28
Ott
2016

2 mesi di Buona Scuola: 85mila cattedre scoperte. E non è colpa solo del governo..

Renzi l’ha ammesso due sere fa da Vespa, a Porta a Porta. “Sulla scuola ho fatto errori”, ha detto. Non ha spiegato quali, ma una cosa è sicura. Si era capito già ad agosto, che il primo anno scolastico di applicazione della Buona Scuola non sarebbe stato rose e fiori. I dati parziali che venivano dalle 825 commissioni di concorso per le 63 mila cattedre triennali bandite, dopo la prima leva di 87 mila precari messi in ruolo all’approvazione della riforma, lasciavano già presagire l’inatteso risultato di restare con 25mila o 30mila cattedre coperte. Ma il dato che si profila ora è molto più preoccupante. Ha del disastroso. E spiega, crediamo, l’ammissione di Renzi.

E’ un insuccesso vero, infatti. La riforma nata per abolire il precariato e sconfiggere le supplenze a mitraglia, e per impedire le classi con docenti a tempo magari non assegnati per molti mesi, fallisce la sua prima prova. C’è chi (l’Anief) calcola in 85 mila i posti a oggi ancora scoperti. Perché al problematico esito delle commissioni di concorso si sono abbinati due altri fenomeni di massa. In primis la complicatissima gestione di una mobilità sul territorio pari a quasi 200mila insegnanti, increduli e impreparati a vedersi assegnare da un capo all’altro della penisola (e soprattutto da Sud a Nord). E poi l’immensa panoplia di strumenti che il nostro bradipico ordinamento riserva a chi oppone alle nomine le tutele offerte dal diritto: dall’impugnativa davanti al giudice amministrativo, ai certificati medici, alla legge 104 per assistere parenti malati.

Le commissioni di concorso erano partite tardi. Per questo oltre un terzo delle 825 non hanno terminato l’iter di valutazione entro i termini utili per le assegnazioni a cattedra d’inizio anno. E in moltissime Regioni, per altro, la percentuale dei non ammessi agli orali ha toccato soglie terrificanti: in Lombardia il 70%, mentre per la scuola materna nel suo complesso a fine agosto erano ammessi agli orali solo poco più del 22% di coloro che avevano sostenuto gli scritti. Con enorme indignazione dei sindacati, ma a conferma del monito levato da chi – anche noi, insieme alla Fondazione Agnelli – aveva per tempo segnalato che tenere vergognosamente masse di precari per decenni nella scuola italiana, come ha fatto la politica italiana finché l’Europa non ci ha costretto ad affrontare una volta per tutte il problema, non poteva certo essere considerato un sistema volto a motivarli all’aggiornamento professionale.

Da questo primo macrofenomeno è scaturita la necessità di oltre 30mila nomine di supplenti, pescati ancora una volta come in passato dalle graduatorie GaE. O meglio da quel che ne restava, perché in molte province italiane erano esaurite dalla prima leva di immessi in ruolo e dalla gran massa di partecipanti al concorso. Col risultato paradossale che spesso è stato nominato come insegnante supplente chi non aveva superato la prova di concorso. e co0n la richeista geenrale del più dei sindacati di riaprire lo scorrimento delle GaE, laddove sono esaurite.

Ma ad essere di fatto sfuggita di mano è stata la mobilità. Il sistema ha opposto una resistenza strenua alla volontà ministeriale di considerare la messa in ruolo come premio prevalente sul disagio di vedersi proiettati in un ambiente di vita estraneo a quello in cui per anni e decenni i precari avevano organizzato la propria vita. Di qui impugnative amministrative a raffica che hanno portato nell’immediato a ordinanze sospensive, e tanto è bastato a bloccare i trasferimenti. Anche se poi in gran numero di casi segue un giudizio di merito sfavorevole al ricorrente. Ma intanto il danno è fatto, per il mancato completamento degli organici a inizio anno scolastico.

Terzo fenomeno: quello delle migliaia che hanno accettato il trasferimento e l’incarico, tranne al primo giorno consegnare o far pervenire al dirigente scolastico attestazioni mediche che impedivano la prestazione del servizio, o comprovanti il diritto a beneficiare della legge 104 per assistere parenti malati. Dalla Lombardia al Piemonte al Trentino, sono centinaia gli istituti i cui dirigenti scolastici si sono trovati a dover affrontare un’emergenza imprevista di questo tipo.

E c’è infine un altro, gravissimo quarto problema: mancano molti – secondi alcuni sindacati circa 25 mila – insegnanti di sostegno per i disabili. E con questo, il cerchio si è chiuso. Se ne parla l’anno prossimo, care famiglie italiane che pensate di pagare le tasse per avere insegnanti che seguano i vostri figli stabilmente, e con titoli verificati.

Ammettiamolo. Il governo ci ha provato. Con l’eredità che doveva affrontare, l’effetto del cinismo praticato per decenni dalla politica alle spalle di centinaia di migliaia di precari, credere dimettere le cose a poste in un anno era come voler svuotare l’oceano con un mestolo.

Ma purtroppo la riflessione è più amara. L’insuccesso della Buona Scuola non è solo figlio del passato. Deriva dalle mille regole che sembrano fatte apposta per frenare, sviare e impedire qualunque riforma seria e incisiva. Le certificazioni mediche di comodo sono un problema costante del mondo pubblico italiano: e parlano della crisi profonda della deontologia dei medici italiani, oltre che dei dipendenti pubblici che vi fanno ricorso. E la percentuale di applicazione della legge 104 al mondo pubblico, superiore di un multiplo a quella attestata nel lavoro privato, ci dice dell’inaffidabilità dei controlli nel nostro paese.

Talché si può essere armati anche del migliore spirito riformista, ma alla fine si esce sconfitti.

Al ministero lo dicono a mezza bocca. Dietro le impugnative e le certificazioni depositate all’ultimo minuto ci sono sindacati e sindacatini che volevano il posto per tutti, subito e senza ulteriori concorsi, dietro casa o al massimo non troppo lontano, anche se le cattedre scoperte sono al Nord e la maggioranza dei precari è del Sud. Purtroppo bisogna saperlo. Riformare l’Italia con questa selva di finti diritti che diventano veri freni è un’opera titanica. Chiede di cambiare le teste e le mentalità, prima ancora delle leggi e dei regolamenti.

 

27
Ott
2016

Italia incurabile: il maxi assenteismo dei vigili a Roma derubricato a mera coincidenza

Per carità, come sempre massimo rispetto della magistratura e delle sue sentenze. Ma questo non impedisce di dire, in attesa di conoscere le motivazioni della decisione assunta dal giudice del lavoro della terza sezione del Tribunale di Roma, che è devastante il segnale arrivato ieri all’opinione pubblica, ai dipendenti del Campidoglio e in generale a tutti i dipendenti pubblici italiani, visto che Roma è la Capitale.

Il giudice ha stabilito infatti che la maxi astensione dal lavoro di 767 vigili urbani romani la notte del Capodanno 2015, cioè dell’83% dell’organico del corpo mentre in romani nelle strade festeggiavano l’anno nuovo, non fu affatto uno sciopero selvaggio. Di conseguenza il giudice ha anche annullato la multa di circa 100mila euro che tre mesi dopo fu comminata a 5 sindacati dall’Autorità Garante sul diritto di sciopero. La cifra va dunque restituita ai sindacati. A questa decisione si aggiunge che dei 767 vigili solo una trentina finì per essere soggetta a indagine disciplinare interna. Mentre dei ben 100 medici indagati per falso dalla Procura – o per aver sottoscritto certificazioni mediche per quella notte senza aver incontrato il paziente, o per aver delegato impropriamente ad altri colleghi il farlo, o per aver ceduto a terzi le proprie password per le comunicazioni d’obbligo all’INPS – la maggior parte sembra uscire senza danno dall’inchiesta.

La somma di questi tre segnali è univoca: dunque quella notte non accadde niente di particolare, ordinaria amministrazione. Aveva evidentemente ragione il sindacato Ospol che all’indomani della maxi astensione, a chi come noi ne protestava l’illegittimità e intollerabilità, replicava sdegnato che al contrario l’83% di astenuti era “una percentuale fisiologica”. Evidentemente, è stato solo un fortuito caso, che in quella notte contemporaneamente e senza alcun concerto ben 567 si dichiarassero malati, 63 assenti per donazioni di sangue (a Capodanno!), 81 a casa per assistere parenti con patologie coperte da congedo parentale disposto dalla legge 104, e 52 per altri motivi.

Ma non scherziamo, per favore. Chi davvero può credere a una simile coincidenza? Solo chi decide di ignorare che quella notte fu causata dal durissimo scontro che il corpo dei vigili riservava all’allora comandante fresco di nomina, il superpoliziotto Raffaele Clemente, vissuto dai caschi bianchi romani come un corpo estraneo. Tanto estraneo che aveva disposto immediatamente rotazioni a catena degli incarichi per tutto il corpo, al fine di svellere incrostazioni decennali e rischiose connivenze. E alla lotta strenua contro la rotazione si aggiungeva quella per il salario di merito diviso tra tutti a pioggia, grave problema che resta ancora insoluto per tutti i dipendenti capitolini.

I sindacati quella lotta l’hanno vinta. Clemente non è più il loro comandante. C’è un vice, e il nuovo comandante dovrà essere scelto dalla giunta Raggi entro fine ottobre. Ma cosa farà la nuova giunta? Il solo fatto che davanti al giudice del lavoro il Comune di Roma non si sia costituito nel procedimento, ignorando del tutto le parole durissime che all’indomani della maxi protesta furono pronunciate da Clemente, sembra proprio la dice lunga su quanto possiamo aspettarci. E allora diciamolo in chiaro. Se il sindaco e la giunta Raggi credessero di doversi ingraziare sindacati, vigili e dipendenti, fingendo di non vedere che la prima svolta da imprimere è proprio quella della legalità, dell’efficienza e della trasparenza, allora vorrebbe dire che non ci siamo proprio.

E il comune cittadino, la società civile, che cosa devono pensare, assistendo al passaggio istituzionale in cavalleria di una vicenda che generò ironia e disprezzo sugli organi d’informazione di mezzo mondo? I dipendenti pubblici onesti e leali, quelli che credono nel dovere di prestare servizio alla collettività rispettando le regole e aspettandosi di vedere il proprio merito finalmente riconosciuto, come non immaginare che ancora una volta allargheranno le braccia, pensando che se le cose stanno così allora non c’è alternativa e devono farsi furbi anche loro? E i dirigenti, incaricati di vigilare sul comportamento dei sottoposti, svolgendo le proprie funzioni saranno forse spinti a maggior scrupolo, o piuttosto a chiudere gli occhi e a lasciar correre?

Lo sappiamo tutti, sono domande retoriche. L’amara risposta è nei fatti. L’immobilismo delle peggiori prassi vince ancora una volta. E fa apparire gli impegni della politica, alle riforme e alle svolte morali, come pure espressioni labiali a cui non seguono fatti conseguenti.

26
Ott
2016

La mano del potere

Già nel diciannovesimo secolo Alexis de Tocqueville, di ritorno dal suo viaggio negli Stati Uniti, metteva in guardia dalla tendenza a ritenere immuni i regimi democratici dal pericolo di scivolare verso una deriva autoritaria altrettanto illiberale quanto lo era stata quella delle monarchie assolute europee dei secoli precedenti. “Quanto a me – scriveva ne La Democrazia in America – quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m’importa di sapere chi mi opprime, e non sono più disposto ad infilare la mia testa nel giogo soltanto perché mi viene presentato da un milione di braccia”.

Qualche secolo più tardi Karl Popper ha ritenuto necessario riprendere il medesimo ammonimento ricordando nel suo libro più famoso (La Società aperta e i suoi nemici) che “anche una maggioranza può governare in maniera tirannica” e che la democrazia altro non è che un metodo utilizzato per consentire ad una comunità di assumere decisioni che non assicurano tuttavia a priori la tutela dei diritti individuali degli esseri umani.

A ragione, pertanto, i due pensatori liberali hanno sottolineato come la circostanza che il Governo di una Nazione sia espressione della maggioranza degli elettori anziché di una più o meno cospicua minoranza non offra da un punto di vista liberale alcuna garanzia aggiuntiva circa il riconoscimento e la tutela delle libertà fondamentali dei cittadini.

E’ nella forma di Stato, nel concreto atteggiarsi del rapporto fra l’Autorità e la libertà, fra potere pubblico ed individuo, invece, che va misurato il grado di liberalità del Governo e ancor più nella dimensione dello spazio che il variegato spettro dei soggetti pubblici riesce ad occupare a discapito dell’autonomia individuale (anche in economia ad esempio), tenuto conto che la forma di governo descrive, di contro, la ripartizione del potere fra i vari organi che compongono a livello centrale lo Stato e nulla di più.

Non è un caso, infatti, che l’evoluzione di paesi tradizionalmente liberali come il Regno Unito e gli Stati Uniti sia stata contrassegnata più dalle tappe che hanno inciso sul riconoscimento delle libertà individuali e sulla limitazione del potere pubblico che dalla revisione della forma di governo o del tasso di rappresentatività del Parlamento e degli esecutivi nazionali. La Magna Carta, il Bill of Rights, l’Human Rights Act, gli emendamenti della Costituzione degli Stati Uniti, una cultura fortemente impregnata di individualismo liberale e Tribunali realmente indipendenti hanno rappresentato, strada facendo, la vera garanzia contro qualsiasi pericolo di deriva autoritaria molto più di quanto lo abbiano fatto gli altri contrappesi di una forma di governo che è rimasta pur sempre presidenziale o di un regime parlamentare sin dalla sua nascita a forte impronta maggioritaria.

Appare davvero singolare, allora, come davanti al cosiddetto combinato disposto della riforma costituzionale e della legge elettorale a doppio turno di lista, l’attenzione di molti studiosi di diritto pubblico e di numerosi esponenti politici si sia concentrata in Italia su una presunta deriva autoritaria di cui non vi è obiettivamente traccia.

Nè la proposta di revisione della Costituzione (che non incide in nessun modo sul rapporto fra  cittadino e autorità pubblica ma si limita ad alcuni ritocchi sulla forma di governo al fine di rendere più efficiente i processi decisionali) né la legge elettorale a doppio turno (il cui unico scopo è quello di garantire la stabilità di governo) alterano le caratteristiche di una forma di Stato come quella Italiana che è ben lungi in ogni caso dal poter essere definita autenticamente liberale e che molto è stata incisa fortunatamente dagli insegnamenti della Corte di Giustizia europea e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Sembra sfuggire ai più come all’interno del nostro “regime” democratico Governo e Parlamento possano in ordine sparso: appropriarsi di oltre metà del PIL prodotto dai cittadini e sperperarlo impunemente, controllare l’informazione pubblica, influire pesantemente sull’istruzione dei cittadini, scegliere in economia i vincitori e salvare i perdenti, limitare le libertà civili degli italiani, e tutto ciò tanto se siano rappresentativi di più del 50% degli elettori quanto se siano stati investiti da una semplice maggioranza relativa.

La gestione condivisa delle responsabilità all’interno di una forma di governo parlamentare a tendenza assembleare (non maggioritaria dunque) assicura unicamente l’affollarsi di più gruppi organizzati al banchetto della spartizione del potere statale a discapito dei diritti e delle libertà del singolo individuo. Nulla a che vedere con una battaglia per la libertà che possa arrestare una deriva autoritaria. Almeno fino ad ora.

@roccotodero

20
Ott
2016

Roma: sul finto salario di produttività la giunta Raggi si gioca la faccia

La retribuzione dei 23mila dipendenti del Campidoglio si candida a essere la prima grande questione su cui misurare il sindaco Raggi.  E’ un problema aperto già da due anni, dovuto ai criteri seguiti dalle giunte che hanno governato Roma dal 2008 al 2014. Quindi è cattiva eredità del passato, su questo non si discute. Ma la sua soluzione tocca a chi governa Roma oggi, dunque in primis al sindaco e all’assessore al Bilancio, Mazzillo. E non è un problema tecnico, perché investe un aspetto centrale del riordino dell’intera macchina amministrativa capitolina.  Da come la giunta vorrà affrontarlo, si capirà quanto intende agire in profondità per voltare davvero pagina rispetto a ciò che va cambiato. La triade di valori da mettere al centro è: efficienza, merito e trasparenza.

Breve sintesi del problema. Ai 23 mila dipendenti capitolini per anni è stato corrisposto come salario di merito una percentuale elevatissima della retribuzione, fino a superarne il 40%, con criteri egualitari che nulla avevano a che fare con metriche di produttività dichiarate ex ante – a livello di dipartimento, di servizio e individuale – e misurate e premiate concretamente ex post, attraverso valutazioni oggettive di risultato. Molti altri capoluoghi italiani seguivano tale andazzo. E hanno negli anni posto rimedio. Roma ha continuato.  Finché nel 2014 è intervenuto l’Ispettorato generale di Finanza del MEF, intimando al Campidoglio un perentorio stop a tale prassi. Il Ministero dell’Economia ha di conseguenza quantificato in 340 milioni di euro, i salari di finto merito illegittimamente corrisposti e da recuperare. Non attraverso tagli diretti ex post ai salari degli stessi lavoratori, bensì tramite economie di gestione del Comune.

E’ ovvio che la ridefinizione di criteri di merito e produttività “veri”, da proporre a sindacati e lavoratori, sia il punto di partenza dell’intero disegno di riefficientamento e di equilibrio finanziario della macchina amministrativa capitolina nel suo complesso. E poiché la questione è stranota da anni, c’è stato tutto il tempo di pensarci e di apprestare uno schema di soluzione, da parte di chi si è candidato a guidare Roma dopo i lunghi mesi seguiti alle dimissioni dell’ex sindaco Marino.

A giudicare dalle cronache di questi ultimi tre giorni, si direbbe invece il contrario. Il sindaco Raggi ha avuto a palazzo Chigi un incontro con il sottosegretario De Vincenti nel quale ha avanzato la proposta che quei 340 milioni da recuperare per il “merito a pioggia” siano scalati dai 440 milioni di risparmi di spesa a cui Roma è tenuta dal piano triennale di riequilibrio strutturale del bilancio, come corrispettivo ex post dei decreti salva-Roma. La risposta del governo è stata improntata a un più che comprensibile gelo. Non spetta al governo ma alla giunta romana, ha detto De Vincenti, entrare nel merito di come recuperare i 340 milioni e di come ricondurre il salario di risultato alle finalità vere, e ai corretti limiti quantitativi che esso deve avere sul totale della retribuzione. Ma una cosa è pressoché certa. Se la giunta formalizza davvero la sua intenzione di scalare i 340 milioni dai 440 di risparmi dovuti ad altro titolo, il MEF boccerà la proposta.

Diciamolo con chiarezza. Non c’entra niente l’ipotesi di uno scontro politico, tra giunta pentastellata e governo Renzi. In ballo c’è invece una questione di elementare equità, nei confronti di tutte le altre città italiane. Che non hanno goduto dei salva-Roma, e di 18 miliardi di debito segregati dal bilancio ordinario e affidati in gestione commissariale, e che anzi hanno risolto negli anni alle nostre spalle le anomalie del “finto” premio alla produttività.

Certo 340 milioni non sono pochi, in un bilancio che continua ad avere una tendenza strutturale al miliardo di squilibrio sui poco più di 5 complessivi. Ma il limite asfissiante da superare per l’equilibrio dei conti è proprio l’inaccettabilmente bassa propensione della troppo trascurata macchina amministrativa comunale a generare entrate ordinarie proprie, a prescindere dai trasferimenti statali e dalle imposte, che sono già ai livelli massimi nazionali. Per ottenere tale risultato l’intervento da fare su dirigenti e dipendenti è proprio quello di una corretta soluzione alla retribuzione di merito.

Piuttosto, non vorremmo che l’elemento frenante fosse un altro, rispetto all’indecisione su come effettuare risparmi. E cioè il facile consenso dei dipendenti e dei sindacati. E’ ovvio che ai sindacati piaccia l’ipotesi avanzata dalla Raggi a palazzo Chigi. Ma è altrettanto ovvio che la giunta capitolina dovrebbe invece far leva su una energica svolta capace di individuare e premiare davvero coloro che, in Campidoglio e nei Municipi come nelle società controllate, in tutti questi anni non si sono assuefatti a prassi collusive che dall’assenteismo sfociavano in vere e proprie violazioni a catena del codice penale e degli appalti.

Grillo disse nel novembre 2015 che i romani erano avvisati: in caso di vittoria dei 5 stelle “i precisi e i perfetti non hanno nulla da temere”, ma quanto agli altri non sarebbero mancate misure tali da sfociare in polemiche e proteste. Nella campagna elettorale, la Raggi ha sempre ripetuto che i risparmi non si dovevano fare sui dipendenti. Ma delle due l’una. O le misure di razionalizzazione profonda arrivano, e arrivano ora, per realizzare i 340 milioni da recuperare i finti salari di merito. Oppure non penalizzare i dipendenti – è giusto, non erano loro ma la politica a decidere come erano pagati – diventa lo scudo per mantenere le cose come stanno. La seconda scelta è un errore profondo, quanto di più vecchio e collusivo la politica dei partiti che hanno sgovernato Roma già per troppi anni ha disastrosamente praticato.

Molti altri sono gli elementi che si stanno appesantendo, nei conti di Roma. A cominciare dai deficit delle maggiori partecipate, e da quello ATAC che potrebbe superare nel 2016 i 100 milioni, rispetto ai meno di 50 previsti.  E non si comprende come, a fronte di questo, la giunta escluda – apertamente o tramite mezzucci, vedi la recente delibera sull’eventualità che al subentrare eventuale di soggetti privati nei contratti di servizio messi a gara, rispetto alle attuali municipalizzate, spetti ai subentranti assumersi i debiti del concessionario precedente – che almeno in parte soggetti privati possano concorrere al risanamento e all’efficientamento finanziario e gestionale dei servizi pubblici.

Ma il nuovo salario di produttività e il recupero delle somme indebitamente spese vengono prima di tutto. Ciò che ha spinto i romani a votare per una svolta è, appunto, l’aspettativa di una svolta vera. Non di un giochino di terz’ordine sui conti.

 

 

19
Ott
2016

Una Rendita al Servizio dell’APE. Tanto Rumore per Nulla?—di Marco Abatecola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Marco Abatecola.

A cosa serve davvero il TFR dei lavoratori italiani? La risposta non è così scontata visto che da reddito differito e quindi da forma di risparmio sostanzialmente forzato, negli ultimi anni l’istituto è stato più volte usato per immaginare di poter finanziare qualunque cosa. Lo scontro fra chi preferiva una destinazione dell’accantonamento al reddito disponibile, e quindi ai consumi, e chi preferiva invece conservarne la natura di risparmio sembrava essersi definitivamente chiusa con l’approvazione del d.lgs. n. 252/05 quando il TFR veniva di fatto destinato ad alimentare la posizione di previdenza complementare dei lavoratori, assumendo così una finalità ben precisa e delineata già nei principi di delega.

Come spesso accade però il nostro Paese vive di tentennamenti continui, direi cronici, e così già quella normativa usciva fortemente condizionata da numerose possibilità di anticipazioni e riscatti della posizione che rendevano tutto sommato l’accantonamento disponibile per le esigenze e casistiche più diverse e lontane dalla finalità previdenziale. Senza contare che proprio in quel periodo fu lanciato il provvedimento che destinava l’inoptato (inteso come TFR non destinato a previdenza complementare) dei lavoratori di aziende con almeno 50 dipendenti al fondo di tesoreria INPS. Un’operazione solo apparentemente secondaria grazie alla quale un flusso di circa sei miliardi l’anno di TFR non destinato ai fondi pensione viene sottratto comunque dalla disponibilità delle aziende per essere utilizzato in maniera discutibile – stigmatizzata dalla stessa Corte dei Conti – per coprire la spesa corrente dello Stato.

Più di recente, nel tentativo di far ripartire una domanda interna asfittica, anche l’attuale Governo aveva tentato di rilanciare nuovamente sulla destinazione del TFR in busta paga, seppur con scarso successo e senza sortire per il momento particolari effetti apprezzabili dal punto di vista economico.

Visti i precedenti, in una fase in cui per diversi motivi si cerca di allentare i requisiti pensionistici della Fornero pur dovendo mantenerne inalterati i saldi, non possiamo quindi stupirci più di tanto se torna alla ribalta l’idea che quell’istituto tipicamente italiano possa ancora venirci incontro.

Per la verità senza più metterne in discussione la destinazione alla previdenza complementare ma pensando direttamente ad un intervento del Fondo Pensione per finanziare, almeno in parte, l’anticipo pensionistico reso possibile dal progetto APE. Così, con la “rendita integrativa temporanea anticipata (RITA)”, si conferirebbe la possibilità all’aderente alla previdenza complementare di godere anticipatamente di quanto accantonato nei Fondi Pensione – per un periodo di tempo predefinito – con l’obiettivo dichiarato di contribuire al sostegno dell’onere ventennale legato all’anticipo pensionistico ottenuto nel regime obbligatorio con l’accesso all’APE.

Importante è comunque precisare che tale possibilità, da quel che emerge dall’accordo siglato giorni fa tra Governo e Sindacati, non appare necessariamente legata all’accesso all’APE ma può essere anche fruita indipendentemente, di fatto creando un’ulteriore possibilità di uscita dal sistema di previdenza complementare rispetto a quelli già previsti in via ordinaria.

L’intento sembra in sostanza quello di sganciare il legame diretto tra previdenza complementare e previdenza obbligatoria visto che per legge il diritto alla prestazione pensionistica integrativa si matura al conseguimento dei requisiti stabiliti nel regime obbligatorio di appartenenza e con almeno cinque anni di iscrizione alle forme pensionistiche complementari.

A dire il vero non sempre questo legame è così rigoroso e – al di là di anticipazioni e riscatti – è comunque già possibile anticipare la prestazione integrativa rispetto al requisito pensionistico. In particolare, in caso di cessazione dell’attività lavorativa che comporti l’inoccupazione per un periodo di tempo superiore a 48 mesi, i fondi pensione prevedono, su richiesta dell’aderente, la possibilità di richiedere la rendita con un anticipo massimo di cinque anni rispetto ai requisiti per l’accesso alle prestazioni nel regime obbligatorio di appartenenza.

Inoltre nel disegno di legge sul mercato e la concorrenza – curiosamente ancora in fase di approvazione dopo quasi due anni di percorso parlamentare – si prevede che l’anticipo dell’erogazione delle prestazioni possa avvenire anche in caso di inoccupazione superiore a 24 mesi, dimezzando gli attuali paletti, e con la possibilità che i fondi pensione prevedano nei propri regolamenti un raddoppio del termine per l’anticipo, portandolo fino ad un massimo di 10 anni dal raggiungimento dell’età pensionabile.

La misura non è quindi del tutto nuova ed è forse sopravvalutata nella sua reale capacità di incidere. Soprattutto se consideriamo che al momento iscritti ai fondi pensione sono solo 7,5 milioni di lavoratori su 25 milioni di attivi, con una età media di circa 46 anni ed un tasso di adesione sotto al 10% nella fascia di età potenzialmente interessata dall’APE. Pertanto non saranno presumibilmente in molti quelli che potranno eventualmente far ricorso al capitale accumulato nel secondo pilastro al fine di rendere maggiormente sostenibile l’anticipo pensionistico.

Una qualche riflessione andrebbe fatta anche sul fatto che un anticipo della rendita di previdenza complementare – nonostante la tassazione agevolata al 15% prevista dall’accordo e la durata certa della rendita – dovrà tenere in qualche considerazione il conseguente effetto sui coefficienti di conversione in rendita che saranno applicati dalla compagnia di assicurazione erogatrice della rendita ad un’età anagrafica più bassa, con una sensibile riduzione della futura pensione privata che si andrà a percepire.

Rispetto all’ottimismo che sembra trapelare dal Ministero e dagli ambienti sindacali, l’ostacolo più grande riguarda però un mercato della rendita che in Italia – anticipo della stessa o meno – è ancora pressoché inesistente, complici i frequenti anticipi della posizione che i lavoratori iscritti utilizzano per le numerose causali previste dalla normativa.

Tali anticipi svuotano, o comunque indeboliscono fortemente, la posizione individuale già in fase di accumulo non permettendo un massiccio accesso alla rendita delle coorti attuali (va infatti ricordato che per legge nei casi in cui il 70% del capitale accumulato, convertito in rendita, risultasse inferiore al 50% dell’assegno sociale, il fondo potrà erogare la posizione interamente in un’unica soluzione).

Data questa situazione, nel periodo 1998-2015, la propensione alla rendita è stata di circa il 4,5%, un dato significativo e che include anche i Fondi Pensione Preesistenti che per storia e caratteristiche hanno ovviamente un numero maggiore di prestazioni periodiche erogate.

Nell’ultimo biennio il valore delle erogazioni per prestazioni pensionistiche è stato nei soli fondi negoziali di circa un miliardo di euro totali per circa 35.000 soggetti, di questi solo 7 milioni di euro riferiti a 128 persone che hanno richiesto l’erogazione in rendita. Una percentuale sia in termini numerici che economi assolutamente risibile, mentre il valore delle anticipazioni e dei riscatti fruiti in corso d’opera è stato ben più importante e significativo, pari a 3,2 miliardi di euro per oltre 300.000 richieste.

Tra l’altro nel periodo considerato il capitale medio di tutti i contratti giunti a scadenza è oscillato fra i 20.000 e i 25.000 euro e, nello specifico, si registra un valore medio dei contratti con opzioni in rendita esercitata che varia dai 36.000 ai 56.000 euro. Capitali quindi ancora non particolarmente cospicui che possono pertanto incidere in maniera del tutto marginale rispetto alle esigenze dei lavoratori che dovessero anticipare il pensionamento facendosi carico della restituzione ventennale, degli interessi bancari connessi e del costo della polizza obbligatoria associata all’erogazione dell’APE.

Ed è certamente vero che nel lungo periodo con l’estensione fisiologica dei periodi medi di iscrizione ai Fondi questa situazione potrebbe modificarsi ma è altrettanto vero che il meccanismo che si è messo in cantiere non nasce con un’ottica di lungo periodo ma è rivolto principalmente ad una fascia di lavoratori ben precisa e già oggi vicina alla pensione, con un’età anagrafica intorno ai 63 anni.

Al netto dei dettagli non ancora del tutto chiariti sull’operazione, emerge quindi da queste prime brevi considerazioni il rischio concreto che il provvedimento in via di emanazione, oltre ad essere contraddittorio rispetto agli obiettivi più volte dichiarati di voler favorire l’educazione previdenziale, si rilevi alla prova dei fatti anche scarsamente utile proprio alla luce di una previdenza complementare che stenta a decollare davvero – probabilmente anche a causa di comportamenti non sempre lineari adottati dal legislatore in merito – e di un mercato delle rendite estremamente ridotto sia per numeri che per valori.

16
Ott
2016

I tre difetti di fondo della manovra. Bene sulle imprese, molti coriandoli il resto

Il governo ha varato la legge di bilancio 2017-triennale con il metodo a cui ci ha abituati. Una manovra di 26,5 miliardi dovrebbe essere presentata innanzitutto con tre chiare tabelline, riepilogative delle modifiche in taglio o in aggiunta delle entrate, della spesa pubblica, e delle coperture dei saldi ottenuti dalla somma algebrica delle prime due. Invece no, niente tabelle. Abbiamo solo le slides con cui il governo comunica le risorse attribuite ai capitoli che considera più significativi. La comunicazione politica con questo governo prevale su tutto. Ma il rigore dei numeri dovrebbe essere anteposto. Non solo questa regola dovrebbe valere sempre: vale ancor più per tre ragioni che sono la debolezza strutturale di questa manovra. La prima è che l’Ufficio Parlamentare del Bilancio –organismo terzo indipendente introdotto nel nostro ordinamento proprio per vagliare e certificare i numeri de governo – ha negato il suo timbro alle ipotesi macro sottostanti alla manovra, considerandole troppo ottimiste. E lo son o davvero, visto che il consensus internazionale è allineato alle stime UPB e non del governo.  La seconda, come vedremo, è l’aleatorietà del più delle coperture indicate dal governo alle nuove spese decise, in una manovra che oltretutto alza il deficit previsto di mezzo punto di PIL, dall’1,8% al 2,3%. La terza ragione la sanno tutti:  ogni numero di questa manovra è appeso in realtà all’esito del referendum del 4 dicembre, che avverrà a metà del cammino parlamentare della legge di bilancio e inevitabilmente la vedrà mutata sostanzialmente per effetto del terremoto politico conseguente a una vittoria del no.

Alla luce di queste tre ragioni, l’intero quadro previsionale di un deficit 2017 al 2,3% del PIL e dell’ inizio della discesa del debito (per l’ennesima volta slittato in avanti) resta appeso a una scommessa di ottimismo. L’ennesima, quando alle nostr spalle sappiamo bene che la storia dimostra che sempre le stime di crescita sono state sopravvalutate,  quelle del deficit e debito sottovalutate.

Il quadro delle coperture alle nuove spese illustrate ieri è ballerino. Bene infatti i 3,3 miliardi dovuti a risparmi mediante forniture gestite da aste telematiche CONSIP, e il miliardo e 600 milioni ottenuto riallocando spese previste sin qui in altri fondi (in primis quello di palazzo Chigi): questi 4,9miliardi sono ciò che resta della spending review, ma  a patto di capirsi. NON  vanno infatti a diminuzione della spesa bensì a copertura di spesa nuova. Altri 6 miliardi di entrate aggiuntive sono invece una pura azzardata scommessa: 2 miliardi dalla nuova voluntary disclosure (vedremo con quali incentivi aggiuntivi, magari sul penale, rispetto alla vecchia: ci sarà da discutere) e addirittura 4 miliardi dalla sbandierata abolizione di Equitalia. Nessuno ha finora capito, mancando un testo preciso, con che cosa l’attuale ente di riscossione coattiva verrà davvero sostituito una volta che si ingloba l’attuale struttura in AgEntrate (non cosa da ridere, i contratti dei dipendenti sono stanzialmente diversi), né in che misura il beneficio complessivo di minori interessi legali, di mora e di aggio a carico del contribuente sia davvero tale da far emergere 4 miliardi di nuovi entrate aggiuntive, indicate per di più al netto delle spese organizzative che bisognerà sostenere per cambiare la macchina di Equitalia. I propagandisti di Renzi fanno scrivere che il contribuente avrà un anno di tempo per pagare l’arretrato senza sanzioni: con certezza invece NON è così.  Chi ha letto bozze precedenti della norma sussurrava di rottamazione dei ruoli tributari – questa è la sostanza – attraverso riduzione degli interessi di mora, ma tenendo interessi legali e aggio e aggiungendo il 3% della somma accertata, che è cosa ben diversa dal dire “gratis”, In più si è aggiunta una recente sentenza della CTP di Treviso che giustamente e finalmente stabilisce che l’aggio di Equitalia NON va fatto pagare al contribuente, ma all’ente impositore per cui Equitalia opera. Vedremo di preciso che cosa dirà il testo. Ma una cosa è sicura:  nuove entrate per 4 miliardi da questa decisione sono aleatorie e ipotetiche, è un bluff a poker metterle dall’inizio a copertura di spesa certa.

Quanto alle priorità di spesa, è una legge di bilancio che strizza l’ovvio alle urne e costruita su due grandi pilastri. Renzi li ha definiti usando due categorie, “meriti e bisogni”, che rispolverano lo slogan usato da Claudio Martelli alla conferenza nazionale programmatica del Psi a Rimini, nella primavera del 1982. Il metodo resta assai più quello dei bonus e delle misure discrezionali a questi e a quelli, invece che misure generali e universali: un altro dei difetti essenziali delle 4 manovre finanziarie di questo governo.

Il pilastro essenziale del “merito” è quello degli incentivi alle imprese, ed è la parte più innovativa e convincente dell’intera manovra. Il pacchetto di misure per il sostegno all’innovazione Industria4.0 che si deve a Carlo Calenda e a cui vanno risorse di 1,4 miliardi nel 2017 e 13 miliardi nel triennio, con il superammortamento e l’iperammortamento agli investimenti tecnologici e a quelli nei settori della manifattura avanzata; la discesa dell’IRES dal 27,5% al 24% che da sola vale poco meno di 4 miliardi; l’IRI per artigiani e commercianti, che consentirà un aliquota del 24% invece di quella progressiva IRPEF per tassare il reddito della microimpresa personale; il rifinanziamento della legge Sabatini e l’aumento della decontribuzione al salario di produttività; l’abbattimento dell’IRPEF agricola; l’estensione dei bonus edilizi, dagli immobili privati anche agli alberghi; il regime fiscale agevolato al 25% per le partite IVA free lance; il rifinanziamento di 1 miliardo al Fondo di Garanzia per il credito alle piccole e medie imprese, e via proseguendo. Il fine è di registrare nel 2017 un salto in avanti per recuperare il più possibile di quell’oltre 25% di investimenti persi nazionalmente dal 2008 a oggi. E di rimettere al centro dell’agenda nazionale la produttività, che rispetto ai nostri competitors è stagnante da 20 anni. Doveva essere questa la priorità sin dall’inizio, rispetto ai bonus sin qui elargiti che hanno impegnato 2 punti di PIL di risorse pubbliche, con risultati di crescita e consumi inferiori alle attese.

Quanto ai bisogni, la parte maggioritaria degli stanziamenti è costituita dai 7 miliardi triennali di cui 2 per il 2017 per i prepensionamenti APE e per l’aumento della quattordicesima, e dai 2 miliardi aggiuntivi al Fondo Sanitario Nazionale. E’ apprezzabile che una parte delle risorse addizionali alla sanità sia volta ai malati oncologici e ai trattamenti molto cari per patologie gravi. Quanto ai prepensionamenti, la scelta del governo per i requisiti contributivi minimi – 35 anni versati per l’APE volontaria e 30 per i disoccupati e gli “usurati” – è considerata troppo elevata dal sindacato, e bisognerà vedere se e come verrà modificata soprattutto al Senato, dove la maggioranza ha margini più esigui. Ma diciamolo chiaro: già nella formulazione attuale lo Stato, cioè la fiscalità generale versata da tutti i contribuenti, dovrà sborsare una parte dell’anticipo dell’assegno a chi si prepensiona volontariamente, visto che la penalità massima del 4,5% annuo non copre integralmente i costi dell’anticipo bancario, e della controassicurazione che le banche dovranno stipulare. Ed è una scelta per me inaccettabile, destinare risorse al prepensionamento volontario di chi un lavoro ce l’ha, rispetto alla vera priorità che è quella dei giovani che non ce l’hanno e avranno pensioni che, nella migliore delle ipotesi, saranno molto più basse. Aggiungo che purtroppo l’aumento di mezzo miliardo del Fondo per la lotta alle povertà è invece rinviato al 2018: anche questa dovrebbe essere una priorità, rispetto ai prepensionamenti.

E’ più utile invece che, nel capitolo dei “bisogni”, si rafforzi con 600 milioni l’impegno a favore delle famiglie. L’esperienza di questi anni ha dimostrato che servirebbe una revisione generale e universale delle detrazioni d’imposta sui redditi, incrociata con i criteri ISEE. La strada è invece ancora una volta – ma meglio di niente – quella dei bonus: la conferma del bonus bebè e del bonus baby sitter, l’introduzione di un nuovo bonus “mamma domani” al settimo mese di gravidanza. Mentre è senza dubbio positiva la scelta di un voucher di mille euro per sostenere il costo dell’asilo nido. Come è per Renzi politicamente coraggioso, anche in primis rispetto al suo partito, il pacchetto di misure volto al sostegno delle scuole paritarie private, a cominciare da quelle particolarmente impegnate nel sostegno ai disabili.

Restano, tra le maggiori, due grandi poste. La prima, fondamentale, è quella delle “spese per circostanze eccezionali”, sottoposte alla valutazione della Commissione Ue: i 4,5 miliardi per la ricostruzione post terremoto, e i 3 miliardi per le spese dovute all’immigrazione. La seconda è quella destinata ai dipendenti statali. Del miliardo e 900 milioni al settore, se si escludono le somme per il comparto delle forze dell’ordine e militari e per le nuove assunzioni, per il rinnovo generale dei contratti dei lavoratori pubblici ne resta poco più della metà. Anche su questo bisognerà misurare quanto il Senato darà ascolto alle richieste sindacali di alzare la posta.

 

12
Ott
2016

Uber: buone notizie dagli USA

Il 7 ottobre 2016, la Corte d’Appello della settima circoscrizione degli Stati Uniti d’America ha segnato un punto a favore della concorrenza nel settore del servizio di trasporti. L’impugnazione, da parte di alcune compagnie di taxi, dell’ordinanza che regola il servizio dei Transportation Network Providers (tra cui Uber) a Chicago è stata archiviata come anti competitiva.

In sostanza, nella sentenza si afferma che la proprietà della licenza di taxi non comporta il diritto di essere esentati dalla concorrenza. Più dei vani possibili commenti, vale la pena di riportare la traduzione di alcune delle parole del giudice Posner:

“Una licenza che consente di gestire una caffetteria non autorizza il proprietario della licenza a prevenire l’apertura di un negozio di tè. Quando la proprietà consiste in una licenza a operare in un mercato in un particolar modo, questa non comporta il diritto a esseri esentati dalla concorrenza in quel mercato. Un brevetto conferisce un diritto esclusivo di produrre e vendere il prodotto in questione, ma non il diritto di impedire a un competitore di inventare un lecito prodotto sostituto che eroda i profitti del titolare del brevetto. In verità, quando compaiono tecnologie nuove, o nuovi metodi di impresa, un risultato frequente è il declino, se non la scomparsa, di quelli vecchi…

…Le compagnie di taxi sostengono che la città [di Chicago] li ha discriminati non avendo obbligato Uber e le altre compagnie a rispettare le stesse regole che devono rispettare i tassisti su licenze e tariffe. Si tratta di un argomento anticoncorrenziale. La premessa su cui poggia consiste nel credere che ogni nuovo entrante in un mercato debba essere obbligato a rispettare tutte le regole applicabili agli incumbent del mercato con cui il nuovo entrante dovrà competere”.

Ragionamenti che potrebbero apparire persino banali, per quanto scontati, ma che i legislatori italiani farebbero bene a leggere e rileggere, prima di legiferare sul trasporto non di linea. Se mai il disegno di legge sulla concorrenza venisse approvato, entro un anno dall’entrata vigore, “il governo è delegato ad adottare, su proposta del ministero delle Infrastrutture e Trasporti e del ministero dello Sviluppo economico, previo parere della Conferenza Unificata, un decreto legislativo per la revisione della disciplina in materia di autoservizi pubblici non di linea”. Speriamo che lo faccia seguendo lo stesso buon senso del giudice Posner.

@paolobelardinel

11
Ott
2016

Meglio tardi che mai: le idee di Biagi di nuovo in Parlamento

Secondo il commando di terroristi delle Nuove Brigate Rosse che lo assassinò barbaramente quattordici anni fa, Marco Biagi era colpevole essenzialmente di una sua intuizione: quella per cui, nella società post-industriale, il confine tra lavoro ‘salariato’ e lavoro ‘autonomo’ fosse ormai un retaggio del passato, una gabbia di formalismi giuridici, in cui a rimetterci per la rigidità del sistema erano proprio gli stessi lavoratori, per non parlare di chi un lavoro nemmeno ce l’ha.

Sembra un concetto ovvio oggi, almeno per molti e almeno a parole. Ma questo concetto, e il proposito di riformare l’intero mercato del lavoro secondo poche norme riferite a diritti universali e inderogabili, rinviando la gran parte delle ulteriori specifiche e tutele alla contrattazione collettiva e individuale, Biagi si propose di tradurli in pratica già allora. Finirono invece annacquati in una legge del 2003, che porta sì il suo cognome ma che non ebbe il coraggio necessario a portarne fino in fondo le idee.

Messe in prospettiva, quelle idee assumono ancora più valore, se si pensa che la “Agenda 2010” – messa in piedi da Gerhard Schroeder per rivoluzionare l’intero sistema di welfare tedesco – venne implementata soltanto un anno più tardi, con i risultati che vediamo ancora oggi: crollo della disoccupazione, tassi di crescita e produttività tra i più alti in Europa, differenza tra disoccupazione giovanile e media che oscilla attorno ai 3-4 punti, contro i 30 dell’Italia.

Chissà come staremmo, oggi, se Biagi avesse potuto portare a compimento il suo progetto di semplificazione, che ha già quattordici anni e più ma resta attuale come non mai. Ed è per questo altrettanto attuale e importante un disegno di legge presentato nei giorni scorsi dai senatori Sacconi, Fucksia, e Berger, che mira ad adottare finalmente – seppur con colpevole ritardo – quel testo unico, quello “Statuto dei lavori”, che Biagi immaginò per superare il dualismo tra fabbrica e professioni, tra autonomia e gerarchia. Per liberare il lavoro dall’approccio ideologico e formalistico che ancora caratterizza il nostro sistema normativo, adattandosi a un mondo in cui le trasformazioni tecnologiche e organizzative, la globalizzazione e i corpi intermedi impongono un passo indietro della politica nel tentativo di cristallizzare e definire rapporti di lavoro in costante mutazione. Un approccio, quest’ultimo, ahinoi non scalfito minimamente dal Jobs Act renziano, il quale – sia pure apportando diverse migliorie al sistema – ha però ulteriormente irrigidito la distinzione tra lavoro autonomo e subordinato.

L’idea alla base del disegno di legge è identificare un nucleo fondamentale di diritti, applicabile a tutti i rapporti di lavoro – pubblici, privati, autonomi, subordinati, associativi, o atipici che siano – che escluda, del tutto e finalmente, il famigerato articolo 18. Fuori da questo nucleo, in cui rientrano anche norme su salute e sicurezza dei lavratori, tutto è negoziabile e delegato alla contrattazione aziendale o individuale, dall’apprendistato alla risoluzione delle controversie.

Paradossalmente, la parte migliore della proposta di legge presentata al Senato è però forse quello che non c’è; e cioè la presunzione della politica di conoscere il lavoro e le imprese di oggi e di domani. Nessuno può prevedere il futuro e il lavoro, purtroppo o per fortuna, non può essere creato per decreto. Per questo hanno ragione da vendere i relatori della proposta, nell’ispirarsi alla diffidenza verso il formalismo giuridico e alla fiducia nell’apprendimento continuo che Marco Biagi intuì essere l’unico motore del lavoro che è e che sarà.

Twitter: @glmannheimer

10
Ott
2016

Ha torto chi teme che Industria4.0 sia nemica del lavoro grazie ai robot

Ci sono coincidenze che a volte si manifestano come cortocircuiti gravidi di significato. Così giovedì scorso, nella stessa giornata, due eventi a Napoli hanno segnato tangibilmente le macro contraddizioni del nostro tempo. Da una parte l’occasione concreta dello sviluppo e di un futuro migliore. Dall’altra un nuovo morso della crisi. Nelle stesse ore, per i primi 200 giovani selezionati ecco la cerimonia ufficiale dell’avvio della Apple Academy, che in pochi mesi da promessa di Tim Cook è diventata già realtà a san Giovanni a Teduccio. Mentre per 845 dipendenti di Almaviva a Napoli arrivava la comunicazione dell’avvio delle procedure per la riduzione del personale.  A marzo la società aveva già avviato un’analoga procedura per 3mila dipendenti di cui 400 a Napoli, terminata poi senza licenziamenti e con il ricorso agli ammortizzatori sociali. Ma la maggiore società italiana di call center – circa 80mila mila occupati tra addetti ai telefoni e marketing collegato – non può più reggere ai costi inferiori di altri paesi, né alle gare al ribasso praticate da aziende pubbliche e private. Quindi ora è costretta alla messa in mobilità per altre 2.500 persone, il che significherebbe tra l’altro la chiusura completa a Napoli.

L’ansia a Napoli di centinaia di nuovi disoccupati e la speranza di centinaia di giovani informatici che scommettono, dopo una dura selezione, di accrescere verticalmente grazie a Apple le proprie conoscenze di sviluppatori per mettersi sul mercato, sono a ben vedere due facce della stessa medaglia. Non solo è così per coincidenza temporale. Bisogna convincersene: per quanto a molti e anzi ai più possa apparire ingiusto e paradossale, sempre più fenomeni contrapposti analoghi a questi andranno di pari passo.

Proprio in queste settimane l’talia sta dandosi lo scopo di recuperare il tempo perduto rispetto ad altri paesi, avviando un grande progetto di Industria 4.0: attraverso una strategia multilivello che il ministro Calenda ha il merito di aver incardinato tra le priorità del governo. Industria 4.0 è l’ultima chiamata per evitare la progressiva perdita di valore aggiunto della manifattura italiana, scesa dal 20% al 16% rispetto al PIL in pochi anni. Si tratta di diffondere le tecnologie digitali e la sensoristica a tutti i livelli della produzione, abbattendo una volta per tutte ciò che resta della produzione seriale fordista. Da isole produttive gestite già attraverso robot controllati da operai specializzati, nel controllo che da analogico è diventato digitale già molti anni fa ormai allo stabilimento Fiat di Melfi, bisogna passare al collegamento digitale dell’intera filiera produttiva, dal design industriale alla realizzazione e assemblaggio finale. Consentendo così di seguire l’evoluzione di ogni nuova richiesta del mercato e del cliente, assecondandola tanto da prevenirla, in modo tale che  la tecnologia e la robotica diventino non difesa al meglio delle quote di mercato, ma strumenti di scoperta di nuove nicchie di consumatori e forme di domanda aggiuntiva.

E’ una rivoluzione che riapre però il problema storico con il quale sempre si sono dovute misurare le nuove tecnologie applicate alla produzione: quanto lavoro in questo modo si sostituisce e si distrugge, e quanto di nuovo e diverso se ne crea? Fin dalla fine del Settecento, nella Gran Bretagna che vedeva i primi opifici concentrare macchine più produttive che sradicavano il lavoro sui telai nelle case, a ogni rivoluzione tecnologica il luddismo ha tentato di contrastare l’avvento della sostituzione impersonale del lavoro, attraverso la quale capitale e lavoro si separavano per dar vita nella loro distinta cooperazione al capitalismo.

Con le nanotecnologie e la rivoluzione del cosiddetto “internet delle cose”, cioè la possibilità di far diventare sempre più in tempo reale un prodotto trasformato in un’esperienza, in una scelta in cui domanda e offerta si confrontano attraverso evoluzione e scambi in cui l’immateriale prevale sugli stessi input materiali di produzione, si ripropone lo stesso problema. Domanda:  i giovani informatici che scommettono imprenditorialmente su se stessi alla Apple Academy sono il corrispettivo sostitutivo e migliorativo di coloro che perdono il lavoro ad Almaviva, messi nell’angolo non solo dai costi più bassa dell’Albania, ma in prospettiva dalla inevitabile sostituzione ai call center del personale umano attraverso  risponditori informatici multivariati? O al contrario sono il segno che la nuova frontiera digitale porterà nuovi verticali divari di reddito, tra i pochi muniti delle necessarie conoscenze per padroneggiarla, e i più che ne resteranno invece vittime, spinti a gradini sempre più bassi in un’economia di sevizi despecializzati a basse skills?

Nella storia, ha sempre avuto torto finora chi ha profetato che le tre precedenti rivoluzioni industriali avrebbero portato all’esplosione sociale. Malthus vi vedeva un limite fisico: il passaggio alla produttività industriale non sarebbe mai stato in grado si sfamare torme crescenti di neopoveri. Non è stato così, come hanno scoperto negli ultimi vent’anni India e Cina, e come nell’Ottocento scoprì l’Europa. C’è stato chi a quel punto ha predetto che il limite vero non era fisico ma finanziario, perché il tasso di rendimento del capitale oltre una certa soglia sarebbe inevitabilmente caduto, divorando il capitalismo. Ma anche Marx ha fallito la predizione: checché ne pensi Piketty il tasso di accrescimento del reddito procapite e dei consumi ha puntualmente remunerato in maniera crescente il capitale investito, spingendo a nuove innovazioni. Oggi, c’è chi come Larry Summers pensa che siamo in una stagnazione secolare, e allo stesso modo è convinto che la produttività non stia tenendo il passo con l’oceanica liquidità da remunerare: e tuttavia scambia la crisi del Vecchio Mondo con quella del pianeta.

E ora, dal limite alla crescita fisico malthusiano a quello finanziario di Marx, è venuto il momento del limite immateriale di Internet? Il campo degli studi economici è puntualmente diviso, come a ogni rivoluzione industriale e della conoscenza. Se per esempio leggete Rise of the Robots dell’imprenditore di Silicon Valley Martin Ford, troverete opinioni non troppo diverse dall’ultimo filmato realizzato prima di morire da Gianroberto Casaleggio e  appena diffuso qualche giorno fa, in cui si preconizza un fosco scenario in cui l’intelligenza artificiale prevarrà sugli umani, dividendoli sempre più tra pochi happy few e moltitudini di precari a bassissimi salari. Tyler Cowen e Alex Tabarrok la settimana scorsa si sono confrontati in un interessante dibattito proprio su questo interrogativo, e personalmente mi riconosco molto nelle osservazioni in proposito avanzate da Scott Sumner:  checché pensino molti economisti, essi non sono in grado di dirci oggi con certezza che cosa davvero avverrà con la nuova ondata di applicazioni digitali alla produzione e ai consumi di massa, ma quel che sappiamo è che le rivoluzioni tecnologiche alle nostre spalle hanno sì accresciuto il divario dei redditi inizialmente, per alzare poi il reddito medio, aumentando e non diminuendo il numero degli occupati nel lungo periodo, al quale guardare al netto delle grandi crisi.

In realtà, la storia ci ha insegnato qualcosa di prezioso, se sappiamo interpretarla. I giovani selezionati a Napoli dalla Apple l’hanno giù capito, e hanno vinto la selezione per quello. Serve una maniera completamente diversa di formare i giovani, identificando bene le capacità adeguate alla nuova frontiera. La Germania vede quasi i due terzi degli studenti nelle ciclo secondario superiore frequentare istituti professionalizzanti, e oltre il 40% degli universitari conseguire titoli in Atenei che abilitano a professioni le cui caratteristiche sono disegnate insieme alle aziende. Il Fraunhofer Institute, una delle principali culle della ricerca industriale tedesca con oltre 120 sedi in Germania in ogni distretto produttivo, è al 70% finanziato dalle imprese al 30% da Laender e Stato. E sono le imprese a dettarne i programmi di ricerca, i cui frutti sono da trasferire poi nelle aziende.

Dobbiamo rivoluzionare la nostra scuola e università. Dobbiamo spezzare la catena che ci porta ad avere oggi il 29,8% dei giovani italiani fuori sia dalla scuola sia dal mercato del lavoro: in ambito Ocse la media è del 14,6% e solo la Turchia fa (poco) peggio di noi, mentre in Germania sono l’8,8%. Dobbiamo accettare l’idea che il lavoro non sia altro che continua ri-formazione delle proprie competenze (vedi qui e molti altri documenti  qui).  Dobbiamo cambiare radicalmente l’idea di come si definiscono i contratti tra dipendenti-sindacati e aziende (vedi qui), sfidando queste ultime a investire perché altrimenti scompaiono inevitabilmente.

Il futuro non è mai apparso come un rettilineo verso la felicità: né a chi perdeva il telaio a casa nel Settecento, né a chi lavorava nelle miniere di carbone, né agli operai in catena di montaggio. Milioni e milioni di persone hanno cambiato paese e continente alla ricerca di migliori occasioni, hanno accettato di ridefinire la propria cultura e il proprio habitat. Questa è la storia del lavoro e del suo progresso, anche in Italia. Il futuro che i giovani accademisti di Apple hanno già scelto avrà anch’esso il suo prezzo. Ma a maggior ragione per il Sud, che è stato tradito anche da Industria3.0, la sfida del capitale umano  è la vera via prioritaria al futuro da imboccare.