15
Dic
2016

Se sull’art.18 il Pd ora fa marcia indietro, si sbriciola ogni sua ambizione di leadership

C’è un ordigno sotto la sedia del governo Gentiloni, e ha subito fatto avvertire il ticchettio del suo congegno a orologeria. Sono i tre referendum abrogativi in materia di mercato del lavoro promossi dalla Cgil, sui quali l’Ufficio Centrale per i referendum della Corte di Cassazione ha già espresso lo scorso 6 dicembre il proprio parere favorevole di conformità ai requisiti di legge, sia per numero di firme raccolte sia per l’appropriata espressione dei quesiti rispetto alle norme che s’intende abrogare.  E’ attesa per la seconda settimana di gennaio 2017 la pronunzia di legittimità della Corte Costituzionale, e l’opinione prevalente (§) è di un via libera. A quel punto i referendum dovrebbero tenersi tra metà aprile e metà giugno 2017, rinviabili all’anno successivo solo in caso di elezioni anticipate. Dei tre quesiti uno riguarda l’abolizione dei voucher, un secondo le norme sulle corresponsabilità di appaltatori e subappaltatori in ordine ai contratti di lavoro. Ma quello esplosivo è il terzo: propone l‘abrogazione di una delle modifiche essenziali intervenute con il Jobs Act, quella sull’articolo 18 del vecchio Statuto dei Lavoratori, e intende reintrodurre il principio generale della reintegra giudiziale rispetto alle modifiche intervenute e oggi vigenti, che la escludono per i licenziamenti diversi da quelli per giusta causa, giustificato motivo soggettivo, e discriminatori.

I media avevano silenziato in maniera assoluta il tema, finché c’era Renzi a palazzo Chigi, malgrado le firme ai quesiti siano state oltre tre milioni. Ma dopo la vittoria del no al referendum costituzionale del 4 dicembre, il tema è diventato immediatamente incandescente nel confronto interno al Pd. Nell’assemblea dei deputati Pd precedente il voto di fiducia al governo Gentiloni, l’onorevole Damiano ha detto senza mezzi termini che il Jobs Act a suo giudizio è ferito a morte e, se il Pd non vuole esporsi a un nuovo rigetto frontale da parte della maggioranza degli italiani nelle urne, l’unica alternativa è abolirne in parlamento le norme contestate dal referendum. La leader della Cgil Camusso ha subito rilanciato la palla, accusando il ministro Poletti di pensare alle elezioni anticipate per paura di affrontare il tema, mentre la via maestra sarebbe affrontare tutti i nodi che la Cgil ha posto in una propria proposta di legge di revisione integrale del Jobs Act. Anche la minoranza bersaniana, o almeno diversi suoi esponenti, si sono già pronunciati in senso analogo.

Visto il rilievo del tema, è il caso di essere estremamente chiari.  Avevo chiesto tre giorni fa qualche segnale chiaro per capire se il Pd intendesse avviare un’autocritica delle sue riforme, visto che la sola Giannini era stata sostituita per l’insoddisfazione sulla Buona Scuola: ma qui siamo a una stupefacente retromarcia assoluta. La nuova disciplina dell’articolo 18 è quella sulla quale si sono incardinati dal 2014 a oggi oltre tre milioni di attivazioni di nuovi contratti a tutele crescenti. L’ISTAT non rileva le tipologie di contratti tra quelli nel frattempo avviati a cessazione, ma anche nella peggiore delle ipotesi più di due milioni di lavoratori hanno oggi un contratto il cui fondamento sta proprio nella profonda revisione della vecchia disciplina della reintegra giudiziale affidata alla variabile valutazione del magistrato. Siamo ovviamente pienamente rispettosi di chi è nostalgico della vecchia disciplina ipervincolistica, che rendeva il nostro sistema uno dei più rigidi tra tutti i paesi avanzati del mondo (ne trovate conferma anche nel recentissimo indice delle liberalizzazioni IBL relativo ai dati comparati dei 28 paesi Ue del 2015: ITA a 69 punti come apertura del mercato del lavoro rispetto a 100 del Regno Unito, 93 della Danimarca, 91 della Svezia, 88 dei paesi Bassi, 81 Germania..). Ma il rispetto non ci impedisce di ribadire che quella nostalgia ha presupposti ideologici. Essi non hanno a che vedere con la necessità di avere da una parte più occupati, e dall’altra un regime di diritti e di sostegni al reddito dei disoccupati meglio coerenti e compatibili con la necessità di fondo di un sistema dinamico dell’impresa: cioè volto al miglior impiego e riconoscimento delle migliori qualifiche, e alla ri-formazione continua dei lavoratori per una nuova occupabilità. Il lavoro si estende e difende nella società italiana meglio con la nuova disciplina, che tornano alla vecchia idea tayloristica di difendere il lavoro a vita dov’era e com’era.

Ci sono almeno tre ragioni per contrastare chi vuole tornare al vecchio articolo 18.

Primo: la vittoria dei nostalgici creerebbe unna nuova iniqua frammentazione nel già troppo frastagliato  mondo degli occupati. Mentre con la riforma si è avviata una rapida transizione dalle vecchie tutele rigide a quelle nuove e dinamiche, se vincesse il no avremmo coorti di occupati pre-riforma con la reintegra giudiziale, poi milioni di occupati a tutele crescenti con la nuova disciplina che resterebbero però in un limbo, e ai quali si aggiungerebbero nuove coorti di occupati con nuovi contratti di nuovo la reintegra.  Una spaccatura in tre che verrebbe assunta nel mondo come riprova della totale incapacità del nostro paese di assumere indirizzi di riforma del lavoro tenendoli poi fermi nel tempo. Sarebbe un’Italia caricaturale alla sor Tentenna: dimmi in che anno arrivi al lavoro e ti dirò che contratto ti faccio.

Secondo: la marcia indietro sull’articolo 18 ferirebbe a morte anche l’avvio delle politiche attive del lavoro, che deve partire nel 2017 con il primo esperimento dell’assegno di ricollocazione, e la tutorship diretta per riqualificare i disoccupati di lungo periodo e accompagnarli personalmente a nuovi contratti adeguati al loro profilo. Il colpevole lunghissimo ritardo sul varo delle politiche attive è stato l’errore capitale del Jobs Act, oscurato dalla massiccia decontribuzione: è questa l’autocritica che avrei voluto sentire. Già è una novità, quella del primo esperimento dell’assegno di ricollocazione, sulla quale l’esito referendario del 4 dicembre allunga ombre preoccupanti, visto che le Regioni possono chiedere indietro le proprie competenze, bloccando così sul nascere una leva essenziale per favorire occupazione aggiuntiva. Ma cambiare l’articolo 18 significa innestare la retromarcia ideologica anche a favore del vecchio regime delle Casse Integrazioni ordinarie e straordinarie, dimenticando che esse hanno dato una prova storica irreversibile di non essere conciliabili con la riqualificazione e l’occupabilità dell’offerta di lavoro.

C’è poi una terza ragione: tutta politica. E’ del tutto evidente che il retroterra di questa iniziativa referendaria, come i suoi nuovi sostenitori che oggi vi si aggiungono nel Pd dopo il 4 dicembre, esprimono un problema di identità irrisolta della sinistra italiana. Un problema che si riapre in maniera lacerante. Proponendo un regolamento di conti il cui prezzo pagherebbe però l’intero paese, innanzitutto chi – giovani, donne e meridionali – resta ancor oggi incatenato a percentuali di partecipazione al mercato del lavoro scandalosamente basse. E’ questa la radice delle nuove povertà diffusesi nel nostro paese, è questa la ragione dell’enorme ingiustizia di un paese non per giovani. A tale emergenza sociale i nostalgici rispondono continuando a pensare solo a tutele rigide e a miliardi mobilitati per prepensionare, e in entrambi i casi questi interventi sono riservati a chi un lavoro ce l’ha. Non a chi ne è sprovvisto.

L’appello al Pd è dunque quello di non ribaltare sull’Italia il prezzo dei propri contrasti interni. Fingere che la riforma dell’articolo 18 non sia stata legittimamente votata dal Parlamento e innanzitutto dal Pd, è del tutto paradossale.  E’ come ammettere che la propria leadership su temi così centrali si esprime a tentoni, riservandosi di cambiare idea ogni anno.  Il governo deve vivere di vita propria, rispetto agli impegni che gli sono affidati a cominciare dalla legge elettorale. Ma un Pd che cambiasse idea tanto radicalmente su una delle sue scelte più importanti di questi anni e rifiutasse di difenderla abdicherebbe alle sue ambizioni di fronte all’elettorato.

(§): attenzione, però, come sottolinea tra gli altri Pietro Ichino un problema di accoglibiltà esiste, ed è proprio sulle modalità di taglia e incolla rispetto al testo vigente proposto dal quesito sull’articolo 18, al fine di “ridisegnare” un testo in cui si torni alla precedente disciplina della reintegra ma NON nelle imprese con più di 15 dipendenti (com’era prima del Jobs Act) bensì in quelle con più di 5 dipendenti. Bisognerà vedere se la Corte si attiene rigidamente al no ai referendm con effetti propositivi invece che meramente abrogativi e cassa dunque il quesito integralmente a quel punto sminando il quesito più esplosivo tra i tre, o se lo riscrive a propria volta cassando solo la parte della richiesta di applicazione della vecchia disciplina sopra i 5 dipendenti invece che sopra i 15.

 

13
Dic
2016

Bocciata la sola Giannini: ci sarà vera autocritica delle riforme di Renzi?

A giudicare dalla composizione del governo Gentiloni, con le conferme dei ministri Madia, Poletti e la promozione della Boschi, l’unico ministro del governo Renzi titolare di una “grande riforma” esplicitamente bocciato è Stefania Giannini, sostituita da Valeria Fedeli al MIUR. Del resto, il segretario del Pd da mesi ripeteva che il suo vero cruccio tra le riforme che andavano fatte meglio era proprio la Buona Scuola. Vista la sostituzione, cercare di capirne il perché aiuta a una considerazione di portata più generale: sulle riforme di Renzi e anzi sulle riforme più in generale quando nel nostro Paese intervengono su interessi di massa, generando dunque potenzialmente reazioni che hanno grande influenza nell’orientamento del corpo elettorale.

Non per concederle l’onore delle armi, ma se si considera il punto di partenza e quello di arrivo della Buona Scuola, Stefania Giannini a mio avviso non merita personalmente la bocciatura riservatale. Certamente, pesa molto il fatto che la Scelta Civica cui aveva dato vita Mario Monti, il partito cioè che ha espresso la Giannini, in Parlamento si è ridotta al lumicino, un’appendice dell’ALA di Verdini delusa dal governo Gentiloni.  Ma in realtà le riserve esplicite di Palazzo Chigi e del Pd verso la Giannini datano da un tempo molto precedente. Ricapitolandone i motivi si capisce anche una parte di autocritica sull’operato dell’ex governo che oggi resta ancora molto implicita nelle riflessioni pubbliche del Pd, ma che è (forse) destinata a manifestarsi ora che il partito va verso il suo congresso anticipato.

Innanzitutto: se il Pd fosse convinto che il mancato consenso dei giovani clamorosamente manifestatosi al referendum sia figlio della Buona Scuola, è una tesi azzardata. I voti che tradizionalmente “sposta” il comparto della Pubblica Istruzione col suo 1,1 milioni di dipendenti sono quelli degli insegnanti e del personale tecnico ATA, non degli studenti. Ma va ricordato che l’età media degli insegnanti italiani è la più elevata in Europa.  Eurostat certifica che nella scuola primaria italiana il 52,7% dei maestri ha più di 50 anni, nelle secondarie di primo grado la percentuale sale al 54,3%, in quelle di secondo grado si sale al 59,6%. In Gran Bretagna nella scuola primaria il 20% degli insegnanti ha tra i 25 e i 29 anni, mentre nel nostro paese questa fascia d’età rappresenta appena lo 0,5%, cioè un maestro ogni 200. Se dunque si dovesse giudicare semplicemente in base alle coorti anagrafiche, il no dei giovani non dipende della Buona Scuola. Ma resta vero che il Pd ha avvertito territorialmente in tutto il paese, che tra i dipendenti della scuola il consenso non era quello atteso e anzi, malgrado la riforma, il no era forte.

Diciamo allora che la glottologa Giannini, per anni rettore dell’Università per gli stranieri di Perugia, partiva con un duplice handicap.  Non aveva nel suo passato né il patrimonio di aver rappresentato per decenni un punto di riferimento istituzionale nel dibattito sull’istruzione per conto dell’area politico-culturale di cui il Pd odierno è erede, per intenderci di un Luigi Berlinguer.  Né l’aura di accreditato intellettuale d’area, grazie al quale per esempio Tullio de Mauro, da giovane liberale che era, divenne dagli anni Settanta sempre più riconosciuta autorità della scuola in un mondo che si estendeva dal Pci alla sua sinistra. Fino a ricevere il ministero sotto il governo Amato II, nel 2000. La Giannini aveva un duplice difetto: il mancato pedigree politico, e lo scarso appeal verso i due mondi tradizionalmente essenziali per ogni possibilità d’intervento sulla pubblica istruzione: la pachidermica e gelosa burocrazia ministeriale, alla testa di una macchina che da sola vale più di un terzo del pubblico impiego nel nostro paese, e ovviamente i sindacati. Se al posto della Giannini viene oggi nominata una sindacalista di lungo corso della Cgil come Valeria fedeli, alla testa per dieci anni di una delle categorie per altro più riformiste come i tessili (insieme ai chimici, la categoria con contratti storicamente più aperti alla flessibilità sin dagli anni Novanta) c’è una prima tessera utile per comprendere la ratio della scelta. tessera amara: la Fedeli sa nulla di scuola e università, di fatto si sceglie una sindacalista (non molto esperta a far di conto, visti alcuni suoi incidenti sul PIL e calcolo di unità e percentuali su social…) ma è il Pd che “commissaria” in quanto tale il MIUR

Andiamo al merito della riforma. Naturalmente NON parlo qui dal mio punto di vista, cioè di una riforma liberale dell’istruzione costruita sui voucher e sulla piena libertà delle famiglie e studenti di “spenderli” nell’offerta formativa che giudichino più efficace, in base alla piena concorrenza sotto standard qualitativi misurati per performance di risultato. Parliamo invece della Buona Scuola. Al Pd non piacque sin dall’inizio il testo di princìpi generali che la Giannini mise in consultazione. Non è un mistero: molti dei suoi punti non trovarono infatti traduzione nel testo del disegno di legge, nel tardo autunno 2014. E attenzione, fu allora che nella riforma assunse peso una delle novità destinata a suscitare tantissime critiche da parte di sindacati e insegnanti, cioè il rafforzamento dei poteri del dirigente scolastico rispetto ai docenti, e alla scelta delle piante organiche per la parte relativa al completamento dell’offerta formativa in ogni istituto. Il presidente del Consiglio era fortemente a favore del rafforzamento di quelli che un tempo si chiamavano presidi, anche se la storia preferirà invece dire che la responsabilità di quella scelta è della Giannini. Ma proprio tale rafforzamento complicò ulteriormente i rapporti coi sindacati, che invece erano giunti a trattare esplicitamente un ridimensionamento significativo degli scatti di anzianità retributivi uguali per tutti al posto di una componente molto più rilevante da destinare alla retribuzione differenziata merito, secondo le nuove procedure di valutazione, una delle vere potenziali grandi novità annunciate della riforma.

A quel punto, avvenne l’errore fatale. Si decise cioè di concentrare la vera grande ragione della riforma – cioè la messa in regola impostaci giustamente dall’Europa di centinaia di migliaia di precari, che dagli anni Ottanta la politica italiana aveva vergognosamente accumulato nella scuola italiana – in un solo anno scolastico. Opera erculea rivelatasi del tutto impari alle possibilità della macchina burocratica centrale e periferica del MIUR. Il che spiega perché di anni ne saranno necessari almeno un altro paio, stante che ancora oggi almeno 30mila restano i precari supplenti, e molti di più coloro che o non hanno superato il concorso quest’estate o restano nelle graduatorie. Si può credere di darne colpa alla Giannini, ma è molto improbabile che chiunque altro al suo posto sarebbe riuscito nell’impresa. Era semplicemente impossibile: la ragionevolezza avrebbe dovuto sin dall’inizio far prevedere un ciclo triennale di procedure per la messa in ruolo.

Anche perché, se l’attesa era il consenso dei messi in ruolo, era un calcolo mal fatto. La politica italiana per decenni ha coltivato oscenamente l’esercito dei precari perché quello sì era un meccanismo capace di portare consensi, promettendo a ogni elezione regolarizzazioni che poi regolarmente mancavano. La messa in ruolo di massa, con un’estrazione territoriale tanto diseguale dei precari al Sud rispetto a una domanda da coprire soprattutto al Nord, ha inevitabilmente imposto procedure di assegnazione a mobilità regionale molto elevata, anche a centinaia di chilometri dagli incarichi a tempo per anni ricoperti dai precari nelle province e nelle regioni di residenza. Altra ragione che ha fatto esplodere le proteste.

Conclusione. La Giannini paga per colpe che governo e Pd hanno in realtà ampiamente condiviso. Piuttosto, la morale è un’altra. Quando si varano riforme ad alto impatto, come Renzi ha tentato di fare, proprio la Buona Scuola dimostra che è meglio preferire interventi con princìpi chiari e forti da difendere con coerenza, piuttosto di piegarli nel tempo sminuendoli. Perché altrimenti si suscitano comunque vaste e dure proteste, ma insieme si attenuano però i consensi di chi le ha inizialmente condivise. Alla fine, la Giannini paga semplicemente perché è più debole dei suoi ex compagni di governo, punto.

 

 

12
Dic
2016

Cavour, il protezionismo e la globalizzazione. Pensieri moderni di 165 anni fa

Nel 1851 Camillo Benso Conte di Cavour all’età di 41 anni guidava il Ministero dell’agricoltura e del Commercio del Governo di Sua Maestà Vittorio Emanuele II Re di Sardegna. Nel mese di aprile di quello stesso anno il giovane Ministro dovette affrontare il dibattito parlamentare sul suo progetto di riforma doganale che prevedeva trattati commerciali con Belgio e Inghilterra e consistenti riduzioni dei dazi sino a quel momento vigenti.

A capo dell’opposizione protezionista il Conte Ottaviano Thaon di Revel fece osservare come il libero commercio nuocesse gravemente all’accumulo dei capitali all’interno del Regno di Sardegna e mettesse in serie difficoltà le imprese esposte alla concorrenza internazionale con conseguente flessione dei livelli occupazionali.

Cavour, che non fu mai un grande oratore ma i cui discorsi furono sempre chiari, asciutti e poco inclini alla retorica, replicò con un bellissimo intervento che riassunse le linee essenziali del suo pensiero in materia di politica economica e commerciale.

Con grande coraggio e lucida consapevolezza di come l’intervento dello Stato alterasse il libero gioco della concorrenza a vantaggio ora di questa ora di quella industria, Cavour esordì affermando che il suo Ministero professava “schiettamente il libero scambio”, e che fosse dell’avviso “che non si possa imporre alla generalità dei consumatori dazio veruno, onde favorire certi rami dell’industria…”

Il futuro Presidente del Consiglio dimostrò di comprendere appieno come il protezionismo non fosse altro che il risultato delle pressioni degli imprenditori più forti e capaci di rappresentare i loro interessi ai più alti livelli istituzionali ed una maschera, allo stesso tempo, con la quale si tentava di nascondere politiche distributive, utili solo a trasferire risorse dai consumatori ad alcuni produttori.

A chi insisteva nell’affermare che il protezionismo avrebbe consentito all’interno del Regno l’accumulazione di quei capitali di cui il sistema economico aveva necessità (sopratutto nei settori posti al riparo dalla concorrenza estera), il Conte di Cavour replicò dimostrando come in realtà il protezionismo alterasse proprio l’allocazione dei capitali poiché rappresentava un falso segnale capace di attirare risorse in settori protetti e per ciò solo incapaci di assicurare adeguato sviluppo e crescita.

Il sistema protettore non ha facoltà di creare capitali, ma solo che i capitali disponibili e destinati alla produzione si rivolgano a questo, piuttosto che a quell’altro ramo dell’industria – affermò Cavour, e più avanti precisò il suo pensiero dichiarando come – il sistema protettore abbia per effetto di spingere i capitali nelle vie che sono meno profittevoli.

Dimostrando grande capacità di leggere i fenomeni dell’economia mondiale il Ministro del Commercio illustrò le conseguenze nefaste che il protezionismo avrebbe avuto sulla divisione internazionale del lavoro e sulla capacità delle imprese (sopratutto in una realtà molto piccola come il Piemonte) di innovare e progredire perché stimolate dalla concorrenza esterna:

Ora, signori, il sistema protettore impedisce appunto la divisione del lavoro, col far sì che il capitale nazionale disponibile, il capitale di riproduzione, si rivolga a tutti quei rami d’industria di cui il Paese ha bisogno, ma i cui prodotti potrebbe procurarsi dall’estero; ma l’avere attivato tutti questi rami d’industria, riuscendo d’impedimento alla riunione dei diversi capitali in un’industria, impedisce appunto la divisione del lavoro, e ciò mi pare assolutamente evidente … ed accade sempre che mercè il dazio protettore,  produttori si addormentano e sono lentissimi nei progressi che altrove si fanno celermente.

Cavour, infine, si fece carico (col garbo del linguaggio e la forza dell’argomentazione razionale) di svelare come l’idea degli industriali protezionisti di tutelare il lavoro dei loro operai per mezzo dei dazi fosse radicalmente sbagliata perché sottovalutava il profondo legale fra la quantità di capitali investita in un sistema economico e l’aumento della forza lavoro:

Se il sistema protettore avesse la virtù di aumentare i capitali, tornerebbe certamente proficuo alla classe degli operai: ma se invece di aumentare i capitali, non dà che un cattivo interesse, invece di tornare utile le torna dannoso. Potrà, egli è vero, essere di vantaggio ad una determinata località. È vero che il sistema protettore può favorire notevolmente, largamente, una provincia addetta ad una particolare industria … Ma bisogna vedere se il vantaggio che la valle d’Aosta ha ricavato dal dazio protettore sui ferri non sia stato pagato dieci volte dalle altre parti dello Stato.

Tutto questo nell’aprile del 1851,165 anni fa…

@roccotodero

5
Dic
2016

Gli individui risolvono la crisi economica se lo Stato…—di Federico Morganti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Federico Morganti.

Chiunque appartenga alla ristretta galassia liberale-liberista sa bene quanto sia importante la crescita economica e quali siano le condizioni che possono agevolarla: uno stato leggero, la certezza del diritto, stabilità istituzionale. Condizioni tanto più importanti in tempo di crisi, quando l’occupazione, le opportunità di investimento e le possibilità di risparmio delle famiglie languono. Il liberista diffida, e a ragione, della pretesa dello stato di fornire la ricetta per uscire dalla crisi. Lo ha ben sottolineato Emilio Rocca in un recente intervento su “Leoni Blog”. Semplicemente, lo stato non ha gli strumenti per far promuovere, in positivo, la crescita del paese. Non c’è sussidio o intervento a favore di questo o quel gruppo che potrà aiutare l’Italia a riprendersi. Le energie per la ripresa non verranno dall’apparato pubblico, bensì dal basso: dai comuni cittadini, da imprenditori piccoli e grandi, commercianti e produttori di beni e di servizi (in una parola: di valore). La vera domanda, dunque, non è “cosa può fare lo Stato per risolvere la crisi economica?” bensì “cosa può fare l’individuo per risolvere la crisi economica?”. È il secondo e non il primo a produrre valore e a contribuire dunque a quell’indicatore aggregato della crescita di un paese qual è il PIL. “La risposta migliore dell’individuo di fronte alla crisi economica”, scrive Rocca, “sarebbe quella di produrre maggiore valore”.
C’è del vero in queste considerazioni, ma c’è anche qualcosa che manca. Per rendercene conto, basta porre un’ulteriore domanda: come mai nel nostro paese gli individui fanno fatica a produrre valore, a innovare, a escogitare nuovi modi per servire il consumatore? A questa domanda, il liberista dà una risposta secca: lo stato, sotto forma di tassazione, burocrazia e regolamentazione schiacciante.
Se ciò è vero, ne consegue che c’è molto che lo stato può fare per mettersi la crisi alle spalle: può ridurre la spesa pubblica e tagliare le tasse; può razionalizzare la spesa pensionistica; può rivedere il funzionamento della pubblica amministrazione; può alleggerire il carico regolatorio e burocratico sulle imprese; può spingere l’Unione Europea a rimuovere le barriere commerciali con il terzo mondo. Poiché è lo stato a imbavagliare le energie degli individui con lacci e lacciuoli di ogni tipo, esso si trova in un’ottima posizione per promuovere la crescita, e cioè rimuovendo quei vincoli. È lo stesso Rocca, del resto, a suggerirlo: “Cosa direbbe [Adam Smith] di elettori che affrontano la crisi economica chiedendo allo stato di fare esattamente l’opposto di una famiglia di buon senso, ovvero di aumentare la spesa e di fare più debito?”. Ma la riduzione della spesa e del debito pubblico devono necessariamente passare per un cambio di rotta della politica.
Come spingere la politica a fare questo, come diffondere un po’ di cultura liberale tra gli organi istituzionali è un problema di non facile soluzione, su cui è perfino lecito essere pessimisti. Ma può il liberale escludere a priori che la politica possa fare qualcosa per la crisi? E quali sono le strade più promettenti che il liberale deve invece battere? Possiamo certamente promuovere la diffusione delle idee liberali, una maggiore educazione ai benefici del mercato e della globalizzazione: obiettivi senz’altro auspicabili benché raggiungibili solo nel medio-lungo termine. Ma nello sforzo di istruire circa i benefici dello stato minimo e dell’autonomia del mercato, non dimentichiamo che, purtroppo, in Italia lo stato non è “minimo” e di libero mercato ce n’è ben poco. Per far sì che gli individui contribuiscano all’uscita dalla crisi è dapprima necessario rimuovere gli ostacoli che impediscono loro di farlo. E per far ciò, una cosa che lo stato può fare in effetti c’è: farsi da parte, e speriamo per molto tempo.

2
Dic
2016

Solo gli individui risolvono la crisi economica

Se c’è una cosa che ho imparato divulgando l’economia tra i più giovani e non solo, è che non è tanto importante insegnare loro risposte, quanto esaminare le loro domande. Non è tanto importante oggi mettere in discussione le risposte ai tanti interrogativi che incombono sul futuro dell’economia italiana, quanto le domande e come vengono formulate.

Mi spiego meglio. Mi sono trovato diverse volte a raccontare la favola del vetro rotto di Frederic Bastiat a ragazzi e ad adulti. Con essa il grande economista francese dell’Ottocento ha mostrato come la folla analizzi i problemi economici soffermandosi su ciò che si vede e dimenticandosi ciò che non si vede. Questo fenomeno interessa anche oggi molte persone e le porta ad appoggiare interventi artificiali (pubblici) nell’economia ignorandone il costo, spesso disperso su una grande popolazione oppure spostato sulle generazione future. Quando i miei interlocutori si rendono conto che la maggior parte degli interventi pubblici ha una serie di conseguenze non intenzionali che vanno in direzione diametralmente opposta a quella promessa, la domanda seguente è quasi sempre: “ma allora non si può fare nulla per risolvere la crisi?”.

“Ma allora non si può fare nulla per risolvere la crisi?” è una domanda che contiene implicitamente una supposizione: che l’unico che possa fare qualcosa sull’economia sia lo Stato. “L’economia può esser cambiata solo dallo Stato” pensa evidentemente l’interlocutore che eguaglia l’inefficacia  dell’interventismo pubblico all’impossibilità per l’uomo di invertire la direzione preoccupante del ciclo economico. D’altronde questa idea è probabilmente condivisa  anche da chi pensa all’economia come ad una materia fredda e noiosa che non sia meritevole di interesse, né tantomeno di spazio nei curriculum scolastici. Se l’economia è una materia avulsa dalla quotidianità, è perché si pensa che l’individuo debba delegarla a qualcun altro.

Partendo da queste premesse concettuali, le risposte che i governi daranno alla crisi economica saranno inevitabilmente inefficaci. Perché la domanda di fondo, gira e rigira, sarà sempre: “cosa può fare lo Stato per risolvere la crisi economica?”. Molti lettori di queste colonne risponderanno che lo Stato ha già fatto fin troppo per la crisi economica, aggiungendo imposte a una mole di imposte, debito a una montagna di debito, regole a un ginepraio di regole, droga monetaria a overdosi di liquidità. Molti altri si divideranno su quale sia l’intervento giusto da mettere in atto, se un sussidio, un incentivo, una riforma; e ancora, se lo Stato debba sostenere gli imprenditori o i lavoratori, i giovani o i pensionati, i dipendenti o gli autonomi.

La domanda che, invece, manca quasi sempre all’appello è: “cosa può fare l’individuo per risolvere la crisi economica?”. Oggi sembra una domanda ridicola tanto quanto pensare di svuotare un lago con un cucchiaino, ma questo perché viviamo in un’epoca economica alquanto anomala; un tempo in cui lo Stato si offre di migliorare il benessere dell’individuo producendo una quota determinante dei servizi che consuma, dall’istruzione alla previdenza. Questo non si era mai verificato prima del Novecento e genera molta separazione tra l’economia e l’individuo che si trova nell’impossibilità di scegliere molte delle cose che vive.

Eppure, la risposta migliore dell’individuo di fronte alla crisi economica sarebbe quella di produrre maggiore valore. Non essendo il PIL altro che la somma del valore aggiunto prodotto in un determinato anno, l’individuo che riesce a creare maggiore valore è quello che contribuisce maggiormente all’economia del proprio Paese. “Perseguendo il proprio interesse, un individuo spesso fa progredire la società più efficacemente di quando intende davvero farla progredire”: la società in cui viviamo non ha ancora capito fino in fondo questa famosa frase di Adam Smith e continua a “curare” la crisi economica con le sue stesse cause – manipolando il denaro, alimentando debito e consumo, dirigendo un’economia complessa con il timone inconsistente del Governo.

Immagino che la prima domanda che veniva in mente ai nostri nonni e ai nostri antenati in tempo di povertà fosse: “cosa posso fare io di fronte alla crisi economica?”. Di fronte alla mancanza di soldi, ogni famiglia rispondeva riducendo le uscite e cercando di aumentare le entrate, non pensava certo a come risolvere i suoi problemi attraverso lo Stato. Adam Smith diceva anche che ciò che è buon senso nel governo di una famiglia non può essere follia nel governo di un grande regno. Cosa direbbe di elettori che affrontano la crisi economica chiedendo allo Stato di fare esattamente l’opposto di una famiglia di buon senso, ovvero di aumentare la spesa e di fare più debito?

Oggi non è importante divulgare risposte, è fondamentale mettere in discussione le domande che automaticamente vengono formulate da generazioni cresciute nella bolla del welfare state. “Cosa può fare lo Stato per la crisi?” è una domanda che andava bene qualche decennio fa. Ora lo Stato non può più rispondere alla crisi come faceva un tempo, espandendo debito e consumo. La domanda che ci resta da fare – e che, fortunatamente, è anche quella più corretta – è: “cosa può fare l’individuo per la crisi?”. Quando più persone si accorgeranno che gran parte della loro possibilità di aggiungere valore all’economia è ostacolata dallo Stato stesso, allora con buona probabilità arriveranno risposte che affronteranno le radici di questa crisi economica e ci permetteranno di  superarla.

28
Nov
2016

Il Mon(App)olio di Google? E’ il mercato, bellezza!—di Luca Minola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Luca Minola.

La vicenda che vede coinvolta la Commissione Europea contro Google si arricchisce di un nuovo episodio. E’ di pochi giorni fa, infatti, la lettera aperta scritta da Kent Walker – Senior Vice President and General Counsel di Google – per difendersi dalle accuse di concorrenza sleale.

Sia nel 2010 che nel 2015 il colosso americano è finito sotto la lente d’ingrandimento del commissario europeo per la concorrenza, ruolo oggi ricoperto da Margrethe Vestager, per la sua presunta posizione dominante nel mercato dell’economia digitale. Due sono le accuse principali. Secondo la Commissione, Google favorisce sistematicamente i propri prodotti di acquisto comparativo nei risultati delle ricerche generiche e soffoca lo sviluppo di sistemi operativi alternativi a Google Android firmando accordi esclusivi con i produttori di tablet e smartphone.

Senza entrare nel merito delle questioni che hanno dato avvio alle due indagini (per un loro approfondimento si rinvia al paper dell’Istituto Bruno Leoni “EU Antitrust Vs, Google”), è possibile tracciare un elenco di punti a favore della tesi secondo cui sanzionare Google è completamente sbagliato.

Anziché tutelare la libertà di scelta del cittadino come consumatore, l’azione della Commissione contro Google sembra piuttosto rivolta a difendere i suoi concorrenti.

Ciò che viene erroneamente definita come posizione dominante non è altro che il risultato delle sue continue innovazioni tecnologiche e digitali, ma soprattutto il risultato delle preferenze dei consumatori. Infatti, sono gli individui e le loro scelte a determinare chi è il vero vincitore della competizione nel mercato.

Oggi le ragioni che spingono gran parte dei consumatori ad utilizzare Google sono diverse. Ad esempio, coloro che utilizzano il suo servizio di comparazione prezzi lo preferiscono perché consente loro di bypassare gli intermediari – riducendo i tempi di ricerca – ed accedere a maggiori informazioni in minor tempo.

Tuttavia questo risultato non è stabile né tanto meno assicurato nel tempo. Contrariamente a quanto pensa la Commissione, il mercato dei servizi digitali è un mercato dinamico ed in continua evoluzione.

Finora la storia ci ha mostrato che per sbriciolare e sconfiggere presunti monopoli non servono specifiche regolamentazioni – spesso utilizzate invece per crearli -, ma investimenti, innovazione, creatività ed intrapresa. A testimonianza di quanto detto si può fare riferimento, per esempio, a Windows, considerata fino a pochi anni fa come la regina dell’elettronica. Il monopolio della società di Bill Gates è stato, infatti, frantumato dall’imporsi sulla scena di attori – tra cui la stessa Google – che hanno completamento ridefinito le coordinate della domanda e dell’offerta.

Infine, pensare a Google come unico attore dominante e incontrastato significa considerare solo una piccola parte dell’economia digitale il cui mercato non ha confini e si estende a settori completamente ignorati dalla Commissione. A far concorrenza a Google e a suoi servizi, oggi, non ci sono solo motori di ricerca, merchant platform, siti di comparazione di prezzi, ma soprattutto tutte quelle applicazioni specifiche che il consumatore decide di installare sul proprio smartphone o tablet.

Se Google ha ottenuto una posizione da leader nel mercato è perché, di fatto, è riuscito a conquistarsi la fiducia dei consumatori, mantenendo una certa continuità nei suoi servizi e creando un ambiente familiare che ha spinto gli utenti a sceglierla nonostante l’emergere di nuovi attori e tecnologie simili.

25
Nov
2016

Violenza sulle donne: le leggi non sono la risposta

Dov’è la scuola? Dove sono gli insegnanti che magari leggono in un tema racconti preoccupanti oppure vedono comportamenti pericolosi in classe, ma che non possono parlarne o prendere provvedimenti perché ci sono i programmi ministeriali da rispettare o la privacy o si scatenano i sindacati? Dove sono polizia, carabinieri, gli agenti municipali, quando ci sono le prime avvisaglie, le lamentele dei vicini, le grida, gli urli, gli schiaffi, i primi interventi che spesso si chiudono con un “vogliatevi bene”? Dov’è il nostro medico di famiglia quando vai là e cerchi di dirgli qualcosa ma non ti vengono le parole e speri che capisca e invece no, sta zitto, o fa finta di non capire perché è più comodo? Cosa dire, poi, del pronto soccorso, dove la volta che hai il coraggio di andare stai talmente tanto tempo in attesa che la paura, i rimorsi, ti logorano e scappi via o, arrivato il tuo turno, racconti bugie di cui nessun mai dubita? Per non parlare della magistratura che per anni o non se ne  è occupata o ha trattato con grande fatica e male i processi per violenze, le denunce finivano sempre in quei fascicoli da leggere per ultimi, o forse da non aprire mai, da archiviare, quella magistratura che del fatto che i reati di violenza sulle donne non fossero perseguibili d’ufficio  non si è  mai lamentata, non ha mai protestato, non ha mai dato battaglia : vogliamo mettere la gravità del falso in bilancio rispetto alla violenza sulle donne? Per fortuna grazie ad un grandissimo avvocato come Tina Lagostena Bassi i processi per stupro hanno iniziato a celebrarsi, a fare notizia e sono stati filmati  e si sono visti i giudici in tutta la loro inadeguatezza ( video Rai “Processo per stupro” 1979).

La risposta dello Stato alla violenza sulle donne sono state solo leggi, leggi e ancora leggi, al più drappi rossi, concerti rock ed esibizionismo retorico di vario genere. Per non parlare dei piani straordinari contro la violenza, tanto straordinari che da anni ce n’è uno all’anno, dei finanziamenti dati a pioggia  ad un terzo settore animato anche dai migliori propositi ma la cui qualità dei servizi non è sotto controllo e che spesso finisce per essere nient’ altro che strumento di consenso della solita politichetta del femminismo d’apparato.

Non ci sono state tante leggi sulla violenza alle donne come in questi 20 anni. E proprio in questi anni si e’ registra una recrudescenza spaventosa del fenomeno: e allora nell’Italia “più evoluta che mai” qualcosa non torna. Le leggi non sono la risposta, quelle leggi che hanno sì affermato diritti sulla carta, definito nuovi reati,  ma, in concreto, hanno finito con l’annientare i doveri di chi avrebbe dovuto semplicemente fare bene e scrupolosamente il proprio mestiere. Perché è lo Stato in tutte le sue tante, esclusive funzioni che fallisce per la sua rigidità, arretratezza, lentezza, inefficienza, incapacità; uno Stato nel quale tutti sono irresponsabili delle loro azioni o della loro inerzia, fanno lo scaricabarile e nessuno paga per le conseguenze.

Ora abbiamo anche il reato di femminicidio. Ma davvero crediamo che questa sia la soluzione? Chi ha paura del reato di femminicidio? Non basta dotarsi di armi micidiali per vincere una guerra se i soldati, tutti, dal primo all’ultimo, non svolgono bene, con coscienza,  il loro dovere, qualunque esso sia. E allora vale la pena interrogarsi sul metodo di azione dello Stato, lo Stato che vuole risolvere tutto ma poi non risponde di niente, che continua a vomitare leggi ed a perpetrare inefficienza, che tritura nella macchina della burocrazia e affida alle peggiori retroguardie della politica il dolore delle donne.

24
Nov
2016

Cosa può volere di più un uomo che sia felice, in salute, senza debiti e con la coscienza pulita? (Adam Smith)

È indispensabile riportare l’attenzione sul contatore inesorabile del nostro debito pubblico che caratterizza il sito dell’Istituto Bruno Leoni. Ne ha scritto qualche giorno fa sul CorSera Ferruccio de Bortoli nell’articolo “Debito pubblico cattivo maestro”. È stato scritto un libro uscito questa primavera di Carlo Cottarelli ed. Feltrinelli ” Il macigno: perchè il debito pubblico ci schiaccia e come si fa a liberarsene”. Ma di debito pubblico più se ne parla e meglio è .Perché, come viene esposto nel libro, il debito pubblico fa male, fa tanto male alla crescita,allo sviluppo, alla reputazione di un paese nei rapporti con gli altri paesi,  con i mercati finanziari e le banche internazionali.   L’autore dichiara che si tratta di  un libro fuori moda perché parla di un problema scomodo, che non si vorrebbe  vedere, uno di quei tabu che non vogliamo affrontare:  ma siccome l’emotività influisce molto anche sui processi economici di noi umani è bene accendere il cervello e prendere il toro per le corna. Così fa Carlo Cottarelli nel suo libro scritto con linguaggio chiaro, semplice  e con toni antiretorici e anticonformisti.  Vengono, infatti, esaminati e sfatati tanti luoghi comuni sul tema, con la capacità di offrire soluzioni. Si ragiona sulle posizioni dei “pasdaran” dell’austerità a tutti i costi, motivata, a volte, solo dalle pulsioni fideistiche del “ce lo chiede l’Europa” che oltre a suonare forse antipatico certo non è, comunque, auto-evidente e richiede studio, dati ed analisi, come fanno Nicola Rossi e Paolo Belardinelli con il loro SuperIndice. Si riflette sul fatto che, in fondo, per dissolvere “il macigno” del debito si potrebbe anche uscire dall’euro, perché no? Ma si analizzano anche le conseguenze pesantissime che ciò implicherebbe, in un onesto ponderarne sia i costi sia i benefici. Nel libro emerge come tematiche economiche così complesse,  in realtà, si nutrano anche della natura e delle abitudini consolidate dei popoli . Questo può far storcere il naso ma è una evidenza storica indiscutibile. In 150 anni dall’unità, l’Italia ha pareggiato il suo bilancio solo 2 volte. Ora però abbiamo il terzo debito rispetto al pil più alto del mondo dopo Giappone e Grecia. Insomma, la sensibilità di noi italiani, popolo di grandi risparmiatori, tanto è alta per il debito privato tanto è bassa per il debito pubblico. Altrove i sentimenti sono diversi.  La parola debito in tedesco ha la stessa radice di colpa, schuld. La politica britannica Margareth Thatcher, interrogata sulla sua formazione economica, così rispose: “Le mie politiche non sono basate su teorie economiche, ma su principi con i quali io come milioni di persone siamo cresciuti: una paga onesta per una giornata onesta di lavoro, vivi secondo i tuoi mezzi, tieni da parte nel nido un uovo per i giorni di pioggia e paga puntualmente i tuoi conti “.Onorare i debiti, mettere i conti in ordine e fare saving, proprio nei momenti più favorevoli, potrebbero sembrare  concetti da massaia anni 50 o da desperate housewife post moderna. In realtà è la strada maestra da seguire e indicata da Cottarelli. Servono riforme strutturali per la crescita, certo, con contenimento ai livelli attuali, quanto meno, molto meglio meno! della spesa pubblica e, soprattutto, utilizzare i risparmi per l’abbattimento del debito. E abbattere il cuneo fiscale. Perché il lavoro in Italia costa tanto (CLUP- costo lavoro per unità prodotto) ma la produttività è cresciuta pochissimo, ed è questo un altro grande tabù di cui è difficile parlare, lo hanno fatto con l’usuale coraggio Alesina e Giavazzi in un articolo di qualche giorno fa. Come diceva una vecchia pubblicità…Sembra facile! Non lo è affatto.  Quelle offerte potrebbero apparire soluzioni soft, light, come si dice dalle mie parti “ un taja e medega” ( taglia e aggiusta), ma sono possibili. Soprattutto, per evitare che a breve, nel “mondo post referendum”, qualcuno il debito pubblico pensi, anziché di abbatterlo, di ripudiarlo, con rovinose conseguenze per tutti.

22
Nov
2016

La vittoria di François Fillon: ora bisogna davvero riformare la Francia!—di Nicholas Lecaussin

Ospitiamo volentieri un articolo di Nicolas Lecaussin, dell’Institut européen de recherches économiques et fiscales di Parigi. Iref (http://fr.irefeurope.org) è un think tank fondato nel 2002 da professionisti e accademici europei con lo scopo di sviluppare una ricerca indipendente in materia economica e fiscale. L’istituto è indipendente e integralmente privato.

Il nostro Istituto è indipendente e di norma non prende apertamente posizione per questo o quel candidato politico. Una simile neutralità non impedisce tuttavia di informare con regolarità i nostri lettori e tutti coloro che ci sostengono e di esprimere un’opinione sui programmi economici e fiscali che vengono proposti.

Con questo spirito, insieme ad alcune associazioni «liberali», abbiamo invitato tutti i candidati della destra e del centro per esprimere le loro idee. Monsieur Juppé, che desidera salvaguardare il modello sociale francese, non ha risposto al nostro invito. Tra coloro che lo hanno fatto, François Fillon è stato quello che ci è sembrato più coraggioso nelle sue proposte di riforma e più adatto a portarle avanti.

Parlando ad una sala strapiena al Theâtre du Gymnase, il 5 settembre scorso, il suo discorso e le risposte alle nostre domande si sono svelati senza ambiguità a favore di una società di libertà e di un’economia di mercato. Il fatto di essere paragonato a Margaret Thatcher non lo spaventa. Egli crede nella libertà individuale e economica. Favorevole alla soppressione del limite di legge all’orario di lavoro, propone una contrattazione aziendale anziché un contratto di lavoro unico, la sottoposizione dei sindacati al diritto comune e la loro responsabilità per le volte in cui tengono in blocco il paese.

Per quel che riguarda la fiscalità, Fillon propone una flat tax del 30%. Ritiene che i funzionari non devono essere dei privilegiati e che si debbano cancellare 500.000 posti!

François Fillon è a favore della libertà scolastica sia nel momento della istituzione delle scuole che nel senso della loro effettiva autonomia. Lo Stato deve invece limitarsi alle sue funzioni storiche: la difesa, la polizia e la giustizia (con una riforma della formazione dei magistrati).

Naturalmente, il suo programma non è perfetto. Anzi, crediamo che sia il caso di incoraggiare fin da ora il candidato Fillon ad andare ancora più lontano nel percorso delle riforme: liberalizzando il mercato del lavoro, proponendo una riduzione consistente delle imposte e delle spese pubbliche, attivando un programma di privatizzazioni e di apertura alla concorrenza nel settore assistenziale e per taluni servizi pubblici, avviando una reale riforma delle pensioni, permettendo lo sviluppo delle scuole private… Il lavoro che resta per convincerlo è ancora lungo, ma ci auguriamo che comprenda il messaggio dei francesi che in gran numero hanno votato per lui: bisogna riformare seriamente il paese!

Nicolas Lecaussin, 21 novembre 2016
Institut de recherches économiques et fiscales
http://fr.irefeurope.org/Victoire-de-Francois-Fillon,a4244?utm_campaign=iref-fr