7
Ott
2016

I conti del Campidoglio: non 1 buco, ma 4. Cercasi Mandrake

L’emergenza dei conti di Roma non è una scoperta. Purtroppo. E ieri il neo assessore al Bilancio Mazzillo ha dovuto esordire ammettendola. L‘8 ottobre sarà passato un anno, dalle dimissioni dell’ex sindaco Marino. Un anno senza governo cittadino è un guaio aggiunto a un disastro, quando la situazione ereditata è strutturalmente compromessa come quella della finanza pubblica capitolina. E a questo punto non c’è più tempo da perdere, perché dal risultato elettorale sono passati 100 giorni.

Il neo assessore ha escluso l’ipotesi del default, ma i problemi più rilevanti sono quattro. C’è un debito finanziario di 1,2 miliardi, gestibile a seconda dei flussi di entrate proprie del Campidoglio. C’è il nodo della rata annuale di ammortamento del debito da 13 miliardi circa, in gestione separata commissariale. C’è inoltre uno squilibrio patrimoniale di oltre un miliardo del Gruppo Roma Capitale, creato dal saldo netto tra crediti e debiti delle società partecipate comunali che al Gruppo fanno riferimento, e che può rapidamente chiamare all’esigenza di ricapitalizzazioni, anche a prescindere dal finanziamento ai piani industriali delle società da risanare. E infine c’è un quarto problema: la continua emersione dai conti ereditati di debiti fuori bilancio, residui attivi e passivi. Per somme che, ogni volta, testimoniano la disinvoltura con cui per anni e anni è stata gestita la finanza capitolina.

Facciamo un passo indietro. L’assestamento di bilancio 2016 votato a fine luglio in Campidoglio e impostato dall’allora assessore Minenna è stato un puro atto dovuto. Per rispettare la scadenza di legge, senza avere il tempo né l’intenzione di compiere alcuna scelta strutturale. La voce più rilevante era lo stanziamento di 90 milioni previsti per il salario accessorio nel 2017 e 2018, una delle gravi questioni createsi in passato tenendo gli occhi chiusi sui finti salari di produttività spalmati per tutti fino, in alcun i casi, a oltre il 50% della retribuzione ordinaria. Altre voci apparivano in singolare e inesplicato contrasto con la situazione certificata dall’ex commissario Tronca solo 60 giorni prima, a fine maggio. Secondo il rendiconto finale della gestione Tronca in cassa allora risultavano solo 13 milioni di euro, mentre a luglio secondo il documento Minenna erano saliti a ben 800, computando però per cassa poste non traducibili in liquidità immediata se non a patto di susseguenti azioni molto incisive e spesso di esito dubbio. Qualche giorno fa il sindaco Raggi ha disposto ad alunni disabili e municipi l’assegnazione di 9 milioni su 11 “trovati”, ha detto, nelle disponibilità di tesoreria. Lodevole, ma il problema da affrontare è purtroppo di tutt’altro ordine di grandezza. Il Campidoglio non potrà impostare di qui a 10 settimane il preventivo 2017 senza una ricognizione a 360 gradi dei diversi fattori che concorrono al suo squilibrio strutturale. E poiché per farlo occorre tempo, con tutto il rispetto i 100 giorni sin qui persi sono un cattivo inizio.

Per avere un’idea di quanto temibilmente ballerine siano le scoperte speleologiche, per così dire, che continuano ad avvenire scavando nei conti di Roma, basti pensare che secondo la Ragioneria capitolina nel primo semestre 2106 già erano emersi 46 milioni di euro non computati nel preventivo 2016, tra nuova spesa corrente e debiti fuori bilancio. A seguito dell’assestamento votato dall’attuale giunta a fine luglio l’Oref, cioè l’Organo di Revisione Economico-Finanziaria del Campidoglio, ha innalzato vertiginosamente la stima fino a 234 milioni di debiti fuori bilancio.

La nuova giunta partirà probabilmente dall’esame di sostenibilità della rata annuale di ammortamento dovuta a Cdp per l’anticipazione di cassa del debito di 13 miliardi, affidato alla gestione separata commissariale guidata da Silvia Scozzese. Che ha avvisato per tempo, a fine 2015, che dal 2017 i flussi prevedibili di cassa generati non saranno tali da sostenerne più la gestione ordinaria e il rientro. Perché, appunto, il bilancio del Campidoglio resta strutturalmente squilibrato. Incapace cioè di generare risorse proprie – al netto di trasferimenti e anticipazioni dallo Stato – tali da far fronte a tutte le esigenze ordinarie. I romani sono già al massimo delle sovra aliquote Irpef e Irap sommando Comune e Regione, pagano oltre 750 euro l’anno oltre la media nazionale.

Non pesa solo la rata annuale di ammortamento del debito. Come ha puntualmente dovuto ammettere ieri l’assessore Mazzillo, è la macchina comunale a essere divenuta incapace di entrate proprie in percentuale accettabile delle entrate. Perde oltre 100 milioni di affitti l’anno sul suo patrimonio immobiliare, sconta 7,1 miliardi di crediti non incassati dal 2008 tra entrate tributarie, multe, tariffe per servizi e canoni. Non riesce a processare l’anno più del 10% degli arretrati IMU. E dal 2008 si sono aggiunti 2,3 miliardi di spese correnti non liquidate ai fornitori, che il commissario Tronca ha iniziato a ridurre. Da asili, mense, affitti e mercati, il Campidoglio riesce a incassare solo 900 milioni l’anno aggiuntivi ai trasferimenti centrali e alle tasse: rispetto ai 4 miliardi di euro di Milano, che ha meno della metà degli abitanti di Roma. La riscossione dei crediti nel 2014 e 2015 ha viaggiato sulla media di poche decine di milioni di euro l’anno, rispetto al mezzo miliardo di Milano.

Intervenire sul conto economico ordinario postula avere idee estremamente chiare sul riordino del perimetro e dell’organizzazione dell’intera macchina capitolina. Purtroppo a tutti i livelli, dagli assessorati centrali ai Municipi, c’è un problema di gestione e controllo dei dati, di regole, e di risorse umane. Se ci fermiamo alle maggiori stazioni appaltanti gare per lavori e forniture, nel perimetro capitolino e delle sue controllate maggiori siamo a quota 150, che sfiora addirittura le 300 unità se comprendiamo anche quelle per modesti importi. Occorre integrare i sistemi informatici oggi non interfacciati e usati da ogni Dipartimento e Municipio per gestire appalti, gare e affidamenti, che compartimentano e ostacolano ogni processo centralizzato di controllo. E superare la prassi invalsa di attribuire ogni singolo affidamento alla valutazione del dirigente responsabile del procedimento, senza omogeneità di criteri. Bisogna cessare di aggirare gli obblighi di gara attraverso il frazionamento degli importi che ha eternato gli affidamenti diretti, e scongiurare la protrazione per anni e anni, in alcuni casi addirittura venti, degli affidamenti scaduti.

Nel 2015 Milano ha realizzato alienazioni di beni patrimoniali del Comune per 950 milioni, Roma per 33.  Numeri che parlano da soli. In compenso, il Campidoglio oggi gestisce anche aziende agricole come Castel di Guido e Tenuta del Cavaliere, volte alla produzione di carni, salumi e formaggi. Naturalmente, il conto è in perdita. Malgrado le 72 mila unità immobiliari destinate a canone sociale nel Comune di Roma (di diversa proprietà pubblica, non solo comunale), il Campidoglio spende oltre 20 milioni di canoni sociali in proprio.

Quanto al miliardo di squilibrio delle partecipate, non è purtroppo nemmeno esso una sorpresa. Oltretutto il più dei contratti di servizio delle società scade a fine anno, e andranno riscritti con criteri di efficienza del tutto diversi. Di sicuro, il Campidoglio oggi non ha la disponibilità finanziaria adeguata per gli investimenti che sono necessari in ATAC e AMA. E comunque una stima almeno approssimativa delle disponibilità non si può credibilmente fare, prima di aver definito come s’intende aggredire gli squilibri strutturali che gravano sul conto economico capitolino.

ATAC ha ottenuto in 5 anni sussidi pubblici per 4,3 miliardi di euro, riuscendo tuttavia a sommare deficit per 1,1 miliardi. Ha 12 mila dipendenti con un costo medio lordo annuo di 46mila euro che è ai vertici di settore nazionale. Con oltre 20mila appalti assegnati senza gara tra 2010 e 2015, cioè il 90% delle commesse senza un bando, e con biglietti e abbonamenti che coprivano solo un quarto dei costi aziendali, prima della cura avviata sotto Tronca e ora interrotta.

Per l’AMA, siamo ancora al punto in cui sono le cronache giudiziarie a dettare l’agenda. Non si è ancora minimamente capito quale sia l’idea di fondo, con 1,7 milioni di tonnellate annue di rifiuti da raccogliere, per chiudere il ciclo industriale del loro trattamento. A oggi, AMA riesce a ottenere dalla vendita al mercato delle diverse componenti dei rifiuti trattati fino a solo un ventesimo per unità di peso rispetto ai migliori concorrenti. Senza una precisa scelta industriale il trattamento dei rifiuti prodotti a Roma continuerà a essere, come oggi avviene, un affare per altre parti d’Italia.

Ci fermiamo qui. Non c’è alcun pregiudizio verso la giunta Raggi. Che finora non ha operato, vista la fatica e gli incidenti per trovare gli assessori nei ruoli più delicati. Il duro compito che l’attende era chiaro da prima delle elezioni. La condizione di Roma impone scelte molto ma molto impegnative, che richiedono grande risoluzione, raffinata competenza, visione e padronanza certa di un’infinità di dettagli normativi, amministrativi e organizzativi, sia pubblici sia privati. Cento giorni dicono che il tempo per addossare le colpe agli altri è finito. Ora è il tempo delle scelte e delle soluzioni.

6
Ott
2016

Quei “capricci” liberisti di chi vuole lavorare di più. Ma non può—di Tommaso Alberini

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Tommaso Alberini.

Che le liberalizzazioni non piacciano già lo sapevamo. Basta annusare l’odor di stantio proveniente dal famigerato “ddl concorrenza”, da più di un anno e mezzo ristagnante sul fondo di quel frigorifero legislativo che è il Parlamento. Quando poi, per forza di calendarizzazione, si è dovuto votare la norma, la si è accoltellata di emendamenti fino a stravolgerne la coerenza giuridica. Non sorprende, perciò, che anche quest’anno l’Italia non si smuoverà più di tanto dai 67 punti che le sono stati assegnati dall’Indice delle liberalizzazioni 2015 dell’IBL. Read More

4
Ott
2016

Alloggio per assistenza e non solo, ovvero come salvare il welfare con la libertà di scambio

Qualche giorno fa è circolata per radio e su qualche quotidiano una curiosa offerta per chi volesse vivere in uno dei quartieri più belli di Londra. Una coppia inglese ha infatti pubblicato un annuncio per cercare una persona che si prenda cura della loro nonna Margaret, 93 anni, e viva con lei in una casa che si affaccia sul Tamigi. In dettaglio, si chiedono circa 30 ore di assistenza settimanali in cambio di un alloggio il cui valore è stimato intorno alle 1.500 sterline mensili. Inoltre, per ogni ora extra di lavoro si offrono dieci sterline. L’annuncio, intitolato “Housemate/grandma sitter/carer wanted – FREE RENT!” è visibile qui, sul sito Spareroom, leader del flatsharing in Regno Unito.

Dopo che l’annuncio è stato ripreso dal quotidiano Metro martedì scorso, l’offerta ha ricevuto tantissime candidature. I nipoti hanno aggiornato l’annuncio venerdì 30 settembre dicendo di aver ricevuto più di 200 domande e di aver pazienza perché risponderanno a tutti. Inoltre si sono rivolti a ulteriori persone, aggiungendo alla loro ricerca 1) musicisti che vengano a suonare/provare in cambio di torte e 2) nonni che vogliano trascorrere un po’ di tempo insieme a Margaret e magari creare un gruppo d’incontro di canto. Infine i nipoti si sono detti disponibili a consegnare a domicilio le torte preparate dalla nonna.

Offerte di scambio come queste rappresentano  il futuro per le società europee che di fronte all’invecchiamento demografico non potranno più offrire le garanzie che il welfare statale offriva in passato. Solo attraverso la libertà di scambio riusciremo a immaginare delle reti di protezioni per coloro che necessitano assistenza (non solo anziani) in un tempo in cui le reti che offriva lo Stato diventano obsolete, inefficaci e insostenibili. Alberto Mingardi, riprendendo un editoriale di Politico, ha scritto: we should Uberize our safety net. Le tante iniziative che vengono descritte con la generica etichetta di sharing economy rappresentano infatti la migliore espressione della libertà di scambio, di cui l’annuncio riportato sopra fornisce un vivido e simpatico esempio.

E’ fondamentale che i regolatori sostengano questo cambiamento poiché è inevitabile e auspicabile. La teoria economica suggerisce che questa transizione troverà ostacoli da parte di chi offriva in passato quegli stessi servizi. Sul lato degli home restaurant è di pochi giorni fa la notizia di una proposta di legge approvata dalla commissione parlamentare Attività Produttive che, a detta del sito bed-and-breakfast.it, ostacola la diffusione degli home restaurant a vantaggio degli incumbent, in questo caso la Federazione italiana dei pubblici esercizi. Non li vieta, ovviamente, ma – in buon stile italico – rende loro la vita più difficile.

Negli ultimi anni molte persone hanno scoperto che non è necessaria una licenza statale per fornire o usufruire di un passaggio in auto sicuro e di qualità, ospitare una persona in casa propria, gestire un home restaurant. Per questo motivo dovremmo essere anche liberi di pensare a forme più creative nel campo dell’assistenza delle persone bisognose e di scambiare i nostri talenti, le nostre capacità e le risorse che abbiamo a disposizione. O sceglieremo di sanzionare una nonna che si offre di infornare torte e i nipoti che le consegnano domicilio solo perché non sono autorizzati a farlo?

30
Set
2016

Yahoo vs Stati criminali

Problemi con Yahoo, vero? Non riuscite ad accedere al vostro account?
Immagino vi sia arrivata, come è arrivata a me, una email dal titolo “avviso di violazione dati” direttamente da Bob Lord, chief information security officer di Yahoo in persona.
Nella email si dice: “Una recente indagine ha confermato che una copia di alcune informazioni sugli account utenti è stata rubata dalla nostra rete alla fine del 2014 da quello che crediamo sia un attacco promosso da uno Stato”. Sì avete letto bene, da uno Stato con tanto di S maiuscola.
I principali sospettati pare siano Russia e Cina. Nessuno o forse pochissimi, almeno nella piccola provincia italica, si sono indignati per la committenza di Stato di questo colossale furto di dati a danno di milioni di cittadini. Immaginiamo se la responsabilità fosse stata individuata o vi fosse stato solo il sospetto in capo a qualche società privata, magari multinazionale. Invece no, “non è colpa del liberismo”, il ladro è proprio uno Stato. Quello Stato che ci dovrebbe proteggere, tutelare con l’arma di montagne di leggi in nome di privacy, dignità, riservatezza, oblio e chi più ne ha più ne metta. Non mi pare di aver letto gli strali di nessuna di quelle solite “anime belle” pronte a mettere a ogni piè sospinto sul rogo Apple o Facebook, nessuno ha stigmatizzato con forza l’azione criminale degli Stati autori di questa colossale violazione.
Gli attacchi informatici sono già da tempo uno strumento di guerra tra stati. Si chiama cyberwarfare, è stata definita così l’azione di uno Stato che cerca di penetrare nelle reti di computer di un altro Stato con lo scopo di distruggere o danneggiare. Alcuni governi considerano il cyberwarfare parte integrante della loro strategia militare e investono pesantemente negli strumenti per aumentare le loro capacità in questo tipo di attacchi.
Noi cittadini siamo le vittime di queste invasioni, furti di Stato, ora russi, ora cinesi, ora di qualche altro Stato ancora, chissà.
Spero che Yahoo riesca a superare il brutto colpo e a risolvere tutti i guasti tecnici che assillano i suoi utenti oltre che agire contro i colpevoli.
Oggi la tutela dei cittadini e dei loro dati passa attraverso l’innovazione e la ricerca di aziende private che hanno in noi cittadini tout court come individui, aziende, attività di ogni genere, la loro fondamentale fonte di reddito, crescita, sviluppo. Gli Stati rappresentano invece sempre di più una minaccia alle nostre fondamentali libertà e questa planetaria azione di cyberwarfare ne è un incontestabile esempio.

29
Set
2016

Molti dubbi che il DEF non chiarisce. Intanto, prepensionare è un errore

Buona regola è cercare di distinguere i fatti dalle opinioni. Vediamo allora di separare le opinioni da ciò che è o appare un fatto, nei numeri anticipati della nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza in vista della prossima legga finanziaria.

I fatti sono questi. Primo: per l’ennesima volta – capita da decenni – le previsioni governative di crescita del PIL e di miglioramento della finanza pubblica erano sopravvalutate. Secondo: ancora una volta, le nuove previsioni governative su PIL e finanza pubblica sono più ottimistiche del consenso medio degli osservatori domestici e internazionali.  Terzo: questo ottimismo comporta effetti che evidentemente al governo non dispiacciono. Quarto: ma danno ragione alla Ue che ne diffida. Quinto: dunque saranno la base di nuove richieste italiane a Bruxelles. Sesto: intanto c’è una grande novità, il governo smette di ripetere il mantra “nessun accordo preferenziale coi sindacati e basta concertazione”, e chiude invece proprio col sindacato l’accordo complessivo sulla previdenza che verrà varato in finanziaria.

Dopo la stasi congiunturale del PIL nel secondo trimestre 2016 e molti indicatori – consumi, manifattura – che continuano a deludere, assumere un +0,8% di crescita nel 2016 e +1% nel 2017 ha due effetti. Significa contenere sulla carta la previsione del deficit di quest’anno entro il 2,4-2,5% del PI: ma lo stesso DEF della primavera scorsa ammetteva che a questi minori tassi di crescita si rischia di chiudere l’anno invece sul 2,7-2,9%.  Poiché il governo lo sa (l’ha scritto lui stesso ad aprile) scegliere un persistente ottimismo aumenta gli effetti da minor crescita, cioè aggiunge munizioni alla richiesta in Europa di concederci un deficit 2017 che non solo si alza dall’1,8% contrattato al 2% del nuovo DEF, e nemmeno solo al 2,4% se la Commissione autorizza spese fuori dal patto per migranti, sicurezza e terremoto. Ma probabilmente ancora più alto, se la crescita e le entrate saranno più deboli di quanto prevede oggi il governo ancora ottimista.

La diffidenza europea non si basa sulla nostra cresciuta inferiore al previsto. Ma sulla caduta del pilastro su cui si è poggiato l’anno scorso il riconoscimento alla richiesta italiana di spostare in avanti al 2018 il pareggio strutturale del bilancio italiano. Il pilastro era rappresentato dall’assunto che da questo 2016 il debito pubblico scendesse. Invece continua a salire. E con ogni probabilità, anche se il governo dice il contrario, avverrà con queste premesse anche nel 2017: perché a crescita così asfittica e deficit superiore al 2% ci manca la crescita nominale – leggi inflazione – perché il debito possa scendere rispetto al denominatore. Ergo, questa nota di aggiornamento al DEF sembra proprio la base di ulteriori slittamenti in avanti, oltre il 2020, del pareggio strutturale di bilancio al netto del ciclo.

Traduciamolo in politica: la flessibilità l’Europa ce l’ha concessa eccome, noi abbiamo mancato clamorosamente l’impegno assunto che la giustificava, e ora ci ricandidiamo alla stessa cosa ma  chiediamo altra flessibilità aggiuntiva. Abbiamo cercato mille vie tecniche per farlo. Abbiamo provato a contestare frontalmente il modo in cui la Ue calcola l’output gap , e siamo stati respinti. Abbiamo provato a forzare le norme del Patto di Stabilità chiedendo che la flessibilità concessa per la clausola degli investimenti e delle riforme valesse non per un anno ma per tutti gli anni a seguire. E naturalmente ci hanno liquidato rileggendoci le regole ad alta voce. Cose tecniche, per carità. Ma non belle figure,. di certo.

Veniamo alle opinioni. Non è un mistero che nel fissare il deficit al 2% per il 2017 più uno 0,4% se Bruxelles ce lo concederà, ha vinto la prudenza di Padoan su Renzi che voleva schiacciare di più il piede. Il motivo è evidente: è il referendm del 4 dicembre. Su cui Renzi si gioca tutto. Nasce anche di qui l’improvvisa aspra polemica messa in campo nelle ultime due settimane dal premier italiano contro Merkel e Hollande.

Infatti, neanche il 3% di deficit basterebbe, per soddisfare tutte le promesse che da 6 mesi a questa parte il governo ha fatto scrivere ai giornali come in arrivo nella prossima finanziaria. Di fatto, al momento sembra che il premier si riservi di mantenere questo schema più prudente nella finanziaria che sarà pronta il 20 ottobre.  Per poi riservarsi, a seconda dei sondaggi sul referendum, magari emendamenti “espansivi” a pochi giorni dall’appuntamento decisivo con le urne, per convincere in extremis chi avesse dubbi. C’è chi ha scritto che potrebbe anche anticipare al 2017 l’abbassamento di uno o due punti dell’aliquota IRPEF al 38% che scatta oltre i 28mila euro di reddito lordo. Vedremo.

Di certo non è dai tagli alla spesa pubblica, che possiamo aspettarci rilevanti spazi aggiuntivi per finanziare non in deficit tutte le promesse. Che ovviamente si sommano al punto di PIL che deve andare a copertura del mancato scatto di aumenti di IVA e accise (deciso da questo governo, non dai predecessori come spesso erroneamente ripetuto). Al massimo ci sarà la riapertura dell’emersione volontaria di capitali detenuti all’estero e ignoti al fisco, che tuttavia produce entrate una tantum non contabilizzabili a copertura di maggiori uscite permanenti. E inoltre, per recuperare davvero cifre considerevoli, bisognerebbe indurre alla convenienza chi non ha usato la prima voluntary: cioè rendere meno elevato il rischio di sanzioni penali, non proprio una scelta equa e popolare.

Le imprese si aspettano molto. Non solo l’abbassamento dal 27,5% al 24% dell’aliquota legale IRES: l’aumento dell’ACE; l’estensione dell’IRI per il cumulo di reddito d’impresa e personale per i piccoli imprenditori; l’estensione del credito fiscale agli investimenti in ricerca e sviluppo; la conferma del superammortamento al 140% degli investimenti, che dovrebbe poi salire al 250% per quelli riservati alla tecnologia avanzata del progetto Manifattura 4.0 lanciato dal ministro Calenda e presentato da Renzi a Milano . Il merito del ministro Calenda non è solo di aver concepito con il suo pacchetto di misure una risposta concreta al calo della manifattura in Italia e al ritardo della sua connessione alle Global Value Chains (un dato: negli ultimi 10 anni nel mondo, il valore del manifatturiero in dollari correnti è cresciuto di tremila miliardi. Metà di questo accrescimento si è realizzato in Cina. Gli Stati Uniti sono tornati a crescere, di 250 miliardi di dollari. La Corea del Sud è passata da 285 a 387 miliardi. La Germania è salita di 60 miliardi. L’Italia è invece scesa, da 351 a 297 miliardi, e la manifattura vale oggi solo poco più del 15% del valore aggiunto al PIL. Mentre era il 19% nel 2000). Si tratta dunque del maggior apporto all’accrescimento del prodotto potenziale italiano compreso nella legge di stabilità. L’altro merito è che si tratta di misure non scassa-bilancio: i superammortamenti si spalmano a fini fiscali per anni successivi di competenza mentre spingono le imprese a investire subito. E questo spiega il fatto che in finanziaria l’avvio del piano Industria4.0 pesa solo per poco più di un miliardo di euro.

Dovrebbe invece scomparire l’ulteriore decalage al 20% della decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato prevista invece fino a pochi mesi fa per il 2017, visto che i dati del mercato del lavoro mostrano che l’effetto traino della massiccia agevolazione è finito da tempo. Lasciandoci all’interrogativo se valesse la pena puntare un punto di PIL di risorse su questa sola partita, per ottenere una modifica così non sostanziale della quota di contratti a tempo determinato sul totale degli occupati (vedi tra l’altro esplosione dei voucher). Ma si dovrebbe invece aggiungere un fortissimo potenziamento della decontribuzione al salario di merito, per incentivare la produttività attraverso contratti aziendali: oggi la tassazione agevolata al 10% si applica a chi guadagna meno di 50 mila euro lordi l’anno e sui premi fino a 2 mila euro, la promessa è di comprendere invece i redditi fino a 80 mila euro lordi e i premi fino a 5 mila euro.

Anche ai lavoratori autonomi è stato promesso finalmente un intervento di sgravio permanente: invece di far scattare la solita aliquota automatica contributiva al 33% che anche per il 2017 era prevista come già capita da 3 anni a questa parte, per le partite IVA iscritte alla gestione separata INPS l’aliquota dovrebbe scendere dall’attuale 27% al 25%. Tutte queste voci sommate, se le prendiamo sul serio, fanno comunque 3-4miliardi di risorse destinate a impresa, produttività e investimenti. Ma finché non abbiamo la legge finanziaria, è anche possibile immaginare che magari sarà previsto tutto o quasi, ma con poste di spesa molto diverse da quelle che le imprese si attendono.

Rispetto a tutto ciò, il governo ha intanto chiuso ieri un solo pacchetto: quello previdenziale, trattando direttamente coi sindacati, con i quali ha firmato un vero e proprio protocollo. Fine dell’era in cui si inneggiava al modello-Marchionne e alla fine della concertazione. L’accordo è di 2 miliardi di risorse ogni anno per 3 anni, i sindacati ne chiedevano due e mezzo. Ma anche qui bisogna vedere bene i dettagli: prendendo alla lettera i punti dell’accordo 2 miliardi non bastano affatto.

C’è l’anticipo di pensione, che scassa in maniera ormai strutturale i tetti previsti dalla legge Fornero e consentirà volontariamente di lasciare il lavoro a chi ha 63 anni, cioè 3 anni e 7 mesi prima del tetto vigente. Vedremo davvero quanto sarà penalizzato per chi vi farà ricorso l’assegno ricevuto: se Renzi non vuole un flop (come avvenuto per il “TFR in busta”) la penalizzazione deve essere contenutissima e significa più deficit per l’INPS. Vedremo a quali categorie agevolate lo Stato assicurerà da subito l’assegno pieno senza penalizzazione (più deficit). In un paese che si è inventato sette successive misure per esodati che esodati non erano, bisogna spettarsi una definizione “generosa”. C’è poi l’anticipo a carico delle imprese, se sono queste a voler accelerare ristrutturazioni. C’è quello per i lavoratori precoci e per i lavori usuranti. L’aumento della 14esima ai pensionati non più fino a 750 euro lordi al mese ma fino a 1000, includendovi dunque un milione di nuovi soggetti in più. C’è l’aumento per i pensionati oltre i 74 anni della no tax area, fino agli 8125 euro dei lavoratori dipendenti. C’è la ricongiunzione gratuita per chi ha versato contributi a enti previdenziali diversi. C’è la detassazione per chi attinge a un fondo previdenziale integrativo a cui ha versato i contributi, nel mentre non ha ancora maturato i requisiti per la pensione.

Che tutto questo si faccia con 2 miliardi, il dubbio non solo è lecito. È obbligatorio. E’ appena il caso di spiegare perché ci si preoccupi tanto di agevolare il pensionamento di chi un lavoro ce l’ha, rispetto ai giovani che il lavoro non ce l’hanno o l’hanno discontinuo. Come ci ricorda Bankitalia, (qui fig.6 pag 11-12) in termini reali, la ricchezza media delle famiglie con capofamiglia tra i 18 e i 34 anni è scesa del 60% rispetto a quella registrata nel 1995, mentre quella delle famiglie con capofamiglia con almeno 65 anni è aumentata di circa il 60 per cento: il rapporto tra quest’ultima e quella dei più giovani è passato da meno dell’unità a oltre 3. E’ un dato che dice tutto, della priorità vera del nostro paese: i giovani, non gli anziani da prepensionare.   Ma l’età media degli italiani è di 45 anni in questo 2016, e a votare vanno più gli anziani che i giovani: la politica lo sa benissimo e sceglie di conseguenza E non dimentichiamo che con i sindacati resta aperta la partita del rinnovo dei contratti pubblici bloccati da anni, e vedremo alla fine se dai 300 milioni inizialmente appostati il governo si ferma a quota 2 o 3 miliardi.

Solo i numeri veri della finanziaria ci diranno tra un mese quanti di questi dubbi sono fondati. Ma intanto ricordate: il PIL dell’Italia nel 2016 è pari a quello del 2000, cioè siamo tornati indietro di 16 anni. Ma rispetto ad allora la spesa pubblica primaria è salita del 20% e le entrate pubbliche del 10%. Con questi bei risultati che vediamo intorno a noi.

 

 

27
Set
2016

La disuguaglianza come presupposto di una società meritocratica—di Francesco Bruno

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco Bruno.

Da poco nelle librerie, La disuguaglianza fa bene. Manuale di sopravvivenza per un liberista pubblicato da “La nave di Teseo”, ha il pregio di andare nella direzione opposta rispetto al pensiero dominante. L’autore, Nicola Porro, conosce bene quest’ultimo, non solo in quanto giornalista di carta stampata, ma soprattutto come noto conduttore e personaggio televisivo.

Sì, perché è proprio il piccolo schermo che sembra mettere d’accordo proprio tutti i protagonisti del pensiero dominante: è la disuguaglianza il grande male del secolo. Ed essa è dovuta a una sola causa: il neoliberismo. Mentre le altre fonti di informazione offrono una variegata gamma di opinioni, dando la possibilità ad ognuno di alimentare la propria, la televisione è restia a priori al confronto su alcuni temi, pervasa com’è da uno stantio leimotif  “freccerista” che non trova alcun fondamento nei fatti e nei numeri.

Per un liberale è spesso difficile vedere la fatica che fanno altri liberali quando – sporadicamente – vengono invitati nei talk show politici. Dopo un po’ non si resiste, occorre cambiare canale!

Spesso si tratta di liberali preparati, quantomeno alla pari degli altri ospiti, eppure si trovano a soccombere oppure ad apparire comunque sconfitti nella discussione all’interno di un ambiente ostile. Che sia il tono della voce più alto degli altri ospiti, la faziosità del conduttore o il rumorio del pubblico presente o in collegamento, il risultato è sempre analogo. Il liberale risulta agli occhi dei telespettatori come il cattivo della situazione, amico dei ricchi e dei potenti, a favore di sfruttamenti vari. Tutti gli altri sembrano buoni invece, magnanimi, filantropi, pensano ai deboli, ai pensionati, agli esodati, ai disoccupati, alle vittime delle banche, della crisi etc.

Una cattiva fama dovuta al fatto che chi è liberale non si cura della ricchezza altrui, non la considera un problema, la esalta purché di fonte lecita (come se si dovesse precisare che la liceità è prerequisito dell’ammirazione…). Ma a differenza di quanto raffigurato nell’immaginario collettivo, un liberale si occupa molto più nel concreto della povertà, della trappola che la stessa sottende e dalla quale è difficile divincolarsi, della pericolosità delle concentrazioni di potere che minano la concorrenza e il mercato, della tutela delle famiglie a basse reddito e del loro potere reale di acquisto, della lotta alla disoccupazione dei giovani, delle minoranze, degli immigrati e dei lavoratori poco qualificati. Basti pensare – tra le migliaia di esempi spendibili – alla negative income tax di Friedman riecheggiata nel libro di Porro attraverso le parole di Antonio Martino.

Nel suo testo l’autore confuta tanti miti popolari, aiutandosi con i classici del pensiero liberale. Smith, Friedman, Einaudi, Hayek, ma anche giganti meno noti in Italia come Ronald Coase o proponendo una rilettura in chiave liberale del Manzoni. Con unico filo conduttore a guidare il tutto: la libertà della persona umana.

Ma i nemici della libertà sono sempre dietro l’angolo. Per capire la malafede o l’ipocrisia dei predicatori della “disuguaglianza fonte di ogni male”, è sufficiente leggerli o ascoltarli attentamente. Quasi sempre inseriranno nelle loro argomentazioni il termine “meritocrazia”, senza accorgersi che una società meritocratica non può che essere disuguale. Di contro, nel nostro Paese (ma non solo) in nome di un’asserita ricerca dell’uguaglianza si penalizza da decenni il merito, nella scuola, nella ricerca, nel mondo del lavoro, nella sanità, nella pubblica amministrazione.

Resta una battaglia contro dei mulini a vento. Il “Pikettysmo” è la giustificazione perfetta per chi vuole spiegare qualsiasi problema con la retorica della forbice ricchi/poveri che si allarga e che si dovrebbe ridurre per avere un quieto “mal comune mezzo gaudio” che ci renderebbe tutti più poveri, ma maggiormente sereni.

Come ricorda anche in un recente articolo Pierluigi Battista citando il libro di Porro, non è un periodo felice per chi si professa liberale. Osservate i commenti sui social network agli articoli di ispirazione liberale per capire meglio lo status quo, a volte inorridire è inevitabile.

Porro fa altresì paragoni forti, richiamando l’atmosfera tenebrosa degli anni di piombo, foraggiata dal pensiero filo-comunista che dominava sui media e nelle università. Il paragone come detto è forte, non stiamo rivivendo quell’epoca, ma non è del tutto fuorviante e di sicuro è utile per non dimenticare mai le conseguenze della spinta ideologica sulle masse.

La lettura riporta alla mente un articolo non recentissimo di qualche anno fa del Professor Perotti, che raccontava la solitudine del liberista incompreso, una solitudine che ha sicuramente provato anche durante la sua fugace esperienza di governo come uomo della spending review. Ma adesso il liberista ha un manuale di sopravvivenza in più, per sentirsi meno solo ed avere un po’ più di coraggio.

Doverosamente il manuale conclude il suo tour nell’universo liberale con la lezione di Luigi Einaudi, con le prediche da lui definite ironicamente “inutili” ma di cui conosciamo invece  la preziosa rarità, da custodire gelosamente contro le interpretazioni distorsive e da divulgare ad ogni occasione anche per recuperare quel gap di popolarità che affligge il pensiero liberale.   

26
Set
2016

Mio… nostro… Vostro! Che fine ha fatto il diritto di proprietà in Italia?—di Luca Minola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Luca Minola.

In Italia il diritto di proprietà, in teoria e almeno entro certi limiti, dovrebbe essere protetto dalla Costituzione. Eppure in Parlamento, ad oggi, giace un progetto di legge volto – formalmente a limitare il consumo di suolo, il cui articolo 4 legittima i Comuni a censire gli immobili “non utilizzati o abbandonati”, presumibilmente con lo scopo di destinarli a terzi, evitando così di costruire nuovi edifici. Si tratta, cioè, di espropri de facto, aggravati dalla totale assenza di garanzie procedurali per chi fosse colpevole – non sia mai! – di “non utilizzare” a sufficienza un immobile di cui è proprietario.

Tutelare il diritto di proprietà, lo sappiamo, significa garantire la diffusione del libero mercato. E in effetti anche l’Index of Economic Freedom, pubblicato annualmente dall’Heritage Foundation, lo tiene in considerazione per il calcolo del livello di libertà economica di ogni singolo Paese. Adesso osserviamo l’Europa: il punteggio ottenuto da Inghilterra e Germania è di 90/100, quello ottenuto dalla Francia è di 80/100, quello invece di Portogallo e Spagna è di 70/100. Oggi l’Italia possiede un punteggio per la tutela del diritto di proprietà di 50/100 – addirittura inferiore a quello di Botswana, Ghana e Uruguay – e ben distante dal 70/100 del 2005. L’Heritage Foundation individua tra le cause principali la corruzione, le interferenze politiche all’interno del sistema legale e la lentezza delle procedure giudiziarie.

Ma il diritto di proprietà è prima di tutto sinonimo di libertà, anche sotto un profilo non meramente economico. Altrettanto importante, da questo punto di vista, è il tema degli espropri, e particolarmente due aspetti del tema: da una parte la legalità dell’intervento, dall’altra il risarcimento del privato che subisce l’esproprio.

Dal primo punto di vista, lo Stato detiene un potere sostanzialmente illimitato e la libertà di agire secondo il fine della funzione sociale (dichiarata di volta in volta secondo necessità e mai chiarita a priori a livello costituzionale): la funzione sociale della proprietà, in questo modo, non sembra più finalizzata alla realizzazione straordinaria di quei servizi ed infrastrutture che il mercato non è in grado di fornire direttamente, ma sembra utilizzata per rimuovere velocemente gli ostacoli giuridici ed economici che si frappongono tra lo Stato ed i cittadini.

Dall’altra parte, l’ammontare del risarcimento, attualmente soggetto a tassazione, viene calcolato sul valore venale del bene – ipotizzando un mercato ideale – e risulta essere ben lontano dai valori reali di mercato.

Nonostante negli ultimi anni siano stati fatti dei passi in avanti in materia legislativa, c’è ancora molto da fare.

La sfida contemporanea, soprattutto tra i liberali, dovrebbe essere quella di tornare ad occuparsi del tema della proprietà privata, apparentemente abbandonato negli ultimi decenni.

Cosa fare, quindi, per tutelare il diritto di proprietà in materia di espropri?

Sicuramente prendere spunto dalle esperienze internazionali, che seppur simili a quella italiana, hanno però elementi positivi da prendere in considerazione (come l’introduzione della figura giudiziaria all’inizio del processo espropriativo).

Chiarire a livello costituzionale cosa si intende per funzione sociale dell’esproprio, aspetto oggi completamente ignorato. E forse, provocatoriamente, pensare non solo alla possibilità di garantire al privato soggetto all’esproprio un indennizzo maggiore del valore di mercato – questo indennizzo dovrebbe essere inteso proprio come ricompensa al torto subìto – ma anche all’eventualità che l’esproprio non venga messo in atto per mancanza di fondi statali da destinare all’indennizzo stesso.

21
Set
2016

Ferrovie regionali al capolinea?—di Ivan Beltramba

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Ivan Beltramba.

Il disastro di Corato sulla linea “Bari Nord” ha portato alla ribalta le “Ferrovie Regionali”, talune gestite da società a capitale privato, il resto da società di proprietà degli Enti Locali. La maggior parte di queste linee sono interconnesse con la rete Nazionale gestita da RFI ed a seguito del recepimento della DIR UE 34/2012 (cd. RECAST) con il D.Lgs 112/2015 alcune di queste saranno trasferite per le questioni inerenti la sicurezza dal Ministero delle Infrastrutture e Trasporti alla Agenzia Nazionale della Sicurezza Ferroviaria, creata con il D.Lgs 162/2007 recepimento della DIR UE 49/2004 sulla sicurezza delle ferrovie. È stato pubblicato in GU il 15 settembre il Decreto Ministeriale previsto dall’articolo 1 comma 6 che dovrebbe indicare le Ferrovie Regionali “di interesse strategico”. Read More

21
Set
2016

Serve voto maggioritario dei lavoratori per indire scioperi nei pubblici servizi, e il governo l’aveva promesso

“Non si possono lasciare a piedi centinaia di migliaia di persone, bloccando il trasporto aereo e le città.  È grave che una minoranza poco numerosa condizioni la vita di intere collettività, quando la stragrande maggioranza dei lavoratori ha opinioni diverse. Dobbiamo darci nuove regole, intervenendo sulla legge in materia di diritto di sciopero e sugli accordi di settore. Stiamo parlando con le Autorità dei Trasporti e con l’Autorità di garanzia sugli scioperi, subito dopo assumeremo le decisioni del caso”. Era il 30 aprile 2015, e così parlava il ministro Delrio, in un’intervista sul Messaggero a Osvaldo De Paolini.

Che cosa è stato di quell’impegno? Si è perso per strada. Certo, eravamo nell’imminenza di EXPO, e subito dopo lo sciopero che aveva visto chiuso senza preavviso gli scavi di Pompei. Poi è venuto il Giubileo a Roma, e l’idea di estendere la moratoria milanese agli scioperi portò allo scontro sindacati e Autorità di settore, con tanto di ricorso a precettazioni. Mentre domani è previsto un nuovo sciopero di 24 ore indetto in Alitalia da alcune sigle sindacali. Dopo che sempre su Alitalia Delrio ha disposto il differimento dello sciopero del 25 luglio, il TAR ha annullato la decisione di Delrio, e il ministro Alfano l’ha dovuta ribadire d’autorità, addirittura “per motivi di ordine pubblico”. A conferma che il problema resta totalmente irrisolto, purtroppo. Delrio ha detto che valuterà se precettare i lavoratori che intendono domani bloccare i voli. Ma un fatto è certo: da tempo immemorabile occorre intervenire sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e di trasporto, ma la politica, anche se ne annuncia la volontà, poi non ha il fegato di farlo davvero. C’è sempre un turno di elezioni amministrative o un referendum a breve, in vista del quale non rischiare consensi.

La vicenda Alitalia conferma quanto abbiamo scritto molte volte. La compagnia aerea, che nel 2015 ha perduto ancora mezzo milione di euro al giorno, è impegnata con Etihad nel difficile sforzo di fronteggiare il morso delle compagnie low cost, che ormai con Norwegian e Pegasus nel mercato europeo si estendono anche ai voli intercontinentali. Di qui la necessità di contenere i costi, ottimizzare il feederaggio del breve raggio al servizio del lungo, estendere ulteriormente le destinazioni estere. Ma Cgil, Cisl e Uil hanno firmato il 18 settembre un accordo con l’azienda su numerosi punti pendenti in relazione al trattamento del personale navigante (comprese le tariffe simboliche dovute quando usa vettori della compagnia). Mentre Anpac, Anpav e USB non hanno firmato e hanno confermato lo sciopero di domani. “Una pura follia”, la ritiene l’amministratore delegato della società, Cramer Ball. E ha ragione, visto che i sindacati dovrebbero sapere quante lacrime e sangue è costata a noi tutti nei decenni la compagnia, mentre ora bisogna fare l’impossibile perché torni a produrre utili.

Piccolo particolare: l’Anpac rappresenta meno del 20% del personale Alitalia. Nell’intervista al Messaggero di 17 mesi fa, Delrio si diceva favorevole ad adottare la regola di un referendum preventivo tra i lavoratori per indire lo sciopero nel trasporto pubblico, con un tetto minimo di favorevoli del 50,1%. Noi la pensiamo come il ministro allora. Ma lui e il governo, invece, come la pensano oggi?

E’ noto che in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali vige la legge 146 dl 1990, emendata successivamente, che insieme agli accordi tra sindacati e imprese di trasporto fissa dei limiti sulle fasce di garanzia da offrire al pubblico, sui tempi minimi di preavviso, e sulle procedure di “raffreddamento” conciliativo delle vertenze. In Italia, per via di quella legge, non sarebbero possibili gli scioperi a oltranza del settore pubblico che avvengono annualmente in Francia, o quello di sette giorni che bloccò a lungo le ferrovie in Germania. Però quella legge, e gli accordi bilaterali tra sindacati e imprese di trasporto, nulla dicono della rappresentanza minima dei sindacati e-o della necessità di far votare preventivamente i lavoratori, superando nel referendum una certa soglia di consenso, per poter indire uno sciopero. E’ questo il punto più delicato che occorre finalmente affrontare. Sappiamo che il governo ha in corso con i sindacati trattative delicate, dalle pensioni al rinnovo dei contratti pubblici. Ma non è una buona ragione per non mettere mano a quest’altra questione fondamentale: quali nuove regole porre, perché ogni venerdì di ogni settimana un sindacato minore non firmatario degli accordi con le aziende non s’inventi uno sciopero dei trasporti, come a Roma per molto tempo è stata la regola?

L’industria privata con Cgil, Cisl e Uil, hanno firmato a gennaio 2014, dopo 3 anni di confronto, un protocollo interconfederale che fissa con precisione le soglie sopra le quali i sindacati si siedono ai tavoli contrattuali nazionali e aziendali, si firmano accordi che a quel punto sono validi ed esigibili erga omnes, e si ha diritto a godere dei diritti sindacali. Con la riforma Madia della PA e l’unificazione in 4 soli comparti del pubblico impiego, si sono poste le basi per un’analoga disciplina della rappresentanza anche nel mondo pubblico. Ma il diritto di sciopero resta escluso dalle soglie per firmare contratti e renderli esigibili. Al contrario, bisogna disciplinare esplicitamente tale materia. Bisogna costruire un mondo delle relazioni industriali pubbliche in cui l’esigibilità delle intese da parte di tutti i lavoratori deve valere innanzitutto se la maggioranza dei rappresentati da sindacati firmatari vi si riconosce, e a quel punto le sigle minoritarie dissidenti non possono indire scioperi.

Tuttavia sappiamo anche che la giurisprudenza della Corte costituzionale è unanime, nel ritenere il diritto di sciopero come prerogativa del singolo lavoratore, non devoluta alla mera decisione della rappresentanza sindacale. Ci sono stati casi in passato di scioperi promossi dal basso attraverso sms nei confronti dei quali ogni intervento di precetto risultò impossibile, proprio perché la giurisprudenza riconosce che l’esercizio della tutela costituzionale dello sciopero si intesta a ogni singolo lavoratore. Non è così altrove, in Germania, Svezia, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, dove è un diritto dei sindacati. Ma proprio perché lo sciopero è diritto dei singoli lavoratori, serve un voto preventivo dei lavoratori per poterlo indire. Il 50,1% dei voti serve a contemperare il diritto dei lavoratori con il rispetto dei diritti dei cittadini e della collettività. E del resto il criterio del voto sugli scioperi vige in 17 paesi su 28 paesi europei, tra cui Danimarca, Germania, Olanda, Portogallo, Regno Unito, in tutti i paesi est europei e baltici. Solo fissando il criterio nei servizi pubblici di un voto preventivo favorevole del 50,1% dei lavoratori si verrà a capo di situazioni impazzite come quella del trasporto pubblico nella Capitale, bloccata innumerevoli volte da microsigle. E per chi non rispetta le regole, servono sanzioni in solido pesantissime.

Caro ministro Delrio, dunque, riprenda in mano la questione su cui si era espresso con tanta chiarezza.