16
Set
2016

Morire di infrastrutture—di Diego Zuluaga

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Diego Zuluaga.

In tempi di recessione o crescita fiacca gli investimenti in infrastrutture sono spesso presentati, da parte dei policy-maker, come una specie di ricetta magica. Alcuni economisti sostengono che la spesa pubblica destinata a strade, ponti, aeroporti e linee ferroviarie sia auspicabile, principalmente per due ragioni. Prima di tutto perché determina un incremento dei salari di chi è coinvolto direttamente nella costruzione delle infrastrutture, accrescendo così il potere d’acquisto di questi lavoratori, che a sua volta concorrerà a sostenere la domanda aggregata e a favorire la crescita economica.

In secondo luogo, si afferma che i progetti infrastrutturali presentano caratteristiche che disincentiverebbero i privati. Tra queste si possono citare le esternalità positive che vengono generate (per esempio con la nascita e la crescita di centri urbani, industrie e altre attività economiche vicino a infrastrutture importanti) così come l’orizzonte di lungo periodo di molti dei progetti e, verosimilmente, certe intrinseche tendenze al monopolio naturale, come gli elevati costi fissi e I ridotti costi d’esercizio.

La teoria economica a favore di un imponente interventismo pubblico nella costruzione di infrastrutture è, ovviamente, discutibile. Il primo aspetto, l’idea keynesiana di domanda aggregata, è un esempio di quello che Frédéric Bastiat chiama il problema del “ciò che si vede e ciò che non si vede”, secondo cui si tende a prendere in considerazione solo i benefici (che si vedono) di una determinata scelta, ma non si considerano i suoi costi-opportunità (che non si vedono). Nel caso delle infrastrutture, è sicuro che i politici si vanteranno dello splendido aeroporto nuovo che dà lavoro a 500 persone, salvo dimenticarsi che, se non avessero tassato i contribuenti per poter finanziare il progetto, milioni di cittadini avrebbero potuto spendere diversamente le somme prelevate dalle loro tasche, avrebbero potuto aggiungerle ai loro risparmi, o anche destinarle ad altre degne (ed economicamente benefiche) cause.

La seconda tesi è plausibile, anche se non è difficile immaginare più di un modo in cui i privati potrebbero trarre profitto almeno in parte dalle esternalità positive di cui sopra. Chi possiede strade può (come già accade) far pagare un pedaggio a chi le usa, mentre i proprietari delle ferrovie potrebbero acquistare le terre circostanti i binari e capitalizzare l’apprezzamento dei terreni che deriverebbe dallo sviluppo delle linee ferroviarie. Storicamente non vi è prova di inefficienze nella spesa privata in infrastrutture: praticamente tutto il sistema ferroviario inglese, per esempio, è stato costruito e gestito da privati per più di un secolo, fino a quando non è stato nazionalizzato nel secondo dopoguerra.

Le spese in infrastrutture rimangono comunque il mantra preferito dei politici quando devono fare fronte alle avversità economiche. Nel 2014, in un periodo di stagnazione della crescita europea, Jean-Claude Juncker ha lanciato il Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (EFSI) al fine di offrire garanzie pubbliche per incentivare investimenti privati in strade, ponti, infrastrutture elettriche e altri progetti considerati importanti, specialmente se transfrontalieri.

Allo stesso modo, in seguito ai timori post-Brexit di una nuova recessione nel Regno Unito, il neo-Ministro del Tesoro britannico Philip Hammond ha promesso di incrementare la spesa in progetti  che (teoricamente) aspettavano solo il “via” del governo, così da non indebolire la ripresa. Questo sarebbe solo il primo passo di una lunga serie di iniziative infrastrutturali tra cui spiccano la linea ad alta velocità tra Londra e Birmingham (HS2) e la già proclamata autorizzazione all’espansione di aeroporti vicino alla capitale inglese.

Come che sia, nessun paese ha seguito più convintamente della Cina il mantra della crescita indotta dalle infrastrutture. Tra il 2000 e il 2014 l’investimento fisso lordo (che misura l’incremento netto di beni fisici in un dato periodo) della Repubblica Popolare è decuplicato fino a raggiungere i 4.5 trilioni di dollari, distaccando di non poco il Giappone, secondo in classifica, e superando Germania e Stati Uniti rispettivamente di 4,5 e 7 volte. Gran parte di questi investimenti sono andati in infrastrutture, con finanziamenti sia da parte del settore pubblico che privato, comprese le banche di proprietà dello stato.

I devoti del culto delle “infrastrutture cosa buona e giusta” portano a titolo di esempio virtuoso la ventennale crescita a due cifre della Cina. Alcuni si sono persino spinti a ipotizzare che il carattere autocratico del governo cinese renda più agevoli questi tipi di progetto d’investimento, riducendo il rischio di costi eccessivi e di ritardi nel completamento dei lavori. In verità, non è altro che un eufemismo per sostenere che le autorità cinesi possono bellamente ignorare ogni opposizione e andare avanti per la loro strada.

Tuttavia casca a fagiolo un nuovo studio di alcuni ricercatori dell’Università di Oxford che mette in discussione certi rosei pareri sugli investimenti infrastrutturali cinesi. Il gruppo di ricerca, guidato dal professor Atif Ansar, ha analizzato 95 progetti di strade e ferrovie intrapresi in Cina tra il 1984 e il 2008, dimostrando come la caratteristica saliente di quesi progetti, piuttosto che accuratezza, lungimiranza ed efficienza ingegneristica, sia un costante fallimento della pianificazione.

In particolare, lo studio rivela che almeno il 75% dei progetti studiati (incluso il 90% dei progetti ferroviari) presentava costi superiori al previsto, essendo superiori in media del 30% rispetto il budget iniziale. I risultati sono un poco migliori per quanto riguarda I tempi di completamento: solo metà dei progetti è stato finito in ritardo, in media con uno sforamento del 5.9% rispetto alle tempistiche inizialmente previste. I ricercatori, però, sottolineano che questo potrebbe essere il risultato della fretta dei responsabili dei lavori piuttosto che di un efficace project management, visto che il tasso di decessi stradali in Cina è tra i più alti al mondo e che spesso le decisioni vengono prese senza alcun riguardo per le persone che ne verranno affette.

Non solo i costi delle infrastrutture risultavano nella stragrande maggioranza dei casi ben al di sopra delle previsioni, ma i benefici che ne derivavano venivano sistematicamente sovrastimati. Il 64.7% dei progetti studiati, in questo caso 156, presentava volumi di traffico inferiori a quanto previsto. La differenza di previsione ammontava al 41.2%, il che vuol dire che, in media, più del 40% dei volumi di traffico erano inferiori alle aspettative.

Combinando i surplus dei costi e le differenze tra benefici previsti ed effettivi si scopre che il 55% dei progetti aveva un rapporto benefici-costi inferiore a 1, ovvero, in termini di valore economico, portavano a una perdita netta. Soltanto il 28% dei progetti, stando allo studio di Ansar e dei suoi colleghi, può essere considerato come davvero proficuo dal punto di vista economico. In definitiva il giudizio degli studiosi è piuttosto severo:

“Il caso cinese ci offre lezioni di policy generalizzabili. Programmi di investimento massiccio in infrastrutture non sono da considerarsi strategicamente percorribili per paesi in via di sviluppo come il Pakistan, la Nigeria o il Brasile. I policy-maker dovrebbero concentrarsi più su questioni di software e orgware (quindi serie riforme istituzionali) e avere maggiore cautela nel destinare risorse scarse all’hardware (cioè le infrastrutture fisiche).”

Si potrebbe esser tentati di credere che gli evidenti problemi individuati dallo studio di Oxford siano indice di un livello di sviluppo inferiore, di scarsa qualità istituzionale e delle scadenti pratiche bancarie della Cina. In realtà, anche l’Europea non è estranea alle grossolane “generosità” statali, quando si parla di infrastrutture. Prima della crisi finanziaria, la Spagna ha avviato un frenetico programma di spesa che ha visto la proliferazione di aeroporti in zone dove non ce n’era evidente bisogno (e dove infatti la domanda ha stentato a materializzarsi). Nel Regno Unito ogni importante progetto avviato negli ultimi anni è stato contraddistinto da vertiginosi aumenti dei costi previsti (come nel caso dell’HS2, con costi stimati a circa 80 miliardi di sterline [1]) e/o ritardi, come nel caso della costruzione della centrale nucleare di Hinkley, fortemente sovvenzionata dallo stato, e dell’approvazione di una nuova pista di atterraggio negli aeroporti di Heathrow o di Gatwick.

L’opinione comune ritiene che la spesa in infrastrutture sia meglio gestita dallo stato, ritenuto ben intenzionato, lungimirante e consensuale, piuttosto che dai privati, considerati avidi e di miopi.

Questa teoria economica presuppone pertanto l’imperfezione dei mercati e l’impeccabilità dei governi, mentre questo assunto appare sempre più falso. In molte parti d’Europa vi sono numerosi esempi passati di infrastrutture realizzate con successo dal settore privato. È da queste esperienze che i governi dell’UE, e non solo, dovrebbero trarre insegnamento quando vengono chiamati a decidere chi dovrebbe costruire cosa.

[1] Il mio collega Richard Wellings dell’Institute of Economic Affairs ha esaminato l’HS2 in dettaglio, dimostrando che si tratta di un modo completamente insensato di spendere il denaro dei contribuenti. È possibile leggere il suo “The high-speed gravy train: special interests, transport policy and government spending” qui.

Diego Zuluaga è Head of Research presso EPICENTER.

15
Set
2016

“In amicorum numero”: Stato, cultura e paghette

Il regalo di benvenuto nella maggiore età, da parte dello Stato, è un bonus da 500 euro. Stando a quanto hanno riportato i giornali nei giorni scorsi, oggi avrebbe dovuto fare la sua comparsa online il sito 18app.it, attraverso il quale è possibile spendere la propria dote. Al momento però il sito non è ancora attivo. A prevedere tale bonus in spese culturali per i giovani era stato un comma contenuto nella legge di stabilità per il 2016. Nel testo si stabiliva l’assegnazione a ogni ragazzo, che avesse compiuto diciotto anni nel 2016, di una carta elettronica “per assistere a rappresentazioni teatrali e cinematografiche, per l’acquisto di libri nonché per l’ingresso a musei, mostre ed eventi culturali, monumenti, gallerie, aree archeologiche, parchi naturali e spettacoli dal vivo”. Non si diceva molto di più e si rimandava a un decreto, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, in cui definire i criteri e le modalità di attribuzione e di utilizzo del bonus. Passati i trenta giorni, il decreto però ancora non era stato pubblicato. Al 15 settembre, ossia oggi, passati quindi circa 260 giorni dall’entrata in vigore della legge (1 gennaio 2016) il decreto ancora non è comparso sulla Gazzetta Ufficiale. Dell’esistenza e di cosa ci sia scritto sul decreto se ne ha notizia grazie a un parere del Consiglio di Stato, dello scorso 6 settembre. Ma prima di addentrarci nei contenuti, due considerazioni.

La prima è legata al rispetto delle disposizioni di legge. Lo Stato che pretende dai cittadini il rispetto della legge è il primo a non rispettare quanto egli stesso stabilisce. Non è la prima volta che questo accade e gli esempi sono tanti. Da una parte è indice di scarsa serietà (stabiliti i trenta giorni, questi diventano molti di più e non si sa nemmeno quanti), dall’altra dell’arbitrarietà del suo operato: lo Stato si può concedere cose che ai cittadini non sono concesse. 

La seconda legata all’utilizzo dei “bonus”. Il bonus degli 80 euro, l’art bonus, quello per i docenti, ora quello per i diciottenni. Bonus che si sommano a esenzioni, detrazioni, deduzioni, crediti d’imposta e benefici d’ogni sorta. Tutte misure eccezionali che in un certo senso derogano dal quadro generale. Ma che generano complessità e disparità (se non privilegi). Come scrive Serena Sileoni oggi su Panorama, “Tutti i bonus creano, per definizione, diseguaglianze. Ma alcuni possono essere più iniqui di altri, se la discrezionalità di scelta tra chi può usufruirne o meno non risponde a canoni di ragionevolezza, ma ad altri criteri, tra cui, non si sfugge, la ricerca del consenso di alcune grandi categorie di cittadini”. Senza tenere conto che in alcuni casi vi è una scadenza temporale. Perché i fondi per il bonus giovani sono stati stanziati per un solo anno e nessuno sa cosa accadrà ai successivi diciottenni. Ma fa più effetto e porta più titoli di giornali dare un qualcosa di certo e definito a un gruppo riconoscibile di persone. A te diciottenne metto in mano 500 euro. Una misura più “visibile” non ci può essere.

Per quanto riguarda i contenuti, come si è detto, è possibile risalire allo “schema di decreto”, quindi non al decreto finito e pubblicato, dal parere del Consiglio di Stato. Il parere espresso è stato “favorevole con osservazioni”. Innanzi tutto si scopre che la Carta di cui si parla nella legge sarà una app. Ogni diciottenne potrà accedervi, previa registrazione, e scegliere tra l’offerta fornita da un elenco di soggetti anch’essi registrati. Ad esempio vi potrà essere il tal teatro che offre il tal spettacolo. Il diciottenne acquisterà il biglietto del tal spettacolo, nella forma di un voucher da stampare, che consegnerà all’ingresso per poter accedere in sala. Così, semplificando, dovrebbe funzionare il tutto.

È interessante segnalare un rilievo del Consiglio di Stato che riguarda il perimetro dei beni e servizi ammessi. La definizione data dalla legge, riportata all’inizio di questo articolo, è assai vaga: tutte le rappresentazioni teatrali e cinematografiche? anche i cinepanettoni? o solo i film proiettati in sale d’essai? quali spettacoli dal vivo? anche i concerti di musica pop? quali libri? anche quelli di cucina? e cosa si intende per “eventi culturali”? Il Consiglio di Stato dice che “si tratta di una definizione generica, che spetta al regolamento precisare, onde fugare possibili incertezze sulla tipologia di beni e servizi acquistabili”. Chissà però se è possibile circoscrivere in maniera dettagliata questi aspetti. Si potrebbero elencare le tipologie di libri acquistabili: no i fumetti e sì i libri di storia? e per i romanzi? sì i classici e no gli altri? ma quali sono gli autori “classici”?

Quello che infine si può dire, in attesa di vedere come effettivamente funzionerà l’app, è che il ricorso a queste misure “spot”, microsettoriali, a vere e proprie mance, porta con sé una gran quantità di questioni da azzeccagarbugli. Si entra nel dettaglio, nel particolare per evitare abusi e distorsioni delle finalità dei provvedimenti, e il rischio è quello di non venirne nemmeno a capo. Lo strumento del voucher culturale è una misura tutt’altro che sbagliata, ma richiede una elaborazione di politica culturale di più ampio respiro, con un orizzonte diverso e una applicazione che risponde ad altre logiche sottostanti. Quello che serve non è una mancia per stimolare un po’ di consumi culturali, ma occorrono degli incentivi affinché cambino le modalità di gestione delle imprese culturali e la loro offerta. La scelta dei voucher è corretta se sposta tutto o parte del finanziamento pubblico dal lato dell’offerta a quello della domanda, dalle istituzioni culturali ai cittadini. Saranno così questi ultimi a scegliere dove spendere il voucher e non più lo Stato a scegliere quale soggetto sussidiare. Si tratterebbe di un nuovo modello d’intervento pubblico, che favorirebbe il perseguimento dell’efficienza gestionale delle istituzioni culturali e di una offerta più diversificata, capace di tenere maggiormente in considerazione il pubblico.

14
Set
2016

Il 16 settembre dell’anagrafe digitale—di Mario Dal Co

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Mario Dal Co.

Ovvero come le “riserve di caccia” ci allontanano dall’economia digitale.

Entro il 16 settembre i Comuni devono compilare la scheda di monitoraggio dell’Anagrafe Nazionale (ANPR). Devono dire se useranno la web application gratuita messa a disposizione dal Ministero dell’Interno, rinunciando al proprio sistema di anagrafe, oppure se accederanno in modalità web service ossia collegando il proprio sistema di anagrafe con quello centrale.

Il sistema gratuito, ossia la web application farà la parte del leone, come prevede la legge? Forse no. I Comuni, infatti, dovrebbero comunque farsi carico degli allineamenti degli applicativi con ANPR, ed è anche difficile che i fornitori siano entusiasti di tagliare l’erba del proprio prato a favore di Sogei, monopolista pubblico. Inoltre, molti applicativi gestionali si appoggiano sull’anagrafe e richiedono una continuità che è più semplice da raggiungere mantenendola in vita. ANPR promette il trasferimento dei dati dal centro agli applicativi locali, ma è probabile -data la delicatezza dei processi coinvolti (es. tributi, elettorale, multe)- che i Comuni stiano a vedere come vanno le cose prima di optare per un modello che li vedrebbe dipendere dal sistema centrale. Dato che il precedente sistema della circolarità anagrafica INA-SAIA non ha funzionato compiutamente per alcuni lustri, questa prudenza è comprensibile. Sarebbe stato più efficace concentrare le risorse sull’interoperabilità dei dati delle anagrafi comunali e non sviluppare anche un nuovo sistema centralizzato, ma questo è un errore del legislatore.

Il 16 settembre è anche la scadenza del periodo di consegna delle apparecchiature per i 200 Comuni che emetteranno le Carte di Identità Elettroniche. Queste apparecchiature non servono ad emettere le carte, ma solo a raccogliere i dati. Il Poligrafico ha il compito di produrre le carte centralmente e consegnarle al richiedente entro sei giorni: molto più tempo di quanto occorreva per la carta di carta e molti più soldi, da 6 a 22 euro. Ma i vecchi arnesi (passaporti ordinari e temporanei, carte di carta e digitali) rimangono in vita fino ad esaurimento o fino a che le diverse digitalizzazioni si completeranno. E i costi si moltiplicano: rimane il personale, rimangono le vecchie macchine con i relativi contratti di manutenzione, si comprano le nuove macchine, si creano call center per spiegare che sì c’è il nuovo sistema, ma… E rimangono in vita anche pagine internet obsolete e fuorvianti, come questa del 2010: http://servizidemografici.interno.it/it/tipo-documento/sperimentazione-cie-ii%C2%B0-fase, dove, per rispondere ai “numerosi quesiti pervenuti dai Comuni” ci sono le istruzioni per ovviare agli invii di “supporti difettosi” che dovranno essere disinstallati ponendone il costo a carico del Poligrafico in quanto fornitore. Forse memori di questo pasticcio i legislatori hanno adottato la nuova procedura accentrata…

Siamo un variegato Paese in cui convivono 4 passaporti, 3 carte carte di identità, 1 CNS-tessera sanitaria. L’errore è sempre lo stesso: invece che dare linee guida chiare e semplici al mercato, si producono aree protette, come avvenne con la PEC alle Poste, ed ora con ANPR alla Sogei e con la CIE al Poligrafico.  Società pubbliche che mettono il naso nelle norme e nei decreti, per ritagliarsi fondi, in barba al mercato e all’efficienza. Anche per questo motivo l’introduzione del digitale in Italia è un costo invece che un risparmio: non riusciamo ad entrare nell’economia digitale perché siamo attardati dalle diseconomie normative e dalle riserve di caccia che esse introducono.

13
Set
2016

Il sindaco di Padova contro la libertà d’impresa – di Piero Cecchinato

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Piero Cecchinato.

La maggior parte dei sudditi crede di essere tale perché il re è il Re e non si rende conto che in realtà è il re che è Re perché essi sono sudditi.
(Karl Marx)

 

Le ordinanze dei Sindaci come strumento liberticida

Le ordinanze dei Sindaci sono una brutta bestia. Contemplate all’art. 54 del Testo Unico degli Enti Locali, che legittima il primo cittadino ad emanare provvedimenti contingibili ed urgenti contro gravi pericoli che minaccino l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana, si tratta di strumenti dal notevole potenziale liberticida. Si tratta, però, anche di strumenti piuttosto efficaci per soddisfare una certa fame di consenso politico. E l’appetito, come sappiamo, viene mangiando.

Lucia Quaglino l’ha evidenziato molto bene nel volume D’amore, di morte e di altri divieti. Le ordinanze dei sindaci e la libertà individuale: “Le ordinanze sindacali si potrebbero paragonare a delle ciliegie: una tira l’altra. Nel caso delle ciliegie, però, il singolo individuo può smettere di mangiarle quando vuole. Quando si tratta di ordinanze, sembra invece non esserci un limite”.

Il Sindaco di Padova deve gran parte della sua fama a questo genere di ordinanze. Il giorno dopo la vittoria, lui che a Padova nemmeno ci risiede, disse: «Può essere che un domani, quando l’avremo ripulita, verrò a vivere in questa città». E allora via con i provvedimenti.

 

I precedenti del Sindaco Bitonci

Massimo Bitonci si fece le ossa come Sindaco dei divieti nel Comune di Cittadella, ad una trentina di chilometri da Padova.

La prima ordinanza che fece molto discutere fu emanata nel 2007. Venne definita “anti-sbandati” perché imponeva ai cittadini l’obbligo di dimostrare un reddito minimo ed un’abitazione idonea per poter richiedere l’iscrizione alle liste dei residenti. L’ordinanza prendeva le mosse, tra l’altro, dalla considerazione che la “condizione abitativa sia il termometro che misura il grado di integrazione di ogni persona nella collettività”.

Nel 2008 fu la volta dell’ordinanza “anti-borsoni”, che vietava ”il transito con trasporto senza giustificato motivo di mercanzia in grandi sacchi di plastica o grandi borse all’interno del centro storico”.
Poco dopo arrivò quella contro i manifesti osceni, che, constatando la “diffusa percezione di incuria e degrado”, mirava a “ripristinare il normale stato delle cose”.

L’ordinanza anti-degrado del 2009 prendeva invece le mosse dalla considerazione che “occorre mantenere in perfetto stato di conservazione, manutenzione e pulizia le pavimentazioni e tutte le aree pubbliche ed aperte al pubblico del territorio comunale”. Si noti l’uso dell’aggettivo “perfetto”.

Nell’estate 2011 Cittadella divenne anche il primo comune del Veneto “dekebabizzato”. Non si trattava, per il Sindaco, di “alimenti che fanno parte della nostra tradizione e della nostra identità”.

 

L’appetito vien mangiando

Con l’arrivo di Bitonci anche Padova ha iniziato ad avere il suo buon numero di ordinanze.
Si è vietato, ad esempio, di “utilizzare in modo improprio le panchine”. Il fine dichiarato è stato quello di scoraggiare i vagabondi in cerca di giaciglio, ma è rimasto il dubbio su cosa possa intendersi davvero per uso improprio di una panchina.
Un’altra ordinanza ha vietato di “soddisfare le esigenze fisiologiche fuori dai luoghi destinati allo scopo”. Un divieto già contemplato all’art. 726 del codice penale.

Contro i bagni nelle pubbliche fontane (non così frequenti, a dire la verità) è stato vietato di “bagnarsi o nuotare fuori dai luoghi destinati allo scopo”. Ancora ci si chiede se un simile divieto contempli anche la condotta di chi si bagna la testa con una bottiglia d’acqua in un luogo non destinato allo scopo.

È stato poi vietato di “fissare o appoggiare bici o motorini agli arredi urbani, agli alberi, ai pali, ai monumenti e a altri manufatti pubblici non destinati allo scopo”, mentre i proprietari di costruzioni disabitate sono stati obbligati ad impedire ogni forma di occupazione.

Anche Padova ha poi avuto la propria ordinanza anti-borsoni e pure un divieto di mostrarsi in pubblico in abiti che offendano il comune senso del pudore.

Cattiva sorte anche per i papiri di laurea, non più affiggibili ai tronchi degli alberi, con buona pace delle tradizioni universitarie locali.

Di quest’estate è l’ordinanza anti-movida, che ha impedito l’accesso al centro storico alle auto. Peccato che il provvedimento abbia riguardato anche le biciclette, il che ha gettato un certo scompiglio fra utenti ed esercenti.

 

Quando le ordinanze toccano la libertà di impresa

Dove le ordinanze diventano davvero dannose ed evidenziano tutto il loro potenziale paternalistico è rispetto alla libertà di impresa.

Nel settembre dell’anno scorso aveva fatto molto discutere l’ordinanza con cui il Sindaco di Padova, a seguito di una rissa in piazza fra stranieri di origine africana, ordinò la chiusura anticipata alle ore 14.00 per un rivenditore di kebab. Peccato che quell’attività commerciale con la rissa non c’entrasse proprio nulla. Ma davvero nulla.
Un palese attentato alla libertà d’impresa poi bocciato dal TAR con tanto di condanna del Comune a rifondere le spese legali.

Oggi il Sindaco è ancora oggetto di critiche per un’ordinanza che anticipa alle 20.00, rispetto all’orario delle 22.00, la chiusura di una serie di attività commerciali site in un’area adiacente al comparto stazione.
Esercitare un’attività in loco diventa, così, anche una questione di fortuna. Te ne stai entro la zona contingentata? Chiudi alle 20.00. Te ne stai dall’altra parte della strada? Puoi chiudere alle 22.00. L’ordinanza, che si inserisce nella categoria delle ordinanze anti-degrado, ufficialmente mira ad assicurare condizioni di migliore “vivibilità” alla zona.
C’è però un passaggio del provvedimento che sembra tradire i suoi veri intenti. Nella esemplificazione delle attività che si intendono “commerciali non alimentari”, anch’esse colpite dall’ordine di chiusura anticipata, fra parentesi vengono citati “acconciatori ed estetisti, phone center, internet point”. Insomma, le attività che vedono sempre più spesso gli immigrati farsi imprenditori (in Italia, eroi sol per questo!).
Fra parentesi, quindi, l’obiettivo principale della Giunta: rendere la vita difficile ad una certa imprenditoria straniera.
Fatto sta che l’ordinanza ha colpito anche una libreria gestita da due giovani ragazze italiane. Libreria che, posta vicina ad un cinema, registrava il maggior numero di affari proprio nella fascia oraria colpita dall’ordine di chiusura.
Scoppiata la polemica, la Giunta sta meditando adesso delle forme di deroga. Sarà ora interessante vedere come verranno giustificate, perché il rischio di qualcosa che suoni come concessione privilegiata del sovrano è forte.

 

La discrezionalità del sovrano

La discrezionalità del governante si muove sempre fra due estremi opposti e richiede perciò una buona dose di equilibrio.

Da una parte vi è l’estremo che potremmo definire della pesca a strascico. Si dice che la pesca a strascico dei gamberetti porti in media a gettare fuoribordo l’ottanta-novanta per cento del pescato, morto o morente, in quanto cattura di scarto. Il divieto “a strascico” può così risultare dannoso e controproducente, proprio come, ad esempio, per il caso della chiusura imposta ad una libreria in una zona ritenuta degradata.

Dall’altra parte vi è l’estremo della selettività discriminante. Frederich Hayek affermava che le imposizioni “selettive” sono preoccupanti perché i governi possono attuarle senza temere troppo di doverne pagare le conseguenze. Rispetto a simili politiche, infatti, è più difficile che si organizzi un’azione collettiva di protesta.
Rispetto alle imposizioni generali, invece, è più facile che si attivino meccanismi di salvaguardia democratica. Si tratta di quel dominio della legge (rule of law) che richiede generalità e rifugge dalla selettività.
La generalità è un correttivo contro l’abuso. La selettività dell’ordine e della concessione, invece, sono alla base di ogni politica discriminatoria.

Fare scelte non è facile e l’equilibrio in politica è un po’ un’arte. Quando si tratta di libera impresa, però, la scelta migliore che un governante possa fare è quella di non fare nulla.

4
Set
2016

Tecnologia e comunità per essere Stato

“Ognuno dei problemi economici deve esser risolto esclusivamente ponendoci come Stato Etico”. Questa e altre frasi si leggono nella conclusione del libro “Abbozzo di una interpretazione idealistica della economia politica” pubblicato nel 1930 da un professore di nome Emilio La Rocca. Ho scoperta l’esistenza di questo libro l’estate scorsa e, vista la quasi omonimia con l’autore, non ho esitato ad acquistarne una copia presso una libreria antiquaria.

Tante cose che ho letto mi sono piaciute e tante altre mi hanno dato molto da pensare, come la frase che ho appena citato. Cosa significa risolvere ognuno dei problemi economici “ponendoci come Stato Etico”? Come potremmo – mi chiedevo – risolvere i tanti problemi economici che affliggono un Paese come l’Italia prendendo noi il posto dello Stato, quello Stato che è il responsabile di così tanti danni all’economia, quello Stato che ci rende sudditi di tanti cavilli diabolici, di una pressione fiscale insostenibile, di una montagna di debito pubblico che ha messo a rischio il nostro futuro? Quello Stato che prometteva maggiore benessere in cambio di un maggiore controllo dell’economia e che invece ha portato l’economia ad un declino fuori controllo?

Per quanto fossi inizialmente ostile all’idea, avvertivo che forse qualcosa poteva significare e ultimamente inizio a pensare che ci sia del buono in questo punto di vista. Tra gli altri, ho fatto mio il motto dell’architetto e scienziato Buckminster-Fuller che pare aver detto: “Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta.” Nell’ultimo anno mi è capitato di incontrare tante persone con un sacco di idee interessanti – persone che in qualche modo vivono in un modello se non nuovo, di sicuro molto inusuale. Mi viene in mente Diogo, un brasiliano incontrato in Cile, che girava il mondo grazie ad un sito chiamato Worldpackers dove chiunque può scambiare quello che sa fare con chi possa loro fornire ospitalità (exchange your skills for accomodation – questo il motto del sito). Questo è solo uno dei tanti esempi di quella che qualche giornalista ha battezzato reputation economy, quella rete di scambi che vengono permessi e/o accelerati dalla digitalizzazione della reputazione. Come per un conducente di Blablacar o Uber, per un ospite di Airbnb, per un venditore di Ebay, Internet e lo smartphone ci consentono di aver più fiducia in persone totalmente sconosciute e quindi scambiare con loro beneficiando dell’esperienza (i feedback) dei loro utenti precedenti. E’ anche questo che consente di aprire la porta della propria casa ad un perfetto sconosciuto.

Mi viene anche in mente il mio amico Flavio che sta trasformando la sua villetta con giardino nella cintura torinese in una casa-fattoria quasi autosufficiente perché “anche se avrò una pensione molto bassa almeno avrò ridotto gran parte delle mie spese ”. Se la casa richiede meno spese di riscaldamento, il giardino produce un po’ di verdure, gli scarti della casa si riciclano, l’apporto di energia esterna al sistema abitativo si riduce – così come le spese mensili. Non si tratta di ideologia autarchica, ma di una scelta in linea con l’ambizione stessa dell’economia: ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Efficienza energetica, in lessico ingegneristico, declinato in funzione di lavorare di meno e di massimizzare il tempo disponibile per ciò che ama fare – ora – e per farsi bastare una magra pensione – in futuro.

Ho incontrato tante persone che non si lamentano della realtà esistente e neppure si rassegnano ad un futuro economico in declino e senza certezze. Persone che si prendono la responsabilità del proprio futuro e anche di quella inevitabile fase della vita umana che si chiama vecchiaia la cui tutela era tradizionalmente appannaggio dello Stato. Persone che, sapendo che la rete di sicurezza che lo Stato offriva (pensioni e welfare) è attualmente piena di buchi, stanno iniziando a tessere la propria.

In questa prospettiva la dimensione comunitaria diventa un fattore molto importante. In qualche modo l’economia che si sta sviluppando attraverso Internet è un’economia di comunità, se non altro a livello digitale. Tanti dei già citati esempi di scambi permessi dalla Rete rappresentano forme di comunità, ovvero di “un insieme di individui che condividono lo stesso ambiente fisico e tecnologico, formando un gruppo riconoscibile, unito da vincoli organizzativi, linguistici, religiosi, economici e da interessi comuni”[Wikipedia]. Le comunità possono prendere la forma dei Worldpackers che ho citato prima: un gruppo di persone che non aspettano il prossimo bando europeo o Jobs Act per iniziare a lavorare.

Io stesso ho fatto un po’ di esperimenti negli ultimi tempi. Per la prima volta nella mia vita mi sono iscritto ad un gruppo di acquisto on-line. Si tratta di consumatori che si associano per comprare insieme elettricità, nel mio caso, e ottenere prezzi più bassi. E’ efficace (prima spendevo quasi il 50% in più a kWh rispetto ora) ed è interessante – riflettevo – anche a livello concettuale: quante migliaia di regolamentazioni sono state scritte a “tutela dei consumatori” e si sono trasformate in obblighi, divieti, limitazioni alla libera scelta se non addirittura in uffici e burocrazie pubbliche? In questo caso, ho pensato, sono i consumatori che si uniscono per tutelarsi e non aspettano che qualcun altro lo faccia per loro. Nulla di nuovo sotto il sole, certo, i gruppi di acquisto esistono da tempo; oggi però è ancora più facile aderirvi e disponibile ancora a più persone attraverso la Rete.

Ho poi investito più della metà dei miei risparmi in Bitcoin – sia per motivi speculativi sia perché ritengo il modello delle cripto-valute più sano del sistema monetario-bancario tradizionale. Non essendo pratico di informatica non è stato facile, eppure, dedicando il giusto tempo a imparare, sono arrivato al punto di dormire sonni sereni sapendo che i miei risparmi si trovano in portafogli virtuali sui quali io, e solo io, ho la responsabilità. E’ un esperienza molto diversa rispetto al deposito in banca, che peraltro beneficia della garanzia statale, perché se da un lato ci si sente più liberi da scartoffie e burocrazie, dall’altra ci rende molto più responsabili. Prima di investire in cripto-valute ho dovuto verificare la sicurezza del mio PC, ho dovuto informarmi sui portafogli elettronici e imparare un modo completamente nuovo di usare il denaro. Se perdo una password, per esempio, o sbaglio l’indirizzo di una transazione, non posso tornare indietro – come Bitcoin.org rende chiaro – né posso incolpare qualcun altro. I rischi sono tanti, certo, così come le opportunità.

In conclusione, con questo post ci tenevo a raccontare una piccola esperienza che però credo abbia portata generale. Sono arrivato a pensare che l’espressione “essere Stato”, nata per un incontro fortuito, possa indicare il vivere facendo noi stessi ciò che siamo abituati a chiedere allo Stato. Significa scoprire come creare la propria rete di sicurezza invece di aspettare che sia lo Stato ad assicurarci, nel lavoro, nella previdenza, nelle nostre scelte. Significa tutelarsi come consumatore, risparmiatore e lavoratore, invece che dipendere esclusivamente da una garanzia statale, che poi prende sempre la forma di regolamentazione (obblighi e divieti) o salvagente (sussidi e imposte). Oggi, attraverso la Rete, è ancora più facile e efficace. Al momento alcune iniziative sono esperimenti e come tali potranno risultare in buchi nell’acqua, altre verranno bloccate (come Uber), altre ancora faranno da pionieri. Quello che conta sono le idee. La fisica ci ricorda che da una condizione estremamente ridotta (il Big Bang) è nato un universo infinitamente grande. Forse è proprio dalle piccole cose, anche solo un’idea, che nascono le grandi cose, e non viceversa.

2
Set
2016

Produttività, produttività, produttività – di Nicolò Bragazza

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Nicolò Bragazza.

L’Italia non cresce ed è cosa ben nota. Basta dare un rapido sguardo ai dati ed il quadro si fa subito piuttosto allarmante: il declino prosegue da anni e anche quando l’economia ha mostrato segnali postivi, tuttavia questi erano sistematicamente inferiori rispetto a quelli degli altri paesi sviluppati.

Ma che cosa si è rotto nel nostro Paese da impedire, anche nei momenti in cui le altre economie si risollevano, una ripresa solida e duratura che abbia come combustili principali la crescita dei consumi e soprattutto degli investimenti? Read More

31
Ago
2016

La mazzata Ue a Apple piace ai più, ma ha evidenti falle legali

La guerra fiscale tra Apple e la Commissione Europea scoppiata ieri sarà uno dei casi del secolo. Ma intanto, alla notizia della mazzata vibrata dalla commissaria Ue alla Concorrenza Margreth Vestager al gigante guidato da Tim Cook, i più in Europa hanno esultato. Finalmente l’Europa si fa sentire, è il coro espresso dal più dei governi, dai media e da chi in Europa subisce quella che considera una concorrenza impropria da parte delle multinazionali della rete come Google, Facebook e Amazon: cioè editori,  autori, produttori di contenuti multimediali e imprese europee delle tlc. Come del resto avviene a ogni iniziativa Ue contro i giganti della rete, iniziative delle quali l’Istituto Bruno Leoni ha invece puntualmente cercato di sottolineare la purtroppo ricorrente pretestuosità tecnica (vedi per esempio qui, qui, qui e qui)

In effetti, ogni previsione questa volta è stata superata: il dossier aperto dalla Vestager sugli accordi fiscali agevolati – tax rulings, in gergo tecnico – tra Apple e Irlanda non sfocia in una sanzione da 1 miliardo di euro come immaginava l’Economist, ma nella bellezza di 13 miliardi di euro di minori imposte pagate tra 2003 e 2014, somma che ora tocca all’Irlanda recuperare sommandovi gli interessi. Ma l’Irlanda impugnerà la decisione, sulla stessa base con cui lo farà Apple. Ed è intorno a questo caso, multiplo come grandezza finanziaria rispetto all’arcifamosa sanzione comminata nel 2004 da Monti commissario Ue a Microsoft per 497 milioni di euro, che ora per lungo tempo divamperà una guerra. Tra le due rive dell’Oceano, ma anche tra paesi europei a bassa tassazione d’impresa e quelli che invece considerano i primi come paradisi fiscali. Al di là dei vasti consensi all’azione Ue, il fondamento legale della decisione è fragile, rischioso e irto di contraddizioni.

Come può l’autorità europea che vigila sulla concorrenza assumere i poteri di un’autorità fiscale, pur essendo le politiche tributarie di competenza nazionale?  La Vestager parte dal presupposto che i tax rulings configurino in realtà aiuti di Stato, ergo violazioni della concorrenza. E su questa base giuridica ha indagato Apple, come ha già fatto per Starbucks, Fiat ed altri, estendendo le indagini non solo all’Irlanda, ma all’Olanda e al Lussemburgo. La Commissione ammette tuttavia anche di “non avere competenza in materia tributaria”, e affida ai governi ora il recupero delle risorse. Se l’aliquota sui redditi d’impresa irlandese è al 12,5% – cosa che fa imbestialire i grandi paesi europei ad alte aliquote (nemici della concorrenza fiscale che è invece buona cosa) che invano tentarono di farla alzare agli irlandesi in cambio degli aiuti Ue alle loro banche – allora sono illegittimi gli accordi che hanno consentito ad Apple di pagare via via dall’1% fino solo allo 0,005% di imposta a Dublino. Senonché i tax rulings non sono eccezione in Irlanda e  Lussemburgo ma centinaia e centinaia (nel novembre 2014 Wikileaks ne pubblicò oltre 500 offerti dal Lussemburgo a oltre 340 imprese multinazionali, nei soli anni 2002-2010). Cioè rappresentano un’articolazione ordinaria della politica fiscale di quei paesi europei per attirare imprese, non straordinaria.  Inoltre, la decisione della Commissione “obbliga” uno Stato Ue a una tassazione retroattiva secondo norme diverse da quelle che esso si era dato: una scelta che dovrebbe far sobbalzare i sovranisti in tutti i paesi europei, e questa volta a piena ragione. Qui per esteso le ragioni tecniche per le quali non condivido la pretesa base legale della Commissione, esposte da Massimiliano Trovato in un paper IBL.

Ma sono obiezioni di carattere formalistico, è la reazione dominante. Il punto è invece che non si può consentire a imprese che realizzano profitti per centinaia di miliardi la possibilità di pagare imposte per pochi milioni. E di non riconoscere i diritti alle imprese editoriali di cui veicolano i contenuti sui loro motori di ricerca. E di non compartecipare alle spese infrastrutturali per realizzare reti a banda larga da parte delle imprese di tlc, quando il più della banda finiscono per occuparlo loro coi loro contenuti. E via continuando. E’ un’osservazione sostanziale, tuttavia bisogna ricordare alcune questioni, prima di vedere se e come la maxi-sanzione europea sopravviverà al contenzioso e fisserà un precedente, oppure no.

E’ vero che la tassazione dei grandi gruppi trans-nazionali è un grande problema irrisolto della globalizzazione. L’OCSE stima che l’elusione delle multinazionali raggiunga l’effetto di 240 miliardi di dollari di minori tasse pagate l’anno, circa il 10% delle imposte raccolte sui redditi d’impresa a livello mondiale. Tuttavia, per identificare criteri comuni su cosa sia reddito imponibile e da pagare in quale paese, occorrerebbe un grande accordo tra autorità fiscali continentali, Stati Uniti, Europa e Cina. Solo così si potrebbero identificare regole comuni alle quali attenersi. Ma non è la strada che è stata intrapresa.

Il G20 affidò all’OCSE la stesura di linee guida orientative che sono state illustrate nell’autunno scorso, le cosiddette BEPS (“Base Erosion and Profit Shifting”). Molto articolate, in cinque grandi capitoli: fissando come obiettivo quello di report nazionali paese per paese in cui ogni grande gruppo dichiari dove ha stabile organizzazione e dove incardina invece fiscalmente i suoi cespiti (interessi, dividendi, diritti da brevetti e proprietà intellettuale, con questi ultimi aspetti “intangibili” essenziali per la produzione di reddito delle grandi imprese della rete). Sulla base di uno scambio d’informazioni sempre più capillare tra Stati, e contenendo sempre più la possibilità di triangolazioni che vedano i flussi di profitto sparire magari in società controllate dai grandi gruppi ma in paradisi fiscali “veri”, dalle Bahamas alle Cayman. Tuttavia, quelle linee guida OCSE sono solo la base per accordi fiscali bilaterali e multilaterali tra nazioni, e sinora siamo molto ma molto indietro.

Si aggiungono anche altre difficoltà.

Molti paesi hanno tentato di imboccare una via autonoma, minacciando le multinazionali di creare basi imponibili “presuntive” partendo non dalla stima degli utili ma del fatturato realizzato nazionalmente attraverso clienti e intermediari. Era questa la base anche di alcune proposte di legge – la cosiddetta “web tax” – proposte anche nel parlamento italiano, ma sulle quali il governo ha deciso per fortuna sinora di soprassedere, scegliendo l’approccio multilaterale. Quando dico “per fortuna” intendo che a oggi, assumere i ricavi come base imponibile presuntiva farebbe a pugni con la definizione di reddito d’impresa secondo il Testo Unico dei redditi vigente ( vedi qui e qui). Ma ciò è comunque bastato per raggiungere accordi fiscali di maggiori introiti. Proprio Apple ha versato 319 milioni di euro nello scorso autunno all’Italia chiudendo un contenzioso molto maggiore, per 880 milioni, notificatole dall’Agenzia delle Entrate e dalla procura di Milano. E un analogo fascicolo è aperto con Google. Ma ammettiamolo: proprio l’esiguità delle transazioni finali rispetto alle contestazioni iniziali italiane dimostrano che, in assenza di una base normativa chiara e condivisa internazionalmente, la pretesa delle autorità tributarie nazionali deve accontentarsi di soluzioni extragiudiziali. I paesi “deboli” rischiano altrimenti di vedere i giganti della rete disintermediare i loro clienti. Solo il Regno Unito, contando di essere troppo finanziariamente rilevante agli occhi delle multinazionali, ha sin qui adottato una discussa misura – la Diverted Profit Tax – che identifica con il modello dei prezzi di trasferimento nella catena delle diverse società controllate all’estero dalle multinazionali, ma calcolati a valore di mercato e non quello dichiarato dai gruppi,  una stima presuntiva dei redditi sottratti, da tassare al 25%. Ma occhio: è la stessa Gran Bretagna che ieri ha fatto ponti d’oro ad Apple appena appresa la decisione della Commissione, dicendo: noi non siamo più sottoposti alla Ue, venite da noi e ci metteremo d’accordo.

Infine, la decisione della Vestager comporta un’altra incognita. Se l’aria è cambiata in questi ultimi anni con massicci accordi bilaterali di cooperazione fiscale – a cominciare dal segreto bancario di fatto caduto in Svizzera, Lussemburgo e Austria – si deve alla svolta avvenuta negli USA con il protocollo FATCA.  E anche nell’attuale campagna per le presidenziali un tema al centro del dibattito è cosa fare per superare l’attuale norma fiscale statunitense, che ha portato circa 1,1 trilioni di dollari di utili di multinazionali americane parcheggiati in altri ordinamenti fiscali (la stima mondiale è di circa 2 trilioni), per evitare la tassazione del 35% al reimpatrio negli States. Per questa ragione la definizione congiunta di che cosa configuri “stabile organizzazione” e dove si tassino i cespiti di una multinazionale, dovrebbe essere primario interesse dell’Europa. Che però sinora è divisa, perché ciascuno è in piena concorrenza fiscale col vicino per aggiudicarsi presenza e investimenti diretti esteri da parte delle multinazionali in questione. Mentre la mazzata di ieri ha portato automaticamente il governo USA a difendere Apple e i suoi giganti della rete, quegli stessi che al Congresso critica come elusori fiscali. L’effetto opposto cioè di quanto serve se vogliamo che il fisco USA e quello dei diversi paesi Ue raggiungano mai un accordo comune.

Conclusione. La via nazionale a tassare i giganti della rete secondo ricavi stimati ha basi legali fragili e crea danni ai mercati dei paesi che l’applicassero. La via europea di usare l’antitrust per riscrivere retroattivamente le norme fiscali nazionali è inaccettabile. Un accordo vero è efficace solo se condiviso tra grandi autorità fiscali e abbiamo il massimo interesse a un accordo con gli USA, mentre la decisione della Commissione è un guanto di sfida che porta – come si è visto ieri – le autorità americane a difendere le proprie multinazionali, che pur contesta a Washington.

Vedremo come va a finire. Senza una buona soluzione, è un’altra potente spinta a far regredire la globalizzazione.  La giusta tassazione non va mai confusa con l’anatema alla concorrenza fiscale. Finché ci saranno paesi con aliquote più basse, quelli con aliquote troppo levate saranno costretti comunque a ridurle. E così facendo crescono di più, non di meno. E’ esattamente questo che non piace, a molti di coloro che applaudono la Vestager.

29
Ago
2016

Terremoto: vittime anche per le folli norme di Stato

No, non è solo questione di illegalità, ma anche di legalità asinina. Entrambe concorrono alla grande strage sismica italiana. A pochi giorni dal terremoto che ha mietuto sinora 290 vittime a cavallo della provincia di Rieti e Ascoli Piceno, cioè nella zona sismica di categoria 1 più esposta a devastazioni in Italia, già abbiamo alcuni dati su cui riflettere. Per capire una volta per tutte che cosa “non” bisogna continuare a fare, ora che grazie al cielo pare manifestarsi l’intenzione di lanciare un programma pluridecennale per la messa in sicurezza delle aree d’Italia più geologicamente a rischio.

Dagli elementi sin qui appurati dai cronisti, tra tutte è la vicenda della scuola Romolo Capranica di Amatrice, quella che già consente una serie di molto amare riflessioni. Intanto, perché il crollo della scuola è un doloroso esempio – per fortuna questa volta senza vittime dirette – dello Stato che non fa quel che deve innanzitutto per il suo patrimonio, di scuole e ospedali, malgrado si conoscano tutti i numeri delle migliaia di presidi pubblici non a norma. Poi, perché come tutti hanno scritto un intervento antisismico sull’edificio, che risale agli anni Trenta, è stato compiuto nel 2012, ma con i penosi risultati che si vedono. Inoltre, perché subito sono scattate le indagini delle autorità giudiziarie, alla luce dei sospetti che ora emergono su chi si aggiudicò quell’appalto, un’impresa calabrese alla cui guida vi sono parenti e soci d’affari di esponenti raggiunti da interdittive antimafia poi annullate, e sull’impresa romana alla quale i lavori furono poi subappaltati. Nonché le indagini sono aperte anche per un successivo appalto che ancora non era entrato in esecuzione, aggiudicato col massimo ribasso alla “Carlo Cricchi”, il figlio del cui proprietario è sotto processo per corruzione, reati fiscali e falso, per un’appalto “pilotato” di 19 milioni nella ricostruzione dell’Aquila.

Tutti particolari che hanno immediatamente fatto accendere i fari delle massime autorità giudiziarie del nostro paese: dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti a, ovviamente, il capo dell’Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone. Entrambi pronti lodevolmente a dire: garantiamo che questa volta nella ricostruzione non ci saranno le amplissime discrezionalità e illegalità diffuse viste per esempio in Irpinia, con la conseguenza di un maxi falò di decine di miliardi di risorse pubbliche. Prendiamone atto e vigliamo tutti, vien da dire.

E tuttavia no, il crollo della scuola Capranica ad Amatrice malgrado l’intervento del 2012 non è solo un potenziale simbolo negativo per l’ombra di illegalità eventualmente compiute nei lavori. Nella vicenda c’è qualcosa di gran lunga peggiore, anche se finora è passato sotto silenzio. Perché investe non l’eventuale verificarsi di violazioni di legge che mettano cinicamente a rischio la vita di insegnanti e ragazzi. Ma che esprime invece l’ordinaria e strutturale conseguenza letale prodotta dalla follia del nostro legalissimo ordinamento istituzionale, dalla sua proliferazione sovrapposta di competenze, dalla bizantina illogicità delle sue prescrizioni, che sembrano fatte apposta per aprire varchi a interessi e tornaconti, non al fine dichiarato della sicurezza della vita e del patrimonio. Vediamo i motivi per giustificare un’accusa tanto grave: rivolta allo Stato per com’è oggi in Italia, non solo ai criminali.

Ricostruiamo allora i diversi stanziamenti per gli interventi antisismisci alla scuola Capranica di Amatrice. Dopo il terremoto 2009 all’Aquila, il governo Berlusconi mise a disposizione oltre 1 miliardo nazionalmente per la messa in sicurezza degli edifici. E tramite la Provincia di Rieti – l’assegnazione delle risorse passava per la Protezione Civile – sembrò che ad Amatrice fosse disponibile uno stanziamento complessivo per la scuola Capranica, di 1 milione e 263mila euro. Sfumato nel nulla, per problemi burocratici sommati alle crescenti difficoltà di cassa della provincia, avviata come tutti i suoi omologhi nelle regioni a statuto ordinario a perdere la qualifica di organo elettivo di primo grado per trasformarsi di fatto in consorzio di Comuni. Tutti elementi anch’essi su cui la procura di Rieti indagherà.

E siamo al 2012, quando appare il finanziamento di 511mila euro, questa volta a carico del fondo edilizia scolastica del MIUR. A cui si aggiungono 200mila euro di natura mista, visto che il più delle risorse viene dalla legge regionale 17/2009 della Regione Lazio, a cui si aggiunge una quota a carico del Comune e una anche della Provincia a mo’ di riscatto della promessa non mantenuta, appalto che porta ai lavori realizzati con grande velocità per consentire il regolare avvio dell’anno scolastico 2012-2013.

Ottimo? No, neanche un po’. Perché l’accordo con cui la provincia di Rieti cede al comune di Amatrice la supervisione sui lavori ricalca un decreto ministeriale sugli interventi antisismici del 1996, ben precedente cioè ai criteri definitivamente rimessi a punto nel 2009 post-Aquila, e secondo quel testo i lavori possono benissimo limitarsi a semplici interventi di “miglioramento”, non di “adeguamento” pieno ai criteri antisismici. Di qui la possibilità legalissima di usare i fondi per intervenire sulle caldaie di riscaldamento, pavimenti o impianti anti-incendio, invece di concentrarsi solo sull’esame accurato di tutti gli interventi possibili coerenti alle lacune di portanza e dei giunti di flessibilità elastica dell’edificio. Ecco perché la scuola è crollata, ed è tutto secondo le legge: dannazione, viene da dire.

E anche il terzo lotto di finanziamenti, quello per 172mila euro, sulla cui aggiudicazione la procura indaga anche se non era ancora nella fase attuativa, nasce dalle stesse fonti finanziarie plurime dell’intervento 2012, ma in teoria avrebbe potuto benissimo risolversi in un intervento del tutto analogo, e dunque non risolutivo. A ciò si aggiunge che la legge regionale del Lazio modificò il criterio dell’intervento relativo ai privati: per vedersi finanziati i privati dovevano essere obbligatoriamente residenti, il che escludeva tutte le seconde e terze case. Di qui neanche 200 assegnatari, nella zona oggi devastata, invece di alcune migliaia: come se crolli e morte non riguardassero coloro che in questi paesi trascorrono una parte dell’estate nelle case ereditate da padri e nonni, come è proprio tragicamente avvenuto ad Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto.

Cosa dedurre da questa ricostruzione? Almeno tre conseguenze, che sono di portata enormemente superiore a quella dei processi a carico di chi ha eventualmente rubato e corrotto sui lavori antisismici.

La prima, ora che si pensa finalmente a un Progetto-Italia pluridecennale (Casa-Italia, lo chiama ora Renzi) da presentare in Europa come una vera e propria “grande riforma” di cui ha bisogno il paese europeo più esposto al rischio sismico insieme alla Grecia, è che occorre massicciamente concentrare regia e controllo sulle decine di migliaia di interventi che saranno necessari, nel patrimonio pubblico e – tramite massicce agevolazioni – in quello privato. Per favore: Stato, Regioni, Province e Comuni non possono a questa vicenda aggiungere e cumulare ciascuno i propri guai e inefficienze. E bisognerebbe anche evitare di confondere in questo progetto ogni altro tipo di intervento pubblico a fini diversi, dalla banda larga a saddioché come sembra invece trapelare dal governo: più si crea un carrozzone, meno funzionerà.

La seconda: occorre un’opera rapida di igiene pubblica su testi di legge, decreti e regolamenti da applicare, visto che ereditiamo decenni di testi superfetati e autoelidenti, pronti a generare effetti mortali com’è accaduto ad Amatrice.

La terza: non ne va solo della vita e sicurezza innanzitutto dei 3 milioni di italiani che vivono nella parte d’Italia a massimo rischio, e dei 10 milioni nella fascia di rischio più esteso, in gioco sono anche i conti pubblici, e le tasche del contribuente.

Ora che tutti speriamo in una grande sfida che negli anni ci porti a non ripetere la conta di morti e dei danni del passato, lo Stato non dimentichi che colossali stanziamenti dispersi tra decine di migliaia di stazioni pubbliche appaltanti portano anch’essi la loro parte di responsabilità delle vittime. E fanno restare senza parole gli italiani dalle cui tasche sono usciti.

29
Ago
2016

Addio a Sir Antony Jay, il creatore della popolare serie tv Yes Minister – di Giovanni Chiampesan

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Giovanni Chiampesan.

Sir Antony Jay è venuto a mancare lo scorso 21 agosto. Non ho mai avuto l’onore né la fortuna di conoscerlo personalmente, ma circa due anni or sono rispose con un’email estremamente stringata ad una richiesta da parte mia e dell’IBL di poter pubblicare il primo volume di Yes Minister in italiano (il testo, in formato ebook, è stato poi pubblicato qualche mese dopo: Yes Minister. I diari dell’Onorevole James Hacker, vol. I). La risposta era “OK by us AJ & JL”. Era talmente telegrafica e tempestiva e all’apparenza così poco British – All right è, o almeno era, la forma preferita nel Regno Unito all’espressione americana OK – che mi sentii in obbligo di verificarne l’autenticità prima di procedere. L’esatto contrario del modus operandi di Sir Humphrey Appleby, Direttore Generale del Ministero degli Affari Amministrativi, il personaggio più famoso scaturito dalla penna di Sir Antony Jay e Jonathan Lynn (le seconde iniziali nell’email sono le sue). Sir Humphrey è la quintessenza del burocrate subdolo ed equivoco, la cui risposta preferita, per sua stessa ammissione, è “Yes and no”, e rappresenta il vero ostacolo al cambiamento del funzionamento della macchina dello Stato, più che i politici benintenzionati che vanno e vengono. La realtà è che i Sir Humphreys di questo mondo non vanno e vengono, ma dobbiamo sorbirceli ogni giorno fino alla fine della loro carriera, come scopre il Ministro degli Affari Amministrativi, James Hacker, e passano le giornate a dare una parvenza di cambiamento per poi in realtà non cambiare nulla. Il Ministero degli Affari Amministrativi era stato creato ad hoc per controllare ed eliminare tutti gli sprechi e le inefficienze degli altri ministeri – vedi i nostri vari e impotenti Commissari alla Spending Review – ma come viene spiegato nella Nota dei Redattori che fa da prefazione al libro, “Purtroppo, anche se il Ministero degli Affari Amministrativi era stato creato per controllare la Pubblica Amministrazione, sarebbe stata la stessa Pubblica Amministrazione a gestirlo. I lettori saranno quindi ben consapevoli di ciò che fu l’inevitabile risultato delle fatiche di Hacker”.

Scrittore, sceneggiatore, giornalista televisivo e regista Sir Antony Jay ha avuto il grande merito di aver reso popolari le idee di “Public Choice” ad un pubblico di non addetti ai lavori prevalentemente anglosassone, dato che in Italia e in Francia le traduzioni della serie completa non sono ancora disponibili, salvo che per il primo volume edito da IBL – a partire dai primi anni Ottanta. Come ha scritto Peter Kurrild-Klitgaard nella sua introduzione a Le motivazioni del voto di Gordon Tullock, “È un’ipotesi fondata che gli autori della fortunata serie televisiva inglese Yes Minister e Yes Prime Minister, andata in onda nel corso degli anni Ottanta, avessero almeno in parte una loro evidente familiarità con le tesi della Public Choice, relative al comportamento di politici, burocrati e gruppi di interesse, sulla base della lettura della piccola monografia edita dallo IEA”.

E’ per questo motivo che gli fu conferita l’onorificenza di CBE. Jay fu inoltre l’autore satirico preferito di F.A. Hayek e Margaret Thatcher, la quale insisté per scrivere assieme a lui un breve sketch intitolato “Il piano del Primo Ministro”, nel quale si ordinava a Sir Humphrey di abolire gli “economisti” per risparmiare sulle spese. In questo caso pensiamo che il riferimento fosse ai “macroeconometristi di scuola Keynesiana”, criticati da Hayek non solo per la fallacia delle loro tesi, ma perché avevano la falsa pretesa di poter simulare il funzionamento dell’economia reale attraverso complicate formule matematiche congegnate ad hoc senza utilizzare alcun metodo scientifico.