19
Ott
2016

Una Rendita al Servizio dell’APE. Tanto Rumore per Nulla?—di Marco Abatecola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Marco Abatecola.

A cosa serve davvero il TFR dei lavoratori italiani? La risposta non è così scontata visto che da reddito differito e quindi da forma di risparmio sostanzialmente forzato, negli ultimi anni l’istituto è stato più volte usato per immaginare di poter finanziare qualunque cosa. Lo scontro fra chi preferiva una destinazione dell’accantonamento al reddito disponibile, e quindi ai consumi, e chi preferiva invece conservarne la natura di risparmio sembrava essersi definitivamente chiusa con l’approvazione del d.lgs. n. 252/05 quando il TFR veniva di fatto destinato ad alimentare la posizione di previdenza complementare dei lavoratori, assumendo così una finalità ben precisa e delineata già nei principi di delega.

Come spesso accade però il nostro Paese vive di tentennamenti continui, direi cronici, e così già quella normativa usciva fortemente condizionata da numerose possibilità di anticipazioni e riscatti della posizione che rendevano tutto sommato l’accantonamento disponibile per le esigenze e casistiche più diverse e lontane dalla finalità previdenziale. Senza contare che proprio in quel periodo fu lanciato il provvedimento che destinava l’inoptato (inteso come TFR non destinato a previdenza complementare) dei lavoratori di aziende con almeno 50 dipendenti al fondo di tesoreria INPS. Un’operazione solo apparentemente secondaria grazie alla quale un flusso di circa sei miliardi l’anno di TFR non destinato ai fondi pensione viene sottratto comunque dalla disponibilità delle aziende per essere utilizzato in maniera discutibile – stigmatizzata dalla stessa Corte dei Conti – per coprire la spesa corrente dello Stato.

Più di recente, nel tentativo di far ripartire una domanda interna asfittica, anche l’attuale Governo aveva tentato di rilanciare nuovamente sulla destinazione del TFR in busta paga, seppur con scarso successo e senza sortire per il momento particolari effetti apprezzabili dal punto di vista economico.

Visti i precedenti, in una fase in cui per diversi motivi si cerca di allentare i requisiti pensionistici della Fornero pur dovendo mantenerne inalterati i saldi, non possiamo quindi stupirci più di tanto se torna alla ribalta l’idea che quell’istituto tipicamente italiano possa ancora venirci incontro.

Per la verità senza più metterne in discussione la destinazione alla previdenza complementare ma pensando direttamente ad un intervento del Fondo Pensione per finanziare, almeno in parte, l’anticipo pensionistico reso possibile dal progetto APE. Così, con la “rendita integrativa temporanea anticipata (RITA)”, si conferirebbe la possibilità all’aderente alla previdenza complementare di godere anticipatamente di quanto accantonato nei Fondi Pensione – per un periodo di tempo predefinito – con l’obiettivo dichiarato di contribuire al sostegno dell’onere ventennale legato all’anticipo pensionistico ottenuto nel regime obbligatorio con l’accesso all’APE.

Importante è comunque precisare che tale possibilità, da quel che emerge dall’accordo siglato giorni fa tra Governo e Sindacati, non appare necessariamente legata all’accesso all’APE ma può essere anche fruita indipendentemente, di fatto creando un’ulteriore possibilità di uscita dal sistema di previdenza complementare rispetto a quelli già previsti in via ordinaria.

L’intento sembra in sostanza quello di sganciare il legame diretto tra previdenza complementare e previdenza obbligatoria visto che per legge il diritto alla prestazione pensionistica integrativa si matura al conseguimento dei requisiti stabiliti nel regime obbligatorio di appartenenza e con almeno cinque anni di iscrizione alle forme pensionistiche complementari.

A dire il vero non sempre questo legame è così rigoroso e – al di là di anticipazioni e riscatti – è comunque già possibile anticipare la prestazione integrativa rispetto al requisito pensionistico. In particolare, in caso di cessazione dell’attività lavorativa che comporti l’inoccupazione per un periodo di tempo superiore a 48 mesi, i fondi pensione prevedono, su richiesta dell’aderente, la possibilità di richiedere la rendita con un anticipo massimo di cinque anni rispetto ai requisiti per l’accesso alle prestazioni nel regime obbligatorio di appartenenza.

Inoltre nel disegno di legge sul mercato e la concorrenza – curiosamente ancora in fase di approvazione dopo quasi due anni di percorso parlamentare – si prevede che l’anticipo dell’erogazione delle prestazioni possa avvenire anche in caso di inoccupazione superiore a 24 mesi, dimezzando gli attuali paletti, e con la possibilità che i fondi pensione prevedano nei propri regolamenti un raddoppio del termine per l’anticipo, portandolo fino ad un massimo di 10 anni dal raggiungimento dell’età pensionabile.

La misura non è quindi del tutto nuova ed è forse sopravvalutata nella sua reale capacità di incidere. Soprattutto se consideriamo che al momento iscritti ai fondi pensione sono solo 7,5 milioni di lavoratori su 25 milioni di attivi, con una età media di circa 46 anni ed un tasso di adesione sotto al 10% nella fascia di età potenzialmente interessata dall’APE. Pertanto non saranno presumibilmente in molti quelli che potranno eventualmente far ricorso al capitale accumulato nel secondo pilastro al fine di rendere maggiormente sostenibile l’anticipo pensionistico.

Una qualche riflessione andrebbe fatta anche sul fatto che un anticipo della rendita di previdenza complementare – nonostante la tassazione agevolata al 15% prevista dall’accordo e la durata certa della rendita – dovrà tenere in qualche considerazione il conseguente effetto sui coefficienti di conversione in rendita che saranno applicati dalla compagnia di assicurazione erogatrice della rendita ad un’età anagrafica più bassa, con una sensibile riduzione della futura pensione privata che si andrà a percepire.

Rispetto all’ottimismo che sembra trapelare dal Ministero e dagli ambienti sindacali, l’ostacolo più grande riguarda però un mercato della rendita che in Italia – anticipo della stessa o meno – è ancora pressoché inesistente, complici i frequenti anticipi della posizione che i lavoratori iscritti utilizzano per le numerose causali previste dalla normativa.

Tali anticipi svuotano, o comunque indeboliscono fortemente, la posizione individuale già in fase di accumulo non permettendo un massiccio accesso alla rendita delle coorti attuali (va infatti ricordato che per legge nei casi in cui il 70% del capitale accumulato, convertito in rendita, risultasse inferiore al 50% dell’assegno sociale, il fondo potrà erogare la posizione interamente in un’unica soluzione).

Data questa situazione, nel periodo 1998-2015, la propensione alla rendita è stata di circa il 4,5%, un dato significativo e che include anche i Fondi Pensione Preesistenti che per storia e caratteristiche hanno ovviamente un numero maggiore di prestazioni periodiche erogate.

Nell’ultimo biennio il valore delle erogazioni per prestazioni pensionistiche è stato nei soli fondi negoziali di circa un miliardo di euro totali per circa 35.000 soggetti, di questi solo 7 milioni di euro riferiti a 128 persone che hanno richiesto l’erogazione in rendita. Una percentuale sia in termini numerici che economi assolutamente risibile, mentre il valore delle anticipazioni e dei riscatti fruiti in corso d’opera è stato ben più importante e significativo, pari a 3,2 miliardi di euro per oltre 300.000 richieste.

Tra l’altro nel periodo considerato il capitale medio di tutti i contratti giunti a scadenza è oscillato fra i 20.000 e i 25.000 euro e, nello specifico, si registra un valore medio dei contratti con opzioni in rendita esercitata che varia dai 36.000 ai 56.000 euro. Capitali quindi ancora non particolarmente cospicui che possono pertanto incidere in maniera del tutto marginale rispetto alle esigenze dei lavoratori che dovessero anticipare il pensionamento facendosi carico della restituzione ventennale, degli interessi bancari connessi e del costo della polizza obbligatoria associata all’erogazione dell’APE.

Ed è certamente vero che nel lungo periodo con l’estensione fisiologica dei periodi medi di iscrizione ai Fondi questa situazione potrebbe modificarsi ma è altrettanto vero che il meccanismo che si è messo in cantiere non nasce con un’ottica di lungo periodo ma è rivolto principalmente ad una fascia di lavoratori ben precisa e già oggi vicina alla pensione, con un’età anagrafica intorno ai 63 anni.

Al netto dei dettagli non ancora del tutto chiariti sull’operazione, emerge quindi da queste prime brevi considerazioni il rischio concreto che il provvedimento in via di emanazione, oltre ad essere contraddittorio rispetto agli obiettivi più volte dichiarati di voler favorire l’educazione previdenziale, si rilevi alla prova dei fatti anche scarsamente utile proprio alla luce di una previdenza complementare che stenta a decollare davvero – probabilmente anche a causa di comportamenti non sempre lineari adottati dal legislatore in merito – e di un mercato delle rendite estremamente ridotto sia per numeri che per valori.

16
Ott
2016

I tre difetti di fondo della manovra. Bene sulle imprese, molti coriandoli il resto

Il governo ha varato la legge di bilancio 2017-triennale con il metodo a cui ci ha abituati. Una manovra di 26,5 miliardi dovrebbe essere presentata innanzitutto con tre chiare tabelline, riepilogative delle modifiche in taglio o in aggiunta delle entrate, della spesa pubblica, e delle coperture dei saldi ottenuti dalla somma algebrica delle prime due. Invece no, niente tabelle. Abbiamo solo le slides con cui il governo comunica le risorse attribuite ai capitoli che considera più significativi. La comunicazione politica con questo governo prevale su tutto. Ma il rigore dei numeri dovrebbe essere anteposto. Non solo questa regola dovrebbe valere sempre: vale ancor più per tre ragioni che sono la debolezza strutturale di questa manovra. La prima è che l’Ufficio Parlamentare del Bilancio –organismo terzo indipendente introdotto nel nostro ordinamento proprio per vagliare e certificare i numeri de governo – ha negato il suo timbro alle ipotesi macro sottostanti alla manovra, considerandole troppo ottimiste. E lo son o davvero, visto che il consensus internazionale è allineato alle stime UPB e non del governo.  La seconda, come vedremo, è l’aleatorietà del più delle coperture indicate dal governo alle nuove spese decise, in una manovra che oltretutto alza il deficit previsto di mezzo punto di PIL, dall’1,8% al 2,3%. La terza ragione la sanno tutti:  ogni numero di questa manovra è appeso in realtà all’esito del referendum del 4 dicembre, che avverrà a metà del cammino parlamentare della legge di bilancio e inevitabilmente la vedrà mutata sostanzialmente per effetto del terremoto politico conseguente a una vittoria del no.

Alla luce di queste tre ragioni, l’intero quadro previsionale di un deficit 2017 al 2,3% del PIL e dell’ inizio della discesa del debito (per l’ennesima volta slittato in avanti) resta appeso a una scommessa di ottimismo. L’ennesima, quando alle nostr spalle sappiamo bene che la storia dimostra che sempre le stime di crescita sono state sopravvalutate,  quelle del deficit e debito sottovalutate.

Il quadro delle coperture alle nuove spese illustrate ieri è ballerino. Bene infatti i 3,3 miliardi dovuti a risparmi mediante forniture gestite da aste telematiche CONSIP, e il miliardo e 600 milioni ottenuto riallocando spese previste sin qui in altri fondi (in primis quello di palazzo Chigi): questi 4,9miliardi sono ciò che resta della spending review, ma  a patto di capirsi. NON  vanno infatti a diminuzione della spesa bensì a copertura di spesa nuova. Altri 6 miliardi di entrate aggiuntive sono invece una pura azzardata scommessa: 2 miliardi dalla nuova voluntary disclosure (vedremo con quali incentivi aggiuntivi, magari sul penale, rispetto alla vecchia: ci sarà da discutere) e addirittura 4 miliardi dalla sbandierata abolizione di Equitalia. Nessuno ha finora capito, mancando un testo preciso, con che cosa l’attuale ente di riscossione coattiva verrà davvero sostituito una volta che si ingloba l’attuale struttura in AgEntrate (non cosa da ridere, i contratti dei dipendenti sono stanzialmente diversi), né in che misura il beneficio complessivo di minori interessi legali, di mora e di aggio a carico del contribuente sia davvero tale da far emergere 4 miliardi di nuovi entrate aggiuntive, indicate per di più al netto delle spese organizzative che bisognerà sostenere per cambiare la macchina di Equitalia. I propagandisti di Renzi fanno scrivere che il contribuente avrà un anno di tempo per pagare l’arretrato senza sanzioni: con certezza invece NON è così.  Chi ha letto bozze precedenti della norma sussurrava di rottamazione dei ruoli tributari – questa è la sostanza – attraverso riduzione degli interessi di mora, ma tenendo interessi legali e aggio e aggiungendo il 3% della somma accertata, che è cosa ben diversa dal dire “gratis”, In più si è aggiunta una recente sentenza della CTP di Treviso che giustamente e finalmente stabilisce che l’aggio di Equitalia NON va fatto pagare al contribuente, ma all’ente impositore per cui Equitalia opera. Vedremo di preciso che cosa dirà il testo. Ma una cosa è sicura:  nuove entrate per 4 miliardi da questa decisione sono aleatorie e ipotetiche, è un bluff a poker metterle dall’inizio a copertura di spesa certa.

Quanto alle priorità di spesa, è una legge di bilancio che strizza l’ovvio alle urne e costruita su due grandi pilastri. Renzi li ha definiti usando due categorie, “meriti e bisogni”, che rispolverano lo slogan usato da Claudio Martelli alla conferenza nazionale programmatica del Psi a Rimini, nella primavera del 1982. Il metodo resta assai più quello dei bonus e delle misure discrezionali a questi e a quelli, invece che misure generali e universali: un altro dei difetti essenziali delle 4 manovre finanziarie di questo governo.

Il pilastro essenziale del “merito” è quello degli incentivi alle imprese, ed è la parte più innovativa e convincente dell’intera manovra. Il pacchetto di misure per il sostegno all’innovazione Industria4.0 che si deve a Carlo Calenda e a cui vanno risorse di 1,4 miliardi nel 2017 e 13 miliardi nel triennio, con il superammortamento e l’iperammortamento agli investimenti tecnologici e a quelli nei settori della manifattura avanzata; la discesa dell’IRES dal 27,5% al 24% che da sola vale poco meno di 4 miliardi; l’IRI per artigiani e commercianti, che consentirà un aliquota del 24% invece di quella progressiva IRPEF per tassare il reddito della microimpresa personale; il rifinanziamento della legge Sabatini e l’aumento della decontribuzione al salario di produttività; l’abbattimento dell’IRPEF agricola; l’estensione dei bonus edilizi, dagli immobili privati anche agli alberghi; il regime fiscale agevolato al 25% per le partite IVA free lance; il rifinanziamento di 1 miliardo al Fondo di Garanzia per il credito alle piccole e medie imprese, e via proseguendo. Il fine è di registrare nel 2017 un salto in avanti per recuperare il più possibile di quell’oltre 25% di investimenti persi nazionalmente dal 2008 a oggi. E di rimettere al centro dell’agenda nazionale la produttività, che rispetto ai nostri competitors è stagnante da 20 anni. Doveva essere questa la priorità sin dall’inizio, rispetto ai bonus sin qui elargiti che hanno impegnato 2 punti di PIL di risorse pubbliche, con risultati di crescita e consumi inferiori alle attese.

Quanto ai bisogni, la parte maggioritaria degli stanziamenti è costituita dai 7 miliardi triennali di cui 2 per il 2017 per i prepensionamenti APE e per l’aumento della quattordicesima, e dai 2 miliardi aggiuntivi al Fondo Sanitario Nazionale. E’ apprezzabile che una parte delle risorse addizionali alla sanità sia volta ai malati oncologici e ai trattamenti molto cari per patologie gravi. Quanto ai prepensionamenti, la scelta del governo per i requisiti contributivi minimi – 35 anni versati per l’APE volontaria e 30 per i disoccupati e gli “usurati” – è considerata troppo elevata dal sindacato, e bisognerà vedere se e come verrà modificata soprattutto al Senato, dove la maggioranza ha margini più esigui. Ma diciamolo chiaro: già nella formulazione attuale lo Stato, cioè la fiscalità generale versata da tutti i contribuenti, dovrà sborsare una parte dell’anticipo dell’assegno a chi si prepensiona volontariamente, visto che la penalità massima del 4,5% annuo non copre integralmente i costi dell’anticipo bancario, e della controassicurazione che le banche dovranno stipulare. Ed è una scelta per me inaccettabile, destinare risorse al prepensionamento volontario di chi un lavoro ce l’ha, rispetto alla vera priorità che è quella dei giovani che non ce l’hanno e avranno pensioni che, nella migliore delle ipotesi, saranno molto più basse. Aggiungo che purtroppo l’aumento di mezzo miliardo del Fondo per la lotta alle povertà è invece rinviato al 2018: anche questa dovrebbe essere una priorità, rispetto ai prepensionamenti.

E’ più utile invece che, nel capitolo dei “bisogni”, si rafforzi con 600 milioni l’impegno a favore delle famiglie. L’esperienza di questi anni ha dimostrato che servirebbe una revisione generale e universale delle detrazioni d’imposta sui redditi, incrociata con i criteri ISEE. La strada è invece ancora una volta – ma meglio di niente – quella dei bonus: la conferma del bonus bebè e del bonus baby sitter, l’introduzione di un nuovo bonus “mamma domani” al settimo mese di gravidanza. Mentre è senza dubbio positiva la scelta di un voucher di mille euro per sostenere il costo dell’asilo nido. Come è per Renzi politicamente coraggioso, anche in primis rispetto al suo partito, il pacchetto di misure volto al sostegno delle scuole paritarie private, a cominciare da quelle particolarmente impegnate nel sostegno ai disabili.

Restano, tra le maggiori, due grandi poste. La prima, fondamentale, è quella delle “spese per circostanze eccezionali”, sottoposte alla valutazione della Commissione Ue: i 4,5 miliardi per la ricostruzione post terremoto, e i 3 miliardi per le spese dovute all’immigrazione. La seconda è quella destinata ai dipendenti statali. Del miliardo e 900 milioni al settore, se si escludono le somme per il comparto delle forze dell’ordine e militari e per le nuove assunzioni, per il rinnovo generale dei contratti dei lavoratori pubblici ne resta poco più della metà. Anche su questo bisognerà misurare quanto il Senato darà ascolto alle richieste sindacali di alzare la posta.

 

12
Ott
2016

Uber: buone notizie dagli USA

Il 7 ottobre 2016, la Corte d’Appello della settima circoscrizione degli Stati Uniti d’America ha segnato un punto a favore della concorrenza nel settore del servizio di trasporti. L’impugnazione, da parte di alcune compagnie di taxi, dell’ordinanza che regola il servizio dei Transportation Network Providers (tra cui Uber) a Chicago è stata archiviata come anti competitiva.

In sostanza, nella sentenza si afferma che la proprietà della licenza di taxi non comporta il diritto di essere esentati dalla concorrenza. Più dei vani possibili commenti, vale la pena di riportare la traduzione di alcune delle parole del giudice Posner:

“Una licenza che consente di gestire una caffetteria non autorizza il proprietario della licenza a prevenire l’apertura di un negozio di tè. Quando la proprietà consiste in una licenza a operare in un mercato in un particolar modo, questa non comporta il diritto a esseri esentati dalla concorrenza in quel mercato. Un brevetto conferisce un diritto esclusivo di produrre e vendere il prodotto in questione, ma non il diritto di impedire a un competitore di inventare un lecito prodotto sostituto che eroda i profitti del titolare del brevetto. In verità, quando compaiono tecnologie nuove, o nuovi metodi di impresa, un risultato frequente è il declino, se non la scomparsa, di quelli vecchi…

…Le compagnie di taxi sostengono che la città [di Chicago] li ha discriminati non avendo obbligato Uber e le altre compagnie a rispettare le stesse regole che devono rispettare i tassisti su licenze e tariffe. Si tratta di un argomento anticoncorrenziale. La premessa su cui poggia consiste nel credere che ogni nuovo entrante in un mercato debba essere obbligato a rispettare tutte le regole applicabili agli incumbent del mercato con cui il nuovo entrante dovrà competere”.

Ragionamenti che potrebbero apparire persino banali, per quanto scontati, ma che i legislatori italiani farebbero bene a leggere e rileggere, prima di legiferare sul trasporto non di linea. Se mai il disegno di legge sulla concorrenza venisse approvato, entro un anno dall’entrata vigore, “il governo è delegato ad adottare, su proposta del ministero delle Infrastrutture e Trasporti e del ministero dello Sviluppo economico, previo parere della Conferenza Unificata, un decreto legislativo per la revisione della disciplina in materia di autoservizi pubblici non di linea”. Speriamo che lo faccia seguendo lo stesso buon senso del giudice Posner.

@paolobelardinel

11
Ott
2016

Meglio tardi che mai: le idee di Biagi di nuovo in Parlamento

Secondo il commando di terroristi delle Nuove Brigate Rosse che lo assassinò barbaramente quattordici anni fa, Marco Biagi era colpevole essenzialmente di una sua intuizione: quella per cui, nella società post-industriale, il confine tra lavoro ‘salariato’ e lavoro ‘autonomo’ fosse ormai un retaggio del passato, una gabbia di formalismi giuridici, in cui a rimetterci per la rigidità del sistema erano proprio gli stessi lavoratori, per non parlare di chi un lavoro nemmeno ce l’ha.

Sembra un concetto ovvio oggi, almeno per molti e almeno a parole. Ma questo concetto, e il proposito di riformare l’intero mercato del lavoro secondo poche norme riferite a diritti universali e inderogabili, rinviando la gran parte delle ulteriori specifiche e tutele alla contrattazione collettiva e individuale, Biagi si propose di tradurli in pratica già allora. Finirono invece annacquati in una legge del 2003, che porta sì il suo cognome ma che non ebbe il coraggio necessario a portarne fino in fondo le idee.

Messe in prospettiva, quelle idee assumono ancora più valore, se si pensa che la “Agenda 2010” – messa in piedi da Gerhard Schroeder per rivoluzionare l’intero sistema di welfare tedesco – venne implementata soltanto un anno più tardi, con i risultati che vediamo ancora oggi: crollo della disoccupazione, tassi di crescita e produttività tra i più alti in Europa, differenza tra disoccupazione giovanile e media che oscilla attorno ai 3-4 punti, contro i 30 dell’Italia.

Chissà come staremmo, oggi, se Biagi avesse potuto portare a compimento il suo progetto di semplificazione, che ha già quattordici anni e più ma resta attuale come non mai. Ed è per questo altrettanto attuale e importante un disegno di legge presentato nei giorni scorsi dai senatori Sacconi, Fucksia, e Berger, che mira ad adottare finalmente – seppur con colpevole ritardo – quel testo unico, quello “Statuto dei lavori”, che Biagi immaginò per superare il dualismo tra fabbrica e professioni, tra autonomia e gerarchia. Per liberare il lavoro dall’approccio ideologico e formalistico che ancora caratterizza il nostro sistema normativo, adattandosi a un mondo in cui le trasformazioni tecnologiche e organizzative, la globalizzazione e i corpi intermedi impongono un passo indietro della politica nel tentativo di cristallizzare e definire rapporti di lavoro in costante mutazione. Un approccio, quest’ultimo, ahinoi non scalfito minimamente dal Jobs Act renziano, il quale – sia pure apportando diverse migliorie al sistema – ha però ulteriormente irrigidito la distinzione tra lavoro autonomo e subordinato.

L’idea alla base del disegno di legge è identificare un nucleo fondamentale di diritti, applicabile a tutti i rapporti di lavoro – pubblici, privati, autonomi, subordinati, associativi, o atipici che siano – che escluda, del tutto e finalmente, il famigerato articolo 18. Fuori da questo nucleo, in cui rientrano anche norme su salute e sicurezza dei lavratori, tutto è negoziabile e delegato alla contrattazione aziendale o individuale, dall’apprendistato alla risoluzione delle controversie.

Paradossalmente, la parte migliore della proposta di legge presentata al Senato è però forse quello che non c’è; e cioè la presunzione della politica di conoscere il lavoro e le imprese di oggi e di domani. Nessuno può prevedere il futuro e il lavoro, purtroppo o per fortuna, non può essere creato per decreto. Per questo hanno ragione da vendere i relatori della proposta, nell’ispirarsi alla diffidenza verso il formalismo giuridico e alla fiducia nell’apprendimento continuo che Marco Biagi intuì essere l’unico motore del lavoro che è e che sarà.

Twitter: @glmannheimer

10
Ott
2016

Ha torto chi teme che Industria4.0 sia nemica del lavoro grazie ai robot

Ci sono coincidenze che a volte si manifestano come cortocircuiti gravidi di significato. Così giovedì scorso, nella stessa giornata, due eventi a Napoli hanno segnato tangibilmente le macro contraddizioni del nostro tempo. Da una parte l’occasione concreta dello sviluppo e di un futuro migliore. Dall’altra un nuovo morso della crisi. Nelle stesse ore, per i primi 200 giovani selezionati ecco la cerimonia ufficiale dell’avvio della Apple Academy, che in pochi mesi da promessa di Tim Cook è diventata già realtà a san Giovanni a Teduccio. Mentre per 845 dipendenti di Almaviva a Napoli arrivava la comunicazione dell’avvio delle procedure per la riduzione del personale.  A marzo la società aveva già avviato un’analoga procedura per 3mila dipendenti di cui 400 a Napoli, terminata poi senza licenziamenti e con il ricorso agli ammortizzatori sociali. Ma la maggiore società italiana di call center – circa 80mila mila occupati tra addetti ai telefoni e marketing collegato – non può più reggere ai costi inferiori di altri paesi, né alle gare al ribasso praticate da aziende pubbliche e private. Quindi ora è costretta alla messa in mobilità per altre 2.500 persone, il che significherebbe tra l’altro la chiusura completa a Napoli.

L’ansia a Napoli di centinaia di nuovi disoccupati e la speranza di centinaia di giovani informatici che scommettono, dopo una dura selezione, di accrescere verticalmente grazie a Apple le proprie conoscenze di sviluppatori per mettersi sul mercato, sono a ben vedere due facce della stessa medaglia. Non solo è così per coincidenza temporale. Bisogna convincersene: per quanto a molti e anzi ai più possa apparire ingiusto e paradossale, sempre più fenomeni contrapposti analoghi a questi andranno di pari passo.

Proprio in queste settimane l’talia sta dandosi lo scopo di recuperare il tempo perduto rispetto ad altri paesi, avviando un grande progetto di Industria 4.0: attraverso una strategia multilivello che il ministro Calenda ha il merito di aver incardinato tra le priorità del governo. Industria 4.0 è l’ultima chiamata per evitare la progressiva perdita di valore aggiunto della manifattura italiana, scesa dal 20% al 16% rispetto al PIL in pochi anni. Si tratta di diffondere le tecnologie digitali e la sensoristica a tutti i livelli della produzione, abbattendo una volta per tutte ciò che resta della produzione seriale fordista. Da isole produttive gestite già attraverso robot controllati da operai specializzati, nel controllo che da analogico è diventato digitale già molti anni fa ormai allo stabilimento Fiat di Melfi, bisogna passare al collegamento digitale dell’intera filiera produttiva, dal design industriale alla realizzazione e assemblaggio finale. Consentendo così di seguire l’evoluzione di ogni nuova richiesta del mercato e del cliente, assecondandola tanto da prevenirla, in modo tale che  la tecnologia e la robotica diventino non difesa al meglio delle quote di mercato, ma strumenti di scoperta di nuove nicchie di consumatori e forme di domanda aggiuntiva.

E’ una rivoluzione che riapre però il problema storico con il quale sempre si sono dovute misurare le nuove tecnologie applicate alla produzione: quanto lavoro in questo modo si sostituisce e si distrugge, e quanto di nuovo e diverso se ne crea? Fin dalla fine del Settecento, nella Gran Bretagna che vedeva i primi opifici concentrare macchine più produttive che sradicavano il lavoro sui telai nelle case, a ogni rivoluzione tecnologica il luddismo ha tentato di contrastare l’avvento della sostituzione impersonale del lavoro, attraverso la quale capitale e lavoro si separavano per dar vita nella loro distinta cooperazione al capitalismo.

Con le nanotecnologie e la rivoluzione del cosiddetto “internet delle cose”, cioè la possibilità di far diventare sempre più in tempo reale un prodotto trasformato in un’esperienza, in una scelta in cui domanda e offerta si confrontano attraverso evoluzione e scambi in cui l’immateriale prevale sugli stessi input materiali di produzione, si ripropone lo stesso problema. Domanda:  i giovani informatici che scommettono imprenditorialmente su se stessi alla Apple Academy sono il corrispettivo sostitutivo e migliorativo di coloro che perdono il lavoro ad Almaviva, messi nell’angolo non solo dai costi più bassa dell’Albania, ma in prospettiva dalla inevitabile sostituzione ai call center del personale umano attraverso  risponditori informatici multivariati? O al contrario sono il segno che la nuova frontiera digitale porterà nuovi verticali divari di reddito, tra i pochi muniti delle necessarie conoscenze per padroneggiarla, e i più che ne resteranno invece vittime, spinti a gradini sempre più bassi in un’economia di sevizi despecializzati a basse skills?

Nella storia, ha sempre avuto torto finora chi ha profetato che le tre precedenti rivoluzioni industriali avrebbero portato all’esplosione sociale. Malthus vi vedeva un limite fisico: il passaggio alla produttività industriale non sarebbe mai stato in grado si sfamare torme crescenti di neopoveri. Non è stato così, come hanno scoperto negli ultimi vent’anni India e Cina, e come nell’Ottocento scoprì l’Europa. C’è stato chi a quel punto ha predetto che il limite vero non era fisico ma finanziario, perché il tasso di rendimento del capitale oltre una certa soglia sarebbe inevitabilmente caduto, divorando il capitalismo. Ma anche Marx ha fallito la predizione: checché ne pensi Piketty il tasso di accrescimento del reddito procapite e dei consumi ha puntualmente remunerato in maniera crescente il capitale investito, spingendo a nuove innovazioni. Oggi, c’è chi come Larry Summers pensa che siamo in una stagnazione secolare, e allo stesso modo è convinto che la produttività non stia tenendo il passo con l’oceanica liquidità da remunerare: e tuttavia scambia la crisi del Vecchio Mondo con quella del pianeta.

E ora, dal limite alla crescita fisico malthusiano a quello finanziario di Marx, è venuto il momento del limite immateriale di Internet? Il campo degli studi economici è puntualmente diviso, come a ogni rivoluzione industriale e della conoscenza. Se per esempio leggete Rise of the Robots dell’imprenditore di Silicon Valley Martin Ford, troverete opinioni non troppo diverse dall’ultimo filmato realizzato prima di morire da Gianroberto Casaleggio e  appena diffuso qualche giorno fa, in cui si preconizza un fosco scenario in cui l’intelligenza artificiale prevarrà sugli umani, dividendoli sempre più tra pochi happy few e moltitudini di precari a bassissimi salari. Tyler Cowen e Alex Tabarrok la settimana scorsa si sono confrontati in un interessante dibattito proprio su questo interrogativo, e personalmente mi riconosco molto nelle osservazioni in proposito avanzate da Scott Sumner:  checché pensino molti economisti, essi non sono in grado di dirci oggi con certezza che cosa davvero avverrà con la nuova ondata di applicazioni digitali alla produzione e ai consumi di massa, ma quel che sappiamo è che le rivoluzioni tecnologiche alle nostre spalle hanno sì accresciuto il divario dei redditi inizialmente, per alzare poi il reddito medio, aumentando e non diminuendo il numero degli occupati nel lungo periodo, al quale guardare al netto delle grandi crisi.

In realtà, la storia ci ha insegnato qualcosa di prezioso, se sappiamo interpretarla. I giovani selezionati a Napoli dalla Apple l’hanno giù capito, e hanno vinto la selezione per quello. Serve una maniera completamente diversa di formare i giovani, identificando bene le capacità adeguate alla nuova frontiera. La Germania vede quasi i due terzi degli studenti nelle ciclo secondario superiore frequentare istituti professionalizzanti, e oltre il 40% degli universitari conseguire titoli in Atenei che abilitano a professioni le cui caratteristiche sono disegnate insieme alle aziende. Il Fraunhofer Institute, una delle principali culle della ricerca industriale tedesca con oltre 120 sedi in Germania in ogni distretto produttivo, è al 70% finanziato dalle imprese al 30% da Laender e Stato. E sono le imprese a dettarne i programmi di ricerca, i cui frutti sono da trasferire poi nelle aziende.

Dobbiamo rivoluzionare la nostra scuola e università. Dobbiamo spezzare la catena che ci porta ad avere oggi il 29,8% dei giovani italiani fuori sia dalla scuola sia dal mercato del lavoro: in ambito Ocse la media è del 14,6% e solo la Turchia fa (poco) peggio di noi, mentre in Germania sono l’8,8%. Dobbiamo accettare l’idea che il lavoro non sia altro che continua ri-formazione delle proprie competenze (vedi qui e molti altri documenti  qui).  Dobbiamo cambiare radicalmente l’idea di come si definiscono i contratti tra dipendenti-sindacati e aziende (vedi qui), sfidando queste ultime a investire perché altrimenti scompaiono inevitabilmente.

Il futuro non è mai apparso come un rettilineo verso la felicità: né a chi perdeva il telaio a casa nel Settecento, né a chi lavorava nelle miniere di carbone, né agli operai in catena di montaggio. Milioni e milioni di persone hanno cambiato paese e continente alla ricerca di migliori occasioni, hanno accettato di ridefinire la propria cultura e il proprio habitat. Questa è la storia del lavoro e del suo progresso, anche in Italia. Il futuro che i giovani accademisti di Apple hanno già scelto avrà anch’esso il suo prezzo. Ma a maggior ragione per il Sud, che è stato tradito anche da Industria3.0, la sfida del capitale umano  è la vera via prioritaria al futuro da imboccare.

 

7
Ott
2016

I conti del Campidoglio: non 1 buco, ma 4. Cercasi Mandrake

L’emergenza dei conti di Roma non è una scoperta. Purtroppo. E ieri il neo assessore al Bilancio Mazzillo ha dovuto esordire ammettendola. L‘8 ottobre sarà passato un anno, dalle dimissioni dell’ex sindaco Marino. Un anno senza governo cittadino è un guaio aggiunto a un disastro, quando la situazione ereditata è strutturalmente compromessa come quella della finanza pubblica capitolina. E a questo punto non c’è più tempo da perdere, perché dal risultato elettorale sono passati 100 giorni.

Il neo assessore ha escluso l’ipotesi del default, ma i problemi più rilevanti sono quattro. C’è un debito finanziario di 1,2 miliardi, gestibile a seconda dei flussi di entrate proprie del Campidoglio. C’è il nodo della rata annuale di ammortamento del debito da 13 miliardi circa, in gestione separata commissariale. C’è inoltre uno squilibrio patrimoniale di oltre un miliardo del Gruppo Roma Capitale, creato dal saldo netto tra crediti e debiti delle società partecipate comunali che al Gruppo fanno riferimento, e che può rapidamente chiamare all’esigenza di ricapitalizzazioni, anche a prescindere dal finanziamento ai piani industriali delle società da risanare. E infine c’è un quarto problema: la continua emersione dai conti ereditati di debiti fuori bilancio, residui attivi e passivi. Per somme che, ogni volta, testimoniano la disinvoltura con cui per anni e anni è stata gestita la finanza capitolina.

Facciamo un passo indietro. L’assestamento di bilancio 2016 votato a fine luglio in Campidoglio e impostato dall’allora assessore Minenna è stato un puro atto dovuto. Per rispettare la scadenza di legge, senza avere il tempo né l’intenzione di compiere alcuna scelta strutturale. La voce più rilevante era lo stanziamento di 90 milioni previsti per il salario accessorio nel 2017 e 2018, una delle gravi questioni createsi in passato tenendo gli occhi chiusi sui finti salari di produttività spalmati per tutti fino, in alcun i casi, a oltre il 50% della retribuzione ordinaria. Altre voci apparivano in singolare e inesplicato contrasto con la situazione certificata dall’ex commissario Tronca solo 60 giorni prima, a fine maggio. Secondo il rendiconto finale della gestione Tronca in cassa allora risultavano solo 13 milioni di euro, mentre a luglio secondo il documento Minenna erano saliti a ben 800, computando però per cassa poste non traducibili in liquidità immediata se non a patto di susseguenti azioni molto incisive e spesso di esito dubbio. Qualche giorno fa il sindaco Raggi ha disposto ad alunni disabili e municipi l’assegnazione di 9 milioni su 11 “trovati”, ha detto, nelle disponibilità di tesoreria. Lodevole, ma il problema da affrontare è purtroppo di tutt’altro ordine di grandezza. Il Campidoglio non potrà impostare di qui a 10 settimane il preventivo 2017 senza una ricognizione a 360 gradi dei diversi fattori che concorrono al suo squilibrio strutturale. E poiché per farlo occorre tempo, con tutto il rispetto i 100 giorni sin qui persi sono un cattivo inizio.

Per avere un’idea di quanto temibilmente ballerine siano le scoperte speleologiche, per così dire, che continuano ad avvenire scavando nei conti di Roma, basti pensare che secondo la Ragioneria capitolina nel primo semestre 2106 già erano emersi 46 milioni di euro non computati nel preventivo 2016, tra nuova spesa corrente e debiti fuori bilancio. A seguito dell’assestamento votato dall’attuale giunta a fine luglio l’Oref, cioè l’Organo di Revisione Economico-Finanziaria del Campidoglio, ha innalzato vertiginosamente la stima fino a 234 milioni di debiti fuori bilancio.

La nuova giunta partirà probabilmente dall’esame di sostenibilità della rata annuale di ammortamento dovuta a Cdp per l’anticipazione di cassa del debito di 13 miliardi, affidato alla gestione separata commissariale guidata da Silvia Scozzese. Che ha avvisato per tempo, a fine 2015, che dal 2017 i flussi prevedibili di cassa generati non saranno tali da sostenerne più la gestione ordinaria e il rientro. Perché, appunto, il bilancio del Campidoglio resta strutturalmente squilibrato. Incapace cioè di generare risorse proprie – al netto di trasferimenti e anticipazioni dallo Stato – tali da far fronte a tutte le esigenze ordinarie. I romani sono già al massimo delle sovra aliquote Irpef e Irap sommando Comune e Regione, pagano oltre 750 euro l’anno oltre la media nazionale.

Non pesa solo la rata annuale di ammortamento del debito. Come ha puntualmente dovuto ammettere ieri l’assessore Mazzillo, è la macchina comunale a essere divenuta incapace di entrate proprie in percentuale accettabile delle entrate. Perde oltre 100 milioni di affitti l’anno sul suo patrimonio immobiliare, sconta 7,1 miliardi di crediti non incassati dal 2008 tra entrate tributarie, multe, tariffe per servizi e canoni. Non riesce a processare l’anno più del 10% degli arretrati IMU. E dal 2008 si sono aggiunti 2,3 miliardi di spese correnti non liquidate ai fornitori, che il commissario Tronca ha iniziato a ridurre. Da asili, mense, affitti e mercati, il Campidoglio riesce a incassare solo 900 milioni l’anno aggiuntivi ai trasferimenti centrali e alle tasse: rispetto ai 4 miliardi di euro di Milano, che ha meno della metà degli abitanti di Roma. La riscossione dei crediti nel 2014 e 2015 ha viaggiato sulla media di poche decine di milioni di euro l’anno, rispetto al mezzo miliardo di Milano.

Intervenire sul conto economico ordinario postula avere idee estremamente chiare sul riordino del perimetro e dell’organizzazione dell’intera macchina capitolina. Purtroppo a tutti i livelli, dagli assessorati centrali ai Municipi, c’è un problema di gestione e controllo dei dati, di regole, e di risorse umane. Se ci fermiamo alle maggiori stazioni appaltanti gare per lavori e forniture, nel perimetro capitolino e delle sue controllate maggiori siamo a quota 150, che sfiora addirittura le 300 unità se comprendiamo anche quelle per modesti importi. Occorre integrare i sistemi informatici oggi non interfacciati e usati da ogni Dipartimento e Municipio per gestire appalti, gare e affidamenti, che compartimentano e ostacolano ogni processo centralizzato di controllo. E superare la prassi invalsa di attribuire ogni singolo affidamento alla valutazione del dirigente responsabile del procedimento, senza omogeneità di criteri. Bisogna cessare di aggirare gli obblighi di gara attraverso il frazionamento degli importi che ha eternato gli affidamenti diretti, e scongiurare la protrazione per anni e anni, in alcuni casi addirittura venti, degli affidamenti scaduti.

Nel 2015 Milano ha realizzato alienazioni di beni patrimoniali del Comune per 950 milioni, Roma per 33.  Numeri che parlano da soli. In compenso, il Campidoglio oggi gestisce anche aziende agricole come Castel di Guido e Tenuta del Cavaliere, volte alla produzione di carni, salumi e formaggi. Naturalmente, il conto è in perdita. Malgrado le 72 mila unità immobiliari destinate a canone sociale nel Comune di Roma (di diversa proprietà pubblica, non solo comunale), il Campidoglio spende oltre 20 milioni di canoni sociali in proprio.

Quanto al miliardo di squilibrio delle partecipate, non è purtroppo nemmeno esso una sorpresa. Oltretutto il più dei contratti di servizio delle società scade a fine anno, e andranno riscritti con criteri di efficienza del tutto diversi. Di sicuro, il Campidoglio oggi non ha la disponibilità finanziaria adeguata per gli investimenti che sono necessari in ATAC e AMA. E comunque una stima almeno approssimativa delle disponibilità non si può credibilmente fare, prima di aver definito come s’intende aggredire gli squilibri strutturali che gravano sul conto economico capitolino.

ATAC ha ottenuto in 5 anni sussidi pubblici per 4,3 miliardi di euro, riuscendo tuttavia a sommare deficit per 1,1 miliardi. Ha 12 mila dipendenti con un costo medio lordo annuo di 46mila euro che è ai vertici di settore nazionale. Con oltre 20mila appalti assegnati senza gara tra 2010 e 2015, cioè il 90% delle commesse senza un bando, e con biglietti e abbonamenti che coprivano solo un quarto dei costi aziendali, prima della cura avviata sotto Tronca e ora interrotta.

Per l’AMA, siamo ancora al punto in cui sono le cronache giudiziarie a dettare l’agenda. Non si è ancora minimamente capito quale sia l’idea di fondo, con 1,7 milioni di tonnellate annue di rifiuti da raccogliere, per chiudere il ciclo industriale del loro trattamento. A oggi, AMA riesce a ottenere dalla vendita al mercato delle diverse componenti dei rifiuti trattati fino a solo un ventesimo per unità di peso rispetto ai migliori concorrenti. Senza una precisa scelta industriale il trattamento dei rifiuti prodotti a Roma continuerà a essere, come oggi avviene, un affare per altre parti d’Italia.

Ci fermiamo qui. Non c’è alcun pregiudizio verso la giunta Raggi. Che finora non ha operato, vista la fatica e gli incidenti per trovare gli assessori nei ruoli più delicati. Il duro compito che l’attende era chiaro da prima delle elezioni. La condizione di Roma impone scelte molto ma molto impegnative, che richiedono grande risoluzione, raffinata competenza, visione e padronanza certa di un’infinità di dettagli normativi, amministrativi e organizzativi, sia pubblici sia privati. Cento giorni dicono che il tempo per addossare le colpe agli altri è finito. Ora è il tempo delle scelte e delle soluzioni.

6
Ott
2016

Quei “capricci” liberisti di chi vuole lavorare di più. Ma non può—di Tommaso Alberini

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Tommaso Alberini.

Che le liberalizzazioni non piacciano già lo sapevamo. Basta annusare l’odor di stantio proveniente dal famigerato “ddl concorrenza”, da più di un anno e mezzo ristagnante sul fondo di quel frigorifero legislativo che è il Parlamento. Quando poi, per forza di calendarizzazione, si è dovuto votare la norma, la si è accoltellata di emendamenti fino a stravolgerne la coerenza giuridica. Non sorprende, perciò, che anche quest’anno l’Italia non si smuoverà più di tanto dai 67 punti che le sono stati assegnati dall’Indice delle liberalizzazioni 2015 dell’IBL. Read More

4
Ott
2016

Alloggio per assistenza e non solo, ovvero come salvare il welfare con la libertà di scambio

Qualche giorno fa è circolata per radio e su qualche quotidiano una curiosa offerta per chi volesse vivere in uno dei quartieri più belli di Londra. Una coppia inglese ha infatti pubblicato un annuncio per cercare una persona che si prenda cura della loro nonna Margaret, 93 anni, e viva con lei in una casa che si affaccia sul Tamigi. In dettaglio, si chiedono circa 30 ore di assistenza settimanali in cambio di un alloggio il cui valore è stimato intorno alle 1.500 sterline mensili. Inoltre, per ogni ora extra di lavoro si offrono dieci sterline. L’annuncio, intitolato “Housemate/grandma sitter/carer wanted – FREE RENT!” è visibile qui, sul sito Spareroom, leader del flatsharing in Regno Unito.

Dopo che l’annuncio è stato ripreso dal quotidiano Metro martedì scorso, l’offerta ha ricevuto tantissime candidature. I nipoti hanno aggiornato l’annuncio venerdì 30 settembre dicendo di aver ricevuto più di 200 domande e di aver pazienza perché risponderanno a tutti. Inoltre si sono rivolti a ulteriori persone, aggiungendo alla loro ricerca 1) musicisti che vengano a suonare/provare in cambio di torte e 2) nonni che vogliano trascorrere un po’ di tempo insieme a Margaret e magari creare un gruppo d’incontro di canto. Infine i nipoti si sono detti disponibili a consegnare a domicilio le torte preparate dalla nonna.

Offerte di scambio come queste rappresentano  il futuro per le società europee che di fronte all’invecchiamento demografico non potranno più offrire le garanzie che il welfare statale offriva in passato. Solo attraverso la libertà di scambio riusciremo a immaginare delle reti di protezioni per coloro che necessitano assistenza (non solo anziani) in un tempo in cui le reti che offriva lo Stato diventano obsolete, inefficaci e insostenibili. Alberto Mingardi, riprendendo un editoriale di Politico, ha scritto: we should Uberize our safety net. Le tante iniziative che vengono descritte con la generica etichetta di sharing economy rappresentano infatti la migliore espressione della libertà di scambio, di cui l’annuncio riportato sopra fornisce un vivido e simpatico esempio.

E’ fondamentale che i regolatori sostengano questo cambiamento poiché è inevitabile e auspicabile. La teoria economica suggerisce che questa transizione troverà ostacoli da parte di chi offriva in passato quegli stessi servizi. Sul lato degli home restaurant è di pochi giorni fa la notizia di una proposta di legge approvata dalla commissione parlamentare Attività Produttive che, a detta del sito bed-and-breakfast.it, ostacola la diffusione degli home restaurant a vantaggio degli incumbent, in questo caso la Federazione italiana dei pubblici esercizi. Non li vieta, ovviamente, ma – in buon stile italico – rende loro la vita più difficile.

Negli ultimi anni molte persone hanno scoperto che non è necessaria una licenza statale per fornire o usufruire di un passaggio in auto sicuro e di qualità, ospitare una persona in casa propria, gestire un home restaurant. Per questo motivo dovremmo essere anche liberi di pensare a forme più creative nel campo dell’assistenza delle persone bisognose e di scambiare i nostri talenti, le nostre capacità e le risorse che abbiamo a disposizione. O sceglieremo di sanzionare una nonna che si offre di infornare torte e i nipoti che le consegnano domicilio solo perché non sono autorizzati a farlo?

30
Set
2016

Yahoo vs Stati criminali

Problemi con Yahoo, vero? Non riuscite ad accedere al vostro account?
Immagino vi sia arrivata, come è arrivata a me, una email dal titolo “avviso di violazione dati” direttamente da Bob Lord, chief information security officer di Yahoo in persona.
Nella email si dice: “Una recente indagine ha confermato che una copia di alcune informazioni sugli account utenti è stata rubata dalla nostra rete alla fine del 2014 da quello che crediamo sia un attacco promosso da uno Stato”. Sì avete letto bene, da uno Stato con tanto di S maiuscola.
I principali sospettati pare siano Russia e Cina. Nessuno o forse pochissimi, almeno nella piccola provincia italica, si sono indignati per la committenza di Stato di questo colossale furto di dati a danno di milioni di cittadini. Immaginiamo se la responsabilità fosse stata individuata o vi fosse stato solo il sospetto in capo a qualche società privata, magari multinazionale. Invece no, “non è colpa del liberismo”, il ladro è proprio uno Stato. Quello Stato che ci dovrebbe proteggere, tutelare con l’arma di montagne di leggi in nome di privacy, dignità, riservatezza, oblio e chi più ne ha più ne metta. Non mi pare di aver letto gli strali di nessuna di quelle solite “anime belle” pronte a mettere a ogni piè sospinto sul rogo Apple o Facebook, nessuno ha stigmatizzato con forza l’azione criminale degli Stati autori di questa colossale violazione.
Gli attacchi informatici sono già da tempo uno strumento di guerra tra stati. Si chiama cyberwarfare, è stata definita così l’azione di uno Stato che cerca di penetrare nelle reti di computer di un altro Stato con lo scopo di distruggere o danneggiare. Alcuni governi considerano il cyberwarfare parte integrante della loro strategia militare e investono pesantemente negli strumenti per aumentare le loro capacità in questo tipo di attacchi.
Noi cittadini siamo le vittime di queste invasioni, furti di Stato, ora russi, ora cinesi, ora di qualche altro Stato ancora, chissà.
Spero che Yahoo riesca a superare il brutto colpo e a risolvere tutti i guasti tecnici che assillano i suoi utenti oltre che agire contro i colpevoli.
Oggi la tutela dei cittadini e dei loro dati passa attraverso l’innovazione e la ricerca di aziende private che hanno in noi cittadini tout court come individui, aziende, attività di ogni genere, la loro fondamentale fonte di reddito, crescita, sviluppo. Gli Stati rappresentano invece sempre di più una minaccia alle nostre fondamentali libertà e questa planetaria azione di cyberwarfare ne è un incontestabile esempio.