccheranno insegnanti appena bocciati al concorsone in via di svolgimento? Farete impugnativa? No, non potete. Questo paradosso non solo avverrà, ma è la legge a consentirlo. E l’unica attenuante che si può trovare alla norma, è che nemmeno Ercole sarebbe riuscito nella gigantesca impresa di sanare di botto l’oceano di precari della scuola ereditato dal passato.

I primi dati attendibili ormai lo confermano. Per ottemperare alle sentenze della Corte di Giustizia Europea, contro l’abuso vergognoso perpetrato per decenni in Italia a danno di centinaia di migliaia di precari nella scuola, nemmeno la pur ingente leva di massa decisa dal governo Renzi sarà in grado di sanare la situazione. E non si eviteranno alla scuola italiana nuovi e dolorosi paradossi. Purtroppo, i precari – insegnanti non di ruolo ma chiamati a esercitarne le funzioni – resteranno, molti meno di prima ma comunque decine e decine di migliaia. Ma il paradosso nuovo è tragicomico: perché alle cattedre saranno giocoforza chiamati proprio magari molti di coloro che, all’attuale concorsone, non hanno superato le prove.

Che dei precari comunque restassero, lo si sapeva. Gli 87 mila messi in ruolo dopo la riforma Giannini hanno riguardato soprattutto la cosiddetta prima fascia delle graduatorie a esaurimento, mentre la seconda era riservata agli abilitati e la terza ai non abilitati, a cui si sommavano inoltre le graduatorie provinciali per le supplenze. Il concorsone subito bandito e in corso riguarda invece la messa in ruolo per altre 63 mila cattedre nel triennio che comincia a settembre, ed è soprattutto per gli abilitati GAE di seconda fascia. Ma già qui il meccanismo si è inceppato. Rivelando in maniera impietosa ciò che invano alcuni hanno tentato di ricordare mentre la riforma era discussa, e cioè che i titoli abilitanti di molte migliaia di precari erano in realtà deboli e talvolta debolissimi, e che non avrebbero retto a una cernita seria.

Infatti è quel che clamorosamente sta avvenendo. Dobbiamo alle puntigliose e approfondite radiografie svolte da Tuttoscuola una serie di dati illuminanti. E terribili. Dei 175 mila circa – nota bene: tutti abilitati all’insegnamento, per il cervellotico e obbrobrioso sistema praticato dai governi italiani per decenni – partecipanti teorici per classi di materie e gradi d’insegnamento nelle 825 commissioni d’esame, ne sono stati esaminati sinora oltre 70mila per le prove scritte. Ma il 55% di loro non è stato ammesso agli orali. Una percentuale che nei respinti alimenta polemiche sulla qualità delle prove sostenute, ma che in realtà certifica le ragioni minoritarie sostenute da chi ha tentato da una parte di riconoscere che il precariato doveva cessare, ma che dall’altra la messa in ruolo non poteva avvenire senza una selezione dura della qualità dei docenti. Purtroppo, se per decenni i governi ti tengono sotto il ricatto delle chiamate a tempo, giocoforza ciò rappresenta per i precari un potentissimo disincentivo al perfezionamento.

A questo si aggiunge che, delle 825 commissioni di concorso, 315 sono comunque in grave ritardo, e non riusciranno a procedere alla fine dei loro lavori entro il 15 settembre come previsto, cioè in tempo utile per le assegnazioni dell’anno scolastico 2016-17. Sommando l’ulteriore selezione agli orali inevitabilmente prevedibile a questo punto per le 510 commissioni che concluderanno i lavori in tempo utile, con una stima di almeno 10 mila cattedre non assegnate, e altrettante almeno che mancheranno per via delle commissioni in ritardo, la stima attuale è di almeno 20mila cattedre non coperte su 63mila bandite. Con alcune regioni che rischiano molto più di altre, a cominciare dalla Lombardia  che vede sin qui la più bassa percentuale di ammessi agli orali, solo il 30,7%. E un clamoroso allarme rosso che riguarda le scuole primarie e l’infanzia, ben 24 mila posti dei 63mila banditi, ma che sin qui vedono una terrificante percentuale pari solo al 22% di ammessi agli orali dopo gli scritti.

Che cosa avverrà, per evitare che l’anno scolastico resti a cattedre scoperte? Ovvio. Si farà ricorso ai precari. Dove sono ancora attive le graduatorie ad esaurimento i posti previsti e non assegnati saranno assegnati agli iscritti in GAE prima fascia, dove siano esaurite si farà invece ricorso a supplenze annue, attingendo alle graduatorie di fascia inferiore. E’ altrettanto ovvio che tra i precari abilitati di seconda fascia finirà in cattedra magari proprio chi è stato bocciato agli scritti del concorsone in atto. Come dicevano all’inizio: preparatevi, perché non potrete protestare se a isnegnare ai vostri figli c’è chi non ha suiperato le prove scritte o è stato respinto agli orali.

E ancora una volta non avremo spezzato la diabolica macchina del ricatto: vaglielo a spiegare, a chi non ha superato il concorso, che ha senso un simile meccanismo di selezione se poi lo Stato è costretto comunque, per porre rimedio all’oceanico errore ereditato, ad affidarti comunque una cattedra ma dicendoti che vale solo per un anno. Passeranno almeno tre anni così, prima che si possa risolvere questo nuovo guaio. Che comunque insegna già con lampante evidenza tre cose.

La prima riguarda il passato. I ministri che al MIUR per decenni hanno tollerato il precariato di massa, e i tanti magistrati componenti delle Alte Corti italiane che nel tempo hanno confermato quel sistema, dovrebbero tutti sentire il dovere di partecipare a un grande rituale pubblico in cui offrire le proprie scuse al paese: come si usa in Giappone, simbolico quanto volete, ma necessario. Non avverrà, ma è un peccato. Non solo perché anche di simboli si nutre la vita pubblica. Soprattutto perché la qualità della scuola è decaduta – sia pure a macchia di leopardo, come si vede dai testi PISA e da quelli INVALSI – per effetto potente di quell’orrendo meccanismo.

La seconda riguarda il presente. E’ molto difficile, ce ne rendiamo conto, ma al ministero dovrebbero ora con urgenza tentare di escogitare un meccanismo giuridicamente credibile, che eviti sia l’affidamento d’insegnamenti a chi non è palesemente all’altezza, sia il proliferare di impugnative.

La terza riguarda il futuro. Mai più concorsoni per l’insegnamento fondati su graduatorie i cui titoli si accumulavano innanzitutto per anzianità. Mai più, per favore. Perché queste percentuali di respinti alle prove scritte sono un segnale di pericolo per il futuro dell’Italia molto ma molto più grave persino di qualche zerovirgola di PIL di deficit pubblico in più.

25
Ago
2016

Sismi e dissesti: i numeri per non continuare a morire affidandosi ai tarocchi

Quando non si tratta di tsunami o di frane, quasi sempre non sono i terremoti a uccidere gli uomini, ma le strutture costruite male dall’uomo. Da questa amara constatazione bisogna ripartire ogni volta che un sisma miete vittime nel nostro paese. Cioè ogni pochissimi anni, visto che siamo un paese interessato da forti rischi sismici, regolarmente studiati e censiti dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. E ogni 6-7 anni registriamo un evento di magnitudo fino a 6. La zona del Lazio, Umbria e Marche colpita ieri dal terremoto di magnitudo 6 rientra nella zona 1 della classificazione sismica, la più alta. Eppure, a ogni schiera di morti è come se la lezione non l’avessimo mai imparata.

Come ha detto ieri il sismologo Massimo Cocco dell’INVG, in una zona di rischio 1 “tutti gli edifici nuovi devono essere costruiti seguendo regole adeguate, e quelli più vecchi devono essere messi in sicurezza”. In questo paese abbiamo perseguito penalmente i sismologi per non aver saputo predire il terremoto dell’Aquila in un processo che fatto ridere il mondo, ma alle cose serie documentate da decenni dalla comunità scientifica italiana no, continuiamo a non dare retta. O meglio: i criteri antisismici per gli edifici nuovi esistono per legge dal 2009, mentre la classificazione delle classi di rischio per gli edifici pre-esistenti cioè il 99%, elaborata da un’apposita commissione, si è persa al momento nel passaggio di consegne tra l’ex ministro Lupi e quello attuale.

Oltre al dolore per le vittime e alla solidarietà per tutti i colpiti, e al massimo del sostegno a tutte le forze dello Stato e del volontariato che ieri si sono adoperate da subito nell’area a cavallo tra la provincia di Rieti e di Ascoli Piceno, ieri la prima reazione è stata appunto quella dell’insofferenza, nel pensare che paesi del mondo interessati da analoghi rischi tellurici da decenni hanno messo in atto una vera rivoluzione nell’edilizia, mentre da noi ci si continua ad affidare al fato.

Facciamo un solo esempio, di quanto amara possa essere la conseguenza del nostro incredibile atteggiamento nazionale. Tra il 14 e il 16 aprile scorso la prefettura di Kumamoto in Giappone è stata colpita da un terrificante sciame di scosse telluriche, oltre mille, con le due punte massime a 6,2 e 7 gradi di magnitudo. La prima delle due è del tutto paragonabile a quella che ieri ha devastato Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Una magnitudo 6 equivale, nella scala Richter, all’energia sprigionata dall’esplosione entro 100 km di un milione di tonnellate di tritolo, e per capirci la bomba di Hiroshima equivaleva solo a 13mila tonnellate. Una magnitudo 7, poiché le scale sono logaritmiche, equivale invece all’esplosione di 31,6 milioni di tonnellate. Di scosse di magnitudo 6, come quella che ha colpito il centro Italia ieri, se ne registrano in media 120 l’anno sul nostro pianeta. Di magnitudo 7, solo 18.  L’area interessata dal sisma giapponese ad aprile ha oltre 2 milioni di abitanti, di cui 800mila nel solo capoluogo Kumamoto. Eppure, malgrado l’alta densità antropica e un sisma tanto più potente di quello che ha colpito l’Italia ieri, le vittime giapponesi furono solo 49. Mentre da noi il bilancio è ancora purtroppo non definitivo, ed è oggi salito ad almeno 240 vittime: in un’area in cui i residenti complessivi nei diversi piccoli Comuni colpiti sono poche decine di migliaia, non milioni come in Giappone.

Eppure ieri è bastato dirlo, che dovremmo fare anche noi col nostro patrimonio edilizio quel che da decenni fanno Giappone e California, per scatenare un’ondata di riprovazione. Poi rintuzzata dal parere accreditato di geologi e sismologi, che naturalmente hanno battuto sullo stesso punto. Ma, in generale, la convinzione diffusa resta che no, noi non possiamo credere di poter fare come altri paesi, perché noi abbiamo centri storici e piccoli paesi che sono il frutto di un’evoluzione bimillenaria, mica possiamo radere al suolo e ricostruire come fanno gli altri.

E’ una convinzione sbagliata. L’alternativa irrazionale è tra radere al suolo e morire sfidando il fato. Quella razionale è tra il mettere finalmente mano a un enorme piano pluriennale di messa in sicurezza del patrimonio esistente – sì, anche quello storico, di edifici che hanno uno, due, o magari tre-quattro secoli – e di radicale ottemperanza ai criteri antisismici per le costruzioni nuove. In caso contrario, ricordarsi bene che la colpa delle vittime è nostra.

Anche perché poi non è affatto vero che a crollare e a far vittime siano solo gli edifici in pietra grezza, legno e vecchia calce e cartongesso dei paesini collinari e montani. Nei terremoti italiani ogni volta se ne scendono a pezzi i palazzi dello Stato edificati pochi anni, o al massimo 2-3 decenni fa. Ricordate la strage di San Giuliano di Puglia, il 31 ottobre 2002, quando sotto i mattoni della scuola completamente distrutta da una scossa di magnitudo 6 morirono 27 bambini e una maestra? Non vi è tornato in mente, osservando ieri le immagini devastate dell’ospedale di Amatrice, inagibile per le scosse malgrado risalga alla fine degli anni Settanta? E malgrado sia stato destinatario di fondi anche per la messa in sicurezza dopo il sisma dell’Aquila del 2009, fondi naturalmente non spesi e dunque senza realizzare le opere di consolidamento previste? E della scuola rimessa in sicurezza e reinaugurata nel 2012 ma ugualmente crollata, ne vogliamo parlare?

La strage di San Giuliano ha visto condannati fino alla Cassazione i responsabili: non la natura aspra e matrigna coi suoi terremoti, ma i costruttori e progettisti, il tecnico comunale e il sindaco dell’epoca, che di quella scuola non a norma portavano la colpa. Da allora, c’è stata una radiografia nazionale dell’intero sistema di edifici pubblici sanitari, svolta dalla Commissione che ha consegnato i lavori a febbraio 2016 (vedi qui da pag. 30), da cui abbiamo appreso che il 75% degli oltre mille presidi sanitari italiani corre il serio rischio di crollare, in presenza di scosse di magnitudo 6 come quella che ieri ha preteso nuove vittime. L’ordine dei geologi a ogni inizio anno scolastico ricorda che nel nostro paese sono 24mila le scuole ad alto rischio sismico, e 7mila a rischio idrogeologico. Ma nell’osservatorio per l’edilizia scolastica, che esiste da 20 anni, i geologi non ci sono.

L’ordine di grandezza dei danni patiti dall’Italia per eventi sismici e idrogeologici dal dopoguerra a oggi – sisma di ieri escluso, ovviamente – è di 250 miliardi di euro, stimato dall’ANCE (4 anni fa, per questo va arrotondato). Solo dal Belice a oggi lo Stato direttamente ha speso circa la metà, ma bisogna aggiungere le spese dei privati. Con oltre 4500 vittime se solo ci limitiamo agli ultimi 40 anni, dal terremoto del Friuli a quello dell’Irpinia, fino all’Aquila nel 2009 e all’Emilia nel 2012.

E’ verissimo. Per lo Stato la messa in sicurezza di decine di migliaia di propri edifici comporterebbe costi elevati. Molto più elevati ancora i costi poi per l’intervento sul patrimonio immobiliare privato, intervento che dovrebbe essere incentivato da potentissimi sgravi fiscali. Interventi che dovrebbero essere realizzati anche evitando l’azzeramento del valore in portafoglio alle famiglie, e da una politica ossessivamente volta all’assicurazione degli immobili contro il rischio sismico e idrogeologico, assicurazione non obbligatoria ma fortemente incentivata fiscalmente, visto che farebbe risalire il valore di un immobile “storico” certificato come ad alto rischio sismico, finché i privati non realizzassero i lavori di messa in sicurezza (anch’essi fiscalmente da super-incentivare) .

Diciamo che, come ordine di grandezza, secondo ingegneri e geologi siamo nell’ordine di 80-90 miliardi di euro, per un programma ventennale da 4-5 miliardi di euro l’anno. Ma quando si ha alle spalle un bilancio di sangue e finanziario così disastroso per non averlo fatto, continuare a non farlo è da imbecilli. E se abbiamo dato di colpo 10 miliardi per il bonus 80 euro, interrogarsi per favore su cosa sia più urgente, prioritario ed economicamente efficiente. Oltretutto, sommando la dorsale appenninica, la sua propaggine nel nord della Puglia e l’intera Calabria fino a inglobare Messina (dove nel 1908 si stima che morirono oltre 80mila persone) stiamo parlando complessivamente di non oltre un sesto della popolazione italiana,mentre  residenti nelle zone ad altissimo rischio sono solo 3 milioni (vedi ripartizione qui della popolazione per fasce di rischio, effettuata dal centro studi del consiglio nazionale dei geologi). Ci sarebbe anche l’emergenza delle centinaia di migliaia di persone assiepate in abitazioni presso il Vesuvio dove non dovrebbero stare, ma è oggettivamente un problema diverso anche se serissimo.

Nessuno può immaginare che ci vogliano pochi mesi o un paio d’anni. Dev’essere una scelta decennale, da presentare in Europa come una priorità assoluta. E del resto, l’Unione Europea per prima s’inventò nel 2002 il FSUE, il fondo di solidarietà contro le calamità naturali, a seguito delle inondazioni che allora avevano colpito il centro Europa (da cui abbiamo attinto più di 3 miliardi).  Non è vero neanche che vi siano veti invalicabili nel Fiscal Compact a queste spese, come subito ieri hanno preso a gridare i militanti dell’entieuropeismo:  nel Fiscal Compact, e nelle sue interpretazioni autentiche date dalla Commissione Europea, sta scritto esplicitamente Stati contraenti possono deviare temporaneamente dall’obiettivo di medio termine di rientro del deficit pubblico al ricorrere di circostanze eccezionali e per eventi imprevedibili (oltre che in caso di grave recessione), e le calamità naturali rientrano esattamente in tale definizione. Coerentemente sta scritto al comma 2 dell’articolo 81 (rivisto) della nostra Costituzione che “il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”.

Ovvio che nell’eccezione al deficit contrattato con l’Europa rientrino le spese per fronteggiare l’emergenza, i salvataggi, la messa in sicurezza dei crolli, l’assistenza agli sfollati, il ripristino delle infrastrutture. Non invece il complesso di interventi decennali per la messa in sicurezza dell’intero patrimonio edilizio nelle aree a maggior rischio sismico del nostro paese. Quella deve essere presentata e contratta in Europa come una vera e propria “grande riforma” strutturale. Perché i suoi costi sono minori di quanto spendiamo altrimenti per far fronte a distruzioni e morti. Noi, come paese più sismico e a rischio idrogeologico della UE (nel primo fattore insieme alla Grecia, sommando i due purtroppo la battiamo), dobbiamo provarci seriamente, a convincere i partner del fatto che non possiamo continuare a morire per colpa nostra. Il punto è crederci, volerlo intensamente, metterlo al centro dell’agenda nazionale. E controllare poi maniacalmente come si effettuano i lavori, visto che le procure continuano a istruire processi sui lavori pubblici da latrocinio dopo i quali le opere crollano comunque. Non commettiamo ancora una volta l’errore di affidarci ai tarocchi. E teniamo bene a mente il disastro del post terremoto Irpinia: negli anni i 36 Comuni inizialmente colpiti divennero 687, l’8% del totale dei Comuni italiani,  e si è finito per spendere 70 miliardi di euro di cui 17 solo a Napoli, confondendo terremoti con assistenzialismo elettorale.

19
Ago
2016

Contratti pubblici: senza produttività, no ai miliardi

Sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego si sta decisamente partendo col piede sbagliato. Sono fermi dal 2010, e dal governo Berlusconi tutti i successivi hanno confermato lo stop delle procedure negoziali e degli scatti economici individuali. Poi ci ha pensato la Corte costituzionale, con la sentenza 178 del luglio 2015, a stabilire che il fermo doveva cessare, e bisognava rinnovare i contratti. Di qui all’ultimo giorno in cui la legge di stabilità 2017 uscirà dal parlamento – e ci sarà il referendum sulla Costituzione di mezzo – è ora aperto lo scontro su quante risorse destinare al rinnovo. Il governo aveva “provocatoriamente” appostato 300 milioni, i sindacati arrivano fino a 7 miliardi, chiesti dalla Cgil.
Così però si parte dal fondo, cioè l’ammontare medio della retribuzione contrattuale lorda aggiuntiva per ciascuno dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici, invece che da ciò che dovrebbe costituire l’inizio. E cioè: a 8 anni dal vecchio rinnovo, nel nuovo contratto si gettano davvero le basi operative per avviare nella PA la rivoluzione della produttività, oppure resta tutto come prima? Ecco, è da qui che bisogna partire. Ma prima di vedere come, sono necessarie alcune premesse.
Primo, parliamo di numeri. Diamo un occhio agli effetti dello stop retributivo pubblico. E’ ovvio, comprensibile e giusto che i sindacati del pubblico impiego considerino molto grave che, fatta 100 la base retributiva pubblica del 2010, essa sia la stessa a giugno 2016, sicché in termini reali i dipendenti pubblici hanno perso potere d’acquisto. Mentre le retribuzioni del settore privato sono passate da 100 del 2010 a 109,9. Bisogna però equilibrare questo dato con un altro, più di lungo periodo. Le retribuzioni pubbliche conoscevano da decenni andamenti nel complesso superiori rispetto a quelle private. Nel solo periodo 2001-2009, cioè prima dello stop, l’incremento complessivo nominale delle retribuzioni di fatto pubbliche è stato secondo l’Istat del 31,9%, a fronte del 27% nell’industria privata e del 23,% nei servizi di mercato. Ma anche nel ventennio precedente era stato così, tranne una frenata del più rapido aumento pubblico a metà anni Novanta. Ergo: ora è giusto che cessi lo stop di questi ultimi 7 anni, ma – anche se ai sindacati del settore pubblico non piace ammetterlo – il suo effetto è stato comunque di riequilibrare il vantaggio dei dipendenti pubblici, per tanto tempo protrattosi in precedenza.
Secondo, occhio alla lezione del passato. Se la Fondazione Bertelsmann due giorni fa ha classificato l’Italia solo al 32° posto su 41 paesi tra i più avanzati per capacità di offrire servizi pubblici efficienti, ciò non dipende certo dal fatto che la spesa pubblica sia bassa visto che supera la metà il PIL, ma consegue alla bassa efficienza della nostra pubblica amministrazione. Ecco perché serve la rivoluzione della produttività nei servizi pubblici, e per questo bisogna mettere produttività e merito al centro dei nuovi contratti pubblici. Quando diciamo al centro significa proprio al centro, come un vero nuovo e rivoluzionario asse portante, non come parte accessoria e trascurabile rispetto al totale degli aumenti retributivi.
Qual è la lezione del passato? Che sinora la rivoluzione della produttività pubblica e del salario di merito nella PA non ha funzionato, malgrado fosse già prevista da tempo dalla legge, proprio perché non era incardinata se non en passant nei vecchi contratti pubblici. Il tentativo del d.lgs. 150/2009, il cosiddetto decreto Brunetta, di identificarne con maggior chiarezza alcuni elementi fondamentali e alcuni criteri, da applicarsi direttamente dalle Amministrazioni statali mentre per gli Enti locali costituivano principi generali cui i singoli ordinamenti delle varie Amministrazioni avrebbero dovuto attenersi, non ha di fatto estirpato la prassi – a cominciare dai dirigenti – di “spalmare” a tutti retribuzione accessoria secondo metriche discrezionali, che non identificano risultati ma premiano collusioni, come ha recentemente anche confermato la Banca d’Italia.
La definizione del ciclo delle performance da individuare come metriche del risultato, della trasparenza del giudizio, e della valorizzazione dell’apporto individuale di ogni dipendente, per tutte le amministrazioni pubbliche era affidato alla CIVIT, la Commissione per la Valutazione dell’Integrità e della Trasparenza nelle Amministrazioni pubbliche, la cui competenza è oggi compresa in quelle dell’ANAC. Ma se quella competenza è finita all’Autorità Anticorruzione, è appunto perché il salario accessorio nella PA ha finito per rappresentare un elemento scandaloso di de-merito collettivo, non di premio al merito individuale. Con casi come Roma, dove il cosiddetto salario accessorio finiva per appresentare anche il 40% della retribuzione ordinaria per tutti i quasi 23mila dipendenti comunali, e Regioni in cui la retribuzione di fatto dei dirigenti è salita a livelli sconosciuti alle amministrazioni centrali.
La lezione di questo fallimento è una: i criteri di individuazione del risultato prefisso a ogni unità della PA, su cui misurare il dirigente – vedremo il decreto attuativo della riforma Madia che la settimana scorsa è stato rinviato.. – e su cui calibrare il premio a tutti coloro che sotto di lui vi cooperano, deve entrare a far parte costituiva e dettagliata dei nuovi contratti pubblici. E aiuta che i comparti della PA siano passati da 12 a 4 – amministrazioni centrali, periferiche, sanita, scuola e ricerca – perché diminuisce la dispersione dei criteri che un tempo erano così frastagliati da impedirne ogni vero controllo.
Due ultime osservazioni. La manovra finanziaria prossima potrà essere di 25 o magari di 30 miliardi come si ipotizza, a seconda di quanto la Ue concederà davvero a Renzi di deficit aggiuntivo. Ma se un terzo o un quarto della manovra andassero ai nuovi contratti pubblici senza rivoluzione della produttività e con aumenti a pioggia. ebbene sarebbe difficile a chiunque spacciarla come fondamentale priorità rispetto a ciò che serve per uscire dalla crescita “a zerovirgola”. Infine: non è vero che i sindacati la pensino tutti allo stesso modo, e che il governo non avrebbe interlocutori al tavolo della produttività pubblica.
Per tutte queste ragioni, dopo l’Atto di indirizzo sui 4 nuovi comparti pubblici che il governo ha impartito all’ARAN per aprire formalmente la stagione dei rinnovi, pensiamo che sarebbe più giusto un nuovo Atto di indirizzo sulla centralità del salario e delle metriche di merito nel contratto pubblico. E solo una vista registrata l’opinione dei sindacati, decidere il quantum degli stanziamenti per i rinnovi. In un paese a produttività stagnante da un decennio, il gap non si supera solo con i contratti di produttività nel privato. E’ il settore pubblico, il primo buon nero della produttività italiana.

13
Ago
2016

La ripresa s’è fermata, non l’errore politico di evitare misure radicali

La tossicchiante ripresa italiana s’è fermata. Perché i guai sono sempre gli stessi, da vent’anni dicono i numeri. E assume forme diverse nel tempo comunque un’analoga risposta della politica: incolpare le circostanze esterne, evitare i necessari rimedi radicali, inventarsi costose strategie per compiacere il voto e prendere a calci la lattina. Il declino italiano continua, rispetto agli altri paesi. E la tanto decantata carica del governo Renzi appare ferma, spenta, incartata.

Le attese sulla prima stima del PIL italiano nel secondo trimestre 2016 sul precedente già scontavano un rallentamento rispetto al primo, che si era chiuso su un +0,3%. Che era comunque positivo, se si pensa che l’andamento del 2015 era stato in continuo décalage: dal +0,4% del primo trimestre, a +0,3%, +0,2% +0.1% nei trimestri successivi. La frenata era attesa, ma ci si aspettava comunque un sia pur risicato segno “più”. Invece la crescita zero ci fa tornare a una ripresa italiana che non riesce proprio a ingranare la marcia. Come già annunciato, del resto, dal dato di giugno della produzione industriale, in contrazione dell1% su base annua.

I fattori esterni sono noti, e spingono alla frenata. Ma non è vero che spieghino tutto. Da diversi trimestri infatti la crisi delle ex economie emergenti e le continue stime al ribasso del commercio mondiale producevano – per un paese esportatore quale siamo – un contributo esterno sempre più modesto e poi negativo, alla crescita del valore aggiunto nazionale trimestrale. Ma il fattore positivo era rappresentato dai primi – per quanto modesti – segni di ripresa della domanda interna e dei consumi. Nel secondo trimestre 2016 la crisi internazionale resta, ma al contrario l’ISTAT ci informa che la componente netta import-export offre un contributo positivo alla crescita, mentre è quella dei consumi interni a dare un apporto negativo.

Certo, conta Brexit: ma fino a ieri la stima egli effetti del voto per l’uscita di Londra dalla Ue vedevano l’Italia come uno dei paesi meno “impattati” dalla secessione. La Brexit, la crisi turca e l’attacco di DAESH c’è per tutti, ma intanto i paesi dell’euroarea sono cresciuti dello 0,3% nel secondo trimestre e dell’1,6% rispetto a fine giugno del 2015, noi siamo a zero nel secondo trimestre e a +0,7% su metà 2015. Il che significa, tristemente, che continuiamo ad andar peggio degli altri quando ci sono frenate internazionali, e peggio pure quando invece la congiuntura europea e mondiale volge al meglio.

Limitiamoci a tre osservazioni su questa doccia fredda: che cosa può derivarne per i conti italiani, cosa sarebbe auspicabile, e una valutazione invece di realismo politico.

E’ ora ovvio che le prospettive di crescita dell’1,2% del PIL nel 2016 e dell’1,4% nel 2017, avanzate dal governo ad aprile scorso, non reggano più. Il PIL 2016 dell’Italia può oggi limitare il suo aumento reale tra lo 0,6% e lo 0,7%. Meno del 2015.

E’ lo stesso MEF ad aver stimato che una crescita 2016 inferiore di mezzo punto al previsto può comportare un deficit per l’anno in corso che sfiora o supera il 3% del PIL, mentre il debito pubblico non scenderebbe più di quel soffio promesso – dal 132,7% al 132,4% del PIL – ma crescerebbe fino al 134%. Il governo ha già dichiarato che era sua intenzione chiedere alla Ue un altro mezzo punto di PIL in più di deficit – dall’1,8% previsto nel 2017 sino al 2,3%. Ma tale richiesta diventa più complessa, se intanto si mancano per l’ennesima volta gli obiettivi che erano stati assunti con Bruxelles per il 2016. Tra parentesi: dacché il governo attuale è in carica ha già beneficiato di 1,7% di PIL di deficit aggiuntivo negli anni rispetto agli obiettivi contrattati dal governo precedente, non è vero che viviamo in un regime di austerità cieca e inflessibile.

Il Tesoro in queste settimane ha prennunciato che sino al 27 settembre, quando consegnerà la prevista nota di aggiornamento al DEF, limerà e correggerà le sue cifre per capire quali siano i margini della manovra di bilancio 2017.

Ma una cosa è sicura, ci saranno parecchi miliardi in meno rispetto alla rosee attese di qualche mese fa. E la minor crescita non aiuta certo nemmeno l’altro punto dolente italiano: quella della solidità complessiva del sistema bancario italiano, il cui margine di intermediazione da attività caratteristica – ergo la redditività – scenderà ulteriormente. Non proprio ciò che dovrebbe aiutare la complessa manovra in atto su MPS, o le attese per l’aumento di capitale di Unicredit.

Quanto agli auspici, e cioè cosa sarebbe preferibile, è un discorso lungo, che dipende dalla lettura che si dà della crisi italiana. Se si guarda ai numeri, l’Italia ha una crisi di produttività stagnante ventennale, da metà degli anni ‘90. E da allora – non dal 2008 o dal 2011 – gli investimenti netti delle migliaia di imprese industriali censite da Mediobanca sono inferiori alla quota annuale di ammortamenti: cioè la quota investita per nuovi impianti, innovazione di prodotto e processo, distributiva e di capitale umano è minore di quella spalmata nei bilanci annuali per “spesare” le innovazioni del passato (chi volesse approfondire questo e molti altri dati, li trova in questo bel librino di Riccardo Gallo) . Del resto, rileva sempre Mediobanca, il margine industriale delle imprese resta, nei bilanci 2015, inferiore del 37% a quello del 2007 e del 20% per le imprese manifatturiere: e non solo per la crisi del mercato interno, ma grazie a tasse che gravano anche se il reddito è zero o negativo. E Restiamo in Italia con una quota di occupati del 57%, rispetto al 78% della Germania, 77% della Gran Bretagna, 76,5% di Danimarca e Olanda.

In un paese con questi ritardi strutturali, servirebbero da anni interventi radicali per accrescere la produttività, abbattere il fisco su imprese e su lavoro, accrescere verticalmente la concorrenza, visto che il più dell’offerta dei servizi pubblici e privati ne restano escluse. E poiché per abbattere davvero il fisco di diversi punti di PIL occorre rivedere energicamente il perimetro dello Stato, come accrescere la concorrenza significa scontentare infinite lobby, è esattamente quel che la politica italiana di ogni colore ha diluito ed evitato di fare.

Se però dagli auspici passiamo al realismo politico, avverrà altro da quanto serve. Prevale l’idea generale che la colpa sia di una stagnazione secolare: ma essa non spiega perché noi andavamo e andiamo peggio degli altri, se non fosse per difetti domestici. Non si guarda all’effetto paradossale di aver chiesto alle banche centrali di comprare tempo con tassi negativi, che abbattono sì gli oneri per i debiti pubblici, ma nel tempo ottengono effetti sempre più distorsivi se gli interventi energici della politica mancano. Ci si accapiglia sulle regole europee: che hanno certo molte approssimazioni e difetti, ma così facendo in tutti i paesi europei si dà sempre più fiato a chi auspica l’esplosione della stessa Ue come soluzione alle responsabilità proprie.

La prossima legge finanziaria cade malauguratamente a cavallo del referendum sulla riforma costituzionale, sul quale Renzi e il governo hanno scommesso tutto. Ciò non aiuta, rispetto al bilancio che occorrebbe fare di interventi e bonus che sin qui hanno mobilitato ingenti risorse di bilancio, con però non ingenti risultati. E’ ovvio che il “segno” della manovra sia inteso invece dal governo al fine di convincere quella parte di oppositori al referendum che più il governo teme: sinistra Pd e sindacati. Ed ecco perché da mesi e mesi parliamo di prepensionamenti a chi un lavoro ce l’ha, invece di misure che sarebbero ben più urgenti per la ripresa italiana. Il declino continua rispetto agli altri paesi, buon referendum a tutti.

 

10
Ago
2016

La vera partita sui prepensionamenti: quando si dice una non-priorità

Per abbattere l’incertezza che ormai sull’Italia si espande nei mercati, per l’esito molto incerto del prossimo referendum e una nuova possibile instabilità governativa, bisognerebbe PRIMA del referendum approvare la prossima legge finanziaria, e SMETTERLA di fare annunci quotidiani su pre-pensionamenti senza numeri, perché nel dubbio i pensionati per cautela consumano ancora meno. Lo scrive oggi sul Corriere della sera Francesco Giavazzi: ma sono considerazioni da mondo ragionevole ideale, qui da noi avverrà l’esatto opposto. Tanto vale allora parlarne chiaramente, delle incertezze che gravano sulla prossima legge finanziaria, e della partita vera che si gioca sui prepensionamenti.

La manovra finanziaria in arrivo è appesa ancora a molte incognite. Sui saldi, il governo intende chiedere in Europa un altro mezzo punto di PIL di deficit in più rispetto al concordato, salendo al 2,3% invece dell’1,8%. Ballano dunque per questo 8 miliardi, non noccioline, e al di là degli effetti di Brexit e del rallentamento della congiuntura per il governo è la differenza tra una manovra che consenta di inviare più segnali alla sinistra del pd e al sindacato, oppure no. Esattamente questa è la seconda incognita, quella politica, di una manovra che sarà a metà dell’esame parlamentare quando verrà proclamato il risultato del referendum sulle modifiche costituzionali, diventato per il governo la partita della vita.

Il governo è impegnato ad annullare per un punto di PIL le clausola di garanzia fiscali che vedrebbero l’aumento di IVA e accise. E che a questo si aggiunge la discesa dell’aliquota IRES per le imprese dal 27,5 al 24%, già prevista per il 2017 nel tendenziale pluriennale approvato con la legge di stabilità 2016. Malgrado i molti annunci di Renzi è praticamente impossibile immaginare un anticipo dell’intervento sull’IRPEF previsto per il 2018, in assenza di tagli di spesa che non fanno parte dell’orizzonte di questo governo. Ma è sulla previdenza, che da 9 mesi a questa parte un pezzo del Pd e ovviamente il sindacato hanno incatenato il governo alla necessità di vasti interventi “sociali”.

Molto ci sarebbe da dire, sul fatto che dalla sinistra alla destra tanto ci s’incaponisca sul teme di prepensionare chi un lavoro ce l’ha, invece di considerare prioritario destinare incentivi all’aumento della produttività – la cui stagnazione ventennale è il problema numero uno dell’Italia – e varare politiche attive dell’occupazione per chi un lavoro non ce l’ha, e ha già cumulato un enorme problema di continuità contributiva. Ma è inutile obiettare in nome di queste ragioni: in politica conta la forza della rappresentanza. Quella dei giovani è inesistente, debole è quella delle imprese. Mentre Renzi e il suo governo, per come stanno le cose, non possono ignorare né un pezzo del Pd né il sindacato.

Ergo sarà prepensionamento, sia pur sotto il nome di “flessibilità in uscita”. Anzi APE, anticipo della pensione. E la battaglia, prima ancora di conoscere i dettagli delle misure, è innanzitutto sulle poste in bilancio: 1 miliardo e mezzo secondo il governo, 2 e mezzo almeno secondo sindacati e chi obietta “da sinistra”.

Alcune delle misure in arrivo hanno una loro equità di fondo, rispetto alla piramide dei redditi italiani. Come per esempio attenuare fortemente fino ad annullare la spropositata onerosità dei ricongiungiumenti per chi ha versato nella vita lavorativa contributi a enti diversi (si tratta di quasi fino a 100mila lavoratori l’anno, se si estende il meccanismo anche a chi si prepensionasse rispetto ai requisiti di vecchiaia oggi vigenti, con un costo potenziale fino ai 400 milioni in 10 anni) . Oppure, in alternativa, alzare la no tax area attuale oltre gli 8mila euro, oppure ancora estendere la platea della 14esima mensilità previdenziale (ma in questo caso, se si passa dall’attribuirla a coloro che come oggi sono sotto i 9787 euro lordi l’anno a chi fosse sotto i 12mila, i 2 milioni di soggetti aggiuntivi beneficiari significherebbero, a dar retta alle ipotesi più generose, anche un onere di circa 600milioni annui).

Il cuore della faccenda però è un altro: a chi riservare la possibilità di andare in pensione con 3 anni e 7 mesi di anticipo rispetto ai requisiti anagrafici di vecchiaia previsti dalla legge Fornero, e con quale ripartizione degli oneri. Le risposte ai due quesiti segnano il confine tra il governo e chi chiede di più.

Non è la differenza muscolare tra chi ha più forza a braccio di ferro. Di mezzo ne va un punto di principio. Se cioè si voglia preservare l’impianto della progressività dei requisiti per la pensione ancorati all’attesa di vita, grazie ai quali abbiamo messo in relativa sicurezza i conti previdenziali italiani, e quando dichiamo “relativa” intendiamo comunque attraverso la devoluzione in pensioni di 4 punti di PIL l’anno più che nella media europea. O se, invece, nella prossima legge di bilancio si dia a quella progressività la spallata iniziale, per farlo crollare poi inesorabilmente anno dopo anno. Inutile dire che la seconda prospettiva fa spallucce sul maggior deficit che ciò comporterà, e sugli aggravi per i più giovani, che continueranno a pagare nel sistema a ripartizione anche le pensioni date prima a chi ne ha maturate come i meno anziani non ne avranno mai.

Vedremo solo in parlamento dove si fermerà il pendolo. Ma sin d’ora la differenza si vede. Il governo fa capire di dividere in due la platea dei soggetti a cui applicare la facoltà della pensione a 63 anni. Solo per coloro che rientrano nelle categorie – vedremo come definite – di disoccupati di lungo periodo prossimi a esaurire la copertura degli ammortizzatori, o di coloro che godono comunque di bassi redditi (anche qui, la soglia è fondamentale), l’onere del prepensionamento dovrebbe essere a carico pubblico, e per questo si parla di 600milioni. Per tutti gli altri, scatterebbe l’abbattimento dell’assegno previdenziale in cambio del prepensionamento, un decalage maggiore maggiore quanto più si è lontani dai 66 anni e 7 mesi del requisito previsto. In pratica: se vuoi andare in pensione prima rinunci a una parte dell’assegno perché ne godrai più a lungo, e in maniera esattamente proporzionata al più lungo godimento. In soldoni: con tagli dell’assegno fino al 15-20%. Perché si tratta di coprire non solo i pagamenti anticipati INPS, ma il costo del rischio – ancora da definire – a cui si esporrebbero le banche chiamate ad anticipare all’INPS gli esborsi, nonché la sua copertura attraverso polizze assicurative, visto che in caso di deprecabile decesso del prepensionato prima che sia terminato l’ammortamento dell’anticipazione le banche non potrebbero certo rivalersi sui superstiti, e sulla loro pensione di reversibilità.

Come si vede, in questa impostazione i tetti della legge Fornero restano, tanto che è rispetto a loro che si calcola il piano di copertura finanziaria a carico del pre-pensionato. Cosa del tutto diversa se invece, oltre ai soggetti “socialmente da tutelare” a cui il governo vuole estendere l’intervento, l’onere dello Stato sarà esteso anche per tutti coloro che non vi rientrano, né perché disoccupati di lungo periodo vicino alla pensione, né perché a reddito bassissimo. In quel caso sarebbe inutile far finta di non vedere la sostanza: è la breccia attraverso cui rimettiamo in discussione tutti i conti dell’INPS per decenni a venire.

E’ un falso problema, sostengono i fautori dello sfondamento. Basta aggiungere ai 600 milioni a carico publico per i prepensionati “sociali” a cui pensa il governo, altri 600 milioni che dall’anno prossimo le imprese non saranno più tenute a versare per il venir meno del contributo a loro carico dello 0,3% del salari lordo per finanziare la vecchia indennità di mobilità, sostituita dai nuovi ammortizzatori previsti dal Jobs Act. Non è un ragionamento, però. Primo non si capisce che senso abbia dire alle imprese che le si sgrava fiscalmente, se poi con la mano sinistra ci si riprende quel che la destra toglie. Secondo: la decisione di pre-pensionarsi è del lavoratore, non dell’impresa. Queste ricorrono a prepensionamenti anche co-finanziati quando vi sono accordi con il sindacato per stato di crisi o per esubero di personale. Ed è tutt’altro paio di maniche.

Ma chi obietta al governo ha un’altra carta in mano. Se prevedete davvero prepensionamenti onerosi a carico di chi li richiede con tagli all’assegno così elevati, ammiccano al governo, la vostra ricetta sarà un flop perché pochissimi vi faranno ricorso. E quell’eventuale flop ci sarà chi lo userà politicamente con durezza.

Sui conti previdenziali bisogna ragionare con un’ottica di lungo periodo, non delle prossime eleziomi. Speriamolo, in nome di chi è più giovane. Ma, allo stesso tempo, disperiamone dando un’occhiata alle dichiarazioni quotidiane.

 

 

8
Ago
2016

Il reddito di cittadinanza di de Magistris: il rischio che levi ai poveri per dare ai più poveri (evasori compresi..)

Nella provincia di Trento c’è stato un “reddito di garanzia”, la Puglia di Michele Emiliano ha varato per l’anno prossimo un “reddito di dignità”, la Basilicata dal 2015 ha un “reddito minimo d’inserimento”, a Livorno la giunta pentastellata del sindaco Nogarin ha varato quest’anno un (micro) “reddito di cittadinanza” (riguarda 100 persone in tutto, per 300mila euro). E ora anche Napoli avrà nel 2017 il suo “reddito di cittadinanza”, visto che la scelta, lanciata la scorsa primavera dalla giunta prima della campagna elettorale, è confermata nel bilancio preventivo 2016-18 approvato nella maratona notturna del pre week-end.

I particolari del reddito di cittadinanza napoletano sono ancora da chiarire. Quel che si sa da maggio è che dovrebbe essere destinato ai nuclei familiari con reddito ISEE non superiore ai 3600 euro, residenti a Napoli da almeno 2 anni. Non è nemmeno ancora davvero definito se l’importo in bilancio sarà per 20 milioni oppure per 5, come era sembrato di fronte alla ristrettezze obbligate della condizione pluriennale di predissesto, in cui versano le finanze di palazzo san Giacomo.

Il sindaco de Magistris sin dalla scorsa primavera parla di una misura finanziata dai proventi della lotta all’evasione, ma gli ultimi dati aggiornati dicono che entro agosto il Comune di Napoli aveva riscosso 14 milioni in più da inizio 2016 sul pregresso non incassato tra multe, ratei d’imposta e crediti esigibili: difficile immaginare che entro fine anno si raggiungano i 65 milioni che erano stati indicati come obiettivo. Se invece davvero alla fine la misura dovesse essere finanziata attraverso i 5 milioni in più che si prevede d’incassare attraverso il brutale abbattimento della soglia di reddito per l’esenzione d’imposta dall’addizionale IRPEF comunale, abbattimento previsto nel bilancio preventivo da 15mila a 10 mila euro, sarebbe una soluzione del tutto iniqua. Il fortissimo rischio è levare a chi ha poco ma ha redditi certificati, per dare a chi dichiara pochissimo e magari però ha redditi in nero.

Anche per chi ha in mente il più redistributivo possibile dei modelli fiscali, dovrebbe risultare del tutto indigeribile far pagare 60mila napoletani in più ma comunque a basso reddito. rispetto ai quasi 230mila oggi esentati sotto i 15mila euro annuali (che sono la metà dei contribuenti napoletani) , per alimentare l’illusione di un “reddito di cittadinanza”. L’alternativa è di finanziare l’intervento con Fondi Europei: ma in quel caso, come per la Basilicata che a questo attinge per una quota parte del suo reddito minimo d’inserimento, la formula non può essere quella del reddito di cittadinanza. ma va riferita solo a chi non è coperto dai sussidi previsti dalle leggi sul lavoro né a chi già beneficia dell’assistenza sociale comunale su affitti e sussistenza.

Perché diciamo “illusione”? E’ presto spiegato. La politica italiana da qualche anno a questa parte alimenta una gigantesca confusione tra strumenti del tutto diversi. Chi vuole un reddito di cittadinanza sapendo davvero di cosa sta parlando le proposte di legge “storiche” sono di Sel, poi del M5S, se né aggiunta una di alcuni parlamentari Pd) propone uno strumento universale di lotta alla povertà che è indipendente dall’accertamento delle condizioni economico-patrimoniale dei beneficiari. Anche se tutti dicono che 26 paesi europei su 28 prevedono un simile strumento, è una gigantesca frottola. C’è in Alaska, grazie alla rendita petrolifera. Nella stragrande maggioranza dei paesi europei (vedi qui una spiegazione dettagliata) vi sono invece strumenti che rientrano nel reddito minimo garantito, che è tutt’altra cosa. Esso serve a dare copertura a chi resta escluso da sussidi di disoccupazione e mobilità, è ancorato a livelli di reddito (per chi sotto la povertà assoluta e per chi relativa a seconda dei paesi), prevede una forte condizionalità di assoggettamento coatto a offerte di lavoro pubbliche e private. In altre parole: il reddito minimo garantito, che in alcuni paesi convive con il salario minimo per legge (che in Italia sono i sindacati a non volere) e in altri no, serve a impedire la compresenza di plurimi strumenti di sostegni sociali nazionali, regionali e comunali, magari a favore di soggetti per i quali l’evasione fiscale , il lavoro nero o grigio rappresentano la via per accumularne il vantaggio, rispetto magari a famiglie numerose con un solo stipendio basso da lavoro dipendente, cioè totalmente “in chiaro” per il fisco.

Se guardiamo alle varie soluzioni introdotte in Italia, praticamente sempre di reddito minimo si tratta, non di cittadinanza. Anche se a Livorno i pentastellati l’hanno chiamato di cittadinanza, in omaggio alla loro proposta nazionale che costerebbe un punto di PIl, in realtà è un reddito minimo: 500 euro per 6 mesi a 100 soggetti scelti da un’apposita commissione tra gli aventi diritto, attribuiti a un solo componenti del nucleo familiare con reddito inferiore ai 6530 euro, in cambio però della disponibilità a lavorare per 8 ore almeno settimanali, accogliendo proposte avanzate dal centro per l’impiego oppure in lavori sociali a favore del Comune. Di prestazioni di lavoro e formazione obbligatoria come controprestazione parla anche il “reddito di dignità” varato da Emiliano in Puglia, per 20mila individui sotto i 3mila euro ISEE e residenti in Puglia da almeno 12 mesi.   Mentre lo strumento della Basilicata – 7,5 milioni di euro per circa 6mila soggetti – è chiaramente concepito solo per coloro che escono dalla copertura della disoccupazione e della mobilità, ed è finanziato in gran parte dalle royalties petrolifere incassate dalla regione sui combustibili fossili estratti dal suo sottosuolo (oltre che dai Fondi Europei come ricordato prima).

La distinzione netta tra “reddito di cittadinanza” e “reddito minimo sotto la povertà, ma soggetto a controlli” dovrebbe oggettivamente valere ancor più per una citta come Napoli, il cui disastro di finanza pubblica de Magistris ha – è vero – ereditato alla prima sindacatura – ma che resta ben lungi dall’essere avviato a un percorso di sostenibile rientro dei suoi squilibri. Se il disavanzo annuale è sceso dai mostruosi 850 milioni a 81 milioni del 2015 grazie al taglio dei crediti ormai inesigibili dovuto all’incapacità di incassarli, il “debito tecnico” dovuto al programma di rientro trentennale del predisesto vale 1,6 miliardi, e quello reale a fine 2015 – sommando poste finanziarie debito commerciale, crediti non riscossi – a fine 2015 ammontava a 2,7 miliardi. E tutto ciò mentre i trasferimenti da Roma, come per tutti i Comuni, scendono di centinaia di milioni l’anno. Mentre resta l’incognita negli anni a venire del prezzo di esercizio degli swap sui derivati accesi dalle amministrazioni precedenti. E mentre le entrate straordinarie previste per l’abbattimento del debito – per esempio 700 milioni da cessioni di immobili e terreni – sono così ingenti da far strabuzzare gli occhi, in un’Italia in cui ciò che è pubblico non si riesce mai a cedere davvero al privato.

Vedremo dunque cosa sarà davvero questo reddito di cittadinanza partenopeo. Il sindaco ci tiene molto. A maggior ragione è meglio farne uno strumento mirato e rigoroso, coerente alla troppo frastagliata panoplia di strumenti già esistenti, coperto in maniera che non sia un furto a chi ha comunque poco, e soprattutto applicato a soggetti iper controllati nel loro rapporto col fisco: che deve essere di assoluta trasparenza.

5
Ago
2016

Rifiuti: i partiti litigano, i pm indagano, la TARI sale, ma nessuno lavora alla soluzione

La politica sembra occuparsi dei rifiuti urbani solo per rinfacciarsi l’un contro l’altra parte interessi indicibili.  A Roma, si fa prima a dire che cosa dell’operatività, gare, gestione, assunzioni e collaborazioni dell’AMA non sia sottoposta a inchieste della Procura e dell’ANAC, piuttosto che il contrario. E intanto, dietro le coltri fumogene e le accuse incrociate, l’Italia resta sui rifiuti un paese largamente incivile, inquinatore, e distruttore di valore (oltre che, troppo spesso, corrotto). Sono disposto a scommettere però che agli italiani importi prima sapere oggi entro quando e come risolvere il problema, che aspettare tra anni le sentenze in giudicato del magna-magna sui rifiuti.

Piemonte, Emilia Romagna: in sintesi, è al Nord che continuano ad andare, anno dopo anno, centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti che il Centro Sud non riesce a trattare e riciclare.Così scrivono in molti.  Ma detta così è una generalizzazione ingiusta. Sono i dati – raccolti certosinamente in 350 pagine dal meticoloso rapporto annuale dell’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale – a comprovare che l’Italia dei rifiuti in realtà è a pelle di leopardo: in questi anni c’è chi ha fatto meglio anche nel Centro e al Sud. E quanto a ciò che servirebbe, lo sappiamo benissimo perché ancora una volta i dati lo dimostrano, impietosamente.

Il problema vero sono le resistenze, di sindaci di grandi città e di giunte regionali, a realizzare davvero gli impianti che in molte parti d’Italia continuano a mancare per chiudere il ciclo del trattamento, cioè per evitare danni ambientali e insieme guadagnarci economicamente, invece di lasciarlo fare ad altri. Sui processi tecnologici e i rischi per trattare tutti i diversi segmenti di materiali che confluiscono nei rifiuti urbani, girano da anni allarmismi demagogici. Alimentano da una parte il miglior terreno per continuare a usare disastrose discariche senza rifiuti pretrattati, al fine di diminuirne la frazione umida e renderli biologicamente stabili, discariche che sono bombe a cielo aperto e per le falde freatiche. Dall’altra, è così che si crea spazio per le ecomafie (che insistono però soprattutto sui rifiuti industriali).

Diamo prima un occhio a come siamo messi in Europa, come Italia. Malino: mentre in Germania, Svezia, Olanda, Danimarca, Austria la percentuale del totale dei rifiuti urbani che finisce in discarica oscilla tra lo 0% (tedesco) e il 5% massimo, da noi le discariche si vedono conferire ancora il 37% dei 30 milioni di tonnellate prodotti annualmente in Italia. Abbiamo una quota di rifiuti inceneriti di poco superiore al 20%, rispetto a poco meno o poco più del 50% di Svezia, Belgio, Olanda e Danimarca. Abbiamo fatto grandi passi avanti sul riciclaggio delle materie, che arriva al 25% (ma rispetto al quasi 50% tedesco), e ce la caviamo abbastanza bene come quota avviata al compostaggio cioè ai trattamenti bio-meccanici, poco meno del 15%, di poco inferiore alla quota tedesca mentre l’Austria è al 35%. Già da questi dati grezzi si inferisce un primo elemento: per azzerare le discariche servono molti più inceneritori (temuti come la peste dalla demagogia, che ne ignora le nuove tecnologie di recupero dei prodotti di risulta).

Addentriamoci sulla pelle di leopardo italiana. Cominciamo dalla raccolta differenziata. L’obiettivo per fine 2012 fissato nel 2006 di giungere a un 65% nazionale di raccolta differenziata si è rivelato illusorio: siamo ancora 20 punti sotto, con il Nord sopra il 50%, il Centro al 40%, il Sud poco oltre il 30%. Ma rispetto al 40% del Centro il Lazio fa molto peggio, solo il 32% rispetto al 57% delle Marche. E al Sud la Campania registra un 47%, rispetto al 34% della Liguria al Nord, o al 26% della Puglia, al 18% della Calabria e al terrificante 12% della Sicilia.

La provincia di Benevento è la settima in Italia per percentuale più elevata di differenziata, al 68.9% del totale dei rifiuti urbani prodotti. La provincia di Salerno sta a quasi il 58%, 4 punti più di quella di Milano e 10 meglio di quella di Bologna. E’ la provincia di Napoli che abbassa la media campana, col suo 41%. In Puglia, Brindisi e provincia stanno al 48%, mentre Taranto e Lecce sotto il 20%. In Sicilia è quasi dovunque disastro: Palermo provincia fa differenziata per meno dell’8%, Messina poco sopra, Siracusa poco sotto, Enna addirittura al 6%. Le province di Nuoro e Oristano, sopra il 60%, sono Scandinavia in confronto.

Se guardiamo alle 13 Città metropolitane italiane, Roma è la peggiore del Centro Nord col suo 33%, di 8 punti inferiore a Napoli, Palermo la peggiore del Sud col suo 7,8%. Ma attenzione: se dall’ambito della Città Metropolitana napoletana scendiamo invece al solo Comune di Napoli, il dato della differenziata si dimezza, scende al 22%. A Napoli l’emergenza resta eccome.

Quanto al raggiungimento entro il 2016 dell’obiettivo dello smaltimento in discarica dei rifiuti biodegradabili al 35% di quelli prodotti nel 1995, fino alla totale eliminazione dalla discarica dei rifiuti organici non trattati, anche su questo siamo ancora lontani. Per tipo di impianti, quelli di compostaggio in Italia al 2015 erano

279, di cui 179 al Nord, 44 al centro e 56 al Sud. In Campania solo 5 con 60 mila tonnellate trattate, rispetto ai 9 della Puglia con 268mila tonnellate, il Lazio incredibilmente solo 218mila tonnellate rispetto a 1,4milioni della Lombardia.

Gli impianti di TMB, cioè di trattamento meccanico-biologico, erano in Italia l’anno scorso 117, di cui 38 al Nord, 32 al centro e 47 al Sud. Non è un buon dato, al contrario. Mentre al Nord la quantità di rifiuti avviati a TMB decresce a ritmi del 7% annuo, al Centro e al Sud aumenta del +2,9% e del +2,1%, perché questo tipo di impianti rappresentano il modo per ovviare all’emergenza, senza chiudere il ciclo e con maggiori rischi ambientali, visto che la frazione umida e quella di percolati resta elevata. Oltre il 50% di queste lavorazioni, infatti, finisce poi in discarica. Al Sud, meno del 15% all’incinerazione e meno dell’1% in recupero materiali.

Se infine andiamo agli inceneritori, erano 51 in esercizio in Italia l’anno scorso: 28 al Nord, 13 al centro, solo 10 al Sud. Il Nord pesa per il 70% del totale nazionale delle quantità avviate a inceneritori, la Campania per avere un raffronto sta al 13,3% del totale dei suoi rifiuti rispetto al 36% della Lombardia. Si tenga conto che gli inceneritori hanno generato nel 2014 4,6 milioni di MWh di energia elettrica, e 1,6 milioni di MWh di energia termica. Non averne, significa essere anche più dipendenti energeticamente.

Ed eccoci alle discariche: nelle 55 censite nel Sud (quelle ufficiali) nel 2014 sono state avviate l’esatta somma , 4 milioni e mezzo di tonnellate di rifiuti, del Nord e del Centro insieme. Serve a poco consolarsi col fatto che in Campania il 45% dei rifiuti in discarica viene dichiarato pretrattato, rispetto a poco più di 0% della Puglia, perché in Val d’Aosta la percentuale è del 100%. Qui i dati regionali vanno “pesati” per via del turismo domestico dei rifiuti: il 47% dei rifiuti in discarica della Calabria sale in realtà al 70% tenendo conto di quelli “esportati”. Al contrario il 75% della Puglia scende al 53%, al netto dei rifiuti in discarica importati da Campania, Lazio e Calabria.

In conclusione: laddove esiste un ciclo integrato dei rifiuti grazie ad un parco adeguato di impianti, si riduce l’uso delle discariche. In Friuli Venezia Giulia lo smaltimento in discarica è ridotto al 6% del totale di rifiuti, in Lombardia al 7%, in Veneto al 12%. Nelle stesse regioni la raccolta differenziata è pari rispettivamente al 60,4%, al 56,3% ed al 67,6%, e consistenti quote di rifiuti vengono trattate in impianti di incenerimento con recupero di energia. In Sicilia, i rifiuti urbani smaltiti in discarica rappresentano ancora l’84% del totale. L’incenerimento non è un disincentivo alla raccolta differenziata, come risulta evidente in Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Sardegna. In queste regioni, infatti, a fronte di percentuali d’incenerimento tra il 40 e il 20% del totale dei rifiuti prodotti, la differenziata sta sempre tra il 60 e il 50%.

La sfida per il miglioramento è quella tra i 13,5 milioni di tonnellate della raccolta differenziata su 30 milioni, e i 12 milioni di tonnellate in discarica. Più sale la quota dei 5 milioni agli inceneritori, più scende quella in discarica. Ma è una formula che la politica non riesce a sostenere. Preferisce le polemiche su chi è più o meno vicino agli interessi di chi gestisce gli impianti. Mentre nel frattempo la TARI è sempre salita.

3
Ago
2016

La bellezza dimenticata di TANSTAAFL

La Foundation for Economic Education descrive “There ain’t no such thing as a free lunch” (TANSTAAFL) come uno dei concetti fondamentali dell’economia, uno di quei principi che potrebbe a buon diritto essere iscritto nelle Tavole della Legge della disciplina cara ad Adam Smith.

“Non ci sono pasti gratis” é una frase che ho spesso sentito citare come una condanna per l’uomo. Come a dire: in questo mondo, in questa economia, non c’é spazio per comportamenti altruistici, non c’é posto per aiuto disinteressato al prossimo. Stai in guardia da chi dice di aiutarti perché sicuramente si aspetterà qualcosa in cambio. Do ut des e guai a chi si concede il lusso di essere umano.

La vita quotidiana nega l’ineluttabilità di quella idea che Hobbes sintetizzò in “homo homini lupus”: le mense che volontari, chiese, associazioni preparano per chi non può pagare per il proprio cibo ne sono un esempio. Pasti caldi che non hanno una contropartita se non nel piacere che tante persone traggono dall’essere in servizio agli altri.

“Non ci sono pasti gratis” é in realtà una legge dell’economia che potrebbe ricordare la legge di gravità nella fisica. Per sollevare un corpo devo esercitare una forza, per muovere un oggetto nello spazio devo esercitare del lavoro. Così in economia le cose che hanno un valore per qualcuno sono generalmente il frutto del suo lavoro o del lavoro di qualcun’altro.

Dimenticare questo concetto porta a quei mondi immaginari dove intellettuali e leader promettono la “fine dell’economia” ovvero la possibilità di pasti gratis per qualcuno – salvo poi ritrovarsi in un’economia a rotoli. Penso al Venezuela di questi ultimi tempi. La stessa promessa che alcuni politici hanno fatto e continuano a fare di educazione o sanità o cultura “gratuita”, giusto per dare qualche esempio, utilizza un lessico che ignora la legge di cui sopra: non esistono beni o servizi gratuiti, qualcuno ne dovrà sempre pagare il prezzo. A meno di non voler fare montagne di debito (vedi debt-clock italiano); in tal caso a pagarne il prezzo saranno le generazioni future.

Personalmente, quando sento la frase “non ci sono pasti gratis” mi viene in mente un allenatore sportivo americano che ho seguito per un certo tempo e che diceva: “you have to give some to get some” – devi dare qualcosa (in termini di lavoro fisico) per ottenere qualcosa (un cambiamento nel fisico). Per vederlo da un altro punto di vista, ricorda il saggio consiglio “per avere qualcosa di diverso devo fare qualcosa di diverso”.

Così che, per concludere, “non ci sono pasti gratis” (per usare l’acronimo inglese, TANSTAAFL) non é una legge né fredda né calda, né bella né brutta: é semplicemente quello che é, il modo in cui funziona l’universo fisico e quindi anche la produzione di beni e servizi – fenomeno al cui studio si dedica l’economia. Possiamo vederla dal punto di vista di chi si rassegna ad un mondo in crisi e giustifica scelte economiche sempre più disumane. Possiamo vederla dal punto di vista di chi vuole costruire un futuro diverso sapendo che ogni cosa é raggiungibile se siamo disposti a superare gli ostacoli nel mezzo. Se é vero che non ci sono pasti gratis, ogni cosa é possibile se siamo disposti a pagarne il prezzo. Nel mezzo c’é solo lavoro e pazienza. E in un mondo abituato alla rassegnazione e a ignorare il lungo periodo, é facile dimenticarlo.