14
Nov
2016

Uno sugar daddy per la tassa sulle bibite: l’amaro risveglio del voto americano

Negli Stati Uniti e all’estero, il destino della corsa alla Casa Bianca ha comprensibilmente monopolizzato i commenti successivi alla recente tornata elettorale americana. Tuttavia, i sudditi dello zio Sam – o dello zio Don – erano chiamati a eleggere anche rappresentanti al Congresso, governatori, legislatori statali e sindaci, nonché a pronunciarsi, a livello locale, su una serie di quesiti con immediati riflessi di policy, su temi variegati come la legalizzazione della marijuana per uso medico, la regolamentazione delle armi da fuoco, i prezzi dei farmaci o la disponibilità dei sacchetti di plastica. Anche da queste consultazioni provengono indicazioni poco confortanti.

In particolare, tre città californiane – San Francisco, Oakland e Albany – e Boulder, in Colorado, hanno approvato l’introduzione di accise sulle bevande zuccherate, che si aggiungono a quelle già applicate a Berkeley, di nuovo in California, e a Philadelphia, in Pennsylvania. Anche Cook County – la contea che ospita Chicago, nell’Illinois – potrebbe intraprendere la stessa strada questa settimana. L’inasprimento del prelievo sulle bibite non è un’idea nuova – nel 2012, un’analoga iniziativa era stata adombrata anche in Italia, per mano dell’allora ministro Renato Balduzzi – ma gli esperimenti pratici erano rimasti finora piuttosto sparuti: è possibile che le recenti vittorie elettorali producano una diffusione su vasta scala della soda tax?

Il rischio è tangibile: specie se consideriamo che all’accresciuta attenzione al tema corrisponde una sempre maggiore propensione alla spesa da parte delle fazioni in campo. Il New York Times ha sottolineato come a San Francisco e Oakland si siano spesi per i quesiti sulla soda tax circa 50 milioni di dollari: più di quanto abbiano raccolto complessivamente – nella stessa area – le campagne senatoriali, quelle sull’uso medico della marijuana e quelle sulla regolamentazione delle armi da fuoco. E se è del tutto naturale che le aziende colpite contribuiscano pesantemente per contrastare queste proposte, la novità è che i sostenitori della misura sono quasi riusciti a eguagliare il loro livello d’investimento.

Anche gli alfieri della lotta alle bibite zuccherate hanno trovato – per così dire – uno sugar daddy: e il dato assume una più intensa valenza politica dal momento che si tratta dell’ex sindaco di New York Michael Bloomberg. Già nel corso del proprio mandato di primo cittadino, il magnate dell’editoria si era segnalato per un approccio piuttosto radicale alla materia, in particolare con il divieto di servire porzioni di bevanda superiori alle 16 once – decisione in seguito cassata dai giudici e tanto demagogica quanto velleitaria, nella terra del refill.

Se interamente traslato sul consumatore, il tributo aumenterebbe di 67 centesimi il costo di una bottiglia da due litri: con un plausibile effetto sui consumi, ma con un impatto molto più fumoso sui fattori di rischio connessi all’obesità. La specie (le imposte sulle bibite zuccherate) sconta i limiti caratteristici del genere (le imposte sugli alimenti in funzione di politica sanitaria): si tratta di strumenti che mirano a incidere su fenomeni multicausali attraverso la criminalizzazione di singole componenti, senza tenere conto degli effetti di sostituzione e dell’importanza di uno stile di vita globalmente equilibrato; e così facendo, per giunta, finiscono per colpire sproporzionatamente le fasce più deboli della popolazione, con un effetto regressivo che – a propria volta – influenza negatimente l’aspettativa di salute.

L’ascesa della soda tax negli Stati Uniti è una circostanza da non sottovalutare in un mondo caratterizzato da una sempre più accesa convergenza delle ricette regolamentari – specie di quelle che soddisfano l’action bias degli amministratori pubblici senza controindicazioni apparenti. La forza di gravitazione dello spauracchio Trump induce a guardare altrove: ma occorre ricordare che i politici – anche i peggiori – passano; mentre le politiche tendono a essere terribilmente più persistenti.

 

9
Nov
2016

Trump sbaracca i guru presuntuosi, e vecchie leadership da seppellire

Stupendo il mondo, Donald Trump si è assicurato la vittoria in ben 6 degli swing States – Florida, Iowa, Nevada, North Carolina, Ohio e Pennsylvania –totalizzando 279 voti elettorali e diventando il 45esimo presidente egli Stati Uniti.  Ci sarà tempo, e altri migliori di me, per l’analisi approfondita del voto, ma intanto pochi punti essenziali per spiegare perché stanotte ho goduto come un riccio.

Guru, sondaggi e media sconfessati. Il più onesto è stato Paul Krugman:  “la gente come me – ha detto – davvero non ha capito il paese in cui viviamo. Negli Stati Uniti c’è una parte di popolazione che vive le sue dinamiche fuori dai radar dei sondaggisti, e non credo ci sia stato un dolo nel sottovalutarla, è stata ignorata senza colpe. Trump l’ha intercettata, capiremo come, ma lui è riuscito a dargli voce, perché non credo che sia nata con lui: credo che esistesse già, fosse già là, e finora, con un establishment forte, era sempre ovattata, ma c’era. Non è che i Nate Silver sono diventati improvvisamente dei pessimi sondaggisti, è soltanto che i modelli delle coordinate di riferimento erano tarati su un altro livello”. Sui sondaggi, può essere. Ma sull’informazione, negli Usa e qui da noi, ha pesato per l’ennesima volta lo stesso errore insopportabile che si ripete troppe volte ormai per non essere colto e denunciato nella sua gravità: dal voto in Francia alla Le Pen a quello in Ungheria a Orban, da quello in Austria ai nazionalisti alla Brexit, fino agli USA oggi. Una parte crescente degli elettorati occidentali non si ritrova affatto nei vecchi establishment della destra e della sinistra del dopoguerra. E si esprime scegliendo candidati dichiaratamente estranei a quelle tradizioni, programmaticamente e deliberatamente estremi nel linguaggio e nello stile per intercettare e rappresentare una rabbia vulcanica, spesso anche fine a se stessa. I vecchi partiti moderati e quelli socialisti, riproponendo vecchie parole d’ordine e vecchi leader, vengono ridotti ai minimi termini, e vincono i maverick. Contro i quali nelle campagne elettorali avversari e media scatenano campagne di derisione, odio, pregiudizio. Accusandoli di ignoranza, sessismo, sciovinismo, populismo, razzismo. Molte volte le accuse sono o appaiono fondate, ma perché il linguaggio estremo è parte voluta e vincente della comunicazione dei Trump. Cosa del tutto diversa è credere, scrivere e ripetere che: 1- questi leader perderanno; 2-non rappresentano che pulsioni psicotiche e bipolarismi vergognosi della personalità, di quella loro privata e di quella pubblica di milioni di disturbati mentali tra gli elettori. Stanotte ho goduto come un riccio guardando le dirette tv, perché c’erano dei colleghi così increduli del fatto che la Clinton non vincesse in due ore, che inventavano criteri di lettura dei dati sempre più assurdi, e via via sempre più lontani dal capire davvero e con rispetto che cosa scelgono gli elettori e perché. Non solo i giornali e l’informazione si mostrano così irrilevanti, soprattutto sono percepiti come parte integrante dell’establishment contro il quale gli elettori urlano la loro protesta. Rassegnatevi, cari colleghi guru progressisti dalla facile vena scomunicatoria: quegli elettori che a vostro giudizio sono sporchi, brutti, maleducati e cattivi votano, e non votano come volete voi.

Doppio suicidio in USA – Se Trump ha conquistato il 61% del voto maschile bianco e il 52% di quello femminile (altro che effetto traino del presidente-donna…), se Hillary si è fermata al 54% dei maschi non-bianchi rispetto al 61% di Obama, se Trump ha ottenuto l’88% dell’elettorato potenziale repubblicano e il 78% di quello evangelico (dati del Washington Post), su ciascuno di questi dati sconfessando totalmente le previsioni dei sondaggi, è perché molte parti dell’elettorato americano – non solo i bluecollar a basso reddito della rust belt – ha detto no all’establishment repubblicano, che da quasi 10 anni non capisce le botte elettorali che prende dal Tea Party, e che ancora una volta credeva di addomesticare il voto presidenziale attraverso uno dei 16 candidati che ha pazzescamente messo in campo nelle primarie. Basta Bush family e neocon, insomma. Esattamente come dall’altra parte vaste fette dell’elettorato democratico ha detto basta al Clinton clan: il sostegno a Sanders manifestava concretamente questa scelta, ribadita ieri nel voto. Hillary è l’impersonificazione del potere e della spregiudicatezza per ottenerlo: dall’appoggio di tutte le big corporations a quello di molti statisti esteri, dalla vicenda delle mail sparite dal server del Dipartimento di Stato alle trascrizioni dell’incontro riservato con Goldman Sachs, scegliendola come front runner il partito democratico ha sposato quanto di più vecchio e compromesso si potesse immaginare. E’ un bene che il no agli establishment sia stato forte e chiaro: la crisi dei vecchi partiti, negli Usa come in Europa, nasce da leadership che nel post 2008 non sanno leggere i tratti nuovi della protesta del ceto medio. Prima spariscono quelle leadership, prima si crea una nuova offerta politica diversa da quella dei maverick. Che altrimenti vincono, se i vecchi partiti non cambiano radicalmente. E se i vecchi partiti non capisconola copa è loro ed è peggio per loro, scompariranno o si frazioneranno. Esattamente come è capitato da noi a Forza Italia, e come rischia con le sue fratture il Pd trans-identitario.

Pensarla come Trump? Io no grazie, resto un liberal-liberista di tendenza austriaca. Ma questo non m’impedisce di pensare che il tanto in Europa ed Italia sperticamente elogiato Obama è stato drasticamente rigettato nel voto dagli americani, e non per la sua tentennante e disastrosa politica estera, quanto per Obamacare che ha esteso di 5-6 punti di Pil l’intermediazione pubblica del reddito, senza però risolvere il problema del ceto medio.  Tale bocciatura è un bene, dal mio punto di vista. Non condivido di Trump l’attacco al libero commercio che rischia di generare altre ondate protezionistiche nel mondo, e voglio vedere come il suo programma di taglio alle tasse – cosa buona e giusta – sarà concretamente modellato, per evitare che esploda il deficit. Ma è ridicolo che il ritiro dall’impegno diretto su teatri mondiali di scontro operato da Obama passi per cosa sacrosanta, perché progressista marcia indietro rispetto ai neocon – che hanno votato però per Hillary, a questa tornata – mentre se è Trump a dire che gli europei devono ora pagarsi la propria difesa si paventano invece conseguenze da fine dei tempi. Non mi piace di Trump il suo sessismo implacabile e le berlusconate a raffica, che non risparmia. Ma i maverick costitutivamente sono così, in tutti i paesi in cui si sta producendo tale fenomeno. Il che non significa affatto che poi, vinte le elezioni e governando, si comportino allo stesso modo. Se Trump lo farà, si condannerà da solo. Troppe cose non sappiamo, di cosa farà in concreto: chi metterà alla FED? chi alla Corte Suprema? Ma se non lo sappiamo è perché nella campagna elettorale la Clinton ha preferito usare il dileggio, invece di incalzarlo. Vedremo come Trump si comporterà, ma questa è altra questione dal rigettare come follia il significato profondo della sua vittoria. Ricordate bene: anche Renzi al governo fa l’opposto di quel che aveva detto anno dopo anno alle Leopolde. Non è che se sei di sinistra va concesso il beneficio della benevolenza, e se sei di destra si applica invece il pregiudizio. Almeno: non io.

8
Nov
2016

Uno Stato pazzo: persino contro i tornado la PA è divisa in lotte di potere

Immediate le polemiche politiche, sulla devastazione provocata dal tornado che domenica ha colpito il litorale romano, provocando due morti a Cesano e Ladispoli oltre a ingenti danni anche nella Capitale. Il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti ha messo nel mirino l’inadeguata manutenzione del territorio e del verde da parte del Campidoglio, e il vicesindaco Daniele Frongia gli ha risposto per le rime, respingendo la responsabilità di cattive prassi decennali in capo alla giunta che guida il Campidoglio solo da pochi mesi.

In effetti, questa volta è difficile dar torto al Campidoglio. Un conto sono i necessari investimenti da garantire per l’efficienza degli scarichi reflui stradali, caditoie e ricognizione degli alberi a rischio, perché travolti dal vento creano più danni a persone e cose di quanto costi la prevenzione. Altro conto è una riflessione più generale su come affrontiamo gli eventi eccezionali atmosferici nel nostro paese. E’ questo un terzo rischio, a fianco di quello sismico e di quello idrogeologico, da comprendere a pieno titolo nel quadro di quel necessario progetto pluriennale della messa in sicurezza nazionale che il governo chiama Casa-Italia, e che deve mobilitare diverse decine di miliardi in una grande alleanza pubblico-privata per tutti i maggiori interventi necessari. Perché altrimenti, come ieri ha autorevolmente confermato nella sua audizione parlamentare sulla legge di bilancio 12017 anche la Banca d’Italia, il patrimonio italiano da mettere in sicurezza è tanto ingente che lo Stato da solo non può farcela, nelle attuali condizioni di finanza pubblica molto indebitata. Il numero delle abitazioni residenziali presenti nella sola zona sismica 1, la più pericolosa, ammonta a circa il 5,6% del totale delle abitazioni italiane: si tratta di poco meno di 1,9 milioni di abitazioni, oltre la metà delle quali antecedenti ai primi criteri antisismici del 1971. E il 43% di quegli edifici sta in Campania, il 13% in Calabria..

Poniamoci allora tre domande. Quanto sono eccezionali in Italia, fenomeni come il tornado che ha colpito il litorale romano? Quanto pesano, nel loro determinarsi, le mutazioni climatiche in atto? E soprattutto: quanto e come spendiamo per i servizi di previsione meteo e per l’allerta da diffondere alle popolazioni in tempo utile?  Su questa terza domanda attenti: c’è un’amara sorpresa.

E’ ovvio che l’Italia non è la Tornado Alley degli Usa, il grande corridoio in cui l’aria caldo umida del Golfo del Messico si scontra coi fronti freddi settentrionali creando fino a oltre mille tornado annuo dal Texas risalendo al Nebraska, e colpendo con maggior violenza soprattutto l’Oklahoma. Tuttavia, l’Italia è il paese dell’Europa mediterranea a maggior rischio di fenomeni di questo tipo.  L8 Dicembre 1851 una enorme tromba d’aria causò cinquecento vittime nell’area di Marsala. Sessanta il 23 luglio 1910 in Brianza, ventitre il 24 luglio 1930 a Volpago del Montello, unico tornado della storia d’Italia classificato come F5 sulla Scala Fujita, cioè con venti stimati fino a 500km/h. Ancora vittime nel giugno 1957 nell’Oltrepò Pavese, nel 1965 tra Parma e Piacenza, nel 1968 presso Catania. Trentasei morti in Laguna Veneta nel settembre 1970, oltre 100 feriti di nuovo in Brianza nel luglio 2001, ancora a Mestre nel 2007, e case scoperchiate e molti danni sulla Riviera del Brenta nel luglio 2015. Oltre alla Pianura Padana, alla Laguna veneta e alla Sicilia, anche il litorale romano è un’area a rischio. Da Civitavecchia fino a Terracina, sono stati numerosi gli episodi devastanti nel passato: talvolta hanno raggiunto anche Roma, come nel 1961 con 4 vittime.

Ovviamente, l’andamento climatico è il primo fattore nel determinare le supercelle locali che generano venti a fortissima intensità da cui originano i tornado. Chi ne volesse approfondire le serie storiche e i trend evolutivi nel nostro paese, ogni anno ha a disposizione la relazione dell’ISPRA, L’Istituto Superiore per la Ricerca e Protezione dell’Ambiente, in cui si sintetizzano tutti gli andamenti della climatologia italiana nell’anno precedente. Nel 2015 in Italia il valore della temperatura media è stato il più elevato dell’intera serie dal 1961. L’anomalia media annuale è stata di +1.58°C e va attribuita a tutte e quattro le stagioni, con la punta più marcata in estate a +2.53°C. Dall’analisi della serie storica dell’ultimo mezzo secolo, all’inizio degli anni ’80 prende avvio il periodo con rateo di riscaldamento più elevato. Il 2015 è stato l’anno più caldo dell’ultimo mezzo secolo anche per il record della temperatura media annuale superficiale dei mari italiani: con un’anomalia media di +1.28°C. Negli ultimi 20 anni l’anomalia media è stata sempre positiva. L’aumento medio e massimo delle temperature accresce la probabilità di eventi atmosferici con venti eccezionali, quando fronti caldo-umidi si scontrano con strati più superficiali molto più freddi. Di conseguenza, ciò aiuta a spiegare i più numerosi eventi che hanno colpito l’Italia dal 2000 a oggi.

Ma veniamo al punto essenziale. Malgrado oltre mille eventi eccezionali di diversa intensità annua, nella Tornado Alley americana le vittime sono in decrescita dall’inizio degli anni Settanta. In ragione del fatto che i modellli previsivi son diventati più accurati, i tempi di allerta sono diventati compatibili con sistemi di immediata comunicazione ai cittadini per l’evacuazione, sul possibile percorso della tromba d’aria o d’acqua. Come siamo messi, in Italia?

E’ una storia paradossale, a raccontarla. Male, perché da molti anni è in corso una tenace guerra tra burocrazie. Dal 1910 addirittura il sistema meteo pubblico nazionale fa capo all’Aeronautica Militare. A metà anni Novanta il ministro Franco Bassanini dispose una riorganizzazione entro il 2000, accorpando il servizio, le sue maggiori stazioni di rilevamento nazionale e la sessantina circa diffuse sul territorio, entro la Protezione Civile.  Non avvenne. Nel febbraio 2014 il governo Monti riprese in mano la faccenda, sempre con l’obiettivo di ricondurre il servizio sotto la Presidenza del Consiglio. Ma niente ancora. Fino all’ultimo tentativo, che nel marzo di quest’anno ha visto ripreso l’iter della riforma da parte del governo Renzi.

Il motivo del contrasto è presto detto. Il nuovo Servizio Meteo Nazionale Distribuito confligge con il Centro Nazionale di Meteorologia e Climatologia Aeronautica, e con i servizi meteo che le singole Regioni dagli anni ’80 hanno incorporato su scala locale nelle proprie Agenzie ARPA. Altre competenze sono poi spalmate tra ENAC, ENAV, e il CREA per il settore agricolo.  L’Italia è attualmente l’unico paese europeo insieme alla Grecia a restare con un servizio meteo pubblico gestito dai militari. In tutti gli altri paesi europei esiste un unico servizio meteo nazionale e civile. Negli USA ne fanno parte integrante le più avanzate Università pubbliche e private, per i sempre più elaborati modelli computazionali necessari alla previsione fluidodinamica. E sono integrati con un sistema di allarmi e sicurezza espressa in gradi che attiva automaticamente televisioni e radio, segnaletica stradale e ormai da anni anche telefonia cellulare.

E’ questo irrisolto  conflitto istituzionale che porta l’Italia a spendere solo lo 0,005% del suo PIL per il servizio meteo pubblico, cioè meno di 100 milioni in cui bisogna anche contemplare la quota di poco meno di 40 milioni che versiamo alle organizzazioni internazionali meteo in cui ci rappresenta l’Aeronautica,. Sono numerosi gli alti ufficiali dell’Arma Azzurra saltati d’incarico negli ultimi anni, per aver sostenuto la svolta “civile”, contrastata dagli Stati maggiori. E fu pubblico anche il contrasto più recente, tra il ministro della Difesa Pinotti, favorevole ai militari, e l’allora sottosegretario alla presidenza Delrio, propugnatore della riforma civile.

Conclusione: il decreto in bozza giunto al Consiglio dei Ministri è stato per l’ennesima volta rinviato a data da destinarsi. Ed è anche per questo che non saltano fuori i 150-200 milioni per dotarsi di una rete potenziata di radar particolari necessari al monitoraggio delle coste e dei territori a rischio, in grado di identificare in tempo reale le supercelle e le traiettorie eventuali, in modo da consentire tempi di allarme adeguati per le popolazioni. Per avere un’idea basti pensare che Meteo France ha 4000 dipendenti, in Germania ce ne sono quasi 3000. In Italia non sono mille neanche sommando tutti i militari e i civili che lavorano nelle ARPA regionali.

Vedremo ora se il governo Renzi riprende in mano questa riforma. Avrebbe assolutamente senso ricomprenderla in Casa-Italia. Tornando anche a istituire cattedre di meteorologia nelle Università italiane, che mancano oggi dell’insegnamento dopo l’uscita dalla scena accademica di pionieri come il professor Stefano Tibaldi di Bologna. Come si vede, la manutenzione degli 80 mila alberi a Roma è un problema serio. Ma c’è innanzitutto un grande problema nazionale irrisolto, caro ministro Galletti.

 

 

7
Nov
2016

Il sistema imperfetto: una lettura—di Mario Dal Co

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Mario Dal Co.

I dati scientifici della finanza pubblica (Roma, 1890) sono un autentico capolavoro che la scienza deve a quel brillantissimo ingegno di Ugo Mazzola, spentosi, ahimè! troppo innanzi tempo. Ed un capolavoro è anche Il carattere teorico dell’economia finanziaria, pubblicato due anni prima da Antonio De Viti De Marco, libro di un economista tutto rivolto non a repugnare ma ad approfondire la concezione dello Stato come fattore della produzione.

Luigi Einaudi, lettera al prof. Rodolfo Benini, in: Nuovi studi di diritto, economia e politica, settembre-ottobre 1930.

Questa lettura affronta l’ampio panorama offerto dalla raccolta di saggi, che sono rivolti agli studenti ma interessanti anche per altri lettori, raccolta curata da Pieluigi Ciocca e Ignazio Musu. Ho messo la citazione di Einaudi per ricordare come nella tradizione liberale italiana il ruolo dello Stato sia  centrale per lo sviluppo e per il buon funzionamento dei mercati. Serve anche a rintuzzare la visione-che in alcuni saggi aleggia- di una contrapposizione tra Stato e mercato, in cui i liberisti vorrebbero che lo Stato soccomba e scompaia.

Tre grandi negatività, all’interno di un successo clamoroso, caratterizzano, secondo i curatori, l’economia di mercato capitalistica, che “è instabile, frantuma la società in vincitori e vinti, ricchi e poveri; ferisce l’ambiente (…) ma come nessun altro modo di produzione è riuscita a moltiplicare la produzione, migliorando il tenore di vita degli esseri umani”.

La prudenza di questa visione neokeynesiana dei curatori non anima tutti gli autori, specie quelli che nel “ripensamento profondo a livello di teoria economia” pensano di trovare non le risposte a quesiti teorici, ma le risposte alla crisi: il libro è bello perché è vario.

Così, il saggio di apertura Beni comuni, beni pubblici. Oltre la dicotomia Stato-mercato di Valeria Termini, si addentra nella crisi fiscale dello Stato, responsabile della timidezza della risposta pubblica, e ne fuoriesce esortando all’impegno morale e civico, per contrastare la corruzione dei diritti di cittadinanza ad opera di un’ottica contrattualistica di mercato. Questo impegno morale e civico collettivo dovrebbe maturare per effetto di un intervento politico in materia di bisogni reali della popolazione, da parte di “alcuni membri della comunità (che) dispongono di visione, informazioni, competenze e conoscenze delle esigenze sociali che li rendono responsabili privilegiati di queste decisioni, in grado di superare la naturale miopia del consumatore individuale razionale”.   Nel saggio della Termini questa guida benevola  si appresta a stabilire  quali beni meritori debbono essere offerti con lungimiranza ai miopi individui, naturalmente a carico delle risorse pubbliche.  Confucio e Rawls sono invocati per approntare la risposta alla Grande Trasformazione che, secondo Termini, scuote l’ordine del pianeta (una seconda volta dopo la prima scossa registrata dal sismografo profondo di Polanyi). Oriente e Occidente scoprirebbero di potersi incontrare, escludendo solo la cultura musulmana estrema “il cui scontro drammatico si acuisce di giorno in giorno nei confronti delle civiltà occidentali”. Non potendosi rifiutare, anche Lucrezio viene chiamato a testimoniare che il problema della specie umana è la “miopia di una visione economico-individualistica di costi-benefici monetizzabili subito”.

Mauro Gallegati nel suo saggio Informazione asimmetrica prende le mosse  da un’umanità diversa, colta all’uscita dell’Eden dove ha assistito alla proiezione della prima storia d’amore, inizio della vita sentimentale e relazionale sul pianeta. Da quel momento si trova in una condizione che esclude la necessità del coordinatore centrale e, aggiungiamo,  della guida benevola. Gallegati usa la ramazza (della teoria) per sgombrare il campo dalle resistenze che, a suo giudizio, il modello economico dominante oppone a tener conto delle interazioni, dei ritardi,  dell’apprendimento e dei suoi costi, dell’insussistenza della perfetta razionalità. Ed apre così la strada alle considerazioni più interessanti del suo saggio, quelle relative al ruolo centrale del credito nel sistema di produzione Il credito risponde (fin che può)  all’ sigenza di compensare gli scostamenti che gli eccessi di domanda e di offerta, insieme agli errori di previsione e di attuazione, sempre comportano in un sistema economico complesso e integrato, di concorrenza assai imperfetta. Sono questi errori e la possibilità che il credito non possa correggerli, che rendono necessario l’intervento dello Stato. Aggiungiamo noi: intervento non necessariamente benevolo e sicuramente non perfettamente razionale.Esternalità di Ignazio Musu riconduce all’origine marshalliana di quel concetto e affronta in primo luogo le diseconomie esterne, come l’inquinamento prodotto dall’industria che colpisce cittadini privi di relazioni di mercato con le imprese che inquinano. Non ne segue automaticamente che questa “mancanza del mercato” sia correggibile con l’intervento pubblico, poiché le diseconomie esterne dimostrano non solo l’esistenza di un vuoto di mercato, ma anche di un vuoto istituzionale. Occorre una politica che punti a riempire in modo efficace questo vuoto istituzionale, per evitare di ammazzare il mercato in nome della lotta contro le sue imperfezioni. Musu richiama Coase, che per affrontare le diseconomie esterne propone di creare il mercato, laddove esso è mancante. Ad esempio, se un’industria inquina un lago su cui si affaccia un paese a vocazione turistica, per risolvere il problema si può introdurre il  Il villaggio potrà , allora, penalizzare l’inquinamento della fabbrica fino a che questa troverà conveniente spostarsi o depurare i propri scarichi. Risultato analogo si otterrebbe attribuendo il diritto di proprietà all’impresa (teorema di Coase).  Musu ricorda  che il teorema di Coase non si applica al caso in cui le esternalità riguardano un bene comune, perchè non è possibile definire diritti di proprietà in grado di stimolare il mercato. La risposta è venuta con l’introduzione, ispirata alla tassa sull’inquinamento di Pigou,  di un mercato oneroso dei diritti di inquinare,  in modo che le aziende più efficienti siano quelle che riducono per prime il proprio inquinamento, al fine di contenere  le emissioni complessive nei limiti stabiliti. Questa coraggiosa creazione di un mercato internazionale dei diritti di emissione, incontrerà nell’onerosità dei controlli e della applicazione delle sanzioni i suoi principale limiti applicativi.

Non meno interessante è la trattazione di altre forme di esternalità, quelle di rete, quelle della ricerca, quelle connesse ai modelli di consumo. Vogliamo soffermarci ancora sulle considerazioni del saggio di Musu sulla ricerca, dove l’autore esprime un condivisibile scetticismo sull’efficacia dei programmi pubblici di incentivo discrezionale all’innovazione: “l’intervento pubblico nell’innovazione non è peraltro automaticamente destinato ad avere successo (…) se non è fondato su infrastrutture di ricerca adeguate e su un capitale umano preparato, che richiedono lungimiranza strategica, risorse finanziarie consistenti e efficienza organizzativa”.

Il difetto di concorrenza di Giuliano Amato esordisce con un’argomentazione sulla utilità di non aprire alla concorrenza determinate attività: “la sala chirurgica nella quale si moltiplicano le operazioni giornaliere per incassare di più e l’università nella quale si moltiplicano i laureati, sono luoghi da evitare, non dei luoghi di eccellenza”. Un’affermazione che viene ribadita a proposito dei taxi, dove la “concorrenza deve svolgersi entri i confini di una nitida regolazione ad hoc, che definisca in primo luogo il numero e le modalità degli accessi”.  Ma a noi pare che Il caso della sala chirurgica stakanovista sia perverso solo se il rimborso è a carico del bilancio pubblico e non dell’utente: quest’ultimo si renderebbe conto subito se il servizio non funziona. Mentre non se ne rendono conto le Regioni italiane che pagano a volte diversi ricoveri nello stesso giorno per lo stesso malato (stakanovismo di carta). Analogamente, l’università che regala i titoli senza preparare, sopravvive solo se vi è il valore legale del titolo di studio e se le tasse universitarie sono sostanzialmente indifferenziate.  In altre parole, la concorrenza non si può introdurre se il mercato è regolamentato in modo tale da renderla monca, inefficace o dannosa. Anche l’argomento sui tassisti di Amato è quantomeno incompleto: in Italia il numero delle licenze è sicuramente contingentato, ma questo non produce alcuna garanzia sulla qualità del servizio. E il numero chiuso non impedisce il fiorire di servizi alternativi, come le auto a noleggio o  Uber. E’ la regolazione del mercato e quindi del servizio e dei requisiti che devono avere gli esercenti (sicurezza, professionalità, educazione, corretta fiscalità) e la capacità di enforcement che assicurano il buon funzionamento del mercato e impediscono, o quanto meno rendono più oneroso. che l’autorità pubblica venga “catturata”, come dice Amato, dalla corporazione di volta in volta dotata di voce più stentorea.

Il raffronto tra la logica dell’Antitrust americana e quella europea offre ad Amato l’occasione per evidenziare alcune delle differenze più significative tra i due modelli.  Ad esempio, quella relativa  alle posizioni dominanti. Nella regolazione americana non vi è né l’obbligo a trattare con i concorrenti più deboli, né l’impedimento a praticare prezzi scontati per impedirne l’ingresso. Inoltre, per le  concentrazioni, mentre nella valutazione americana prevale il criterio dell’efficienza, nella valutazione europea prevale in genere la considerazione che  la riduzione dei pezzi, o l’apertura ai clienti di condizioni finanziarie favorevoli, possa essere tale da impedire l’ingresso o la sopravvivenza di altri concorrenti. Il saggio argomenta la preferenza dell’autore verso il sistema regolatorio europeo, ma il panorama è arricchito da una visione attenta non solo ad un altro angolo visuale, ma anche al punto focale che si sposta e rende necessario considerare le nuove esigenze di tutela della concorrenza che il mondo globalizzato, quello dei giganti della rete,  presenta.

Salvatore Rebecchini nel suo Antitrust per la concorrenza dinamica, prende le mosse dalla distinzione tra concorrenza statica, quella in cui l’imprenditore agisce solo sui costi essendo price-taker, e la concorrenza dinamica o schumpeteriana, in cui l’imprenditore inventa nuovi prodotti o processi e quindi introduce innovazione e/o affronta nuovi mercati. Margini di profitto al di sopra del valore medio, sono necessari a questo processo innovativo ma, adottando questa visione, l’Antitrust potrebbe favorire il consolidarsi di posizioni dominanti. Di particolare interesse, in questo ambito, la recente possibilità per l’Antitrust di spingere verso una apertura  competitiva dei mercati riservati alle aziende pubbliche, con una estensione della tutela antitrust che può portare alla creazione di mercati nuovi e di nuova competizione innovativa in mercati statici. Significativa, perché se applicata in modo estensivo potrebbe portare ad una apertura alla competizione di estese “riserve” prive di giustificazione, la possibilità introdotta dal decreto “Salva Italia” del 2011, dove i provvedimenti della pubbliche amministrazioni che determinano distorsioni della concorrenza sono impugnabili davanti al tribunale amministrativo, qualora l’amministrazione non si adegui al parere dell’Antitrust. Sull’advocacy  come attività preventiva che l’Antitrust può svolgere, l’esempio più interessante è l’indagine dell’Antitrust del 2008 sull’assetto societario delle banche. L’indagine  indicava fin da allora che  i legami azionari e personali fra concorrenti e la scarsa trasparenza  rendevano necessario un intervento normativo sulla banche popolari. Non aver ascoltato questa indicazione, quanto tempo ha fatto perdere  e quali costi aggiuntivi ha scaricato sulla collettività per il risanamento del sistema bancario, tuttora in corso? Anche in questo caso, sottolinea Rebecchini,  si manifestava la volontà dell’Antitrust di promuovere la concorrenza dinamica, nel settore più difficile di intervento, ma anche in quello cruciale per promuovere la crescita e l’innovazione.

Magda Bianco affronta il tema della Caccia a posizioni di rendita, illustrando efficacemente l’estensione delle pratiche volte a  limitare la concorrenza e a piegare il funzionamento del mercato, e soprattutto della pubblica amministrazione, a favore di singole imprese, professioni, società controllate dagli enti locali o dallo Stato, settori (banche). Le stime sugli effetti di queste restrizioni sono difficili, ma indicano che il nostro Paese è tra quelli con maggiori restrizioni, con un impatto pari al 12% del pil, contro quasi zero dei paesi del nord Europa. La lobby è la forma con cui si esercita questa pressione per piegare agli interessi di parte la bilancia del regolatore, e il fatto che la lobby non sia riconosciuta e regolata è una delle ragioni dell’enorme diffusione del rent seeking in Italia, per adottare il termine introdotto da Anne Krueger nel 1974. Il saggio di Magda Bianco accenna alla gravità di questa mancanza di regolazione della attività di lobby senza svilupparla oltre: ma essa è particolarmente negativa in questa fase di sviluppo e vale la pena ribadirlo.

Siamo, infatti,  in una fase caratterizzata dalla diffusione di innovazioni tecnologiche di cui non si conoscono bene esiti ed impatti e da un contesto internazionale, in cui relazioni istituzionali, accordi politici, progetti internazionali e finanziamenti multilaterali possono aprire o chiudere interi mercati. In questo contesto la lobby svolge un ruolo essenziale e non solo in modo negativo nel rent seeking, ma anche nello scambio di informazioni e nella riduzione dei costi di transazione . Esempi se ne possono fare sia nelle nuove tecnologie, sia nell’energia, sia nelle costruzioni, abbracciando quindi settori maturi e settori di punta. Si pensi all’estrazione della Total nel giacimento Tempa Rossa in Basilicata, che fu al centro delle polemiche in occasione del referendum sulle attività estrattive.  Ma le accuse ad un grande operatore come Total erano strumentali: anche un grande operatore internazionale si muove nell’incertezza e deve ponderare le incognite che investimenti di quella portata comportano. Pensare che possano essere realizzati investimenti di quella dimensione senza uno scambio di informazioni tra istituzioni, decisori politici e aziende è  irrealistico e dannoso. Non esiste amministrazione pubblica dotata delle informazioni e delle competenze, neppure ricorrendo ai migliori consulenti. A ciò si aggiunga che i consulenti sono fumo negli occhi per l’amministrazione pubblica italiana che da anni espunge ed esorcizza i professionisti come diavoli, in ragione di una pulsione giustizialista e qualunquista che si è radicata nell’opinione pubblica e nei media, e che condiziona la politica. Con il risultato che è sotto gli occhi di tutti, a partire dalla magistratura contabile che pure è parte attiva della caccia alle streghe, che la progettualità della PA è inesistente: i fallimenti nel campo dell’e-government lo testimoniano. Dalla Posta elettronica certificata alla Anagrafe, passando per il Sistema pubblico di identità digitale e finendo alla truffa della Carta di identità elettronica ogni tentativo di centralizzare i servizi digitali ha dimostrano che l’unica lobby efficace  era quella degli incumbent che catturavano l’amministrazione, scrivendole i regolamenti o le bozze delle gare. La PA rinuncia al confronto aperto con le imprese, preventivo e pubblico necessario a valutare e  definire le scelte di progetto. Teme il confronto pubblico e ricorre per necessità a quello sottobanco. E si chiarisce ancora di più il paradosso, che richiede un intervento normativo esplicito volto a riconoscere le attività di lobby. La lobby, infatti, come rent seeking che restringe o impedisce la concorrenza è sempre più dannosa,  ma è sempre più necessaria  la lobby nella forma esplicita e regolata che assicura lo scambio di informazioni, la riduzione dei costi di transazione e la valutazione dei rischi imprenditoriali e di quelli di origine politico-burocratica.

Paolo Donzelli analizza i Vuoti di imprenditorialità la cui esistenza dimostra la necessità di avere uno Stato non solo come regolatore o fattore produttivo, come dicevano i liberali classici, ma lo Stato imprenditore di alta quota, secondo la definizione di Braudel in una interpretazione con cui Donzelli vorrebbe salvaguardare una visione liberale. Ma da questa  alta quota delle sue nobili origini il concetto rotola per le chine delle politiche industriali e degli interventi  per promuovere l’innovazione. Donzelli caldeggia, infatti, uno  Stato impegnato nel ruolo di  “guida, regia ed il supporto del processo di sviluppo industriale, per la elaborazione di strategie e programmi finalizzati al progresso tecnologico in aree prioritarie”.

A beneficio di chi crede in questo ruolo demiurgico dello Stato ricordo le vicende recenti dei bandi MIUR per le Smart Cities e i Cluster, che dovevano consegnare i risultati per l’Expo di Milano e in molti casi non sono ancora partite, o le lentezze insensate dei processi di spesa dei fondi regionali e statali. Quei fondi e le scelte sottostanti,  lungi dal poter indirizzare il processo di investimento, lo inseguono a distanza, con interventi che giungono, se giungono, fuori tempo massimo, quando ormai le tecnologie per cui erano pensati e finalizzati sono già obsolete, quando i bisogni a cui si riferiscono sono cambiati. Se la Bianco ci insegnava a considerare distruttiva di risorse la lobby che cerca rendite, Donzelli non considera  invece distruttivo l’impegno che il MIUR ha richiesto a chi (università e aziende) ha lavorato per anni a definire un progetto nel miraggio di un finanziamento che se mai arriverà avrà 6 (sei) anni di ritardo, ovvero  quando di smart city non si parla quasi più.

Il saggio di Donzelli naviga a vista nell’oceano tra storia, economia, politica economica, esponendo il lettore al rollio di affermazioni tipo: “L’analisi storica ha evidenziato il ruolo dello Stato nelle guerre mondiali (e nelle successive attività di ricostruzione), nella crescita del mondo occidentale nel suo complesso”…

Iniquità distributive, di Elena Garavaglia, insiste sulla necessità di considerare le iniquità distributive come risultato del funzionamento di un mercato che non si corregge da solo e che è intriso di elementi di potere: “Rispetto agli assetti di impresa, sembra utile ricordare la presenza, nei comitati che dovrebbero valutare la coerenza delle remunerazioni dei super manager, di soggetti nominati da dipartimenti delle risorse umane che sono sotto il controllo dei super manager stessi nonché l’indebolimento, nelle imprese, del potere dei lavoratori”. Per limitare questi abusi Garavaglia richiede “assetti di impresa equi”. Suggeriamo sommessamente,  prima di avventurarci sul terreno scivolosissimo dell’impresa etica, di considerare quanto sia nociva nel nostro Paese la scarsa diffusione delle società di capitale quotate, dove gli azionisti hanno la possibilità di far valere i controlli sulle performance dei manager, controlli assai più efficaci di quelli affidati a qualche guida benevola, per evocare una delle maschere iniziali di questa nostra lettura. Molti esempi di distorsioni distributive citati nel saggio della Garavaglia rientrano proprio nella carenza di trasparenza e di competizione, ossia nella imperfezione del mercato non in sé, ma in quanto volutamente distorto da chi ha catturato il regolatore.

Le Instabilità di Pierluigi Ciocca caratterizzano un “sistema (che negli ultimi due secoli) ha moltiplicato la produzione di 80 volte” e sono di tre forme: reali, finanziarie, monetarie (dei prezzi). Il saggio presenta la sequenza che le diverse crisi presentano, pur manifestando una convergenza che può essere modellizzata, ma che non impedisce il sovrapporsi delle cause reali, a quelle finanziarie a quelle monetarie in un processo che si autoalimenta se la politica economica non spezza il circolo vizioso.

Le attese, nella visione di Keynes cui si richiama Ciocca,  “sono «fondate su un’evidenza mutevole e inaffidabile», su probabilità di rado calcolabili, su ipotesi spesso convenzionali: «L’essenza della convenzione […] è nell’assumere che lo Stato presente degli affari persisterà indefinitamente, almeno finché non si avranno specifici motivi per aspettarsi un cambiamento […]. Alla precarietà insita nella convenzione si deve in non piccola misura l’insorgere di un problema di inadeguatezza degli investimenti»”. Ciocca manifesta  una certa confidenza che le crisi reali e monetarie possano trovare risposta nella politica fiscale e monetaria. Anche se uno dei prerequisiti per questa efficacia, “il bilancio pubblico programmabile e flessibile”, paiono tratti da un libro di testo del secolo scorso. Anche la necessità che la “PA sostenga la domanda con investimenti produttivi socialmente utili” suona come un quartetto di Haydn che esce da uno spartito di Webern:  sono scomparse le dissonanze tra obiettivi e strumenti, tra intenti e risultati, tra tempi di deliberazione e tempi di implementazione che caratterizzano “gli investimenti produttivi socialmente utili”. Non ci pare che oggi la politica fiscale sia in grado di affrontare le crisi reali e monetarie. Più convincente la prudenza con cui Ciocca presenta il quadro della crisi finanziaria,  da affrontare con strumenti preventivi che si richiamano  alle buone regola della finanza: “ratios patrimoniali, limiti all’indebitamento, divieti di determinate operazioni, diversificazione dei rischi, separatezza tra finanza e industria e tipi diversi di intermediari, concorrenza, obblighi informativi,trasparenza”. Se questi strumenti preventivi non bastano, e ciò può accadere, occorre tornare -dice Ciocca-, alla politica monetaria e alla politica fiscale: ma noi torniamo ai nostri dubbi.

La Disoccupazione di Giorgio Rodano viene analizzata nelle sue dinamiche temporali e nella sua variabilità spaziale, da paese a paese. Il mercato del lavoro è pieno di imperfezioni concorrenziali; mentre  “la politica monetaria incontra non poche difficoltà per una efficace azione anticongiunturale. Il tutto è complicato dai vincoli statutari a cui è sottoposta la Bce (il cui obiettivo è il controllo dell’inflazione) (…) Non ci si può sorprendere, allora, che le cifre sulla disoccupazione nell’Eurozona siano ancora oggi così mortificanti”. La politica fiscale è stretta invece, soprattutto nel nostro Paese, da una rigidità del bilancio pubblico sia nella sua dimensione quantitativa sia negli aspetti qualitativi (spesa corrente e spesa in conto capitale). Per uscire da questa impasse Rodano auspica, ma forse non è convinto nemmeno lui della probabilità di questo esito, una accettazione di tassi di inflazione più elevati, che avrebbero il pregio di allentare la pressione del debito delle imprese e dello Stato e di aumentare la propensione al consumo.

Giacomo Costa espone i Problemi di crescita in un saggio che prende in considerazione il lungo periodo e la diversità dei paesi nei loro indicatori di  reddito pro-capite, speranza di vita e “felicità” (autodichiarata). Se la correlazione tra speranza di vita e reddito pro-capite è molto forte, la felicità invece non segue il reddito pro capite, ma riflette la percezione del  proprio status sociale (la propria posizione relativamente agli altri). Il saggio affronta il tema di come si è sfuggiti alla trappola malthusiana che manteneva in stato di stagnazione le economie fino alla rivoluzione industriale: due fatti concorrono a spiegarlo. Prima, la crescita della produttività dovuta alla meccanizzazione, che caratterizza il secolo della rivoluzione industriale (1760-1860) porta ad un aumento del reddito pro-capite e della popolazione, poi la caduta del tasso di natalità  produce la fuoriuscita dal modello di sussistenza malthusiano. A questo punto   la spiegazione di Costa  è carente di qualche passaggio, ed emerge un po’ dal cilindro che l’industrializzazione accelerata dei paesi inseguitori (Stati Uniti, Francia, Germania…) si basa in misura più o meno esplicita sull’innovazione politico-istituzionale diffusa da Napoleone che si riassume in quattro fondamentali politiche: “ i) la creazione di un mercato nazionale mediante l’abolizione dei dazi interni e il miglioramento nei trasporti; ii) l’erezione di un dazio per la protezione dell’industria nascente dalla concorrenza britannica; iii) la creazione o l’incoraggiamento di banche per finanziare gli investimenti; iv) l’istruzione di massa per facilitare l’adozione delle innovazioni tecnologiche”. Il venir meno dello Stato a questi compiti fondamentali individua il “fallimento dello Stato”, con effetti disastrosi sulle capacità di sviluppo della società e dell’economia. Un fallimento che può essere voluto, come quando gruppi di potere si impadroniscono deliberatamente dello Stato non per farlo funzionare , ma per “estrarre” risorse dai cittadini trasformati in sudditi o in schiavi.

Fra Stato e mercato di Pier Angelo Mori esplora il mondo intermedio, ma non tanto quello delle onlus, quanto quello delle cooperative di utenti. A suo modo di vedere, queste forme societarie superano le difficoltà che le privatizzazioni hanno manifestato negli anni recenti, spingendo ad un sostanziale rallentamento di questo processo. Infatti,  “se sono gli stessi utenti che gestiscono il servizio, viene meno la motivazione di base delle distorsioni tariffarie, cioè l’obiettivo del profitto”. Mori sostiene che il fallimento della regolazione è alla base della crisi di credibilità delle privatizzazioni.  Ma non è sempre vero che la regolazione non funziona. Ne abbiamo un esempio in Italia, che per la verità non viene valorizzato nel nostro Paese quanto viene citato all’estero: la privatizzazione dell’Enel. Tutte le difficoltà indicate da Mori: controllo delle tariffe, trasparenza del servizio, standard qualitativi, controllo sull’inquinamento e, last but not least, occupazione e redditività,  dimostrano che l’Enel guidata nel processo di privatizzazione da Franco Tatò e l’Autorità (AEEG) che vigilava sull’attuazione della privatizzazione, sulle tariffe e sugli standard di servizio e di inquinamento, guidata da Pippo Ranci, ottennero  il risultato di un mercato più efficiente. Meno costoso, aperto, con standard di servizio e un livello di trasparenza e di risposta al cliente incomparabilmente superiori a quelli dell’Enel monopolista posseduta al 100% dallo Stato. Quell’esperienza ha dimostrato che una privatizzazione gigantesca, come quella del servizio elettrico, può essere fatta con successo se il regolatore è competente, attivo, indipendente, in una parola non catturato dal regolato. Mori porta alcuni esempi a favore della sua tesi che i consumatori associati risolvono le criticità della regolazione, ma altri potrebbero essere portati, dove consorzi di produttori sono falliti proprio per la loro incapacità di perseguire, non dico il profitto, ma una efficiente gestione dei servizi che i produttori affidavano al Consorzio stesso.  Mori intravede i limiti della gestione cooperativistica, ad esempio nella necessità di disporre di capitale rilevante o di essere gestite con una effettiva partecipazione dei soci, ma trova che i rimedi possono ovviare a queste difficoltà e sportivamente invoca una partecipazione dei cittadini alla partita a tre tra “Stato, mercato ed enti democratici intermedi”.

Ruggero Paladini chiude la raccolta di saggi con un excursus sui Fallimenti dell’intervento pubblico. L’autore richiama le ragioni delle rivoluzioni conservatrici degli anni ’80,  allorquando, aggiungiamo noi,  il Regno Unito andò oltre l’economia mineraria del Labour e fece uscire di nuovo il Times  dopo che il conflitto contro  l’adozione di nuove tecnologie di stampa lo aveva bloccato per un anno. Richiama la crescita del prelievo fiscale, l’impatto negativo che può avere, anche sugli investimenti, ed uno particolarmente rilevante nel nostro paese, afflitto da una eccessiva dipendenza dal finanziamento bancario rispetto al finanziamento tramite equity: “Non si può escludere che la preferenza per il finanziamento a debito che l’imposta sul reddito societario determina abbia costituito un freno alla crescita delle imprese, soprattutto dove le condizioni del credito sono meno favorevoli”. Paladini nutre riserve sulla capacità delle teorie public choice di spiegare la grande variabilità dei comportamenti dell’agente pubblico nei diversi paesi, ad esempio tra nord Europa ed Europa mediterranea, e preferisce una integrazione tra teoria economica e analisi storica, come proposta da Acemoglu e Robinson (Why Nations Fail…), già richiamati nel precedente saggio. le  conclusioni di Paladini più chiare e meglio argomentate: la spesa pubblica italiana al netto di interessi e pensioni è tra le più basse, e forse tra le più inefficienti. Concorrono all’inefficienza la distribuzione dei dipendenti pubblici, la loro preparazione, la loro scarsa attenzione  verso il cittadino-cliente e la loro irresponsabilità verso i vertici. Infine, la stretta sui finanziamenti alla ricerca e alle università, iniziata prima ancora della crisi finanziaria del 2008, porta il paese ad avere scarsa capacità innovativa. Ma c’è di più -aggiungiamo noi-: lo scarso investimento nel settore dell’educazione a tutti i livelli è forse oggi la più grave carenza dello Stato. Essa ha ricadute negative sulla partecipazione delle donne, sulla qualità della forza lavoro, sulla capacità innovativa, sulla modernizzazione della PA e  perfino  sul  quel senso civico che hanno evocato diversi saggi, esaminati criticamente  in questa nostra lettura.

Pierluigi Ciocca e Ignazio Musu (curatori), Il sistema imperfetto. Difetti del mercato, risposte dello Stato,  LUISS University Press,  2016, 24 euro.

Philip Leifeld, Volker Schneider, Information Exchange in Policy Networks, American Journal of Political Science, Vol. 56, No. 3, July 2012.

2
Nov
2016

Cronaca di una passeggiata solitaria verso il Tribunale per difendere l’ambiente dagli ambientalisti e non solo

Catania, 06 ottobre 2016.

Sono le 9:00 del mattino e mi avvio verso il Tribunale; prima di raggiungerlo dovrò percorrere non più di 500 metri a piedi. Oggi sono più pensieroso del solito, ripasso a memoria i punti essenziali della discussione che voglio esporre al collegio di giudici che si occuperà della mia causa. Mi ripeto quasi ossessivamente che dovrò essere chiaro, breve e incisivo. Devo riuscire a convincere i giudici che la Regione Siciliana ha commesso una vera e propria ingiustizia oltre che, naturalmente, una grave illegittimità. Il mio cliente, un imprenditore ragusano, si è raccomandato ieri sera: avvocato, spieghi al Tribunale che l’impianto che voglio realizzare è stato pensato per tutelare l’ambiente e non per danneggiarlo.

Inserisco perciò al primo punto della mia scaletta immaginaria la descrizione delle caratteristiche tecniche dell’impianto di riciclo dei rifiuti che è stato finanziato dal Ministero dello Sviluppo Economico e da un Istituto di credito privato: più di 2,5 milioni di costi che l’impresa sta già provvedendo a restituire periodicamente nonostante l’esercizio dell’attività produttiva sia stato senza alcun motivo interdetto dalla Regione.

Lo stabilimento servirà a riciclare fanghi provenienti dalle lavorazioni petrolchimiche e circa il 65% di ciò che entrerà come rifiuto uscirà come prodotto riutilizzabile. Sarà utile per recuperare materie prime seconde dagli scarti delle vernici: circa il 50% del rifiuto potrà essere reinserito nel processo produttivo per servire ancora una volta come colorante. Rappresenterà luogo di stoccaggio di medicine scadute e pile elettriche fuori uso che verranno poi indirizzate verso altri stabilimenti idonei allo smaltimento. Consentirà il recupero di quasi il 100% della carta, della plastica e dell’alluminio che lì verranno conferiti.

Ma tutto questo certo non basterà per spuntare una decisione favorevole, mi dico mentre avanzo verso il Tribunale con passo spedito. Dovrò ricordarmi anche di esporre ai Giudici che l’impianto di smaltimento del mio cliente era stato già autorizzato dalla Regione Siciliana dopo un iter amministrativo lungo e tortuoso in esito al quale erano stati vagliati tutti i profili e le criticità ambientali e gestionali. Dovrò enfatizzare quanto basta la circostanza che dopo un anno dal rilascio di tutte le autorizzazioni (e dall’acquisto dei macchinari) la stessa pubblica amministrazione ha pensato bene di revocare la valutazione d’impatto ambientale sino a quel momento esitata positivamente. Dai fatti dovrò passare necessariamente ai giudizi: hanno trovato una scusa, si sono inventati la mancanza di un documento che in realtà è stato sempre presente negli atti del procedimento ed hanno detto “stop, non se ne fa più niente”. L’impianto improvvisamente è diventato incompatibile con l’ambiente. Anzi, a dire il vero non c’è nessun accenno nel provvedimento di revoca alle ragioni dell’incompatibilità. Ci hanno lasciato intendere però che non sarà possibile adeguarlo nemmeno con prescrizioni ulteriori rispetto alle circa 70 che ci hanno (correttamente) già imposto per rendere compatibile l’attività d’impresa con la tutela dell’ambiente. Ma di indicazioni specifiche relative all’insorgere improvviso di nuovi pericoli presunti per il paesaggio, la salute e l’ambiente medesimo, a distanza di oltre un anno dal rilascio del provvedimento d’autorizzazione, nemmeno un labile accenno.

Le illegittimità  da un punto di vista tecnico sono chiare, le ho descritte nelle memorie difensive. A questo punto, mi ripeto quando sono in prossimità dell’atrio, dovrò svelare il retroscena che apparirà in tutta la sua chiarezza se solo il Tribunale avrà voglia e tempo di leggere tutta la rassegna stampa che ho allegato al fascicolo di parte.

Populisti d’ogni risma hanno montato il solito teatrino: l’ambiente non si tocca, il paesaggio è sacro,  la Sicilia è la bellezza, ed un impianto di riciclo di rifiuti deturpa, ammorba, inquina e danneggia la salute. Fatti, prove, cifre ed evidenze non contano. E’ cosi; lo dice Legambiente, lo afferma il comitato dei cittadini che non vuole morire d’inquinamento, lo sostengono i boy scout. Parlare, spiegare, dimostrare; tutto inutile.

A Palermo, alla Regione, gli saranno sicuramente tremati i polsi a leggere sui giornali di sfilate, sit-in, manifestazioni e proteste contro l’impianto e contro chi lo ha autorizzato. In quel Comune dove è ubicato il capannone l’anno prossimo si voterà per le amministrative e nel 2017 ci saranno le elezioni regionali in tutta l’Isola. Quelle centinaia di manifestanti, torto o ragione che abbiano, non importa, sono elettori. Il populismo si asseconda, se si vuole sopravvivere politicamente, non si contrasta. Quindi via alla revoca dei provvedimenti che avevano autorizzato l’attività imprenditoriale.

Ecco Presidente, ora ho concluso, può concedere la parola all’avvocato di Legambiente che ci spiegherà come continuare a vivere felici e beati accatastando ancora rifiuti nelle discariche o ai margini delle strade. No, questo non posso dirlo, sussurro tra me e me.

Sono arrivato, passo sotto il metal detector…

@roccotodero

28
Ott
2016

2 mesi di Buona Scuola: 85mila cattedre scoperte. E non è colpa solo del governo..

Renzi l’ha ammesso due sere fa da Vespa, a Porta a Porta. “Sulla scuola ho fatto errori”, ha detto. Non ha spiegato quali, ma una cosa è sicura. Si era capito già ad agosto, che il primo anno scolastico di applicazione della Buona Scuola non sarebbe stato rose e fiori. I dati parziali che venivano dalle 825 commissioni di concorso per le 63 mila cattedre triennali bandite, dopo la prima leva di 87 mila precari messi in ruolo all’approvazione della riforma, lasciavano già presagire l’inatteso risultato di restare con 25mila o 30mila cattedre coperte. Ma il dato che si profila ora è molto più preoccupante. Ha del disastroso. E spiega, crediamo, l’ammissione di Renzi.

E’ un insuccesso vero, infatti. La riforma nata per abolire il precariato e sconfiggere le supplenze a mitraglia, e per impedire le classi con docenti a tempo magari non assegnati per molti mesi, fallisce la sua prima prova. C’è chi (l’Anief) calcola in 85 mila i posti a oggi ancora scoperti. Perché al problematico esito delle commissioni di concorso si sono abbinati due altri fenomeni di massa. In primis la complicatissima gestione di una mobilità sul territorio pari a quasi 200mila insegnanti, increduli e impreparati a vedersi assegnare da un capo all’altro della penisola (e soprattutto da Sud a Nord). E poi l’immensa panoplia di strumenti che il nostro bradipico ordinamento riserva a chi oppone alle nomine le tutele offerte dal diritto: dall’impugnativa davanti al giudice amministrativo, ai certificati medici, alla legge 104 per assistere parenti malati.

Le commissioni di concorso erano partite tardi. Per questo oltre un terzo delle 825 non hanno terminato l’iter di valutazione entro i termini utili per le assegnazioni a cattedra d’inizio anno. E in moltissime Regioni, per altro, la percentuale dei non ammessi agli orali ha toccato soglie terrificanti: in Lombardia il 70%, mentre per la scuola materna nel suo complesso a fine agosto erano ammessi agli orali solo poco più del 22% di coloro che avevano sostenuto gli scritti. Con enorme indignazione dei sindacati, ma a conferma del monito levato da chi – anche noi, insieme alla Fondazione Agnelli – aveva per tempo segnalato che tenere vergognosamente masse di precari per decenni nella scuola italiana, come ha fatto la politica italiana finché l’Europa non ci ha costretto ad affrontare una volta per tutte il problema, non poteva certo essere considerato un sistema volto a motivarli all’aggiornamento professionale.

Da questo primo macrofenomeno è scaturita la necessità di oltre 30mila nomine di supplenti, pescati ancora una volta come in passato dalle graduatorie GaE. O meglio da quel che ne restava, perché in molte province italiane erano esaurite dalla prima leva di immessi in ruolo e dalla gran massa di partecipanti al concorso. Col risultato paradossale che spesso è stato nominato come insegnante supplente chi non aveva superato la prova di concorso. e co0n la richeista geenrale del più dei sindacati di riaprire lo scorrimento delle GaE, laddove sono esaurite.

Ma ad essere di fatto sfuggita di mano è stata la mobilità. Il sistema ha opposto una resistenza strenua alla volontà ministeriale di considerare la messa in ruolo come premio prevalente sul disagio di vedersi proiettati in un ambiente di vita estraneo a quello in cui per anni e decenni i precari avevano organizzato la propria vita. Di qui impugnative amministrative a raffica che hanno portato nell’immediato a ordinanze sospensive, e tanto è bastato a bloccare i trasferimenti. Anche se poi in gran numero di casi segue un giudizio di merito sfavorevole al ricorrente. Ma intanto il danno è fatto, per il mancato completamento degli organici a inizio anno scolastico.

Terzo fenomeno: quello delle migliaia che hanno accettato il trasferimento e l’incarico, tranne al primo giorno consegnare o far pervenire al dirigente scolastico attestazioni mediche che impedivano la prestazione del servizio, o comprovanti il diritto a beneficiare della legge 104 per assistere parenti malati. Dalla Lombardia al Piemonte al Trentino, sono centinaia gli istituti i cui dirigenti scolastici si sono trovati a dover affrontare un’emergenza imprevista di questo tipo.

E c’è infine un altro, gravissimo quarto problema: mancano molti – secondi alcuni sindacati circa 25 mila – insegnanti di sostegno per i disabili. E con questo, il cerchio si è chiuso. Se ne parla l’anno prossimo, care famiglie italiane che pensate di pagare le tasse per avere insegnanti che seguano i vostri figli stabilmente, e con titoli verificati.

Ammettiamolo. Il governo ci ha provato. Con l’eredità che doveva affrontare, l’effetto del cinismo praticato per decenni dalla politica alle spalle di centinaia di migliaia di precari, credere dimettere le cose a poste in un anno era come voler svuotare l’oceano con un mestolo.

Ma purtroppo la riflessione è più amara. L’insuccesso della Buona Scuola non è solo figlio del passato. Deriva dalle mille regole che sembrano fatte apposta per frenare, sviare e impedire qualunque riforma seria e incisiva. Le certificazioni mediche di comodo sono un problema costante del mondo pubblico italiano: e parlano della crisi profonda della deontologia dei medici italiani, oltre che dei dipendenti pubblici che vi fanno ricorso. E la percentuale di applicazione della legge 104 al mondo pubblico, superiore di un multiplo a quella attestata nel lavoro privato, ci dice dell’inaffidabilità dei controlli nel nostro paese.

Talché si può essere armati anche del migliore spirito riformista, ma alla fine si esce sconfitti.

Al ministero lo dicono a mezza bocca. Dietro le impugnative e le certificazioni depositate all’ultimo minuto ci sono sindacati e sindacatini che volevano il posto per tutti, subito e senza ulteriori concorsi, dietro casa o al massimo non troppo lontano, anche se le cattedre scoperte sono al Nord e la maggioranza dei precari è del Sud. Purtroppo bisogna saperlo. Riformare l’Italia con questa selva di finti diritti che diventano veri freni è un’opera titanica. Chiede di cambiare le teste e le mentalità, prima ancora delle leggi e dei regolamenti.

 

27
Ott
2016

Italia incurabile: il maxi assenteismo dei vigili a Roma derubricato a mera coincidenza

Per carità, come sempre massimo rispetto della magistratura e delle sue sentenze. Ma questo non impedisce di dire, in attesa di conoscere le motivazioni della decisione assunta dal giudice del lavoro della terza sezione del Tribunale di Roma, che è devastante il segnale arrivato ieri all’opinione pubblica, ai dipendenti del Campidoglio e in generale a tutti i dipendenti pubblici italiani, visto che Roma è la Capitale.

Il giudice ha stabilito infatti che la maxi astensione dal lavoro di 767 vigili urbani romani la notte del Capodanno 2015, cioè dell’83% dell’organico del corpo mentre in romani nelle strade festeggiavano l’anno nuovo, non fu affatto uno sciopero selvaggio. Di conseguenza il giudice ha anche annullato la multa di circa 100mila euro che tre mesi dopo fu comminata a 5 sindacati dall’Autorità Garante sul diritto di sciopero. La cifra va dunque restituita ai sindacati. A questa decisione si aggiunge che dei 767 vigili solo una trentina finì per essere soggetta a indagine disciplinare interna. Mentre dei ben 100 medici indagati per falso dalla Procura – o per aver sottoscritto certificazioni mediche per quella notte senza aver incontrato il paziente, o per aver delegato impropriamente ad altri colleghi il farlo, o per aver ceduto a terzi le proprie password per le comunicazioni d’obbligo all’INPS – la maggior parte sembra uscire senza danno dall’inchiesta.

La somma di questi tre segnali è univoca: dunque quella notte non accadde niente di particolare, ordinaria amministrazione. Aveva evidentemente ragione il sindacato Ospol che all’indomani della maxi astensione, a chi come noi ne protestava l’illegittimità e intollerabilità, replicava sdegnato che al contrario l’83% di astenuti era “una percentuale fisiologica”. Evidentemente, è stato solo un fortuito caso, che in quella notte contemporaneamente e senza alcun concerto ben 567 si dichiarassero malati, 63 assenti per donazioni di sangue (a Capodanno!), 81 a casa per assistere parenti con patologie coperte da congedo parentale disposto dalla legge 104, e 52 per altri motivi.

Ma non scherziamo, per favore. Chi davvero può credere a una simile coincidenza? Solo chi decide di ignorare che quella notte fu causata dal durissimo scontro che il corpo dei vigili riservava all’allora comandante fresco di nomina, il superpoliziotto Raffaele Clemente, vissuto dai caschi bianchi romani come un corpo estraneo. Tanto estraneo che aveva disposto immediatamente rotazioni a catena degli incarichi per tutto il corpo, al fine di svellere incrostazioni decennali e rischiose connivenze. E alla lotta strenua contro la rotazione si aggiungeva quella per il salario di merito diviso tra tutti a pioggia, grave problema che resta ancora insoluto per tutti i dipendenti capitolini.

I sindacati quella lotta l’hanno vinta. Clemente non è più il loro comandante. C’è un vice, e il nuovo comandante dovrà essere scelto dalla giunta Raggi entro fine ottobre. Ma cosa farà la nuova giunta? Il solo fatto che davanti al giudice del lavoro il Comune di Roma non si sia costituito nel procedimento, ignorando del tutto le parole durissime che all’indomani della maxi protesta furono pronunciate da Clemente, sembra proprio la dice lunga su quanto possiamo aspettarci. E allora diciamolo in chiaro. Se il sindaco e la giunta Raggi credessero di doversi ingraziare sindacati, vigili e dipendenti, fingendo di non vedere che la prima svolta da imprimere è proprio quella della legalità, dell’efficienza e della trasparenza, allora vorrebbe dire che non ci siamo proprio.

E il comune cittadino, la società civile, che cosa devono pensare, assistendo al passaggio istituzionale in cavalleria di una vicenda che generò ironia e disprezzo sugli organi d’informazione di mezzo mondo? I dipendenti pubblici onesti e leali, quelli che credono nel dovere di prestare servizio alla collettività rispettando le regole e aspettandosi di vedere il proprio merito finalmente riconosciuto, come non immaginare che ancora una volta allargheranno le braccia, pensando che se le cose stanno così allora non c’è alternativa e devono farsi furbi anche loro? E i dirigenti, incaricati di vigilare sul comportamento dei sottoposti, svolgendo le proprie funzioni saranno forse spinti a maggior scrupolo, o piuttosto a chiudere gli occhi e a lasciar correre?

Lo sappiamo tutti, sono domande retoriche. L’amara risposta è nei fatti. L’immobilismo delle peggiori prassi vince ancora una volta. E fa apparire gli impegni della politica, alle riforme e alle svolte morali, come pure espressioni labiali a cui non seguono fatti conseguenti.

26
Ott
2016

La mano del potere

Già nel diciannovesimo secolo Alexis de Tocqueville, di ritorno dal suo viaggio negli Stati Uniti, metteva in guardia dalla tendenza a ritenere immuni i regimi democratici dal pericolo di scivolare verso una deriva autoritaria altrettanto illiberale quanto lo era stata quella delle monarchie assolute europee dei secoli precedenti. “Quanto a me – scriveva ne La Democrazia in America – quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m’importa di sapere chi mi opprime, e non sono più disposto ad infilare la mia testa nel giogo soltanto perché mi viene presentato da un milione di braccia”.

Qualche secolo più tardi Karl Popper ha ritenuto necessario riprendere il medesimo ammonimento ricordando nel suo libro più famoso (La Società aperta e i suoi nemici) che “anche una maggioranza può governare in maniera tirannica” e che la democrazia altro non è che un metodo utilizzato per consentire ad una comunità di assumere decisioni che non assicurano tuttavia a priori la tutela dei diritti individuali degli esseri umani.

A ragione, pertanto, i due pensatori liberali hanno sottolineato come la circostanza che il Governo di una Nazione sia espressione della maggioranza degli elettori anziché di una più o meno cospicua minoranza non offra da un punto di vista liberale alcuna garanzia aggiuntiva circa il riconoscimento e la tutela delle libertà fondamentali dei cittadini.

E’ nella forma di Stato, nel concreto atteggiarsi del rapporto fra l’Autorità e la libertà, fra potere pubblico ed individuo, invece, che va misurato il grado di liberalità del Governo e ancor più nella dimensione dello spazio che il variegato spettro dei soggetti pubblici riesce ad occupare a discapito dell’autonomia individuale (anche in economia ad esempio), tenuto conto che la forma di governo descrive, di contro, la ripartizione del potere fra i vari organi che compongono a livello centrale lo Stato e nulla di più.

Non è un caso, infatti, che l’evoluzione di paesi tradizionalmente liberali come il Regno Unito e gli Stati Uniti sia stata contrassegnata più dalle tappe che hanno inciso sul riconoscimento delle libertà individuali e sulla limitazione del potere pubblico che dalla revisione della forma di governo o del tasso di rappresentatività del Parlamento e degli esecutivi nazionali. La Magna Carta, il Bill of Rights, l’Human Rights Act, gli emendamenti della Costituzione degli Stati Uniti, una cultura fortemente impregnata di individualismo liberale e Tribunali realmente indipendenti hanno rappresentato, strada facendo, la vera garanzia contro qualsiasi pericolo di deriva autoritaria molto più di quanto lo abbiano fatto gli altri contrappesi di una forma di governo che è rimasta pur sempre presidenziale o di un regime parlamentare sin dalla sua nascita a forte impronta maggioritaria.

Appare davvero singolare, allora, come davanti al cosiddetto combinato disposto della riforma costituzionale e della legge elettorale a doppio turno di lista, l’attenzione di molti studiosi di diritto pubblico e di numerosi esponenti politici si sia concentrata in Italia su una presunta deriva autoritaria di cui non vi è obiettivamente traccia.

Nè la proposta di revisione della Costituzione (che non incide in nessun modo sul rapporto fra  cittadino e autorità pubblica ma si limita ad alcuni ritocchi sulla forma di governo al fine di rendere più efficiente i processi decisionali) né la legge elettorale a doppio turno (il cui unico scopo è quello di garantire la stabilità di governo) alterano le caratteristiche di una forma di Stato come quella Italiana che è ben lungi in ogni caso dal poter essere definita autenticamente liberale e che molto è stata incisa fortunatamente dagli insegnamenti della Corte di Giustizia europea e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Sembra sfuggire ai più come all’interno del nostro “regime” democratico Governo e Parlamento possano in ordine sparso: appropriarsi di oltre metà del PIL prodotto dai cittadini e sperperarlo impunemente, controllare l’informazione pubblica, influire pesantemente sull’istruzione dei cittadini, scegliere in economia i vincitori e salvare i perdenti, limitare le libertà civili degli italiani, e tutto ciò tanto se siano rappresentativi di più del 50% degli elettori quanto se siano stati investiti da una semplice maggioranza relativa.

La gestione condivisa delle responsabilità all’interno di una forma di governo parlamentare a tendenza assembleare (non maggioritaria dunque) assicura unicamente l’affollarsi di più gruppi organizzati al banchetto della spartizione del potere statale a discapito dei diritti e delle libertà del singolo individuo. Nulla a che vedere con una battaglia per la libertà che possa arrestare una deriva autoritaria. Almeno fino ad ora.

@roccotodero

20
Ott
2016

Roma: sul finto salario di produttività la giunta Raggi si gioca la faccia

La retribuzione dei 23mila dipendenti del Campidoglio si candida a essere la prima grande questione su cui misurare il sindaco Raggi.  E’ un problema aperto già da due anni, dovuto ai criteri seguiti dalle giunte che hanno governato Roma dal 2008 al 2014. Quindi è cattiva eredità del passato, su questo non si discute. Ma la sua soluzione tocca a chi governa Roma oggi, dunque in primis al sindaco e all’assessore al Bilancio, Mazzillo. E non è un problema tecnico, perché investe un aspetto centrale del riordino dell’intera macchina amministrativa capitolina.  Da come la giunta vorrà affrontarlo, si capirà quanto intende agire in profondità per voltare davvero pagina rispetto a ciò che va cambiato. La triade di valori da mettere al centro è: efficienza, merito e trasparenza.

Breve sintesi del problema. Ai 23 mila dipendenti capitolini per anni è stato corrisposto come salario di merito una percentuale elevatissima della retribuzione, fino a superarne il 40%, con criteri egualitari che nulla avevano a che fare con metriche di produttività dichiarate ex ante – a livello di dipartimento, di servizio e individuale – e misurate e premiate concretamente ex post, attraverso valutazioni oggettive di risultato. Molti altri capoluoghi italiani seguivano tale andazzo. E hanno negli anni posto rimedio. Roma ha continuato.  Finché nel 2014 è intervenuto l’Ispettorato generale di Finanza del MEF, intimando al Campidoglio un perentorio stop a tale prassi. Il Ministero dell’Economia ha di conseguenza quantificato in 340 milioni di euro, i salari di finto merito illegittimamente corrisposti e da recuperare. Non attraverso tagli diretti ex post ai salari degli stessi lavoratori, bensì tramite economie di gestione del Comune.

E’ ovvio che la ridefinizione di criteri di merito e produttività “veri”, da proporre a sindacati e lavoratori, sia il punto di partenza dell’intero disegno di riefficientamento e di equilibrio finanziario della macchina amministrativa capitolina nel suo complesso. E poiché la questione è stranota da anni, c’è stato tutto il tempo di pensarci e di apprestare uno schema di soluzione, da parte di chi si è candidato a guidare Roma dopo i lunghi mesi seguiti alle dimissioni dell’ex sindaco Marino.

A giudicare dalle cronache di questi ultimi tre giorni, si direbbe invece il contrario. Il sindaco Raggi ha avuto a palazzo Chigi un incontro con il sottosegretario De Vincenti nel quale ha avanzato la proposta che quei 340 milioni da recuperare per il “merito a pioggia” siano scalati dai 440 milioni di risparmi di spesa a cui Roma è tenuta dal piano triennale di riequilibrio strutturale del bilancio, come corrispettivo ex post dei decreti salva-Roma. La risposta del governo è stata improntata a un più che comprensibile gelo. Non spetta al governo ma alla giunta romana, ha detto De Vincenti, entrare nel merito di come recuperare i 340 milioni e di come ricondurre il salario di risultato alle finalità vere, e ai corretti limiti quantitativi che esso deve avere sul totale della retribuzione. Ma una cosa è pressoché certa. Se la giunta formalizza davvero la sua intenzione di scalare i 340 milioni dai 440 di risparmi dovuti ad altro titolo, il MEF boccerà la proposta.

Diciamolo con chiarezza. Non c’entra niente l’ipotesi di uno scontro politico, tra giunta pentastellata e governo Renzi. In ballo c’è invece una questione di elementare equità, nei confronti di tutte le altre città italiane. Che non hanno goduto dei salva-Roma, e di 18 miliardi di debito segregati dal bilancio ordinario e affidati in gestione commissariale, e che anzi hanno risolto negli anni alle nostre spalle le anomalie del “finto” premio alla produttività.

Certo 340 milioni non sono pochi, in un bilancio che continua ad avere una tendenza strutturale al miliardo di squilibrio sui poco più di 5 complessivi. Ma il limite asfissiante da superare per l’equilibrio dei conti è proprio l’inaccettabilmente bassa propensione della troppo trascurata macchina amministrativa comunale a generare entrate ordinarie proprie, a prescindere dai trasferimenti statali e dalle imposte, che sono già ai livelli massimi nazionali. Per ottenere tale risultato l’intervento da fare su dirigenti e dipendenti è proprio quello di una corretta soluzione alla retribuzione di merito.

Piuttosto, non vorremmo che l’elemento frenante fosse un altro, rispetto all’indecisione su come effettuare risparmi. E cioè il facile consenso dei dipendenti e dei sindacati. E’ ovvio che ai sindacati piaccia l’ipotesi avanzata dalla Raggi a palazzo Chigi. Ma è altrettanto ovvio che la giunta capitolina dovrebbe invece far leva su una energica svolta capace di individuare e premiare davvero coloro che, in Campidoglio e nei Municipi come nelle società controllate, in tutti questi anni non si sono assuefatti a prassi collusive che dall’assenteismo sfociavano in vere e proprie violazioni a catena del codice penale e degli appalti.

Grillo disse nel novembre 2015 che i romani erano avvisati: in caso di vittoria dei 5 stelle “i precisi e i perfetti non hanno nulla da temere”, ma quanto agli altri non sarebbero mancate misure tali da sfociare in polemiche e proteste. Nella campagna elettorale, la Raggi ha sempre ripetuto che i risparmi non si dovevano fare sui dipendenti. Ma delle due l’una. O le misure di razionalizzazione profonda arrivano, e arrivano ora, per realizzare i 340 milioni da recuperare i finti salari di merito. Oppure non penalizzare i dipendenti – è giusto, non erano loro ma la politica a decidere come erano pagati – diventa lo scudo per mantenere le cose come stanno. La seconda scelta è un errore profondo, quanto di più vecchio e collusivo la politica dei partiti che hanno sgovernato Roma già per troppi anni ha disastrosamente praticato.

Molti altri sono gli elementi che si stanno appesantendo, nei conti di Roma. A cominciare dai deficit delle maggiori partecipate, e da quello ATAC che potrebbe superare nel 2016 i 100 milioni, rispetto ai meno di 50 previsti.  E non si comprende come, a fronte di questo, la giunta escluda – apertamente o tramite mezzucci, vedi la recente delibera sull’eventualità che al subentrare eventuale di soggetti privati nei contratti di servizio messi a gara, rispetto alle attuali municipalizzate, spetti ai subentranti assumersi i debiti del concessionario precedente – che almeno in parte soggetti privati possano concorrere al risanamento e all’efficientamento finanziario e gestionale dei servizi pubblici.

Ma il nuovo salario di produttività e il recupero delle somme indebitamente spese vengono prima di tutto. Ciò che ha spinto i romani a votare per una svolta è, appunto, l’aspettativa di una svolta vera. Non di un giochino di terz’ordine sui conti.