29
Set
2016

Molti dubbi che il DEF non chiarisce. Intanto, prepensionare è un errore

Buona regola è cercare di distinguere i fatti dalle opinioni. Vediamo allora di separare le opinioni da ciò che è o appare un fatto, nei numeri anticipati della nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza in vista della prossima legga finanziaria.

I fatti sono questi. Primo: per l’ennesima volta – capita da decenni – le previsioni governative di crescita del PIL e di miglioramento della finanza pubblica erano sopravvalutate. Secondo: ancora una volta, le nuove previsioni governative su PIL e finanza pubblica sono più ottimistiche del consenso medio degli osservatori domestici e internazionali.  Terzo: questo ottimismo comporta effetti che evidentemente al governo non dispiacciono. Quarto: ma danno ragione alla Ue che ne diffida. Quinto: dunque saranno la base di nuove richieste italiane a Bruxelles. Sesto: intanto c’è una grande novità, il governo smette di ripetere il mantra “nessun accordo preferenziale coi sindacati e basta concertazione”, e chiude invece proprio col sindacato l’accordo complessivo sulla previdenza che verrà varato in finanziaria.

Dopo la stasi congiunturale del PIL nel secondo trimestre 2016 e molti indicatori – consumi, manifattura – che continuano a deludere, assumere un +0,8% di crescita nel 2016 e +1% nel 2017 ha due effetti. Significa contenere sulla carta la previsione del deficit di quest’anno entro il 2,4-2,5% del PI: ma lo stesso DEF della primavera scorsa ammetteva che a questi minori tassi di crescita si rischia di chiudere l’anno invece sul 2,7-2,9%.  Poiché il governo lo sa (l’ha scritto lui stesso ad aprile) scegliere un persistente ottimismo aumenta gli effetti da minor crescita, cioè aggiunge munizioni alla richiesta in Europa di concederci un deficit 2017 che non solo si alza dall’1,8% contrattato al 2% del nuovo DEF, e nemmeno solo al 2,4% se la Commissione autorizza spese fuori dal patto per migranti, sicurezza e terremoto. Ma probabilmente ancora più alto, se la crescita e le entrate saranno più deboli di quanto prevede oggi il governo ancora ottimista.

La diffidenza europea non si basa sulla nostra cresciuta inferiore al previsto. Ma sulla caduta del pilastro su cui si è poggiato l’anno scorso il riconoscimento alla richiesta italiana di spostare in avanti al 2018 il pareggio strutturale del bilancio italiano. Il pilastro era rappresentato dall’assunto che da questo 2016 il debito pubblico scendesse. Invece continua a salire. E con ogni probabilità, anche se il governo dice il contrario, avverrà con queste premesse anche nel 2017: perché a crescita così asfittica e deficit superiore al 2% ci manca la crescita nominale – leggi inflazione – perché il debito possa scendere rispetto al denominatore. Ergo, questa nota di aggiornamento al DEF sembra proprio la base di ulteriori slittamenti in avanti, oltre il 2020, del pareggio strutturale di bilancio al netto del ciclo.

Traduciamolo in politica: la flessibilità l’Europa ce l’ha concessa eccome, noi abbiamo mancato clamorosamente l’impegno assunto che la giustificava, e ora ci ricandidiamo alla stessa cosa ma  chiediamo altra flessibilità aggiuntiva. Abbiamo cercato mille vie tecniche per farlo. Abbiamo provato a contestare frontalmente il modo in cui la Ue calcola l’output gap , e siamo stati respinti. Abbiamo provato a forzare le norme del Patto di Stabilità chiedendo che la flessibilità concessa per la clausola degli investimenti e delle riforme valesse non per un anno ma per tutti gli anni a seguire. E naturalmente ci hanno liquidato rileggendoci le regole ad alta voce. Cose tecniche, per carità. Ma non belle figure,. di certo.

Veniamo alle opinioni. Non è un mistero che nel fissare il deficit al 2% per il 2017 più uno 0,4% se Bruxelles ce lo concederà, ha vinto la prudenza di Padoan su Renzi che voleva schiacciare di più il piede. Il motivo è evidente: è il referendm del 4 dicembre. Su cui Renzi si gioca tutto. Nasce anche di qui l’improvvisa aspra polemica messa in campo nelle ultime due settimane dal premier italiano contro Merkel e Hollande.

Infatti, neanche il 3% di deficit basterebbe, per soddisfare tutte le promesse che da 6 mesi a questa parte il governo ha fatto scrivere ai giornali come in arrivo nella prossima finanziaria. Di fatto, al momento sembra che il premier si riservi di mantenere questo schema più prudente nella finanziaria che sarà pronta il 20 ottobre.  Per poi riservarsi, a seconda dei sondaggi sul referendum, magari emendamenti “espansivi” a pochi giorni dall’appuntamento decisivo con le urne, per convincere in extremis chi avesse dubbi. C’è chi ha scritto che potrebbe anche anticipare al 2017 l’abbassamento di uno o due punti dell’aliquota IRPEF al 38% che scatta oltre i 28mila euro di reddito lordo. Vedremo.

Di certo non è dai tagli alla spesa pubblica, che possiamo aspettarci rilevanti spazi aggiuntivi per finanziare non in deficit tutte le promesse. Che ovviamente si sommano al punto di PIL che deve andare a copertura del mancato scatto di aumenti di IVA e accise (deciso da questo governo, non dai predecessori come spesso erroneamente ripetuto). Al massimo ci sarà la riapertura dell’emersione volontaria di capitali detenuti all’estero e ignoti al fisco, che tuttavia produce entrate una tantum non contabilizzabili a copertura di maggiori uscite permanenti. E inoltre, per recuperare davvero cifre considerevoli, bisognerebbe indurre alla convenienza chi non ha usato la prima voluntary: cioè rendere meno elevato il rischio di sanzioni penali, non proprio una scelta equa e popolare.

Le imprese si aspettano molto. Non solo l’abbassamento dal 27,5% al 24% dell’aliquota legale IRES: l’aumento dell’ACE; l’estensione dell’IRI per il cumulo di reddito d’impresa e personale per i piccoli imprenditori; l’estensione del credito fiscale agli investimenti in ricerca e sviluppo; la conferma del superammortamento al 140% degli investimenti, che dovrebbe poi salire al 250% per quelli riservati alla tecnologia avanzata del progetto Manifattura 4.0 lanciato dal ministro Calenda e presentato da Renzi a Milano . Il merito del ministro Calenda non è solo di aver concepito con il suo pacchetto di misure una risposta concreta al calo della manifattura in Italia e al ritardo della sua connessione alle Global Value Chains (un dato: negli ultimi 10 anni nel mondo, il valore del manifatturiero in dollari correnti è cresciuto di tremila miliardi. Metà di questo accrescimento si è realizzato in Cina. Gli Stati Uniti sono tornati a crescere, di 250 miliardi di dollari. La Corea del Sud è passata da 285 a 387 miliardi. La Germania è salita di 60 miliardi. L’Italia è invece scesa, da 351 a 297 miliardi, e la manifattura vale oggi solo poco più del 15% del valore aggiunto al PIL. Mentre era il 19% nel 2000). Si tratta dunque del maggior apporto all’accrescimento del prodotto potenziale italiano compreso nella legge di stabilità. L’altro merito è che si tratta di misure non scassa-bilancio: i superammortamenti si spalmano a fini fiscali per anni successivi di competenza mentre spingono le imprese a investire subito. E questo spiega il fatto che in finanziaria l’avvio del piano Industria4.0 pesa solo per poco più di un miliardo di euro.

Dovrebbe invece scomparire l’ulteriore decalage al 20% della decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato prevista invece fino a pochi mesi fa per il 2017, visto che i dati del mercato del lavoro mostrano che l’effetto traino della massiccia agevolazione è finito da tempo. Lasciandoci all’interrogativo se valesse la pena puntare un punto di PIL di risorse su questa sola partita, per ottenere una modifica così non sostanziale della quota di contratti a tempo determinato sul totale degli occupati (vedi tra l’altro esplosione dei voucher). Ma si dovrebbe invece aggiungere un fortissimo potenziamento della decontribuzione al salario di merito, per incentivare la produttività attraverso contratti aziendali: oggi la tassazione agevolata al 10% si applica a chi guadagna meno di 50 mila euro lordi l’anno e sui premi fino a 2 mila euro, la promessa è di comprendere invece i redditi fino a 80 mila euro lordi e i premi fino a 5 mila euro.

Anche ai lavoratori autonomi è stato promesso finalmente un intervento di sgravio permanente: invece di far scattare la solita aliquota automatica contributiva al 33% che anche per il 2017 era prevista come già capita da 3 anni a questa parte, per le partite IVA iscritte alla gestione separata INPS l’aliquota dovrebbe scendere dall’attuale 27% al 25%. Tutte queste voci sommate, se le prendiamo sul serio, fanno comunque 3-4miliardi di risorse destinate a impresa, produttività e investimenti. Ma finché non abbiamo la legge finanziaria, è anche possibile immaginare che magari sarà previsto tutto o quasi, ma con poste di spesa molto diverse da quelle che le imprese si attendono.

Rispetto a tutto ciò, il governo ha intanto chiuso ieri un solo pacchetto: quello previdenziale, trattando direttamente coi sindacati, con i quali ha firmato un vero e proprio protocollo. Fine dell’era in cui si inneggiava al modello-Marchionne e alla fine della concertazione. L’accordo è di 2 miliardi di risorse ogni anno per 3 anni, i sindacati ne chiedevano due e mezzo. Ma anche qui bisogna vedere bene i dettagli: prendendo alla lettera i punti dell’accordo 2 miliardi non bastano affatto.

C’è l’anticipo di pensione, che scassa in maniera ormai strutturale i tetti previsti dalla legge Fornero e consentirà volontariamente di lasciare il lavoro a chi ha 63 anni, cioè 3 anni e 7 mesi prima del tetto vigente. Vedremo davvero quanto sarà penalizzato per chi vi farà ricorso l’assegno ricevuto: se Renzi non vuole un flop (come avvenuto per il “TFR in busta”) la penalizzazione deve essere contenutissima e significa più deficit per l’INPS. Vedremo a quali categorie agevolate lo Stato assicurerà da subito l’assegno pieno senza penalizzazione (più deficit). In un paese che si è inventato sette successive misure per esodati che esodati non erano, bisogna spettarsi una definizione “generosa”. C’è poi l’anticipo a carico delle imprese, se sono queste a voler accelerare ristrutturazioni. C’è quello per i lavoratori precoci e per i lavori usuranti. L’aumento della 14esima ai pensionati non più fino a 750 euro lordi al mese ma fino a 1000, includendovi dunque un milione di nuovi soggetti in più. C’è l’aumento per i pensionati oltre i 74 anni della no tax area, fino agli 8125 euro dei lavoratori dipendenti. C’è la ricongiunzione gratuita per chi ha versato contributi a enti previdenziali diversi. C’è la detassazione per chi attinge a un fondo previdenziale integrativo a cui ha versato i contributi, nel mentre non ha ancora maturato i requisiti per la pensione.

Che tutto questo si faccia con 2 miliardi, il dubbio non solo è lecito. È obbligatorio. E’ appena il caso di spiegare perché ci si preoccupi tanto di agevolare il pensionamento di chi un lavoro ce l’ha, rispetto ai giovani che il lavoro non ce l’hanno o l’hanno discontinuo. Come ci ricorda Bankitalia, (qui fig.6 pag 11-12) in termini reali, la ricchezza media delle famiglie con capofamiglia tra i 18 e i 34 anni è scesa del 60% rispetto a quella registrata nel 1995, mentre quella delle famiglie con capofamiglia con almeno 65 anni è aumentata di circa il 60 per cento: il rapporto tra quest’ultima e quella dei più giovani è passato da meno dell’unità a oltre 3. E’ un dato che dice tutto, della priorità vera del nostro paese: i giovani, non gli anziani da prepensionare.   Ma l’età media degli italiani è di 45 anni in questo 2016, e a votare vanno più gli anziani che i giovani: la politica lo sa benissimo e sceglie di conseguenza E non dimentichiamo che con i sindacati resta aperta la partita del rinnovo dei contratti pubblici bloccati da anni, e vedremo alla fine se dai 300 milioni inizialmente appostati il governo si ferma a quota 2 o 3 miliardi.

Solo i numeri veri della finanziaria ci diranno tra un mese quanti di questi dubbi sono fondati. Ma intanto ricordate: il PIL dell’Italia nel 2016 è pari a quello del 2000, cioè siamo tornati indietro di 16 anni. Ma rispetto ad allora la spesa pubblica primaria è salita del 20% e le entrate pubbliche del 10%. Con questi bei risultati che vediamo intorno a noi.

 

 

27
Set
2016

La disuguaglianza come presupposto di una società meritocratica—di Francesco Bruno

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco Bruno.

Da poco nelle librerie, La disuguaglianza fa bene. Manuale di sopravvivenza per un liberista pubblicato da “La nave di Teseo”, ha il pregio di andare nella direzione opposta rispetto al pensiero dominante. L’autore, Nicola Porro, conosce bene quest’ultimo, non solo in quanto giornalista di carta stampata, ma soprattutto come noto conduttore e personaggio televisivo.

Sì, perché è proprio il piccolo schermo che sembra mettere d’accordo proprio tutti i protagonisti del pensiero dominante: è la disuguaglianza il grande male del secolo. Ed essa è dovuta a una sola causa: il neoliberismo. Mentre le altre fonti di informazione offrono una variegata gamma di opinioni, dando la possibilità ad ognuno di alimentare la propria, la televisione è restia a priori al confronto su alcuni temi, pervasa com’è da uno stantio leimotif  “freccerista” che non trova alcun fondamento nei fatti e nei numeri.

Per un liberale è spesso difficile vedere la fatica che fanno altri liberali quando – sporadicamente – vengono invitati nei talk show politici. Dopo un po’ non si resiste, occorre cambiare canale!

Spesso si tratta di liberali preparati, quantomeno alla pari degli altri ospiti, eppure si trovano a soccombere oppure ad apparire comunque sconfitti nella discussione all’interno di un ambiente ostile. Che sia il tono della voce più alto degli altri ospiti, la faziosità del conduttore o il rumorio del pubblico presente o in collegamento, il risultato è sempre analogo. Il liberale risulta agli occhi dei telespettatori come il cattivo della situazione, amico dei ricchi e dei potenti, a favore di sfruttamenti vari. Tutti gli altri sembrano buoni invece, magnanimi, filantropi, pensano ai deboli, ai pensionati, agli esodati, ai disoccupati, alle vittime delle banche, della crisi etc.

Una cattiva fama dovuta al fatto che chi è liberale non si cura della ricchezza altrui, non la considera un problema, la esalta purché di fonte lecita (come se si dovesse precisare che la liceità è prerequisito dell’ammirazione…). Ma a differenza di quanto raffigurato nell’immaginario collettivo, un liberale si occupa molto più nel concreto della povertà, della trappola che la stessa sottende e dalla quale è difficile divincolarsi, della pericolosità delle concentrazioni di potere che minano la concorrenza e il mercato, della tutela delle famiglie a basse reddito e del loro potere reale di acquisto, della lotta alla disoccupazione dei giovani, delle minoranze, degli immigrati e dei lavoratori poco qualificati. Basti pensare – tra le migliaia di esempi spendibili – alla negative income tax di Friedman riecheggiata nel libro di Porro attraverso le parole di Antonio Martino.

Nel suo testo l’autore confuta tanti miti popolari, aiutandosi con i classici del pensiero liberale. Smith, Friedman, Einaudi, Hayek, ma anche giganti meno noti in Italia come Ronald Coase o proponendo una rilettura in chiave liberale del Manzoni. Con unico filo conduttore a guidare il tutto: la libertà della persona umana.

Ma i nemici della libertà sono sempre dietro l’angolo. Per capire la malafede o l’ipocrisia dei predicatori della “disuguaglianza fonte di ogni male”, è sufficiente leggerli o ascoltarli attentamente. Quasi sempre inseriranno nelle loro argomentazioni il termine “meritocrazia”, senza accorgersi che una società meritocratica non può che essere disuguale. Di contro, nel nostro Paese (ma non solo) in nome di un’asserita ricerca dell’uguaglianza si penalizza da decenni il merito, nella scuola, nella ricerca, nel mondo del lavoro, nella sanità, nella pubblica amministrazione.

Resta una battaglia contro dei mulini a vento. Il “Pikettysmo” è la giustificazione perfetta per chi vuole spiegare qualsiasi problema con la retorica della forbice ricchi/poveri che si allarga e che si dovrebbe ridurre per avere un quieto “mal comune mezzo gaudio” che ci renderebbe tutti più poveri, ma maggiormente sereni.

Come ricorda anche in un recente articolo Pierluigi Battista citando il libro di Porro, non è un periodo felice per chi si professa liberale. Osservate i commenti sui social network agli articoli di ispirazione liberale per capire meglio lo status quo, a volte inorridire è inevitabile.

Porro fa altresì paragoni forti, richiamando l’atmosfera tenebrosa degli anni di piombo, foraggiata dal pensiero filo-comunista che dominava sui media e nelle università. Il paragone come detto è forte, non stiamo rivivendo quell’epoca, ma non è del tutto fuorviante e di sicuro è utile per non dimenticare mai le conseguenze della spinta ideologica sulle masse.

La lettura riporta alla mente un articolo non recentissimo di qualche anno fa del Professor Perotti, che raccontava la solitudine del liberista incompreso, una solitudine che ha sicuramente provato anche durante la sua fugace esperienza di governo come uomo della spending review. Ma adesso il liberista ha un manuale di sopravvivenza in più, per sentirsi meno solo ed avere un po’ più di coraggio.

Doverosamente il manuale conclude il suo tour nell’universo liberale con la lezione di Luigi Einaudi, con le prediche da lui definite ironicamente “inutili” ma di cui conosciamo invece  la preziosa rarità, da custodire gelosamente contro le interpretazioni distorsive e da divulgare ad ogni occasione anche per recuperare quel gap di popolarità che affligge il pensiero liberale.   

26
Set
2016

Mio… nostro… Vostro! Che fine ha fatto il diritto di proprietà in Italia?—di Luca Minola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Luca Minola.

In Italia il diritto di proprietà, in teoria e almeno entro certi limiti, dovrebbe essere protetto dalla Costituzione. Eppure in Parlamento, ad oggi, giace un progetto di legge volto – formalmente a limitare il consumo di suolo, il cui articolo 4 legittima i Comuni a censire gli immobili “non utilizzati o abbandonati”, presumibilmente con lo scopo di destinarli a terzi, evitando così di costruire nuovi edifici. Si tratta, cioè, di espropri de facto, aggravati dalla totale assenza di garanzie procedurali per chi fosse colpevole – non sia mai! – di “non utilizzare” a sufficienza un immobile di cui è proprietario.

Tutelare il diritto di proprietà, lo sappiamo, significa garantire la diffusione del libero mercato. E in effetti anche l’Index of Economic Freedom, pubblicato annualmente dall’Heritage Foundation, lo tiene in considerazione per il calcolo del livello di libertà economica di ogni singolo Paese. Adesso osserviamo l’Europa: il punteggio ottenuto da Inghilterra e Germania è di 90/100, quello ottenuto dalla Francia è di 80/100, quello invece di Portogallo e Spagna è di 70/100. Oggi l’Italia possiede un punteggio per la tutela del diritto di proprietà di 50/100 – addirittura inferiore a quello di Botswana, Ghana e Uruguay – e ben distante dal 70/100 del 2005. L’Heritage Foundation individua tra le cause principali la corruzione, le interferenze politiche all’interno del sistema legale e la lentezza delle procedure giudiziarie.

Ma il diritto di proprietà è prima di tutto sinonimo di libertà, anche sotto un profilo non meramente economico. Altrettanto importante, da questo punto di vista, è il tema degli espropri, e particolarmente due aspetti del tema: da una parte la legalità dell’intervento, dall’altra il risarcimento del privato che subisce l’esproprio.

Dal primo punto di vista, lo Stato detiene un potere sostanzialmente illimitato e la libertà di agire secondo il fine della funzione sociale (dichiarata di volta in volta secondo necessità e mai chiarita a priori a livello costituzionale): la funzione sociale della proprietà, in questo modo, non sembra più finalizzata alla realizzazione straordinaria di quei servizi ed infrastrutture che il mercato non è in grado di fornire direttamente, ma sembra utilizzata per rimuovere velocemente gli ostacoli giuridici ed economici che si frappongono tra lo Stato ed i cittadini.

Dall’altra parte, l’ammontare del risarcimento, attualmente soggetto a tassazione, viene calcolato sul valore venale del bene – ipotizzando un mercato ideale – e risulta essere ben lontano dai valori reali di mercato.

Nonostante negli ultimi anni siano stati fatti dei passi in avanti in materia legislativa, c’è ancora molto da fare.

La sfida contemporanea, soprattutto tra i liberali, dovrebbe essere quella di tornare ad occuparsi del tema della proprietà privata, apparentemente abbandonato negli ultimi decenni.

Cosa fare, quindi, per tutelare il diritto di proprietà in materia di espropri?

Sicuramente prendere spunto dalle esperienze internazionali, che seppur simili a quella italiana, hanno però elementi positivi da prendere in considerazione (come l’introduzione della figura giudiziaria all’inizio del processo espropriativo).

Chiarire a livello costituzionale cosa si intende per funzione sociale dell’esproprio, aspetto oggi completamente ignorato. E forse, provocatoriamente, pensare non solo alla possibilità di garantire al privato soggetto all’esproprio un indennizzo maggiore del valore di mercato – questo indennizzo dovrebbe essere inteso proprio come ricompensa al torto subìto – ma anche all’eventualità che l’esproprio non venga messo in atto per mancanza di fondi statali da destinare all’indennizzo stesso.

21
Set
2016

Ferrovie regionali al capolinea?—di Ivan Beltramba

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Ivan Beltramba.

Il disastro di Corato sulla linea “Bari Nord” ha portato alla ribalta le “Ferrovie Regionali”, talune gestite da società a capitale privato, il resto da società di proprietà degli Enti Locali. La maggior parte di queste linee sono interconnesse con la rete Nazionale gestita da RFI ed a seguito del recepimento della DIR UE 34/2012 (cd. RECAST) con il D.Lgs 112/2015 alcune di queste saranno trasferite per le questioni inerenti la sicurezza dal Ministero delle Infrastrutture e Trasporti alla Agenzia Nazionale della Sicurezza Ferroviaria, creata con il D.Lgs 162/2007 recepimento della DIR UE 49/2004 sulla sicurezza delle ferrovie. È stato pubblicato in GU il 15 settembre il Decreto Ministeriale previsto dall’articolo 1 comma 6 che dovrebbe indicare le Ferrovie Regionali “di interesse strategico”. Read More

21
Set
2016

Serve voto maggioritario dei lavoratori per indire scioperi nei pubblici servizi, e il governo l’aveva promesso

“Non si possono lasciare a piedi centinaia di migliaia di persone, bloccando il trasporto aereo e le città.  È grave che una minoranza poco numerosa condizioni la vita di intere collettività, quando la stragrande maggioranza dei lavoratori ha opinioni diverse. Dobbiamo darci nuove regole, intervenendo sulla legge in materia di diritto di sciopero e sugli accordi di settore. Stiamo parlando con le Autorità dei Trasporti e con l’Autorità di garanzia sugli scioperi, subito dopo assumeremo le decisioni del caso”. Era il 30 aprile 2015, e così parlava il ministro Delrio, in un’intervista sul Messaggero a Osvaldo De Paolini.

Che cosa è stato di quell’impegno? Si è perso per strada. Certo, eravamo nell’imminenza di EXPO, e subito dopo lo sciopero che aveva visto chiuso senza preavviso gli scavi di Pompei. Poi è venuto il Giubileo a Roma, e l’idea di estendere la moratoria milanese agli scioperi portò allo scontro sindacati e Autorità di settore, con tanto di ricorso a precettazioni. Mentre domani è previsto un nuovo sciopero di 24 ore indetto in Alitalia da alcune sigle sindacali. Dopo che sempre su Alitalia Delrio ha disposto il differimento dello sciopero del 25 luglio, il TAR ha annullato la decisione di Delrio, e il ministro Alfano l’ha dovuta ribadire d’autorità, addirittura “per motivi di ordine pubblico”. A conferma che il problema resta totalmente irrisolto, purtroppo. Delrio ha detto che valuterà se precettare i lavoratori che intendono domani bloccare i voli. Ma un fatto è certo: da tempo immemorabile occorre intervenire sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e di trasporto, ma la politica, anche se ne annuncia la volontà, poi non ha il fegato di farlo davvero. C’è sempre un turno di elezioni amministrative o un referendum a breve, in vista del quale non rischiare consensi.

La vicenda Alitalia conferma quanto abbiamo scritto molte volte. La compagnia aerea, che nel 2015 ha perduto ancora mezzo milione di euro al giorno, è impegnata con Etihad nel difficile sforzo di fronteggiare il morso delle compagnie low cost, che ormai con Norwegian e Pegasus nel mercato europeo si estendono anche ai voli intercontinentali. Di qui la necessità di contenere i costi, ottimizzare il feederaggio del breve raggio al servizio del lungo, estendere ulteriormente le destinazioni estere. Ma Cgil, Cisl e Uil hanno firmato il 18 settembre un accordo con l’azienda su numerosi punti pendenti in relazione al trattamento del personale navigante (comprese le tariffe simboliche dovute quando usa vettori della compagnia). Mentre Anpac, Anpav e USB non hanno firmato e hanno confermato lo sciopero di domani. “Una pura follia”, la ritiene l’amministratore delegato della società, Cramer Ball. E ha ragione, visto che i sindacati dovrebbero sapere quante lacrime e sangue è costata a noi tutti nei decenni la compagnia, mentre ora bisogna fare l’impossibile perché torni a produrre utili.

Piccolo particolare: l’Anpac rappresenta meno del 20% del personale Alitalia. Nell’intervista al Messaggero di 17 mesi fa, Delrio si diceva favorevole ad adottare la regola di un referendum preventivo tra i lavoratori per indire lo sciopero nel trasporto pubblico, con un tetto minimo di favorevoli del 50,1%. Noi la pensiamo come il ministro allora. Ma lui e il governo, invece, come la pensano oggi?

E’ noto che in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali vige la legge 146 dl 1990, emendata successivamente, che insieme agli accordi tra sindacati e imprese di trasporto fissa dei limiti sulle fasce di garanzia da offrire al pubblico, sui tempi minimi di preavviso, e sulle procedure di “raffreddamento” conciliativo delle vertenze. In Italia, per via di quella legge, non sarebbero possibili gli scioperi a oltranza del settore pubblico che avvengono annualmente in Francia, o quello di sette giorni che bloccò a lungo le ferrovie in Germania. Però quella legge, e gli accordi bilaterali tra sindacati e imprese di trasporto, nulla dicono della rappresentanza minima dei sindacati e-o della necessità di far votare preventivamente i lavoratori, superando nel referendum una certa soglia di consenso, per poter indire uno sciopero. E’ questo il punto più delicato che occorre finalmente affrontare. Sappiamo che il governo ha in corso con i sindacati trattative delicate, dalle pensioni al rinnovo dei contratti pubblici. Ma non è una buona ragione per non mettere mano a quest’altra questione fondamentale: quali nuove regole porre, perché ogni venerdì di ogni settimana un sindacato minore non firmatario degli accordi con le aziende non s’inventi uno sciopero dei trasporti, come a Roma per molto tempo è stata la regola?

L’industria privata con Cgil, Cisl e Uil, hanno firmato a gennaio 2014, dopo 3 anni di confronto, un protocollo interconfederale che fissa con precisione le soglie sopra le quali i sindacati si siedono ai tavoli contrattuali nazionali e aziendali, si firmano accordi che a quel punto sono validi ed esigibili erga omnes, e si ha diritto a godere dei diritti sindacali. Con la riforma Madia della PA e l’unificazione in 4 soli comparti del pubblico impiego, si sono poste le basi per un’analoga disciplina della rappresentanza anche nel mondo pubblico. Ma il diritto di sciopero resta escluso dalle soglie per firmare contratti e renderli esigibili. Al contrario, bisogna disciplinare esplicitamente tale materia. Bisogna costruire un mondo delle relazioni industriali pubbliche in cui l’esigibilità delle intese da parte di tutti i lavoratori deve valere innanzitutto se la maggioranza dei rappresentati da sindacati firmatari vi si riconosce, e a quel punto le sigle minoritarie dissidenti non possono indire scioperi.

Tuttavia sappiamo anche che la giurisprudenza della Corte costituzionale è unanime, nel ritenere il diritto di sciopero come prerogativa del singolo lavoratore, non devoluta alla mera decisione della rappresentanza sindacale. Ci sono stati casi in passato di scioperi promossi dal basso attraverso sms nei confronti dei quali ogni intervento di precetto risultò impossibile, proprio perché la giurisprudenza riconosce che l’esercizio della tutela costituzionale dello sciopero si intesta a ogni singolo lavoratore. Non è così altrove, in Germania, Svezia, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, dove è un diritto dei sindacati. Ma proprio perché lo sciopero è diritto dei singoli lavoratori, serve un voto preventivo dei lavoratori per poterlo indire. Il 50,1% dei voti serve a contemperare il diritto dei lavoratori con il rispetto dei diritti dei cittadini e della collettività. E del resto il criterio del voto sugli scioperi vige in 17 paesi su 28 paesi europei, tra cui Danimarca, Germania, Olanda, Portogallo, Regno Unito, in tutti i paesi est europei e baltici. Solo fissando il criterio nei servizi pubblici di un voto preventivo favorevole del 50,1% dei lavoratori si verrà a capo di situazioni impazzite come quella del trasporto pubblico nella Capitale, bloccata innumerevoli volte da microsigle. E per chi non rispetta le regole, servono sanzioni in solido pesantissime.

Caro ministro Delrio, dunque, riprenda in mano la questione su cui si era espresso con tanta chiarezza.

16
Set
2016

Morire di infrastrutture—di Diego Zuluaga

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Diego Zuluaga.

In tempi di recessione o crescita fiacca gli investimenti in infrastrutture sono spesso presentati, da parte dei policy-maker, come una specie di ricetta magica. Alcuni economisti sostengono che la spesa pubblica destinata a strade, ponti, aeroporti e linee ferroviarie sia auspicabile, principalmente per due ragioni. Prima di tutto perché determina un incremento dei salari di chi è coinvolto direttamente nella costruzione delle infrastrutture, accrescendo così il potere d’acquisto di questi lavoratori, che a sua volta concorrerà a sostenere la domanda aggregata e a favorire la crescita economica.

In secondo luogo, si afferma che i progetti infrastrutturali presentano caratteristiche che disincentiverebbero i privati. Tra queste si possono citare le esternalità positive che vengono generate (per esempio con la nascita e la crescita di centri urbani, industrie e altre attività economiche vicino a infrastrutture importanti) così come l’orizzonte di lungo periodo di molti dei progetti e, verosimilmente, certe intrinseche tendenze al monopolio naturale, come gli elevati costi fissi e I ridotti costi d’esercizio.

La teoria economica a favore di un imponente interventismo pubblico nella costruzione di infrastrutture è, ovviamente, discutibile. Il primo aspetto, l’idea keynesiana di domanda aggregata, è un esempio di quello che Frédéric Bastiat chiama il problema del “ciò che si vede e ciò che non si vede”, secondo cui si tende a prendere in considerazione solo i benefici (che si vedono) di una determinata scelta, ma non si considerano i suoi costi-opportunità (che non si vedono). Nel caso delle infrastrutture, è sicuro che i politici si vanteranno dello splendido aeroporto nuovo che dà lavoro a 500 persone, salvo dimenticarsi che, se non avessero tassato i contribuenti per poter finanziare il progetto, milioni di cittadini avrebbero potuto spendere diversamente le somme prelevate dalle loro tasche, avrebbero potuto aggiungerle ai loro risparmi, o anche destinarle ad altre degne (ed economicamente benefiche) cause.

La seconda tesi è plausibile, anche se non è difficile immaginare più di un modo in cui i privati potrebbero trarre profitto almeno in parte dalle esternalità positive di cui sopra. Chi possiede strade può (come già accade) far pagare un pedaggio a chi le usa, mentre i proprietari delle ferrovie potrebbero acquistare le terre circostanti i binari e capitalizzare l’apprezzamento dei terreni che deriverebbe dallo sviluppo delle linee ferroviarie. Storicamente non vi è prova di inefficienze nella spesa privata in infrastrutture: praticamente tutto il sistema ferroviario inglese, per esempio, è stato costruito e gestito da privati per più di un secolo, fino a quando non è stato nazionalizzato nel secondo dopoguerra.

Le spese in infrastrutture rimangono comunque il mantra preferito dei politici quando devono fare fronte alle avversità economiche. Nel 2014, in un periodo di stagnazione della crescita europea, Jean-Claude Juncker ha lanciato il Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (EFSI) al fine di offrire garanzie pubbliche per incentivare investimenti privati in strade, ponti, infrastrutture elettriche e altri progetti considerati importanti, specialmente se transfrontalieri.

Allo stesso modo, in seguito ai timori post-Brexit di una nuova recessione nel Regno Unito, il neo-Ministro del Tesoro britannico Philip Hammond ha promesso di incrementare la spesa in progetti  che (teoricamente) aspettavano solo il “via” del governo, così da non indebolire la ripresa. Questo sarebbe solo il primo passo di una lunga serie di iniziative infrastrutturali tra cui spiccano la linea ad alta velocità tra Londra e Birmingham (HS2) e la già proclamata autorizzazione all’espansione di aeroporti vicino alla capitale inglese.

Come che sia, nessun paese ha seguito più convintamente della Cina il mantra della crescita indotta dalle infrastrutture. Tra il 2000 e il 2014 l’investimento fisso lordo (che misura l’incremento netto di beni fisici in un dato periodo) della Repubblica Popolare è decuplicato fino a raggiungere i 4.5 trilioni di dollari, distaccando di non poco il Giappone, secondo in classifica, e superando Germania e Stati Uniti rispettivamente di 4,5 e 7 volte. Gran parte di questi investimenti sono andati in infrastrutture, con finanziamenti sia da parte del settore pubblico che privato, comprese le banche di proprietà dello stato.

I devoti del culto delle “infrastrutture cosa buona e giusta” portano a titolo di esempio virtuoso la ventennale crescita a due cifre della Cina. Alcuni si sono persino spinti a ipotizzare che il carattere autocratico del governo cinese renda più agevoli questi tipi di progetto d’investimento, riducendo il rischio di costi eccessivi e di ritardi nel completamento dei lavori. In verità, non è altro che un eufemismo per sostenere che le autorità cinesi possono bellamente ignorare ogni opposizione e andare avanti per la loro strada.

Tuttavia casca a fagiolo un nuovo studio di alcuni ricercatori dell’Università di Oxford che mette in discussione certi rosei pareri sugli investimenti infrastrutturali cinesi. Il gruppo di ricerca, guidato dal professor Atif Ansar, ha analizzato 95 progetti di strade e ferrovie intrapresi in Cina tra il 1984 e il 2008, dimostrando come la caratteristica saliente di quesi progetti, piuttosto che accuratezza, lungimiranza ed efficienza ingegneristica, sia un costante fallimento della pianificazione.

In particolare, lo studio rivela che almeno il 75% dei progetti studiati (incluso il 90% dei progetti ferroviari) presentava costi superiori al previsto, essendo superiori in media del 30% rispetto il budget iniziale. I risultati sono un poco migliori per quanto riguarda I tempi di completamento: solo metà dei progetti è stato finito in ritardo, in media con uno sforamento del 5.9% rispetto alle tempistiche inizialmente previste. I ricercatori, però, sottolineano che questo potrebbe essere il risultato della fretta dei responsabili dei lavori piuttosto che di un efficace project management, visto che il tasso di decessi stradali in Cina è tra i più alti al mondo e che spesso le decisioni vengono prese senza alcun riguardo per le persone che ne verranno affette.

Non solo i costi delle infrastrutture risultavano nella stragrande maggioranza dei casi ben al di sopra delle previsioni, ma i benefici che ne derivavano venivano sistematicamente sovrastimati. Il 64.7% dei progetti studiati, in questo caso 156, presentava volumi di traffico inferiori a quanto previsto. La differenza di previsione ammontava al 41.2%, il che vuol dire che, in media, più del 40% dei volumi di traffico erano inferiori alle aspettative.

Combinando i surplus dei costi e le differenze tra benefici previsti ed effettivi si scopre che il 55% dei progetti aveva un rapporto benefici-costi inferiore a 1, ovvero, in termini di valore economico, portavano a una perdita netta. Soltanto il 28% dei progetti, stando allo studio di Ansar e dei suoi colleghi, può essere considerato come davvero proficuo dal punto di vista economico. In definitiva il giudizio degli studiosi è piuttosto severo:

“Il caso cinese ci offre lezioni di policy generalizzabili. Programmi di investimento massiccio in infrastrutture non sono da considerarsi strategicamente percorribili per paesi in via di sviluppo come il Pakistan, la Nigeria o il Brasile. I policy-maker dovrebbero concentrarsi più su questioni di software e orgware (quindi serie riforme istituzionali) e avere maggiore cautela nel destinare risorse scarse all’hardware (cioè le infrastrutture fisiche).”

Si potrebbe esser tentati di credere che gli evidenti problemi individuati dallo studio di Oxford siano indice di un livello di sviluppo inferiore, di scarsa qualità istituzionale e delle scadenti pratiche bancarie della Cina. In realtà, anche l’Europea non è estranea alle grossolane “generosità” statali, quando si parla di infrastrutture. Prima della crisi finanziaria, la Spagna ha avviato un frenetico programma di spesa che ha visto la proliferazione di aeroporti in zone dove non ce n’era evidente bisogno (e dove infatti la domanda ha stentato a materializzarsi). Nel Regno Unito ogni importante progetto avviato negli ultimi anni è stato contraddistinto da vertiginosi aumenti dei costi previsti (come nel caso dell’HS2, con costi stimati a circa 80 miliardi di sterline [1]) e/o ritardi, come nel caso della costruzione della centrale nucleare di Hinkley, fortemente sovvenzionata dallo stato, e dell’approvazione di una nuova pista di atterraggio negli aeroporti di Heathrow o di Gatwick.

L’opinione comune ritiene che la spesa in infrastrutture sia meglio gestita dallo stato, ritenuto ben intenzionato, lungimirante e consensuale, piuttosto che dai privati, considerati avidi e di miopi.

Questa teoria economica presuppone pertanto l’imperfezione dei mercati e l’impeccabilità dei governi, mentre questo assunto appare sempre più falso. In molte parti d’Europa vi sono numerosi esempi passati di infrastrutture realizzate con successo dal settore privato. È da queste esperienze che i governi dell’UE, e non solo, dovrebbero trarre insegnamento quando vengono chiamati a decidere chi dovrebbe costruire cosa.

[1] Il mio collega Richard Wellings dell’Institute of Economic Affairs ha esaminato l’HS2 in dettaglio, dimostrando che si tratta di un modo completamente insensato di spendere il denaro dei contribuenti. È possibile leggere il suo “The high-speed gravy train: special interests, transport policy and government spending” qui.

Diego Zuluaga è Head of Research presso EPICENTER.

15
Set
2016

“In amicorum numero”: Stato, cultura e paghette

Il regalo di benvenuto nella maggiore età, da parte dello Stato, è un bonus da 500 euro. Stando a quanto hanno riportato i giornali nei giorni scorsi, oggi avrebbe dovuto fare la sua comparsa online il sito 18app.it, attraverso il quale è possibile spendere la propria dote. Al momento però il sito non è ancora attivo. A prevedere tale bonus in spese culturali per i giovani era stato un comma contenuto nella legge di stabilità per il 2016. Nel testo si stabiliva l’assegnazione a ogni ragazzo, che avesse compiuto diciotto anni nel 2016, di una carta elettronica “per assistere a rappresentazioni teatrali e cinematografiche, per l’acquisto di libri nonché per l’ingresso a musei, mostre ed eventi culturali, monumenti, gallerie, aree archeologiche, parchi naturali e spettacoli dal vivo”. Non si diceva molto di più e si rimandava a un decreto, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, in cui definire i criteri e le modalità di attribuzione e di utilizzo del bonus. Passati i trenta giorni, il decreto però ancora non era stato pubblicato. Al 15 settembre, ossia oggi, passati quindi circa 260 giorni dall’entrata in vigore della legge (1 gennaio 2016) il decreto ancora non è comparso sulla Gazzetta Ufficiale. Dell’esistenza e di cosa ci sia scritto sul decreto se ne ha notizia grazie a un parere del Consiglio di Stato, dello scorso 6 settembre. Ma prima di addentrarci nei contenuti, due considerazioni.

La prima è legata al rispetto delle disposizioni di legge. Lo Stato che pretende dai cittadini il rispetto della legge è il primo a non rispettare quanto egli stesso stabilisce. Non è la prima volta che questo accade e gli esempi sono tanti. Da una parte è indice di scarsa serietà (stabiliti i trenta giorni, questi diventano molti di più e non si sa nemmeno quanti), dall’altra dell’arbitrarietà del suo operato: lo Stato si può concedere cose che ai cittadini non sono concesse. 

La seconda legata all’utilizzo dei “bonus”. Il bonus degli 80 euro, l’art bonus, quello per i docenti, ora quello per i diciottenni. Bonus che si sommano a esenzioni, detrazioni, deduzioni, crediti d’imposta e benefici d’ogni sorta. Tutte misure eccezionali che in un certo senso derogano dal quadro generale. Ma che generano complessità e disparità (se non privilegi). Come scrive Serena Sileoni oggi su Panorama, “Tutti i bonus creano, per definizione, diseguaglianze. Ma alcuni possono essere più iniqui di altri, se la discrezionalità di scelta tra chi può usufruirne o meno non risponde a canoni di ragionevolezza, ma ad altri criteri, tra cui, non si sfugge, la ricerca del consenso di alcune grandi categorie di cittadini”. Senza tenere conto che in alcuni casi vi è una scadenza temporale. Perché i fondi per il bonus giovani sono stati stanziati per un solo anno e nessuno sa cosa accadrà ai successivi diciottenni. Ma fa più effetto e porta più titoli di giornali dare un qualcosa di certo e definito a un gruppo riconoscibile di persone. A te diciottenne metto in mano 500 euro. Una misura più “visibile” non ci può essere.

Per quanto riguarda i contenuti, come si è detto, è possibile risalire allo “schema di decreto”, quindi non al decreto finito e pubblicato, dal parere del Consiglio di Stato. Il parere espresso è stato “favorevole con osservazioni”. Innanzi tutto si scopre che la Carta di cui si parla nella legge sarà una app. Ogni diciottenne potrà accedervi, previa registrazione, e scegliere tra l’offerta fornita da un elenco di soggetti anch’essi registrati. Ad esempio vi potrà essere il tal teatro che offre il tal spettacolo. Il diciottenne acquisterà il biglietto del tal spettacolo, nella forma di un voucher da stampare, che consegnerà all’ingresso per poter accedere in sala. Così, semplificando, dovrebbe funzionare il tutto.

È interessante segnalare un rilievo del Consiglio di Stato che riguarda il perimetro dei beni e servizi ammessi. La definizione data dalla legge, riportata all’inizio di questo articolo, è assai vaga: tutte le rappresentazioni teatrali e cinematografiche? anche i cinepanettoni? o solo i film proiettati in sale d’essai? quali spettacoli dal vivo? anche i concerti di musica pop? quali libri? anche quelli di cucina? e cosa si intende per “eventi culturali”? Il Consiglio di Stato dice che “si tratta di una definizione generica, che spetta al regolamento precisare, onde fugare possibili incertezze sulla tipologia di beni e servizi acquistabili”. Chissà però se è possibile circoscrivere in maniera dettagliata questi aspetti. Si potrebbero elencare le tipologie di libri acquistabili: no i fumetti e sì i libri di storia? e per i romanzi? sì i classici e no gli altri? ma quali sono gli autori “classici”?

Quello che infine si può dire, in attesa di vedere come effettivamente funzionerà l’app, è che il ricorso a queste misure “spot”, microsettoriali, a vere e proprie mance, porta con sé una gran quantità di questioni da azzeccagarbugli. Si entra nel dettaglio, nel particolare per evitare abusi e distorsioni delle finalità dei provvedimenti, e il rischio è quello di non venirne nemmeno a capo. Lo strumento del voucher culturale è una misura tutt’altro che sbagliata, ma richiede una elaborazione di politica culturale di più ampio respiro, con un orizzonte diverso e una applicazione che risponde ad altre logiche sottostanti. Quello che serve non è una mancia per stimolare un po’ di consumi culturali, ma occorrono degli incentivi affinché cambino le modalità di gestione delle imprese culturali e la loro offerta. La scelta dei voucher è corretta se sposta tutto o parte del finanziamento pubblico dal lato dell’offerta a quello della domanda, dalle istituzioni culturali ai cittadini. Saranno così questi ultimi a scegliere dove spendere il voucher e non più lo Stato a scegliere quale soggetto sussidiare. Si tratterebbe di un nuovo modello d’intervento pubblico, che favorirebbe il perseguimento dell’efficienza gestionale delle istituzioni culturali e di una offerta più diversificata, capace di tenere maggiormente in considerazione il pubblico.

14
Set
2016

Il 16 settembre dell’anagrafe digitale—di Mario Dal Co

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Mario Dal Co.

Ovvero come le “riserve di caccia” ci allontanano dall’economia digitale.

Entro il 16 settembre i Comuni devono compilare la scheda di monitoraggio dell’Anagrafe Nazionale (ANPR). Devono dire se useranno la web application gratuita messa a disposizione dal Ministero dell’Interno, rinunciando al proprio sistema di anagrafe, oppure se accederanno in modalità web service ossia collegando il proprio sistema di anagrafe con quello centrale.

Il sistema gratuito, ossia la web application farà la parte del leone, come prevede la legge? Forse no. I Comuni, infatti, dovrebbero comunque farsi carico degli allineamenti degli applicativi con ANPR, ed è anche difficile che i fornitori siano entusiasti di tagliare l’erba del proprio prato a favore di Sogei, monopolista pubblico. Inoltre, molti applicativi gestionali si appoggiano sull’anagrafe e richiedono una continuità che è più semplice da raggiungere mantenendola in vita. ANPR promette il trasferimento dei dati dal centro agli applicativi locali, ma è probabile -data la delicatezza dei processi coinvolti (es. tributi, elettorale, multe)- che i Comuni stiano a vedere come vanno le cose prima di optare per un modello che li vedrebbe dipendere dal sistema centrale. Dato che il precedente sistema della circolarità anagrafica INA-SAIA non ha funzionato compiutamente per alcuni lustri, questa prudenza è comprensibile. Sarebbe stato più efficace concentrare le risorse sull’interoperabilità dei dati delle anagrafi comunali e non sviluppare anche un nuovo sistema centralizzato, ma questo è un errore del legislatore.

Il 16 settembre è anche la scadenza del periodo di consegna delle apparecchiature per i 200 Comuni che emetteranno le Carte di Identità Elettroniche. Queste apparecchiature non servono ad emettere le carte, ma solo a raccogliere i dati. Il Poligrafico ha il compito di produrre le carte centralmente e consegnarle al richiedente entro sei giorni: molto più tempo di quanto occorreva per la carta di carta e molti più soldi, da 6 a 22 euro. Ma i vecchi arnesi (passaporti ordinari e temporanei, carte di carta e digitali) rimangono in vita fino ad esaurimento o fino a che le diverse digitalizzazioni si completeranno. E i costi si moltiplicano: rimane il personale, rimangono le vecchie macchine con i relativi contratti di manutenzione, si comprano le nuove macchine, si creano call center per spiegare che sì c’è il nuovo sistema, ma… E rimangono in vita anche pagine internet obsolete e fuorvianti, come questa del 2010: http://servizidemografici.interno.it/it/tipo-documento/sperimentazione-cie-ii%C2%B0-fase, dove, per rispondere ai “numerosi quesiti pervenuti dai Comuni” ci sono le istruzioni per ovviare agli invii di “supporti difettosi” che dovranno essere disinstallati ponendone il costo a carico del Poligrafico in quanto fornitore. Forse memori di questo pasticcio i legislatori hanno adottato la nuova procedura accentrata…

Siamo un variegato Paese in cui convivono 4 passaporti, 3 carte carte di identità, 1 CNS-tessera sanitaria. L’errore è sempre lo stesso: invece che dare linee guida chiare e semplici al mercato, si producono aree protette, come avvenne con la PEC alle Poste, ed ora con ANPR alla Sogei e con la CIE al Poligrafico.  Società pubbliche che mettono il naso nelle norme e nei decreti, per ritagliarsi fondi, in barba al mercato e all’efficienza. Anche per questo motivo l’introduzione del digitale in Italia è un costo invece che un risparmio: non riusciamo ad entrare nell’economia digitale perché siamo attardati dalle diseconomie normative e dalle riserve di caccia che esse introducono.

13
Set
2016

Il sindaco di Padova contro la libertà d’impresa – di Piero Cecchinato

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Piero Cecchinato.

La maggior parte dei sudditi crede di essere tale perché il re è il Re e non si rende conto che in realtà è il re che è Re perché essi sono sudditi.
(Karl Marx)

 

Le ordinanze dei Sindaci come strumento liberticida

Le ordinanze dei Sindaci sono una brutta bestia. Contemplate all’art. 54 del Testo Unico degli Enti Locali, che legittima il primo cittadino ad emanare provvedimenti contingibili ed urgenti contro gravi pericoli che minaccino l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana, si tratta di strumenti dal notevole potenziale liberticida. Si tratta, però, anche di strumenti piuttosto efficaci per soddisfare una certa fame di consenso politico. E l’appetito, come sappiamo, viene mangiando.

Lucia Quaglino l’ha evidenziato molto bene nel volume D’amore, di morte e di altri divieti. Le ordinanze dei sindaci e la libertà individuale: “Le ordinanze sindacali si potrebbero paragonare a delle ciliegie: una tira l’altra. Nel caso delle ciliegie, però, il singolo individuo può smettere di mangiarle quando vuole. Quando si tratta di ordinanze, sembra invece non esserci un limite”.

Il Sindaco di Padova deve gran parte della sua fama a questo genere di ordinanze. Il giorno dopo la vittoria, lui che a Padova nemmeno ci risiede, disse: «Può essere che un domani, quando l’avremo ripulita, verrò a vivere in questa città». E allora via con i provvedimenti.

 

I precedenti del Sindaco Bitonci

Massimo Bitonci si fece le ossa come Sindaco dei divieti nel Comune di Cittadella, ad una trentina di chilometri da Padova.

La prima ordinanza che fece molto discutere fu emanata nel 2007. Venne definita “anti-sbandati” perché imponeva ai cittadini l’obbligo di dimostrare un reddito minimo ed un’abitazione idonea per poter richiedere l’iscrizione alle liste dei residenti. L’ordinanza prendeva le mosse, tra l’altro, dalla considerazione che la “condizione abitativa sia il termometro che misura il grado di integrazione di ogni persona nella collettività”.

Nel 2008 fu la volta dell’ordinanza “anti-borsoni”, che vietava ”il transito con trasporto senza giustificato motivo di mercanzia in grandi sacchi di plastica o grandi borse all’interno del centro storico”.
Poco dopo arrivò quella contro i manifesti osceni, che, constatando la “diffusa percezione di incuria e degrado”, mirava a “ripristinare il normale stato delle cose”.

L’ordinanza anti-degrado del 2009 prendeva invece le mosse dalla considerazione che “occorre mantenere in perfetto stato di conservazione, manutenzione e pulizia le pavimentazioni e tutte le aree pubbliche ed aperte al pubblico del territorio comunale”. Si noti l’uso dell’aggettivo “perfetto”.

Nell’estate 2011 Cittadella divenne anche il primo comune del Veneto “dekebabizzato”. Non si trattava, per il Sindaco, di “alimenti che fanno parte della nostra tradizione e della nostra identità”.

 

L’appetito vien mangiando

Con l’arrivo di Bitonci anche Padova ha iniziato ad avere il suo buon numero di ordinanze.
Si è vietato, ad esempio, di “utilizzare in modo improprio le panchine”. Il fine dichiarato è stato quello di scoraggiare i vagabondi in cerca di giaciglio, ma è rimasto il dubbio su cosa possa intendersi davvero per uso improprio di una panchina.
Un’altra ordinanza ha vietato di “soddisfare le esigenze fisiologiche fuori dai luoghi destinati allo scopo”. Un divieto già contemplato all’art. 726 del codice penale.

Contro i bagni nelle pubbliche fontane (non così frequenti, a dire la verità) è stato vietato di “bagnarsi o nuotare fuori dai luoghi destinati allo scopo”. Ancora ci si chiede se un simile divieto contempli anche la condotta di chi si bagna la testa con una bottiglia d’acqua in un luogo non destinato allo scopo.

È stato poi vietato di “fissare o appoggiare bici o motorini agli arredi urbani, agli alberi, ai pali, ai monumenti e a altri manufatti pubblici non destinati allo scopo”, mentre i proprietari di costruzioni disabitate sono stati obbligati ad impedire ogni forma di occupazione.

Anche Padova ha poi avuto la propria ordinanza anti-borsoni e pure un divieto di mostrarsi in pubblico in abiti che offendano il comune senso del pudore.

Cattiva sorte anche per i papiri di laurea, non più affiggibili ai tronchi degli alberi, con buona pace delle tradizioni universitarie locali.

Di quest’estate è l’ordinanza anti-movida, che ha impedito l’accesso al centro storico alle auto. Peccato che il provvedimento abbia riguardato anche le biciclette, il che ha gettato un certo scompiglio fra utenti ed esercenti.

 

Quando le ordinanze toccano la libertà di impresa

Dove le ordinanze diventano davvero dannose ed evidenziano tutto il loro potenziale paternalistico è rispetto alla libertà di impresa.

Nel settembre dell’anno scorso aveva fatto molto discutere l’ordinanza con cui il Sindaco di Padova, a seguito di una rissa in piazza fra stranieri di origine africana, ordinò la chiusura anticipata alle ore 14.00 per un rivenditore di kebab. Peccato che quell’attività commerciale con la rissa non c’entrasse proprio nulla. Ma davvero nulla.
Un palese attentato alla libertà d’impresa poi bocciato dal TAR con tanto di condanna del Comune a rifondere le spese legali.

Oggi il Sindaco è ancora oggetto di critiche per un’ordinanza che anticipa alle 20.00, rispetto all’orario delle 22.00, la chiusura di una serie di attività commerciali site in un’area adiacente al comparto stazione.
Esercitare un’attività in loco diventa, così, anche una questione di fortuna. Te ne stai entro la zona contingentata? Chiudi alle 20.00. Te ne stai dall’altra parte della strada? Puoi chiudere alle 22.00. L’ordinanza, che si inserisce nella categoria delle ordinanze anti-degrado, ufficialmente mira ad assicurare condizioni di migliore “vivibilità” alla zona.
C’è però un passaggio del provvedimento che sembra tradire i suoi veri intenti. Nella esemplificazione delle attività che si intendono “commerciali non alimentari”, anch’esse colpite dall’ordine di chiusura anticipata, fra parentesi vengono citati “acconciatori ed estetisti, phone center, internet point”. Insomma, le attività che vedono sempre più spesso gli immigrati farsi imprenditori (in Italia, eroi sol per questo!).
Fra parentesi, quindi, l’obiettivo principale della Giunta: rendere la vita difficile ad una certa imprenditoria straniera.
Fatto sta che l’ordinanza ha colpito anche una libreria gestita da due giovani ragazze italiane. Libreria che, posta vicina ad un cinema, registrava il maggior numero di affari proprio nella fascia oraria colpita dall’ordine di chiusura.
Scoppiata la polemica, la Giunta sta meditando adesso delle forme di deroga. Sarà ora interessante vedere come verranno giustificate, perché il rischio di qualcosa che suoni come concessione privilegiata del sovrano è forte.

 

La discrezionalità del sovrano

La discrezionalità del governante si muove sempre fra due estremi opposti e richiede perciò una buona dose di equilibrio.

Da una parte vi è l’estremo che potremmo definire della pesca a strascico. Si dice che la pesca a strascico dei gamberetti porti in media a gettare fuoribordo l’ottanta-novanta per cento del pescato, morto o morente, in quanto cattura di scarto. Il divieto “a strascico” può così risultare dannoso e controproducente, proprio come, ad esempio, per il caso della chiusura imposta ad una libreria in una zona ritenuta degradata.

Dall’altra parte vi è l’estremo della selettività discriminante. Frederich Hayek affermava che le imposizioni “selettive” sono preoccupanti perché i governi possono attuarle senza temere troppo di doverne pagare le conseguenze. Rispetto a simili politiche, infatti, è più difficile che si organizzi un’azione collettiva di protesta.
Rispetto alle imposizioni generali, invece, è più facile che si attivino meccanismi di salvaguardia democratica. Si tratta di quel dominio della legge (rule of law) che richiede generalità e rifugge dalla selettività.
La generalità è un correttivo contro l’abuso. La selettività dell’ordine e della concessione, invece, sono alla base di ogni politica discriminatoria.

Fare scelte non è facile e l’equilibrio in politica è un po’ un’arte. Quando si tratta di libera impresa, però, la scelta migliore che un governante possa fare è quella di non fare nulla.