La caccia alle streghe ai tempi di Airbnb
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Luca Minola.
Pare ormai chiaro che l’emendamento, ribattezzato da molti come “norma anti Airbnb”, sia stato per ora messo in soffitta dal premier Matteo Renzi che nei giorni scorsi con un tweet ha affermato: “nessuna nuova tassa in legge di bilancio, nessuna. Nemmeno Airbnb”.
Tra le principali modifiche previste alla legge di bilancio 2017 ne era spuntata una del Partito Democratico che si proponeva di regolare il mercato degli affitti brevi in strutture “extralberghiere” da parte di privati o di intermediari online. In particolare i punti che venivano introdotti erano: una cedolare secca al 21% per questo tipo di attività; un apposito registro all’Agenzia delle Entrate in cui riportare le generalità del locatore nonché dell’immobile; una clausola antievasione, obbligando così gli intermediari ad agire come sostituto d’imposta.
Nonostante non sia stato approvato, a una prima analisi l’emendamento sembra far parte di una campagna – oggi molto diffusa in giro per il mondo – volta a limitare il diritto di proprietà dei cittadini nella cosiddetta sharing economy.
Pur non essendo così evidente, politiche di questo tipo non fanno altro che privare il possessore di un appartamento o di una semplice stanza di esercitare la facoltà di sfruttare liberamente il proprio immobile, tra cui quella di affittarlo per un breve periodo. La questione è che qualsiasi proprietario, già sottoposto ad una pesante tassazione per l’immobile in suo possesso, si trova costretto a dover pagare un’ulteriore tassa anche se la sua attività imprenditoriale principale non è l’ospitalità.
Oltretutto, nel contesto attuale italiano, in cui la semplificazione dovrebbe essere al centro di qualsiasi proposta ed intervento governativo, l’introduzione di un registro unico nazionale delle attività extralberghiere non imprenditoriali appare quanto mai assurdo. Il registro sembra essere infatti un tentativo di burocratizzare ulteriormente le locazioni turistiche di breve periodo, già sottoposte ad interventi diversificati e contraddittori da parte della legislazione regionale.
Un ulteriore aspetto che si nasconde dietro all’emendamento riguarda la questione della concorrenza. Negli ultimi anni la formula degli affitti brevi ha ridotto drasticamente la quota di mercato posseduta dall’industria alberghiera: moltissimi viaggiatori e uomini d’affari sono spinti a scegliere soluzioni alternative, meno costose e dotate di servizi aggiuntivi – quali la cucina o la lavanderia – non presenti generalmente in un hotel. In Italia, giusto per dare alcuni numeri, nel 2015, ci sono stati più di 3,6 milioni di viaggiatori che hanno usufruito di una sistemazione offerta dal portale Airbnb, generando un impatto economico sull’economia italiana di 3,4 miliardi di euro. Numeri che evidenziano solo in parte la portata del fenomeno. L’industria alberghiera, pur nella comprensibilità di voler equiparare la sua attività di ricettività turistica alla nuove forme nascenti, non ha saputo innovarsi. Anziché proporre un nuovo modello di business, ha preferito negli ultimi anni mettere pressione al legislatore per introdurre nuove regolamentazioni in grado di ostacolare il fenomeno degli affitti brevi a favore dei propri interessi.
Sicuramente uno degli aspetti più critici dell’emendamento riguarda infine il ruolo che gli intermediari e le piattaforme assumerebbero, ovvero quello di sostituti d’imposta. L’obiettivo esplicito è assicurare all’erario le entrate che altrimenti sarebbero delegate all’onestà dei proprietari nel compilare la propria dichiarazione dei redditi. Quello celato è, invece, imporre agli intermediari e alle piattaforme – spesso straniere – l’obbligo di aprire una partita IVA – necessaria per poter agire come sostituto d’imposta – ed avere una stabile organizzazione in Italia: un modo poco efficace per favorire i mercati europei e la competizione a livello continentale.