Morire di infrastrutture—di Diego Zuluaga
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Diego Zuluaga.
In tempi di recessione o crescita fiacca gli investimenti in infrastrutture sono spesso presentati, da parte dei policy-maker, come una specie di ricetta magica. Alcuni economisti sostengono che la spesa pubblica destinata a strade, ponti, aeroporti e linee ferroviarie sia auspicabile, principalmente per due ragioni. Prima di tutto perché determina un incremento dei salari di chi è coinvolto direttamente nella costruzione delle infrastrutture, accrescendo così il potere d’acquisto di questi lavoratori, che a sua volta concorrerà a sostenere la domanda aggregata e a favorire la crescita economica.
In secondo luogo, si afferma che i progetti infrastrutturali presentano caratteristiche che disincentiverebbero i privati. Tra queste si possono citare le esternalità positive che vengono generate (per esempio con la nascita e la crescita di centri urbani, industrie e altre attività economiche vicino a infrastrutture importanti) così come l’orizzonte di lungo periodo di molti dei progetti e, verosimilmente, certe intrinseche tendenze al monopolio naturale, come gli elevati costi fissi e I ridotti costi d’esercizio.
La teoria economica a favore di un imponente interventismo pubblico nella costruzione di infrastrutture è, ovviamente, discutibile. Il primo aspetto, l’idea keynesiana di domanda aggregata, è un esempio di quello che Frédéric Bastiat chiama il problema del “ciò che si vede e ciò che non si vede”, secondo cui si tende a prendere in considerazione solo i benefici (che si vedono) di una determinata scelta, ma non si considerano i suoi costi-opportunità (che non si vedono). Nel caso delle infrastrutture, è sicuro che i politici si vanteranno dello splendido aeroporto nuovo che dà lavoro a 500 persone, salvo dimenticarsi che, se non avessero tassato i contribuenti per poter finanziare il progetto, milioni di cittadini avrebbero potuto spendere diversamente le somme prelevate dalle loro tasche, avrebbero potuto aggiungerle ai loro risparmi, o anche destinarle ad altre degne (ed economicamente benefiche) cause.
La seconda tesi è plausibile, anche se non è difficile immaginare più di un modo in cui i privati potrebbero trarre profitto almeno in parte dalle esternalità positive di cui sopra. Chi possiede strade può (come già accade) far pagare un pedaggio a chi le usa, mentre i proprietari delle ferrovie potrebbero acquistare le terre circostanti i binari e capitalizzare l’apprezzamento dei terreni che deriverebbe dallo sviluppo delle linee ferroviarie. Storicamente non vi è prova di inefficienze nella spesa privata in infrastrutture: praticamente tutto il sistema ferroviario inglese, per esempio, è stato costruito e gestito da privati per più di un secolo, fino a quando non è stato nazionalizzato nel secondo dopoguerra.
Le spese in infrastrutture rimangono comunque il mantra preferito dei politici quando devono fare fronte alle avversità economiche. Nel 2014, in un periodo di stagnazione della crescita europea, Jean-Claude Juncker ha lanciato il Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (EFSI) al fine di offrire garanzie pubbliche per incentivare investimenti privati in strade, ponti, infrastrutture elettriche e altri progetti considerati importanti, specialmente se transfrontalieri.
Allo stesso modo, in seguito ai timori post-Brexit di una nuova recessione nel Regno Unito, il neo-Ministro del Tesoro britannico Philip Hammond ha promesso di incrementare la spesa in progetti che (teoricamente) aspettavano solo il “via” del governo, così da non indebolire la ripresa. Questo sarebbe solo il primo passo di una lunga serie di iniziative infrastrutturali tra cui spiccano la linea ad alta velocità tra Londra e Birmingham (HS2) e la già proclamata autorizzazione all’espansione di aeroporti vicino alla capitale inglese.
Come che sia, nessun paese ha seguito più convintamente della Cina il mantra della crescita indotta dalle infrastrutture. Tra il 2000 e il 2014 l’investimento fisso lordo (che misura l’incremento netto di beni fisici in un dato periodo) della Repubblica Popolare è decuplicato fino a raggiungere i 4.5 trilioni di dollari, distaccando di non poco il Giappone, secondo in classifica, e superando Germania e Stati Uniti rispettivamente di 4,5 e 7 volte. Gran parte di questi investimenti sono andati in infrastrutture, con finanziamenti sia da parte del settore pubblico che privato, comprese le banche di proprietà dello stato.
I devoti del culto delle “infrastrutture cosa buona e giusta” portano a titolo di esempio virtuoso la ventennale crescita a due cifre della Cina. Alcuni si sono persino spinti a ipotizzare che il carattere autocratico del governo cinese renda più agevoli questi tipi di progetto d’investimento, riducendo il rischio di costi eccessivi e di ritardi nel completamento dei lavori. In verità, non è altro che un eufemismo per sostenere che le autorità cinesi possono bellamente ignorare ogni opposizione e andare avanti per la loro strada.
Tuttavia casca a fagiolo un nuovo studio di alcuni ricercatori dell’Università di Oxford che mette in discussione certi rosei pareri sugli investimenti infrastrutturali cinesi. Il gruppo di ricerca, guidato dal professor Atif Ansar, ha analizzato 95 progetti di strade e ferrovie intrapresi in Cina tra il 1984 e il 2008, dimostrando come la caratteristica saliente di quesi progetti, piuttosto che accuratezza, lungimiranza ed efficienza ingegneristica, sia un costante fallimento della pianificazione.
In particolare, lo studio rivela che almeno il 75% dei progetti studiati (incluso il 90% dei progetti ferroviari) presentava costi superiori al previsto, essendo superiori in media del 30% rispetto il budget iniziale. I risultati sono un poco migliori per quanto riguarda I tempi di completamento: solo metà dei progetti è stato finito in ritardo, in media con uno sforamento del 5.9% rispetto alle tempistiche inizialmente previste. I ricercatori, però, sottolineano che questo potrebbe essere il risultato della fretta dei responsabili dei lavori piuttosto che di un efficace project management, visto che il tasso di decessi stradali in Cina è tra i più alti al mondo e che spesso le decisioni vengono prese senza alcun riguardo per le persone che ne verranno affette.
Non solo i costi delle infrastrutture risultavano nella stragrande maggioranza dei casi ben al di sopra delle previsioni, ma i benefici che ne derivavano venivano sistematicamente sovrastimati. Il 64.7% dei progetti studiati, in questo caso 156, presentava volumi di traffico inferiori a quanto previsto. La differenza di previsione ammontava al 41.2%, il che vuol dire che, in media, più del 40% dei volumi di traffico erano inferiori alle aspettative.
Combinando i surplus dei costi e le differenze tra benefici previsti ed effettivi si scopre che il 55% dei progetti aveva un rapporto benefici-costi inferiore a 1, ovvero, in termini di valore economico, portavano a una perdita netta. Soltanto il 28% dei progetti, stando allo studio di Ansar e dei suoi colleghi, può essere considerato come davvero proficuo dal punto di vista economico. In definitiva il giudizio degli studiosi è piuttosto severo:
“Il caso cinese ci offre lezioni di policy generalizzabili. Programmi di investimento massiccio in infrastrutture non sono da considerarsi strategicamente percorribili per paesi in via di sviluppo come il Pakistan, la Nigeria o il Brasile. I policy-maker dovrebbero concentrarsi più su questioni di software e orgware (quindi serie riforme istituzionali) e avere maggiore cautela nel destinare risorse scarse all’hardware (cioè le infrastrutture fisiche).”
Si potrebbe esser tentati di credere che gli evidenti problemi individuati dallo studio di Oxford siano indice di un livello di sviluppo inferiore, di scarsa qualità istituzionale e delle scadenti pratiche bancarie della Cina. In realtà, anche l’Europea non è estranea alle grossolane “generosità” statali, quando si parla di infrastrutture. Prima della crisi finanziaria, la Spagna ha avviato un frenetico programma di spesa che ha visto la proliferazione di aeroporti in zone dove non ce n’era evidente bisogno (e dove infatti la domanda ha stentato a materializzarsi). Nel Regno Unito ogni importante progetto avviato negli ultimi anni è stato contraddistinto da vertiginosi aumenti dei costi previsti (come nel caso dell’HS2, con costi stimati a circa 80 miliardi di sterline [1]) e/o ritardi, come nel caso della costruzione della centrale nucleare di Hinkley, fortemente sovvenzionata dallo stato, e dell’approvazione di una nuova pista di atterraggio negli aeroporti di Heathrow o di Gatwick.
L’opinione comune ritiene che la spesa in infrastrutture sia meglio gestita dallo stato, ritenuto ben intenzionato, lungimirante e consensuale, piuttosto che dai privati, considerati avidi e di miopi.
Questa teoria economica presuppone pertanto l’imperfezione dei mercati e l’impeccabilità dei governi, mentre questo assunto appare sempre più falso. In molte parti d’Europa vi sono numerosi esempi passati di infrastrutture realizzate con successo dal settore privato. È da queste esperienze che i governi dell’UE, e non solo, dovrebbero trarre insegnamento quando vengono chiamati a decidere chi dovrebbe costruire cosa.
[1] Il mio collega Richard Wellings dell’Institute of Economic Affairs ha esaminato l’HS2 in dettaglio, dimostrando che si tratta di un modo completamente insensato di spendere il denaro dei contribuenti. È possibile leggere il suo “The high-speed gravy train: special interests, transport policy and government spending” qui.
Diego Zuluaga è Head of Research presso EPICENTER.