4
Set
2016

Tecnologia e comunità per essere Stato

“Ognuno dei problemi economici deve esser risolto esclusivamente ponendoci come Stato Etico”. Questa e altre frasi si leggono nella conclusione del libro “Abbozzo di una interpretazione idealistica della economia politica” pubblicato nel 1930 da un professore di nome Emilio La Rocca. Ho scoperta l’esistenza di questo libro l’estate scorsa e, vista la quasi omonimia con l’autore, non ho esitato ad acquistarne una copia presso una libreria antiquaria.

Tante cose che ho letto mi sono piaciute e tante altre mi hanno dato molto da pensare, come la frase che ho appena citato. Cosa significa risolvere ognuno dei problemi economici “ponendoci come Stato Etico”? Come potremmo – mi chiedevo – risolvere i tanti problemi economici che affliggono un Paese come l’Italia prendendo noi il posto dello Stato, quello Stato che è il responsabile di così tanti danni all’economia, quello Stato che ci rende sudditi di tanti cavilli diabolici, di una pressione fiscale insostenibile, di una montagna di debito pubblico che ha messo a rischio il nostro futuro? Quello Stato che prometteva maggiore benessere in cambio di un maggiore controllo dell’economia e che invece ha portato l’economia ad un declino fuori controllo?

Per quanto fossi inizialmente ostile all’idea, avvertivo che forse qualcosa poteva significare e ultimamente inizio a pensare che ci sia del buono in questo punto di vista. Tra gli altri, ho fatto mio il motto dell’architetto e scienziato Buckminster-Fuller che pare aver detto: “Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta.” Nell’ultimo anno mi è capitato di incontrare tante persone con un sacco di idee interessanti – persone che in qualche modo vivono in un modello se non nuovo, di sicuro molto inusuale. Mi viene in mente Diogo, un brasiliano incontrato in Cile, che girava il mondo grazie ad un sito chiamato Worldpackers dove chiunque può scambiare quello che sa fare con chi possa loro fornire ospitalità (exchange your skills for accomodation – questo il motto del sito). Questo è solo uno dei tanti esempi di quella che qualche giornalista ha battezzato reputation economy, quella rete di scambi che vengono permessi e/o accelerati dalla digitalizzazione della reputazione. Come per un conducente di Blablacar o Uber, per un ospite di Airbnb, per un venditore di Ebay, Internet e lo smartphone ci consentono di aver più fiducia in persone totalmente sconosciute e quindi scambiare con loro beneficiando dell’esperienza (i feedback) dei loro utenti precedenti. E’ anche questo che consente di aprire la porta della propria casa ad un perfetto sconosciuto.

Mi viene anche in mente il mio amico Flavio che sta trasformando la sua villetta con giardino nella cintura torinese in una casa-fattoria quasi autosufficiente perché “anche se avrò una pensione molto bassa almeno avrò ridotto gran parte delle mie spese ”. Se la casa richiede meno spese di riscaldamento, il giardino produce un po’ di verdure, gli scarti della casa si riciclano, l’apporto di energia esterna al sistema abitativo si riduce – così come le spese mensili. Non si tratta di ideologia autarchica, ma di una scelta in linea con l’ambizione stessa dell’economia: ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Efficienza energetica, in lessico ingegneristico, declinato in funzione di lavorare di meno e di massimizzare il tempo disponibile per ciò che ama fare – ora – e per farsi bastare una magra pensione – in futuro.

Ho incontrato tante persone che non si lamentano della realtà esistente e neppure si rassegnano ad un futuro economico in declino e senza certezze. Persone che si prendono la responsabilità del proprio futuro e anche di quella inevitabile fase della vita umana che si chiama vecchiaia la cui tutela era tradizionalmente appannaggio dello Stato. Persone che, sapendo che la rete di sicurezza che lo Stato offriva (pensioni e welfare) è attualmente piena di buchi, stanno iniziando a tessere la propria.

In questa prospettiva la dimensione comunitaria diventa un fattore molto importante. In qualche modo l’economia che si sta sviluppando attraverso Internet è un’economia di comunità, se non altro a livello digitale. Tanti dei già citati esempi di scambi permessi dalla Rete rappresentano forme di comunità, ovvero di “un insieme di individui che condividono lo stesso ambiente fisico e tecnologico, formando un gruppo riconoscibile, unito da vincoli organizzativi, linguistici, religiosi, economici e da interessi comuni”[Wikipedia]. Le comunità possono prendere la forma dei Worldpackers che ho citato prima: un gruppo di persone che non aspettano il prossimo bando europeo o Jobs Act per iniziare a lavorare.

Io stesso ho fatto un po’ di esperimenti negli ultimi tempi. Per la prima volta nella mia vita mi sono iscritto ad un gruppo di acquisto on-line. Si tratta di consumatori che si associano per comprare insieme elettricità, nel mio caso, e ottenere prezzi più bassi. E’ efficace (prima spendevo quasi il 50% in più a kWh rispetto ora) ed è interessante – riflettevo – anche a livello concettuale: quante migliaia di regolamentazioni sono state scritte a “tutela dei consumatori” e si sono trasformate in obblighi, divieti, limitazioni alla libera scelta se non addirittura in uffici e burocrazie pubbliche? In questo caso, ho pensato, sono i consumatori che si uniscono per tutelarsi e non aspettano che qualcun altro lo faccia per loro. Nulla di nuovo sotto il sole, certo, i gruppi di acquisto esistono da tempo; oggi però è ancora più facile aderirvi e disponibile ancora a più persone attraverso la Rete.

Ho poi investito più della metà dei miei risparmi in Bitcoin – sia per motivi speculativi sia perché ritengo il modello delle cripto-valute più sano del sistema monetario-bancario tradizionale. Non essendo pratico di informatica non è stato facile, eppure, dedicando il giusto tempo a imparare, sono arrivato al punto di dormire sonni sereni sapendo che i miei risparmi si trovano in portafogli virtuali sui quali io, e solo io, ho la responsabilità. E’ un esperienza molto diversa rispetto al deposito in banca, che peraltro beneficia della garanzia statale, perché se da un lato ci si sente più liberi da scartoffie e burocrazie, dall’altra ci rende molto più responsabili. Prima di investire in cripto-valute ho dovuto verificare la sicurezza del mio PC, ho dovuto informarmi sui portafogli elettronici e imparare un modo completamente nuovo di usare il denaro. Se perdo una password, per esempio, o sbaglio l’indirizzo di una transazione, non posso tornare indietro – come Bitcoin.org rende chiaro – né posso incolpare qualcun altro. I rischi sono tanti, certo, così come le opportunità.

In conclusione, con questo post ci tenevo a raccontare una piccola esperienza che però credo abbia portata generale. Sono arrivato a pensare che l’espressione “essere Stato”, nata per un incontro fortuito, possa indicare il vivere facendo noi stessi ciò che siamo abituati a chiedere allo Stato. Significa scoprire come creare la propria rete di sicurezza invece di aspettare che sia lo Stato ad assicurarci, nel lavoro, nella previdenza, nelle nostre scelte. Significa tutelarsi come consumatore, risparmiatore e lavoratore, invece che dipendere esclusivamente da una garanzia statale, che poi prende sempre la forma di regolamentazione (obblighi e divieti) o salvagente (sussidi e imposte). Oggi, attraverso la Rete, è ancora più facile e efficace. Al momento alcune iniziative sono esperimenti e come tali potranno risultare in buchi nell’acqua, altre verranno bloccate (come Uber), altre ancora faranno da pionieri. Quello che conta sono le idee. La fisica ci ricorda che da una condizione estremamente ridotta (il Big Bang) è nato un universo infinitamente grande. Forse è proprio dalle piccole cose, anche solo un’idea, che nascono le grandi cose, e non viceversa.

2
Set
2016

Produttività, produttività, produttività – di Nicolò Bragazza

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Nicolò Bragazza.

L’Italia non cresce ed è cosa ben nota. Basta dare un rapido sguardo ai dati ed il quadro si fa subito piuttosto allarmante: il declino prosegue da anni e anche quando l’economia ha mostrato segnali postivi, tuttavia questi erano sistematicamente inferiori rispetto a quelli degli altri paesi sviluppati.

Ma che cosa si è rotto nel nostro Paese da impedire, anche nei momenti in cui le altre economie si risollevano, una ripresa solida e duratura che abbia come combustili principali la crescita dei consumi e soprattutto degli investimenti? Read More

31
Ago
2016

La mazzata Ue a Apple piace ai più, ma ha evidenti falle legali

La guerra fiscale tra Apple e la Commissione Europea scoppiata ieri sarà uno dei casi del secolo. Ma intanto, alla notizia della mazzata vibrata dalla commissaria Ue alla Concorrenza Margreth Vestager al gigante guidato da Tim Cook, i più in Europa hanno esultato. Finalmente l’Europa si fa sentire, è il coro espresso dal più dei governi, dai media e da chi in Europa subisce quella che considera una concorrenza impropria da parte delle multinazionali della rete come Google, Facebook e Amazon: cioè editori,  autori, produttori di contenuti multimediali e imprese europee delle tlc. Come del resto avviene a ogni iniziativa Ue contro i giganti della rete, iniziative delle quali l’Istituto Bruno Leoni ha invece puntualmente cercato di sottolineare la purtroppo ricorrente pretestuosità tecnica (vedi per esempio qui, qui, qui e qui)

In effetti, ogni previsione questa volta è stata superata: il dossier aperto dalla Vestager sugli accordi fiscali agevolati – tax rulings, in gergo tecnico – tra Apple e Irlanda non sfocia in una sanzione da 1 miliardo di euro come immaginava l’Economist, ma nella bellezza di 13 miliardi di euro di minori imposte pagate tra 2003 e 2014, somma che ora tocca all’Irlanda recuperare sommandovi gli interessi. Ma l’Irlanda impugnerà la decisione, sulla stessa base con cui lo farà Apple. Ed è intorno a questo caso, multiplo come grandezza finanziaria rispetto all’arcifamosa sanzione comminata nel 2004 da Monti commissario Ue a Microsoft per 497 milioni di euro, che ora per lungo tempo divamperà una guerra. Tra le due rive dell’Oceano, ma anche tra paesi europei a bassa tassazione d’impresa e quelli che invece considerano i primi come paradisi fiscali. Al di là dei vasti consensi all’azione Ue, il fondamento legale della decisione è fragile, rischioso e irto di contraddizioni.

Come può l’autorità europea che vigila sulla concorrenza assumere i poteri di un’autorità fiscale, pur essendo le politiche tributarie di competenza nazionale?  La Vestager parte dal presupposto che i tax rulings configurino in realtà aiuti di Stato, ergo violazioni della concorrenza. E su questa base giuridica ha indagato Apple, come ha già fatto per Starbucks, Fiat ed altri, estendendo le indagini non solo all’Irlanda, ma all’Olanda e al Lussemburgo. La Commissione ammette tuttavia anche di “non avere competenza in materia tributaria”, e affida ai governi ora il recupero delle risorse. Se l’aliquota sui redditi d’impresa irlandese è al 12,5% – cosa che fa imbestialire i grandi paesi europei ad alte aliquote (nemici della concorrenza fiscale che è invece buona cosa) che invano tentarono di farla alzare agli irlandesi in cambio degli aiuti Ue alle loro banche – allora sono illegittimi gli accordi che hanno consentito ad Apple di pagare via via dall’1% fino solo allo 0,005% di imposta a Dublino. Senonché i tax rulings non sono eccezione in Irlanda e  Lussemburgo ma centinaia e centinaia (nel novembre 2014 Wikileaks ne pubblicò oltre 500 offerti dal Lussemburgo a oltre 340 imprese multinazionali, nei soli anni 2002-2010). Cioè rappresentano un’articolazione ordinaria della politica fiscale di quei paesi europei per attirare imprese, non straordinaria.  Inoltre, la decisione della Commissione “obbliga” uno Stato Ue a una tassazione retroattiva secondo norme diverse da quelle che esso si era dato: una scelta che dovrebbe far sobbalzare i sovranisti in tutti i paesi europei, e questa volta a piena ragione. Qui per esteso le ragioni tecniche per le quali non condivido la pretesa base legale della Commissione, esposte da Massimiliano Trovato in un paper IBL.

Ma sono obiezioni di carattere formalistico, è la reazione dominante. Il punto è invece che non si può consentire a imprese che realizzano profitti per centinaia di miliardi la possibilità di pagare imposte per pochi milioni. E di non riconoscere i diritti alle imprese editoriali di cui veicolano i contenuti sui loro motori di ricerca. E di non compartecipare alle spese infrastrutturali per realizzare reti a banda larga da parte delle imprese di tlc, quando il più della banda finiscono per occuparlo loro coi loro contenuti. E via continuando. E’ un’osservazione sostanziale, tuttavia bisogna ricordare alcune questioni, prima di vedere se e come la maxi-sanzione europea sopravviverà al contenzioso e fisserà un precedente, oppure no.

E’ vero che la tassazione dei grandi gruppi trans-nazionali è un grande problema irrisolto della globalizzazione. L’OCSE stima che l’elusione delle multinazionali raggiunga l’effetto di 240 miliardi di dollari di minori tasse pagate l’anno, circa il 10% delle imposte raccolte sui redditi d’impresa a livello mondiale. Tuttavia, per identificare criteri comuni su cosa sia reddito imponibile e da pagare in quale paese, occorrerebbe un grande accordo tra autorità fiscali continentali, Stati Uniti, Europa e Cina. Solo così si potrebbero identificare regole comuni alle quali attenersi. Ma non è la strada che è stata intrapresa.

Il G20 affidò all’OCSE la stesura di linee guida orientative che sono state illustrate nell’autunno scorso, le cosiddette BEPS (“Base Erosion and Profit Shifting”). Molto articolate, in cinque grandi capitoli: fissando come obiettivo quello di report nazionali paese per paese in cui ogni grande gruppo dichiari dove ha stabile organizzazione e dove incardina invece fiscalmente i suoi cespiti (interessi, dividendi, diritti da brevetti e proprietà intellettuale, con questi ultimi aspetti “intangibili” essenziali per la produzione di reddito delle grandi imprese della rete). Sulla base di uno scambio d’informazioni sempre più capillare tra Stati, e contenendo sempre più la possibilità di triangolazioni che vedano i flussi di profitto sparire magari in società controllate dai grandi gruppi ma in paradisi fiscali “veri”, dalle Bahamas alle Cayman. Tuttavia, quelle linee guida OCSE sono solo la base per accordi fiscali bilaterali e multilaterali tra nazioni, e sinora siamo molto ma molto indietro.

Si aggiungono anche altre difficoltà.

Molti paesi hanno tentato di imboccare una via autonoma, minacciando le multinazionali di creare basi imponibili “presuntive” partendo non dalla stima degli utili ma del fatturato realizzato nazionalmente attraverso clienti e intermediari. Era questa la base anche di alcune proposte di legge – la cosiddetta “web tax” – proposte anche nel parlamento italiano, ma sulle quali il governo ha deciso per fortuna sinora di soprassedere, scegliendo l’approccio multilaterale. Quando dico “per fortuna” intendo che a oggi, assumere i ricavi come base imponibile presuntiva farebbe a pugni con la definizione di reddito d’impresa secondo il Testo Unico dei redditi vigente ( vedi qui e qui). Ma ciò è comunque bastato per raggiungere accordi fiscali di maggiori introiti. Proprio Apple ha versato 319 milioni di euro nello scorso autunno all’Italia chiudendo un contenzioso molto maggiore, per 880 milioni, notificatole dall’Agenzia delle Entrate e dalla procura di Milano. E un analogo fascicolo è aperto con Google. Ma ammettiamolo: proprio l’esiguità delle transazioni finali rispetto alle contestazioni iniziali italiane dimostrano che, in assenza di una base normativa chiara e condivisa internazionalmente, la pretesa delle autorità tributarie nazionali deve accontentarsi di soluzioni extragiudiziali. I paesi “deboli” rischiano altrimenti di vedere i giganti della rete disintermediare i loro clienti. Solo il Regno Unito, contando di essere troppo finanziariamente rilevante agli occhi delle multinazionali, ha sin qui adottato una discussa misura – la Diverted Profit Tax – che identifica con il modello dei prezzi di trasferimento nella catena delle diverse società controllate all’estero dalle multinazionali, ma calcolati a valore di mercato e non quello dichiarato dai gruppi,  una stima presuntiva dei redditi sottratti, da tassare al 25%. Ma occhio: è la stessa Gran Bretagna che ieri ha fatto ponti d’oro ad Apple appena appresa la decisione della Commissione, dicendo: noi non siamo più sottoposti alla Ue, venite da noi e ci metteremo d’accordo.

Infine, la decisione della Vestager comporta un’altra incognita. Se l’aria è cambiata in questi ultimi anni con massicci accordi bilaterali di cooperazione fiscale – a cominciare dal segreto bancario di fatto caduto in Svizzera, Lussemburgo e Austria – si deve alla svolta avvenuta negli USA con il protocollo FATCA.  E anche nell’attuale campagna per le presidenziali un tema al centro del dibattito è cosa fare per superare l’attuale norma fiscale statunitense, che ha portato circa 1,1 trilioni di dollari di utili di multinazionali americane parcheggiati in altri ordinamenti fiscali (la stima mondiale è di circa 2 trilioni), per evitare la tassazione del 35% al reimpatrio negli States. Per questa ragione la definizione congiunta di che cosa configuri “stabile organizzazione” e dove si tassino i cespiti di una multinazionale, dovrebbe essere primario interesse dell’Europa. Che però sinora è divisa, perché ciascuno è in piena concorrenza fiscale col vicino per aggiudicarsi presenza e investimenti diretti esteri da parte delle multinazionali in questione. Mentre la mazzata di ieri ha portato automaticamente il governo USA a difendere Apple e i suoi giganti della rete, quegli stessi che al Congresso critica come elusori fiscali. L’effetto opposto cioè di quanto serve se vogliamo che il fisco USA e quello dei diversi paesi Ue raggiungano mai un accordo comune.

Conclusione. La via nazionale a tassare i giganti della rete secondo ricavi stimati ha basi legali fragili e crea danni ai mercati dei paesi che l’applicassero. La via europea di usare l’antitrust per riscrivere retroattivamente le norme fiscali nazionali è inaccettabile. Un accordo vero è efficace solo se condiviso tra grandi autorità fiscali e abbiamo il massimo interesse a un accordo con gli USA, mentre la decisione della Commissione è un guanto di sfida che porta – come si è visto ieri – le autorità americane a difendere le proprie multinazionali, che pur contesta a Washington.

Vedremo come va a finire. Senza una buona soluzione, è un’altra potente spinta a far regredire la globalizzazione.  La giusta tassazione non va mai confusa con l’anatema alla concorrenza fiscale. Finché ci saranno paesi con aliquote più basse, quelli con aliquote troppo levate saranno costretti comunque a ridurle. E così facendo crescono di più, non di meno. E’ esattamente questo che non piace, a molti di coloro che applaudono la Vestager.

29
Ago
2016

Terremoto: vittime anche per le folli norme di Stato

No, non è solo questione di illegalità, ma anche di legalità asinina. Entrambe concorrono alla grande strage sismica italiana. A pochi giorni dal terremoto che ha mietuto sinora 290 vittime a cavallo della provincia di Rieti e Ascoli Piceno, cioè nella zona sismica di categoria 1 più esposta a devastazioni in Italia, già abbiamo alcuni dati su cui riflettere. Per capire una volta per tutte che cosa “non” bisogna continuare a fare, ora che grazie al cielo pare manifestarsi l’intenzione di lanciare un programma pluridecennale per la messa in sicurezza delle aree d’Italia più geologicamente a rischio.

Dagli elementi sin qui appurati dai cronisti, tra tutte è la vicenda della scuola Romolo Capranica di Amatrice, quella che già consente una serie di molto amare riflessioni. Intanto, perché il crollo della scuola è un doloroso esempio – per fortuna questa volta senza vittime dirette – dello Stato che non fa quel che deve innanzitutto per il suo patrimonio, di scuole e ospedali, malgrado si conoscano tutti i numeri delle migliaia di presidi pubblici non a norma. Poi, perché come tutti hanno scritto un intervento antisismico sull’edificio, che risale agli anni Trenta, è stato compiuto nel 2012, ma con i penosi risultati che si vedono. Inoltre, perché subito sono scattate le indagini delle autorità giudiziarie, alla luce dei sospetti che ora emergono su chi si aggiudicò quell’appalto, un’impresa calabrese alla cui guida vi sono parenti e soci d’affari di esponenti raggiunti da interdittive antimafia poi annullate, e sull’impresa romana alla quale i lavori furono poi subappaltati. Nonché le indagini sono aperte anche per un successivo appalto che ancora non era entrato in esecuzione, aggiudicato col massimo ribasso alla “Carlo Cricchi”, il figlio del cui proprietario è sotto processo per corruzione, reati fiscali e falso, per un’appalto “pilotato” di 19 milioni nella ricostruzione dell’Aquila.

Tutti particolari che hanno immediatamente fatto accendere i fari delle massime autorità giudiziarie del nostro paese: dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti a, ovviamente, il capo dell’Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone. Entrambi pronti lodevolmente a dire: garantiamo che questa volta nella ricostruzione non ci saranno le amplissime discrezionalità e illegalità diffuse viste per esempio in Irpinia, con la conseguenza di un maxi falò di decine di miliardi di risorse pubbliche. Prendiamone atto e vigliamo tutti, vien da dire.

E tuttavia no, il crollo della scuola Capranica ad Amatrice malgrado l’intervento del 2012 non è solo un potenziale simbolo negativo per l’ombra di illegalità eventualmente compiute nei lavori. Nella vicenda c’è qualcosa di gran lunga peggiore, anche se finora è passato sotto silenzio. Perché investe non l’eventuale verificarsi di violazioni di legge che mettano cinicamente a rischio la vita di insegnanti e ragazzi. Ma che esprime invece l’ordinaria e strutturale conseguenza letale prodotta dalla follia del nostro legalissimo ordinamento istituzionale, dalla sua proliferazione sovrapposta di competenze, dalla bizantina illogicità delle sue prescrizioni, che sembrano fatte apposta per aprire varchi a interessi e tornaconti, non al fine dichiarato della sicurezza della vita e del patrimonio. Vediamo i motivi per giustificare un’accusa tanto grave: rivolta allo Stato per com’è oggi in Italia, non solo ai criminali.

Ricostruiamo allora i diversi stanziamenti per gli interventi antisismisci alla scuola Capranica di Amatrice. Dopo il terremoto 2009 all’Aquila, il governo Berlusconi mise a disposizione oltre 1 miliardo nazionalmente per la messa in sicurezza degli edifici. E tramite la Provincia di Rieti – l’assegnazione delle risorse passava per la Protezione Civile – sembrò che ad Amatrice fosse disponibile uno stanziamento complessivo per la scuola Capranica, di 1 milione e 263mila euro. Sfumato nel nulla, per problemi burocratici sommati alle crescenti difficoltà di cassa della provincia, avviata come tutti i suoi omologhi nelle regioni a statuto ordinario a perdere la qualifica di organo elettivo di primo grado per trasformarsi di fatto in consorzio di Comuni. Tutti elementi anch’essi su cui la procura di Rieti indagherà.

E siamo al 2012, quando appare il finanziamento di 511mila euro, questa volta a carico del fondo edilizia scolastica del MIUR. A cui si aggiungono 200mila euro di natura mista, visto che il più delle risorse viene dalla legge regionale 17/2009 della Regione Lazio, a cui si aggiunge una quota a carico del Comune e una anche della Provincia a mo’ di riscatto della promessa non mantenuta, appalto che porta ai lavori realizzati con grande velocità per consentire il regolare avvio dell’anno scolastico 2012-2013.

Ottimo? No, neanche un po’. Perché l’accordo con cui la provincia di Rieti cede al comune di Amatrice la supervisione sui lavori ricalca un decreto ministeriale sugli interventi antisismici del 1996, ben precedente cioè ai criteri definitivamente rimessi a punto nel 2009 post-Aquila, e secondo quel testo i lavori possono benissimo limitarsi a semplici interventi di “miglioramento”, non di “adeguamento” pieno ai criteri antisismici. Di qui la possibilità legalissima di usare i fondi per intervenire sulle caldaie di riscaldamento, pavimenti o impianti anti-incendio, invece di concentrarsi solo sull’esame accurato di tutti gli interventi possibili coerenti alle lacune di portanza e dei giunti di flessibilità elastica dell’edificio. Ecco perché la scuola è crollata, ed è tutto secondo le legge: dannazione, viene da dire.

E anche il terzo lotto di finanziamenti, quello per 172mila euro, sulla cui aggiudicazione la procura indaga anche se non era ancora nella fase attuativa, nasce dalle stesse fonti finanziarie plurime dell’intervento 2012, ma in teoria avrebbe potuto benissimo risolversi in un intervento del tutto analogo, e dunque non risolutivo. A ciò si aggiunge che la legge regionale del Lazio modificò il criterio dell’intervento relativo ai privati: per vedersi finanziati i privati dovevano essere obbligatoriamente residenti, il che escludeva tutte le seconde e terze case. Di qui neanche 200 assegnatari, nella zona oggi devastata, invece di alcune migliaia: come se crolli e morte non riguardassero coloro che in questi paesi trascorrono una parte dell’estate nelle case ereditate da padri e nonni, come è proprio tragicamente avvenuto ad Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto.

Cosa dedurre da questa ricostruzione? Almeno tre conseguenze, che sono di portata enormemente superiore a quella dei processi a carico di chi ha eventualmente rubato e corrotto sui lavori antisismici.

La prima, ora che si pensa finalmente a un Progetto-Italia pluridecennale (Casa-Italia, lo chiama ora Renzi) da presentare in Europa come una vera e propria “grande riforma” di cui ha bisogno il paese europeo più esposto al rischio sismico insieme alla Grecia, è che occorre massicciamente concentrare regia e controllo sulle decine di migliaia di interventi che saranno necessari, nel patrimonio pubblico e – tramite massicce agevolazioni – in quello privato. Per favore: Stato, Regioni, Province e Comuni non possono a questa vicenda aggiungere e cumulare ciascuno i propri guai e inefficienze. E bisognerebbe anche evitare di confondere in questo progetto ogni altro tipo di intervento pubblico a fini diversi, dalla banda larga a saddioché come sembra invece trapelare dal governo: più si crea un carrozzone, meno funzionerà.

La seconda: occorre un’opera rapida di igiene pubblica su testi di legge, decreti e regolamenti da applicare, visto che ereditiamo decenni di testi superfetati e autoelidenti, pronti a generare effetti mortali com’è accaduto ad Amatrice.

La terza: non ne va solo della vita e sicurezza innanzitutto dei 3 milioni di italiani che vivono nella parte d’Italia a massimo rischio, e dei 10 milioni nella fascia di rischio più esteso, in gioco sono anche i conti pubblici, e le tasche del contribuente.

Ora che tutti speriamo in una grande sfida che negli anni ci porti a non ripetere la conta di morti e dei danni del passato, lo Stato non dimentichi che colossali stanziamenti dispersi tra decine di migliaia di stazioni pubbliche appaltanti portano anch’essi la loro parte di responsabilità delle vittime. E fanno restare senza parole gli italiani dalle cui tasche sono usciti.

29
Ago
2016

Addio a Sir Antony Jay, il creatore della popolare serie tv Yes Minister – di Giovanni Chiampesan

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Giovanni Chiampesan.

Sir Antony Jay è venuto a mancare lo scorso 21 agosto. Non ho mai avuto l’onore né la fortuna di conoscerlo personalmente, ma circa due anni or sono rispose con un’email estremamente stringata ad una richiesta da parte mia e dell’IBL di poter pubblicare il primo volume di Yes Minister in italiano (il testo, in formato ebook, è stato poi pubblicato qualche mese dopo: Yes Minister. I diari dell’Onorevole James Hacker, vol. I). La risposta era “OK by us AJ & JL”. Era talmente telegrafica e tempestiva e all’apparenza così poco British – All right è, o almeno era, la forma preferita nel Regno Unito all’espressione americana OK – che mi sentii in obbligo di verificarne l’autenticità prima di procedere. L’esatto contrario del modus operandi di Sir Humphrey Appleby, Direttore Generale del Ministero degli Affari Amministrativi, il personaggio più famoso scaturito dalla penna di Sir Antony Jay e Jonathan Lynn (le seconde iniziali nell’email sono le sue). Sir Humphrey è la quintessenza del burocrate subdolo ed equivoco, la cui risposta preferita, per sua stessa ammissione, è “Yes and no”, e rappresenta il vero ostacolo al cambiamento del funzionamento della macchina dello Stato, più che i politici benintenzionati che vanno e vengono. La realtà è che i Sir Humphreys di questo mondo non vanno e vengono, ma dobbiamo sorbirceli ogni giorno fino alla fine della loro carriera, come scopre il Ministro degli Affari Amministrativi, James Hacker, e passano le giornate a dare una parvenza di cambiamento per poi in realtà non cambiare nulla. Il Ministero degli Affari Amministrativi era stato creato ad hoc per controllare ed eliminare tutti gli sprechi e le inefficienze degli altri ministeri – vedi i nostri vari e impotenti Commissari alla Spending Review – ma come viene spiegato nella Nota dei Redattori che fa da prefazione al libro, “Purtroppo, anche se il Ministero degli Affari Amministrativi era stato creato per controllare la Pubblica Amministrazione, sarebbe stata la stessa Pubblica Amministrazione a gestirlo. I lettori saranno quindi ben consapevoli di ciò che fu l’inevitabile risultato delle fatiche di Hacker”.

Scrittore, sceneggiatore, giornalista televisivo e regista Sir Antony Jay ha avuto il grande merito di aver reso popolari le idee di “Public Choice” ad un pubblico di non addetti ai lavori prevalentemente anglosassone, dato che in Italia e in Francia le traduzioni della serie completa non sono ancora disponibili, salvo che per il primo volume edito da IBL – a partire dai primi anni Ottanta. Come ha scritto Peter Kurrild-Klitgaard nella sua introduzione a Le motivazioni del voto di Gordon Tullock, “È un’ipotesi fondata che gli autori della fortunata serie televisiva inglese Yes Minister e Yes Prime Minister, andata in onda nel corso degli anni Ottanta, avessero almeno in parte una loro evidente familiarità con le tesi della Public Choice, relative al comportamento di politici, burocrati e gruppi di interesse, sulla base della lettura della piccola monografia edita dallo IEA”.

E’ per questo motivo che gli fu conferita l’onorificenza di CBE. Jay fu inoltre l’autore satirico preferito di F.A. Hayek e Margaret Thatcher, la quale insisté per scrivere assieme a lui un breve sketch intitolato “Il piano del Primo Ministro”, nel quale si ordinava a Sir Humphrey di abolire gli “economisti” per risparmiare sulle spese. In questo caso pensiamo che il riferimento fosse ai “macroeconometristi di scuola Keynesiana”, criticati da Hayek non solo per la fallacia delle loro tesi, ma perché avevano la falsa pretesa di poter simulare il funzionamento dell’economia reale attraverso complicate formule matematiche congegnate ad hoc senza utilizzare alcun metodo scientifico.

26
Ago
2016

Come reagirete se ai vostri figli toccherà un insegnante appena bocciato al concorsone?

Come reagirete da genitori, quando a settembre magari ai vostri figli toccheranno insegnanti appena bocciati al concorsone in via di svolgimento? Farete impugnativa? No, non potete. Questo paradosso non solo avverrà, ma è la legge a consentirlo. E l’unica attenuante che si può trovare alla norma, è che nemmeno Ercole sarebbe riuscito nella gigantesca impresa di sanare di botto l’oceano di precari della scuola ereditato dal passato.

I primi dati attendibili ormai lo confermano. Per ottemperare alle sentenze della Corte di Giustizia Europea, contro l’abuso vergognoso perpetrato per decenni in Italia a danno di centinaia di migliaia di precari nella scuola, nemmeno la pur ingente leva di massa decisa dal governo Renzi sarà in grado di sanare la situazione. E non si eviteranno alla scuola italiana nuovi e dolorosi paradossi. Purtroppo, i precari – insegnanti non di ruolo ma chiamati a esercitarne le funzioni – resteranno, molti meno di prima ma comunque decine e decine di migliaia. Ma il paradosso nuovo è tragicomico: perché alle cattedre saranno giocoforza chiamati proprio magari molti di coloro che, all’attuale concorsone, non hanno superato le prove.

Che dei precari comunque restassero, lo si sapeva. Gli 87 mila messi in ruolo dopo la riforma Giannini hanno riguardato soprattutto la cosiddetta prima fascia delle graduatorie a esaurimento, mentre la seconda era riservata agli abilitati e la terza ai non abilitati, a cui si sommavano inoltre le graduatorie provinciali per le supplenze. Il concorsone subito bandito e in corso riguarda invece la messa in ruolo per altre 63 mila cattedre nel triennio che comincia a settembre, ed è soprattutto per gli abilitati GAE di seconda fascia. Ma già qui il meccanismo si è inceppato. Rivelando in maniera impietosa ciò che invano alcuni hanno tentato di ricordare mentre la riforma era discussa, e cioè che i titoli abilitanti di molte migliaia di precari erano in realtà deboli e talvolta debolissimi, e che non avrebbero retto a una cernita seria.

Infatti è quel che clamorosamente sta avvenendo. Dobbiamo alle puntigliose e approfondite radiografie svolte da Tuttoscuola una serie di dati illuminanti. E terribili. Dei 175 mila circa – nota bene: tutti abilitati all’insegnamento, per il cervellotico e obbrobrioso sistema praticato dai governi italiani per decenni – partecipanti teorici per classi di materie e gradi d’insegnamento nelle 825 commissioni d’esame, ne sono stati esaminati sinora oltre 70mila per le prove scritte. Ma il 55% di loro non è stato ammesso agli orali. Una percentuale che nei respinti alimenta polemiche sulla qualità delle prove sostenute, ma che in realtà certifica le ragioni minoritarie sostenute da chi ha tentato da una parte di riconoscere che il precariato doveva cessare, ma che dall’altra la messa in ruolo non poteva avvenire senza una selezione dura della qualità dei docenti. Purtroppo, se per decenni i governi ti tengono sotto il ricatto delle chiamate a tempo, giocoforza ciò rappresenta per i precari un potentissimo disincentivo al perfezionamento.

A questo si aggiunge che, delle 825 commissioni di concorso, 315 sono comunque in grave ritardo, e non riusciranno a procedere alla fine dei loro lavori entro il 15 settembre come previsto, cioè in tempo utile per le assegnazioni dell’anno scolastico 2016-17. Sommando l’ulteriore selezione agli orali inevitabilmente prevedibile a questo punto per le 510 commissioni che concluderanno i lavori in tempo utile, con una stima di almeno 10 mila cattedre non assegnate, e altrettante almeno che mancheranno per via delle commissioni in ritardo, la stima attuale è di almeno 20mila cattedre non coperte su 63mila bandite. Con alcune regioni che rischiano molto più di altre, a cominciare dalla Lombardia  che vede sin qui la più bassa percentuale di ammessi agli orali, solo il 30,7%. E un clamoroso allarme rosso che riguarda le scuole primarie e l’infanzia, ben 24 mila posti dei 63mila banditi, ma che sin qui vedono una terrificante percentuale pari solo al 22% di ammessi agli orali dopo gli scritti.

Che cosa avverrà, per evitare che l’anno scolastico resti a cattedre scoperte? Ovvio. Si farà ricorso ai precari. Dove sono ancora attive le graduatorie ad esaurimento i posti previsti e non assegnati saranno assegnati agli iscritti in GAE prima fascia, dove siano esaurite si farà invece ricorso a supplenze annue, attingendo alle graduatorie di fascia inferiore. E’ altrettanto ovvio che tra i precari abilitati di seconda fascia finirà in cattedra magari proprio chi è stato bocciato agli scritti del concorsone in atto. Come dicevano all’inizio: preparatevi, perché non potrete protestare se a isnegnare ai vostri figli c’è chi non ha suiperato le prove scritte o è stato respinto agli orali.

E ancora una volta non avremo spezzato la diabolica macchina del ricatto: vaglielo a spiegare, a chi non ha superato il concorso, che ha senso un simile meccanismo di selezione se poi lo Stato è costretto comunque, per porre rimedio all’oceanico errore ereditato, ad affidarti comunque una cattedra ma dicendoti che vale solo per un anno. Passeranno almeno tre anni così, prima che si possa risolvere questo nuovo guaio. Che comunque insegna già con lampante evidenza tre cose.

La prima riguarda il passato. I ministri che al MIUR per decenni hanno tollerato il precariato di massa, e i tanti magistrati componenti delle Alte Corti italiane che nel tempo hanno confermato quel sistema, dovrebbero tutti sentire il dovere di partecipare a un grande rituale pubblico in cui offrire le proprie scuse al paese: come si usa in Giappone, simbolico quanto volete, ma necessario. Non avverrà, ma è un peccato. Non solo perché anche di simboli si nutre la vita pubblica. Soprattutto perché la qualità della scuola è decaduta – sia pure a macchia di leopardo, come si vede dai testi PISA e da quelli INVALSI – per effetto potente di quell’orrendo meccanismo.

La seconda riguarda il presente. E’ molto difficile, ce ne rendiamo conto, ma al ministero dovrebbero ora con urgenza tentare di escogitare un meccanismo giuridicamente credibile, che eviti sia l’affidamento d’insegnamenti a chi non è palesemente all’altezza, sia il proliferare di impugnative.

La terza riguarda il futuro. Mai più concorsoni per l’insegnamento fondati su graduatorie i cui titoli si accumulavano innanzitutto per anzianità. Mai più, per favore. Perché queste percentuali di respinti alle prove scritte sono un segnale di pericolo per il futuro dell’Italia molto ma molto più grave persino di qualche zerovirgola di PIL di deficit pubblico in più.

25
Ago
2016

Sismi e dissesti: i numeri per non continuare a morire affidandosi ai tarocchi

Quando non si tratta di tsunami o di frane, quasi sempre non sono i terremoti a uccidere gli uomini, ma le strutture costruite male dall’uomo. Da questa amara constatazione bisogna ripartire ogni volta che un sisma miete vittime nel nostro paese. Cioè ogni pochissimi anni, visto che siamo un paese interessato da forti rischi sismici, regolarmente studiati e censiti dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. E ogni 6-7 anni registriamo un evento di magnitudo fino a 6. La zona del Lazio, Umbria e Marche colpita ieri dal terremoto di magnitudo 6 rientra nella zona 1 della classificazione sismica, la più alta. Eppure, a ogni schiera di morti è come se la lezione non l’avessimo mai imparata.

Come ha detto ieri il sismologo Massimo Cocco dell’INVG, in una zona di rischio 1 “tutti gli edifici nuovi devono essere costruiti seguendo regole adeguate, e quelli più vecchi devono essere messi in sicurezza”. In questo paese abbiamo perseguito penalmente i sismologi per non aver saputo predire il terremoto dell’Aquila in un processo che fatto ridere il mondo, ma alle cose serie documentate da decenni dalla comunità scientifica italiana no, continuiamo a non dare retta. O meglio: i criteri antisismici per gli edifici nuovi esistono per legge dal 2009, mentre la classificazione delle classi di rischio per gli edifici pre-esistenti cioè il 99%, elaborata da un’apposita commissione, si è persa al momento nel passaggio di consegne tra l’ex ministro Lupi e quello attuale.

Oltre al dolore per le vittime e alla solidarietà per tutti i colpiti, e al massimo del sostegno a tutte le forze dello Stato e del volontariato che ieri si sono adoperate da subito nell’area a cavallo tra la provincia di Rieti e di Ascoli Piceno, ieri la prima reazione è stata appunto quella dell’insofferenza, nel pensare che paesi del mondo interessati da analoghi rischi tellurici da decenni hanno messo in atto una vera rivoluzione nell’edilizia, mentre da noi ci si continua ad affidare al fato.

Facciamo un solo esempio, di quanto amara possa essere la conseguenza del nostro incredibile atteggiamento nazionale. Tra il 14 e il 16 aprile scorso la prefettura di Kumamoto in Giappone è stata colpita da un terrificante sciame di scosse telluriche, oltre mille, con le due punte massime a 6,2 e 7 gradi di magnitudo. La prima delle due è del tutto paragonabile a quella che ieri ha devastato Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Una magnitudo 6 equivale, nella scala Richter, all’energia sprigionata dall’esplosione entro 100 km di un milione di tonnellate di tritolo, e per capirci la bomba di Hiroshima equivaleva solo a 13mila tonnellate. Una magnitudo 7, poiché le scale sono logaritmiche, equivale invece all’esplosione di 31,6 milioni di tonnellate. Di scosse di magnitudo 6, come quella che ha colpito il centro Italia ieri, se ne registrano in media 120 l’anno sul nostro pianeta. Di magnitudo 7, solo 18.  L’area interessata dal sisma giapponese ad aprile ha oltre 2 milioni di abitanti, di cui 800mila nel solo capoluogo Kumamoto. Eppure, malgrado l’alta densità antropica e un sisma tanto più potente di quello che ha colpito l’Italia ieri, le vittime giapponesi furono solo 49. Mentre da noi il bilancio è ancora purtroppo non definitivo, ed è oggi salito ad almeno 240 vittime: in un’area in cui i residenti complessivi nei diversi piccoli Comuni colpiti sono poche decine di migliaia, non milioni come in Giappone.

Eppure ieri è bastato dirlo, che dovremmo fare anche noi col nostro patrimonio edilizio quel che da decenni fanno Giappone e California, per scatenare un’ondata di riprovazione. Poi rintuzzata dal parere accreditato di geologi e sismologi, che naturalmente hanno battuto sullo stesso punto. Ma, in generale, la convinzione diffusa resta che no, noi non possiamo credere di poter fare come altri paesi, perché noi abbiamo centri storici e piccoli paesi che sono il frutto di un’evoluzione bimillenaria, mica possiamo radere al suolo e ricostruire come fanno gli altri.

E’ una convinzione sbagliata. L’alternativa irrazionale è tra radere al suolo e morire sfidando il fato. Quella razionale è tra il mettere finalmente mano a un enorme piano pluriennale di messa in sicurezza del patrimonio esistente – sì, anche quello storico, di edifici che hanno uno, due, o magari tre-quattro secoli – e di radicale ottemperanza ai criteri antisismici per le costruzioni nuove. In caso contrario, ricordarsi bene che la colpa delle vittime è nostra.

Anche perché poi non è affatto vero che a crollare e a far vittime siano solo gli edifici in pietra grezza, legno e vecchia calce e cartongesso dei paesini collinari e montani. Nei terremoti italiani ogni volta se ne scendono a pezzi i palazzi dello Stato edificati pochi anni, o al massimo 2-3 decenni fa. Ricordate la strage di San Giuliano di Puglia, il 31 ottobre 2002, quando sotto i mattoni della scuola completamente distrutta da una scossa di magnitudo 6 morirono 27 bambini e una maestra? Non vi è tornato in mente, osservando ieri le immagini devastate dell’ospedale di Amatrice, inagibile per le scosse malgrado risalga alla fine degli anni Settanta? E malgrado sia stato destinatario di fondi anche per la messa in sicurezza dopo il sisma dell’Aquila del 2009, fondi naturalmente non spesi e dunque senza realizzare le opere di consolidamento previste? E della scuola rimessa in sicurezza e reinaugurata nel 2012 ma ugualmente crollata, ne vogliamo parlare?

La strage di San Giuliano ha visto condannati fino alla Cassazione i responsabili: non la natura aspra e matrigna coi suoi terremoti, ma i costruttori e progettisti, il tecnico comunale e il sindaco dell’epoca, che di quella scuola non a norma portavano la colpa. Da allora, c’è stata una radiografia nazionale dell’intero sistema di edifici pubblici sanitari, svolta dalla Commissione che ha consegnato i lavori a febbraio 2016 (vedi qui da pag. 30), da cui abbiamo appreso che il 75% degli oltre mille presidi sanitari italiani corre il serio rischio di crollare, in presenza di scosse di magnitudo 6 come quella che ieri ha preteso nuove vittime. L’ordine dei geologi a ogni inizio anno scolastico ricorda che nel nostro paese sono 24mila le scuole ad alto rischio sismico, e 7mila a rischio idrogeologico. Ma nell’osservatorio per l’edilizia scolastica, che esiste da 20 anni, i geologi non ci sono.

L’ordine di grandezza dei danni patiti dall’Italia per eventi sismici e idrogeologici dal dopoguerra a oggi – sisma di ieri escluso, ovviamente – è di 250 miliardi di euro, stimato dall’ANCE (4 anni fa, per questo va arrotondato). Solo dal Belice a oggi lo Stato direttamente ha speso circa la metà, ma bisogna aggiungere le spese dei privati. Con oltre 4500 vittime se solo ci limitiamo agli ultimi 40 anni, dal terremoto del Friuli a quello dell’Irpinia, fino all’Aquila nel 2009 e all’Emilia nel 2012.

E’ verissimo. Per lo Stato la messa in sicurezza di decine di migliaia di propri edifici comporterebbe costi elevati. Molto più elevati ancora i costi poi per l’intervento sul patrimonio immobiliare privato, intervento che dovrebbe essere incentivato da potentissimi sgravi fiscali. Interventi che dovrebbero essere realizzati anche evitando l’azzeramento del valore in portafoglio alle famiglie, e da una politica ossessivamente volta all’assicurazione degli immobili contro il rischio sismico e idrogeologico, assicurazione non obbligatoria ma fortemente incentivata fiscalmente, visto che farebbe risalire il valore di un immobile “storico” certificato come ad alto rischio sismico, finché i privati non realizzassero i lavori di messa in sicurezza (anch’essi fiscalmente da super-incentivare) .

Diciamo che, come ordine di grandezza, secondo ingegneri e geologi siamo nell’ordine di 80-90 miliardi di euro, per un programma ventennale da 4-5 miliardi di euro l’anno. Ma quando si ha alle spalle un bilancio di sangue e finanziario così disastroso per non averlo fatto, continuare a non farlo è da imbecilli. E se abbiamo dato di colpo 10 miliardi per il bonus 80 euro, interrogarsi per favore su cosa sia più urgente, prioritario ed economicamente efficiente. Oltretutto, sommando la dorsale appenninica, la sua propaggine nel nord della Puglia e l’intera Calabria fino a inglobare Messina (dove nel 1908 si stima che morirono oltre 80mila persone) stiamo parlando complessivamente di non oltre un sesto della popolazione italiana,mentre  residenti nelle zone ad altissimo rischio sono solo 3 milioni (vedi ripartizione qui della popolazione per fasce di rischio, effettuata dal centro studi del consiglio nazionale dei geologi). Ci sarebbe anche l’emergenza delle centinaia di migliaia di persone assiepate in abitazioni presso il Vesuvio dove non dovrebbero stare, ma è oggettivamente un problema diverso anche se serissimo.

Nessuno può immaginare che ci vogliano pochi mesi o un paio d’anni. Dev’essere una scelta decennale, da presentare in Europa come una priorità assoluta. E del resto, l’Unione Europea per prima s’inventò nel 2002 il FSUE, il fondo di solidarietà contro le calamità naturali, a seguito delle inondazioni che allora avevano colpito il centro Europa (da cui abbiamo attinto più di 3 miliardi).  Non è vero neanche che vi siano veti invalicabili nel Fiscal Compact a queste spese, come subito ieri hanno preso a gridare i militanti dell’entieuropeismo:  nel Fiscal Compact, e nelle sue interpretazioni autentiche date dalla Commissione Europea, sta scritto esplicitamente Stati contraenti possono deviare temporaneamente dall’obiettivo di medio termine di rientro del deficit pubblico al ricorrere di circostanze eccezionali e per eventi imprevedibili (oltre che in caso di grave recessione), e le calamità naturali rientrano esattamente in tale definizione. Coerentemente sta scritto al comma 2 dell’articolo 81 (rivisto) della nostra Costituzione che “il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”.

Ovvio che nell’eccezione al deficit contrattato con l’Europa rientrino le spese per fronteggiare l’emergenza, i salvataggi, la messa in sicurezza dei crolli, l’assistenza agli sfollati, il ripristino delle infrastrutture. Non invece il complesso di interventi decennali per la messa in sicurezza dell’intero patrimonio edilizio nelle aree a maggior rischio sismico del nostro paese. Quella deve essere presentata e contratta in Europa come una vera e propria “grande riforma” strutturale. Perché i suoi costi sono minori di quanto spendiamo altrimenti per far fronte a distruzioni e morti. Noi, come paese più sismico e a rischio idrogeologico della UE (nel primo fattore insieme alla Grecia, sommando i due purtroppo la battiamo), dobbiamo provarci seriamente, a convincere i partner del fatto che non possiamo continuare a morire per colpa nostra. Il punto è crederci, volerlo intensamente, metterlo al centro dell’agenda nazionale. E controllare poi maniacalmente come si effettuano i lavori, visto che le procure continuano a istruire processi sui lavori pubblici da latrocinio dopo i quali le opere crollano comunque. Non commettiamo ancora una volta l’errore di affidarci ai tarocchi. E teniamo bene a mente il disastro del post terremoto Irpinia: negli anni i 36 Comuni inizialmente colpiti divennero 687, l’8% del totale dei Comuni italiani,  e si è finito per spendere 70 miliardi di euro di cui 17 solo a Napoli, confondendo terremoti con assistenzialismo elettorale.

19
Ago
2016

Contratti pubblici: senza produttività, no ai miliardi

Sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego si sta decisamente partendo col piede sbagliato. Sono fermi dal 2010, e dal governo Berlusconi tutti i successivi hanno confermato lo stop delle procedure negoziali e degli scatti economici individuali. Poi ci ha pensato la Corte costituzionale, con la sentenza 178 del luglio 2015, a stabilire che il fermo doveva cessare, e bisognava rinnovare i contratti. Di qui all’ultimo giorno in cui la legge di stabilità 2017 uscirà dal parlamento – e ci sarà il referendum sulla Costituzione di mezzo – è ora aperto lo scontro su quante risorse destinare al rinnovo. Il governo aveva “provocatoriamente” appostato 300 milioni, i sindacati arrivano fino a 7 miliardi, chiesti dalla Cgil.
Così però si parte dal fondo, cioè l’ammontare medio della retribuzione contrattuale lorda aggiuntiva per ciascuno dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici, invece che da ciò che dovrebbe costituire l’inizio. E cioè: a 8 anni dal vecchio rinnovo, nel nuovo contratto si gettano davvero le basi operative per avviare nella PA la rivoluzione della produttività, oppure resta tutto come prima? Ecco, è da qui che bisogna partire. Ma prima di vedere come, sono necessarie alcune premesse.
Primo, parliamo di numeri. Diamo un occhio agli effetti dello stop retributivo pubblico. E’ ovvio, comprensibile e giusto che i sindacati del pubblico impiego considerino molto grave che, fatta 100 la base retributiva pubblica del 2010, essa sia la stessa a giugno 2016, sicché in termini reali i dipendenti pubblici hanno perso potere d’acquisto. Mentre le retribuzioni del settore privato sono passate da 100 del 2010 a 109,9. Bisogna però equilibrare questo dato con un altro, più di lungo periodo. Le retribuzioni pubbliche conoscevano da decenni andamenti nel complesso superiori rispetto a quelle private. Nel solo periodo 2001-2009, cioè prima dello stop, l’incremento complessivo nominale delle retribuzioni di fatto pubbliche è stato secondo l’Istat del 31,9%, a fronte del 27% nell’industria privata e del 23,% nei servizi di mercato. Ma anche nel ventennio precedente era stato così, tranne una frenata del più rapido aumento pubblico a metà anni Novanta. Ergo: ora è giusto che cessi lo stop di questi ultimi 7 anni, ma – anche se ai sindacati del settore pubblico non piace ammetterlo – il suo effetto è stato comunque di riequilibrare il vantaggio dei dipendenti pubblici, per tanto tempo protrattosi in precedenza.
Secondo, occhio alla lezione del passato. Se la Fondazione Bertelsmann due giorni fa ha classificato l’Italia solo al 32° posto su 41 paesi tra i più avanzati per capacità di offrire servizi pubblici efficienti, ciò non dipende certo dal fatto che la spesa pubblica sia bassa visto che supera la metà il PIL, ma consegue alla bassa efficienza della nostra pubblica amministrazione. Ecco perché serve la rivoluzione della produttività nei servizi pubblici, e per questo bisogna mettere produttività e merito al centro dei nuovi contratti pubblici. Quando diciamo al centro significa proprio al centro, come un vero nuovo e rivoluzionario asse portante, non come parte accessoria e trascurabile rispetto al totale degli aumenti retributivi.
Qual è la lezione del passato? Che sinora la rivoluzione della produttività pubblica e del salario di merito nella PA non ha funzionato, malgrado fosse già prevista da tempo dalla legge, proprio perché non era incardinata se non en passant nei vecchi contratti pubblici. Il tentativo del d.lgs. 150/2009, il cosiddetto decreto Brunetta, di identificarne con maggior chiarezza alcuni elementi fondamentali e alcuni criteri, da applicarsi direttamente dalle Amministrazioni statali mentre per gli Enti locali costituivano principi generali cui i singoli ordinamenti delle varie Amministrazioni avrebbero dovuto attenersi, non ha di fatto estirpato la prassi – a cominciare dai dirigenti – di “spalmare” a tutti retribuzione accessoria secondo metriche discrezionali, che non identificano risultati ma premiano collusioni, come ha recentemente anche confermato la Banca d’Italia.
La definizione del ciclo delle performance da individuare come metriche del risultato, della trasparenza del giudizio, e della valorizzazione dell’apporto individuale di ogni dipendente, per tutte le amministrazioni pubbliche era affidato alla CIVIT, la Commissione per la Valutazione dell’Integrità e della Trasparenza nelle Amministrazioni pubbliche, la cui competenza è oggi compresa in quelle dell’ANAC. Ma se quella competenza è finita all’Autorità Anticorruzione, è appunto perché il salario accessorio nella PA ha finito per rappresentare un elemento scandaloso di de-merito collettivo, non di premio al merito individuale. Con casi come Roma, dove il cosiddetto salario accessorio finiva per appresentare anche il 40% della retribuzione ordinaria per tutti i quasi 23mila dipendenti comunali, e Regioni in cui la retribuzione di fatto dei dirigenti è salita a livelli sconosciuti alle amministrazioni centrali.
La lezione di questo fallimento è una: i criteri di individuazione del risultato prefisso a ogni unità della PA, su cui misurare il dirigente – vedremo il decreto attuativo della riforma Madia che la settimana scorsa è stato rinviato.. – e su cui calibrare il premio a tutti coloro che sotto di lui vi cooperano, deve entrare a far parte costituiva e dettagliata dei nuovi contratti pubblici. E aiuta che i comparti della PA siano passati da 12 a 4 – amministrazioni centrali, periferiche, sanita, scuola e ricerca – perché diminuisce la dispersione dei criteri che un tempo erano così frastagliati da impedirne ogni vero controllo.
Due ultime osservazioni. La manovra finanziaria prossima potrà essere di 25 o magari di 30 miliardi come si ipotizza, a seconda di quanto la Ue concederà davvero a Renzi di deficit aggiuntivo. Ma se un terzo o un quarto della manovra andassero ai nuovi contratti pubblici senza rivoluzione della produttività e con aumenti a pioggia. ebbene sarebbe difficile a chiunque spacciarla come fondamentale priorità rispetto a ciò che serve per uscire dalla crescita “a zerovirgola”. Infine: non è vero che i sindacati la pensino tutti allo stesso modo, e che il governo non avrebbe interlocutori al tavolo della produttività pubblica.
Per tutte queste ragioni, dopo l’Atto di indirizzo sui 4 nuovi comparti pubblici che il governo ha impartito all’ARAN per aprire formalmente la stagione dei rinnovi, pensiamo che sarebbe più giusto un nuovo Atto di indirizzo sulla centralità del salario e delle metriche di merito nel contratto pubblico. E solo una vista registrata l’opinione dei sindacati, decidere il quantum degli stanziamenti per i rinnovi. In un paese a produttività stagnante da un decennio, il gap non si supera solo con i contratti di produttività nel privato. E’ il settore pubblico, il primo buon nero della produttività italiana.