Viareggio-Fs. Tesi impopolare: non mi piace ciò che la stessa Cassazione considera “giustizia preventiva”
La sentenza di primo grado sul disastro ferroviario di Viareggio, l’ecatombe che costò la vita a 32 persone il 29 giugno 2009, deve interrogarci tutti. Mauro Moretti, oggi alla guida di Finmeccanica ridenominata Leonardo, è stato condannato a sette anni di reclusione come ex ad allora di Rete Ferroviaria. Sette anni e sei mesi è la pena inflitta a Michele Mario Elia, all’epoca dei fatti al vertice di Rfi. Stessa condanna per Vincenzo Soprano, all’epoca dei fatti ad di Trenitalia. In più molte altre condanne a manager della società, e a queste ultime pesanti sanzioni amministrative. Per tutti gli imputati le accuse andavano dal disastro ferroviario all’omicidio colposo plurimo, dall’incendio colposo alle lesioni colpose.
La premessa a ogni considerazione sulla sentenza – in doverosa attesa, per altro, delle motivazioni – non può che essere, ancora una volta, la piena, totale e assoluta condivisione del cordoglio e del dolore dei familiari delle vittime. Non era e non è in discussione il fatto che le imprese – tutte: piccole e grandi, pubbliche e private – debbano fare sempre di più e sempre di meglio per tutelare la sicurezza sul lavoro, quella dei loro prodotti e servizi. E del resto i segnali ci sono, di una lenta progressione anno dopo anno verso il contenimento dei disastri sul lavoro. Le denunce di infortunio mortale lavorativo sono state 1.018 nel 2016, erano 1.172 nel 2015. Anche se, naturalmente, pure una sola vittima è di troppo. Figuriamoci poi quando un convoglio ferroviario si trasforma in un letale ordigno incendiario in un centro abitato. Il dolore dei familiari di chi ha perso la vita è irrisarcibile e irrimediabile. E si traduce, giustamente, in una sete inesauribile di giustizia: perché i responsabili non sfuggano alle loro responsabilità.
E’ lo stesso meccanismo che ha portato a processi come quello per le vittime all’altoforno Thyssen a Torino, al processo Eternit sempre a Torino per disastro doloso per le morti da amianto, prescritto prima ancora di cominciare l’indagine ma poi riaperto dalla Procura per omicidio volontario. O al processo a carico dei manager Olivetti a Ivrea, sempre per le morti da amianto, sfociato in una condanna di primo grado a 5 anni e 2 mesi a Carlo De Benedetti e al fratello Franco, e 1 anno e 11 mesi all’allora ad Corrado Passera. Però in nessun paese avanzato le morti da amianto, usato per decenni prima di apprendere delle sue letali conseguenze cancerogene, sono mai sfociate in processi penali e condanne dei manager delle imprese. Lo stesso vale per gli incidenti nelle acciaierie. O per quelli ferroviari. La domanda da porsi è: come mai? Sono gli altri, i paesi incivili, barbari spregiatori della vita umana? Oppure c’è qualcosa su cui riflettere qui da noi in Italia, a proposito delle scelte che hanno fatto della giustizia penale contro i capi azienda la via maestra da percorrere quando avvengono gravi incidenti d’impresa?
Ricordiamoci da dove viene, la germinazione nel nostro ordinamento che ha attribuito alle procure la facoltà di indagare imprenditori e manager per fattispecie di reato tanto gravi, dalla strage al procurato disastro, all’omicidio. Fu una norma nata dal recepimento di una direttiva europea, assai più ristretta nelle sue intenzioni e prescrizioni, a divenire nel passaggio tra governo e parlamento uno strumento di estensione punitiva senza eguali nei paesi avanzati. Fu un decreto legislativo, il 231 del 2001, attraverso il quale si affermò nel nostro ordinamento la cancellazione dell’antico principio per il quale societas delinquere non potest. Da quel momento in poi, fu affermato al suo posto il principio della responsabilità delle persone giuridiche, cioè delle imprese, per i reati e gli illeciti compiuti nella presunzione di un proprio vantaggio – economico, fiscale, organizzativo, il fine è estensibile a iosa. Nonché quella penale dei loro dirigenti, manager e proprietari se esercitanti funzioni di controllo e guida operativa. Come la Corte di cassazione ebbe a dichiarare nella sentenza n. 26654 del 27 marzo 2008: “Il sistema sanzionatorio proposto dal D. Lgs. 231/01 opera certamente sul piano della deterrenza, persegue una massiccia finalità social-preventiva”.
Il fine dichiarato era quello di evitare una volta per tutte la possibilità di utilizzare lo strumento societario come schermo per evitare che la macchina della giustizia potesse imporre sanzioni in caso di violazione della legge. Di conseguenza di quei reati risponde l’azienda, se non ha posto in grado tutte le procedure di controllo più necessarie e avanzate, e direttamente in sede penale chi la guidava, sia se abbia omesso vigilanza e controlli, sia se abbia posto in essere condotte volte non certo a produrre vittime, ma afferenti a qualunque circostanza possa aver avuto un ruolo causale o accidentale nel concorrere a produrre l’incidente e le sue vittime. Non a caso per l’ecatombe di Viareggio, durante i mesi e mesi di processo, i sistemi di sicurezza ferroviari, di linea e del personale conduttore, sono stati approfonditi in lungo e in largo nel dibattimento. Ed è ovvio che su quei sistemi abbiano deciso i manager di Fs. Ma è cosa del tutto diversa dall’aver essi posto in essere strategie volte all’esposizione al rischio di cose e persone, o di produrre stragi.
Quando si emanano sentenze in cui i manager vengono condannati a pene detentive di anni per accuse come strage, disastro, omicidio volontario o colposo, si condannano i vertici aziendali e i responsabili della sicurezza come assassini. E’ un unicum che avviene solo in Italia. E’ un unicum che non identifica affatto gli eventuali responsabili di errate manutenzioni o errori di condotta materialmente all’origine dell’incidente, ma con cui si colpisce “in alto”, seguendo l’idea che la massima giustizia conseguibile sia quella di una esemplare punizione di chi “comanda”. Condannato per essere disposto colpevolmente a voler far morire i propri dipendenti, e cittadini inermi. E’ questo, il succo della “giustizia deterrente e preventiva”, per usare le parole della Cassazione.
Ma la giustizia “preventiva” non c’entra nulla con l’assicurare sempre maggior sicurezza. Questo è un dovere imperativo di civiltà, oltre che efficienza economica. E’ invece l’idea stessa della giustizia sul lavoro e nell’offerta di beni e servizi, che dalla 231 a oggi in Italia è diventata, di fatto e di diritto, una giustizia sommaria: la cui finalità “deterrente” prevale sulla precedentemente obbligatoria e scrupolosa ricerca degli elementi soggettivi e personali del reato, non meramente derivanti dalla carica ricoperta in una catena gerarchica aziendale.
Naturalmente, chi qui scrive è del tutto consapevole che rivedere criticamente le norme che hanno spalancato le porte a una tale idea apparirebbe oggi un’insanabile offesa ai parenti delle vittime. E verrebbe bollato come un’indegna pulsione alla sottovalutazione della sicurezza del lavoro. Perciò, i dubbi che ho esposto resteranno certamente senza esito. Come quasi sempre capita da anni sul ring della conclamata confusione italica tra l’idea di giustizia, e la sua traduzione in cieco giustizialismo. E tuttavia pensateci. Condannare un amministratore delegato come un attentatore alla vita altrui significa avere un’idea del confronto sociale da Tribunale Speciale. Evoca le tricoteuses giacobine che esultavano al carro dei condannati. E le purghe sovietiche.