21
Dic
2016

Roma: nel bilancio bocciato il progetto che non c’è

Il sindaco Raggi e la sua giunta capitolina hanno tempo fino al 28 febbraio per riscrivere e approvare il bilancio previsionale di Roma 2017-2019. E’ il termine previsto per tutti i Comuni dalla legge di bilancio 2017, ma non sarà facile rispettarlo. Perché la stroncatura alla bozza di bilancio venuta ieri dall’OREF, l’organo indipendente di revisione finanziaria del Campidoglio, è veramente durissima. Purtroppo, si aggiunge ai troppi e troppo gravi incidenti nella formazione della giunta e dello staff del sindaco, protrattisi per sette mesi. Ma è più grave. Basta leggere i rilievi contenuti nelle 46 pagine dell’OREF, per capire che mancano ancora troppi presupposti essenziali per dare ordine ed equilibrio ai disastrati conti romani ereditati dalla giunta attuale.

L’ho già più volte scritto, che il nuovo sindaco e la sua giunta a Roma erano obbligati a considerare la situazione finanziaria come l’emergenza numero uno da affrontare. Si manifestano infatti almeno quattro emergenze una più seria dell’altra. Rispettare i termini del rientro del deficit, contrattati in cambio dell’ultimo decreto governativo Salva-Roma di fine 2013. Fronteggiare gli oneri aggiuntivi dei nuovi debiti fuori bilancio, nel frattempo emersi. Ridare all’amministrazione capitolina capacità, efficacia e trasparenza nel portare in cassa risorse proprie da canoni, imposte e tariffe, che la macchina amministrativa romana non riesce da anni a introitare in percentuali minimamente accettabili (è emergenza ancor più grave perché, con la riforma dei criteri contabili delle Autonomie, è cessata intanto la possibilità di “giocare” creativamente con residui attivi e passivi monstre). Infine, fronteggiare il disastro delle maggiori partecipate pubbliche romane, a cominciare da ATAC e AMA, facenti capo alla holding Roma Capitale, il cui potenziale squilibrio è stato cifrato fino a un miliardo di euro dall’ex ragioniere generale del Comune Fermante, prima delle sue dimissioni che, annunciate a fine settembre, sono poi – incredibilmente – diventate ufficiali solo a novembre.

L’OREF scrive che il documento previsionale presentato dalla giunta Raggi non restituisce l’equilibrio pregiudicato a nessuno di questi quattro pilastri. Non prevede interventi correttivi necessari al pareggio. Ricorre a previsioni di entrata non strutturali. Non indica modalità efficaci di recupero delle entrate tributarie e patrimoniali. Non presenta un piano di razionalizzazione e cessione delle partecipate, piano a cui la Capitale è tenuta per legge. Non prevede soluzioni per la gestione degli emersi oneri aggiuntivi fuori bilancio, né per le tensioni di liquidità che si aggiungono alla rata annuale di ammortamento di 200milioni, e che si genereranno nel 2017 per la gestione commissariale dei 13 miliardi di euro separati dal bilancio, grazie al primo Salva-Roma che il governo di destra concesse all’allora sindaco Alemanno. E ci fermiamo qui, solo restando ai capitoli fondamentali.

Come si vede, le motivazioni della bocciatura non vengono da dettagli tecnici su questa o quella misura. E’ la mancanza di una visione generale volta al riequilibrio, al risanamento e all’efficienza, quella che viene argomentatamente contestata alla giunta capitolina.  Una visione generale certamente molto difficile da elaborare, quando si hanno esigui margini a disposizione a fronte di squilibri strutturali che potenzialmente potrebbero superare i 2 miliardi sui poco più di 5 di entrate. Quando i romani subiscono già il massimo delle sovra aliquote Irpef e Irap e, sommando Comune e Regione, pagano già oltre 750 euro l’anno oltre la media nazionale. E quando la macchina comunale perde oltre 100 milioni di affitti l’anno sul suo patrimonio immobiliare, sconta 1,3 miliardi di euro di mancati pagamenti TARI (che vanno direttamente nelle casse dell’AMA, diversamente che in tutti i Comuni italiani) e 1,5 miliardi di mancate tariffe per servizi, e non riesce a processare l’anno oltre i 10% degli arretrati IMU. Col risultato che Roma incassa solo 900 milioni l’anno aggiuntivi ai trasferimenti centrali e alle tasse, rispetto ai 4 miliardi di euro di Milano, che ha meno della metà degli abitanti.

Senza una reingegnerizzazione complessiva dei conti e della macchina amministrativa di Roma non c’è riequilibrio possibile. Servono grandi manager pubblici, vista l’entità delle cifre in gioco. Perché altrimenti, come scrive giustamente l’OREF, ”ulteriori risparmi derivanti da interventi sulla spesa non appaiono possibili se non a danno della qualità dei servizi erogati dall’Ente ai cittadini”.

Purtroppo, non è stata la strada percorsa sinora. Dall’assessore al Bilancio Minenna siamo passati alla meteora De Dominicis, e poi recentemente a Mazzillo. Più volte, nelle partecipate come nella vicenda del salario accessorio ai dipendenti, è sembrato proprio che la giunta mancasse di volontà di interventi radicali sulla macchina capitolina. E il risultato è che ora il fantasma di un possibile commissariamento, se non verranno rispettati i tempi di fine febbraio, inizia ad aleggiare sui Colli fatali di Roma.

Non ce lo auguriamo. Al contrario, speriamo che di fronte a questa circostanza sindaco e giunta trovino tutta la concentrazione necessaria per evitare alla Capitale di scendere un altro gradino verso lo sprofondo. Anche se con quel che si è visto in sette mesi ogni pessimismo è legittimo, tuttavia il sindaco sa di non poter contare su un rapporto politico e istituzionale con il governo analogo a quello che consentì ad Alemanno di ottenere il primo decreto Salva-Roma, e a Ignazio Marino di ottenerne un secondo, perché anche lui – se lo ricordi bene il Pd che ora fa il “puro”, perché le cose andarono così – non riuscì senza una energica stampella governativa a venire a capo della sua prima proposta di bilancio, quella per il 2014.

A maggior ragione, nelle prossime otto settimane il sindaco Raggi deve riuscire a mostrare quel che non si è visto in sette mesi. Un organico progetto che metta insieme visione politica – quella della sua parte politica – rigore credibile dei conti e sostenibilità degli investimenti, necessari a quelle partecipate pubbliche romane da non destinare a cessione o liquidazione. E’ una sfida enorme. Su cui gravano troppi errori sin qui commessi. Ma che non ammette, questa volta, vie d’uscita diverse dal successo o dalla piena sconfitta. Con tutte le conseguenze che ciò comporterebbe anche sulla scena politica nazionale.

19
Dic
2016

Uber e la benevolenza del legislatore

Mentre la Corte di Giustizia dell’Unione europea è stata chiamata a stabilire cosa ‘sia’ Uber, la nostra Corte costituzionale è appena intervenuta sull’argomento, dichiarando illegittima una legge regionale del Piemonte che limitava il servizio di trasporto di persone ai taxi, escludendo le altre modalità di trasporto non di linea, come Uber. Tale materia, infatti, è di competenza legislativa esclusiva dello Stato, ed è pertanto illegittimo, per una Regione, legiferare su di essa.

Si tratta di un appello opportuno, ma, al tempo stesso, rischioso. Nella sentenza in questione, la Corte ha aggiunto, in coda ai ragionamenti di stretta inerenza della causa, un paragrafo ridondante nell’economia del caso, ma molto significativo, se collocato nel contesto delle emergenti attività di intermediazione come Uber (ma non solo).

La Corte sembra ammettere che la legislazione del 1992, che oggi regola interamente il settore, abbia bisogno –  data l’evoluzione tecnologica e i cambiamenti economici e sociali avvenuti nel frattempo – di essere aggiornata, e invita quindi il legislatore a farsene carico «tempestivamente».

Un invito, si diceva, opportuno e rischioso.

Opportuno dato che, nell’inidoneità della legislazione attuale, la risposta – sia della magistratura sia degli enti territoriali, come nel caso sottoposto alla Corte – è stata finora altamente reazionaria e conservatrice delle posizioni di rendita acquisite negli anni dai tassisti, ma al tempo stesso disordinata e spiazzante rispetto all’ordine normale delle cose, per cui le regole seguono le evoluzioni della realtà.

Rischioso perché, a prescindere dalle intenzioni della Corte, esperienza insegna che il legislatore si lascia molto più spesso convincere dalle argomentazioni di chi vanta già posizioni di rendita e ha con esso rapporti consolidati, rispetto ai nuovi entranti e a chi vuole innovare. D’altro canto, se il Parlamento avesse voluto intervenire in maniera tempestiva ed efficace rispetto alle evoluzioni del settore, avrebbe impiegato pochi giorni a fare l’unica cosa che deve fareabrogare le parti anacronistiche della legge del 1992 (cioè gli obblighi in capo agli NCC di ricevere le prenotazioni di trasporto presso la rimessa, di avere sede nel territorio del Comune che ha rilasciato l’autorizzazione, e di iniziare la corsa presso la rimessa) e porre le basi per l’adozione di un sistema unico di licenze, aperto a tutti gli operatori del settore, che rimuoverebbe il limite quantitativo all’offerta, senza tuttavia pregiudicare il rispetto dei requisiti ritenuti necessari alla circolazione delle auto pubbliche.

Se non l’ha ancora fatto, non è per mancanza di tempo o di capacità, ma di volontà, poiché i suoi interessi, che si misurano in termini di consenso elettorale, difficilmente coincidono con quelli degli outsider.

Twitter: @glmannheimer

19
Dic
2016

“Genova per noi che stiamo in fondo alla campagna” (P.Conte)

Lasciare le nebbiose e cupe lande padane per la Liguria dei “girasoli impazziti di luce” vale decisamente la pena. Ma poi, quando arrivi a Genova, come ti muovi?

“ Se non hai una moto o lo scooter non vai da nessuna parte” ti dicono tutti . E’ vero, Genova è una città meravigliosa che è un po’ tutto un su e giù come le montagne russe, ma che è anche un po’ russa nella testa, specie in quelle di alcune sigle sindacali e dei rappresentanti politici che li sostengono, come dimostra il milionesimo sciopero e pure selvaggio durato 4 giorni, dei dipendenti dell’ Azienda Trasporti Provinciali. La rivendicazione ha per oggetto la restituzione del 30 % dei compensi del contratto integrativo aziendale, come pattuito in sede di concordato fallimentare della società partecipata, nelle mani di Città metropolitana di Genova e AMT Genova S.p.A. e ora con l’ingresso di un socio finanziatore privato fortemente criticato ed osteggiato.

Era l’anno 2014, quando il nostro ex presidente del consiglio proclamava la rivoluzione nel campo delle municipalizzate. Ricorderete il documento “Programma di razionalizzazione delle partecipate locali” preparato  dal gruppo di lavoro coordinato dal commissario alla spending review : c’era un bel capitoletto dedicato ai trasporti pubblici locali (tlp) che è bene ricordare nei suoi punti salienti per capire cosa sta succedendo oggi, oltre ai rapporti e gli studi redatti in anni ancora precedenti anche dall’ IBL.

“Il tpl presenta diverse criticità”, si diceva, “come emerge anche dai raffronti internazionali: lo caratterizzano l’elevato livello dei costi operativi unitari, la bassa qualità di alcuni servizi, la bassa incidenza dei ricavi da traffico rispetto ai costi operativi , l’esistenza di un significativo eccesso di offerta rispetto alla domanda. Il risultato di queste criticità è un settore in costante perdita, richiedente un elevato livello di compensazione pubblica sia in termini di costi unitari sia i termini assoluti (…)Per migliorare l’efficienza del settore e ridurre il peso per i conti pubblici occorre intervenire su diversi piani relativi sia ai ricavi che ai conti di gestione. Intervento sui ricavi: un aumento dei ricavi può essere essenziale nel breve periodo per ridurre il peso del settore sulla finanza pubblica .Interventi mirati includono: rimodulazione tariffaria riguardanti gli abbonamenti mensili ed annuali del trasporto urbano , forme per le quali il divario con le tariffe europee è più pronunciato : dati relativi all’anno 2013 – Londra abbonamento mensile € 1428, Parigi € 679,80, Berlino € 710, Madrid € 546, Roma € 250, Milano € 330 . Misure per la riduzione dell’evasione tariffaria concentrata soprattutto nel trasporto su gomma e nelle regioni del sud : ad es. attribuzione agli agenti accertatori la qualifica di pubblici ufficiali e possibilità di accesso per le imprese all’anagrafe nazionale, obbligo di validazione del biglietto ad ogni singolo accesso, introduzione di sistemi elettronici di conteggio dei passeggeri(…).Un intervento sui costi è essenziale a causa della scarsa efficienza produttiva del settore rispetto ai principali paesi europei, sia nei valori del load factor, sia della produttività misurata dalle vetture – km per addetto: 20.000 vetture per km per addetto in Italia contro le circa 27.500 che si riscontrano in media in Francia, Spagna, Germania ed Inghilterra. Riguardo al trasporto su gomma -la modalità prevalente del tpl italiano – si osserva che sulla sua bassa produttività influiscono negativamente sia le condizioni di congestione delle città italiane che determinano una bassa velocità commerciale di bus, sia le generose condizioni normative – piuttosto che salariali – stabilite dalla contrattazioni aziendali a favore dei dipendenti. La strategia di riforma deve passare per l’introduzione di costi standard come strumento di verifica della congruità delle compensazioni stabilite per gli esistenti contratti di servizio pubblico affidati senza gara , in coerenza con il regolamento europeo, con obbligo eventuale di rinegoziazione del contratto non congruo(…); rendere l’affidamento per gara la modalità tipica di affidamento del servizio restringendo o disincentivando il ricorso agli affidamenti in house e diretti (…). Impiego del costo standard come base di gara . Le nuove gare dovrebbero dare la possibilità di rinegoziare il vigente contratto integrativo aziendale negoziato dall’incumbent. Riduzione degli eccessi di offerta di servizio rispetto alla domanda.(..)”.

Non credo sarebbe difficile analizzare i numeri di ATP Liguria alla luce di quelle indicazioni e capire che oggi le recriminazioni dei più incandescenti dei dipendenti sono la conseguenza dei tragici errori economico- finanziari ed industriali commessi in quel settore dalle società pubbliche. Perché risultava e risulta evidente che si dovranno necessariamente rinegoziare i contratti integrativi aziendali. Ma ognuno deve fare la sua parte, certamente, non solo i dipendenti. Rivedere i piani tariffari è indispensabile, come emerge dai raffronti con le altre realtà europee. Ma si sa, sono di più gli elettori alla fermata del bus di quelli che li guidano. E’ vero, però, che i dipendenti si sono sempre rifiutati di modificare i loro orari di lavoro e di rendersi flessibili nello svolgimento delle loro mansioni. Questa circostanza è causa di un’inefficienza non più tollerabile: gli autisti del resto d’ Europa macinano molti più chilometri e lavorano di più. Purtroppo si è perso, inutilmente, tanto tempo. Il 18 novembre scorso la Camera, nel corso dell’iter di conversione del “Decreto fiscale”, ha impegnato il Governo a determinare, in tempi brevi, i costi standard del TPL ed a rivedere i criteri di riparto delle risorse fra le Regioni superando il criterio della spesa storica : sono passati oltre 2 anni dalle indicazioni del rapporto sulla spending review, chi vivrà vedrà o , molto probabilmente, rimarrà cieco dalla rabbia, perché si è dolosamente sprecata una grande occasione di immediato intervento.

Ma continuiamo così, con autobus che girano a vuoto per pochi spicci ma con grandi costi per la collettività, che vagano, semi vuoti, per chilometri, per  raccogliere 4 o 5 persone, da qualche casupola nascosta tra limoni e mimose, mentre nelle ore di punta i passeggeri sono tutti schiacciati l’uno sull’altro, come alici nell’arbanella. Con quel ghigno sornione e sardonico che solo i liguri sanno avere nel dirti “Ti ghe sprescia?” mentre scalpiti, impaziente che il corteo di scioperanti si dissolva, alzi la mano per fermare l’autobus che sta arrivando all’orizzonte, manco fossi a New York. Ma il bus non si ferma, c’è una scritta rossa a caratteri cubitali sul parabrezza: “Fuori servizio”.

 

16
Dic
2016

Quanto fumo inutile su Vivendi-Mediaset. Ma la Consob dov’è?

Nella vicenda in corso tra la Vivendi di Bollorè e la Mediaset di Fininvest-Berlusconi bisognerebbe evitare polveroni inutili, in cui in Italia eccelliamo ogni volta che un gruppo estero mette nel mirino gruppi italiani. Distinguiamo almeno tre piani, allora, e stiamo ai fatti. Primo: è vero che l’Italia delle imprese è terra libera di preda per affamati gruppi stranieri? Secondo: c’è un senso industriale nelle operazioni di Bollorè in Italia, o è pura e spregiudicata guerra di corsa? Terzo: ha un senso mobilitare la politica e chissà quale suo diritto di veto, oppure nella vicenda in corso ci sono, bastano e avanzano banali ed elementari regole di mercato, al cui rispetto chiamare tutti i contendenti?

Cominciamo dalla prima questione. Lasciamo parlare i numeri. Mi spiace molto per le autorevolissime testate d’informazione che ogni volta riattaccano la tiritera dell’Italia d’impresa alla mercè di barbari stranieri che vengono qui a banchettare espropriandoci, ma pare proprio che le cose non stiano così. Se andiamo alla banca dati Reprint-Politecnico di Milano-ICE – dati ohimé aggiornati solo a fine 2014, quando ci daremo un sistema di statistiche nazionali più aggiornate sarà sempre troppo tardi – i dati sconfessano le geremiadi. Le imprese estere controllate da imprese italiane erano 20418 nel 2008 e sono salite a 23.433 a inizio 2015. Con un numero di addetti all’estero salito da un milione e 80mila unità a un milione e 170mila. E con un fatturato all’estero accresciutosi da 373 a 417 miliardi di euro. Le imprese italiane controllate da società straniere al contrario erano 9340 nel 2008 e sono salite a inizio 2015 a 10.148 unità, con addetti complessivi tra Italia e mondo passati da 822mila a 828mila unità, e un fatturato sceso da 422 a 417miliardi (soprattutto all’estero). Teniamo a mente questi dati: è vero che moltissimi marchi della moda o alimentari del nostro made in Italy sono passati in mani straniere, ma nessuno qui fa altrettanta attenzione alle centinaia di acquisizioni italiane all’estero annuali nella manifattura, meccanica, componentistica, engineering, energia, o a quelli di Luxottica negli USA. Abbiamo il problema opposto, semmai: lo stock di investimenti diretti esteri in Italia è pari a un terzo di quelli in Francia e a meno di un quinto di quelli nel Regno Unito: dovremmo puntare ad accrescerli, non ad allontanarli con barriere autarchico-nazionaliste.

Seconda questione. Mentre qui piagnucoliamo per tentare di difendere ossessivamente il duopolio tv Rai-Mediaset per altro da anni superato per fatturato da Sky e dalla sua offerta non generalista, il mondo da anni accelera verso grandi integrazioni di players globali. Ieri la 21st Century Fox di Murdoch ha comunicato di aver raggiunto un’intesa con il management di Sky per aggiudicarsene il pieno controllo, rilevandone il 60% che ancora non possiede con un deal da 14,6 miliardi di dollari. L’obiettivo è dar vita a un gigante transconcontientale a cui sommare i 22 milioni e oltre di clienti di Sky in Italia, Regno Unito, Irlanda, Austria e Germania, e unendo a Fox i diritti della Premier League britannica e di serie tv di successo mondiale come Game of Thrones. E’ la risposta di Murdoch alla sfida globale di Netflix. Mentre grandi telcos americane come AT&T hanno rilevato nel 2016 grandi gruppi leader nei contenuti e nelle library cinematografiche come Time Warner. Negli USA il 100% del mercato delle pay-tv è verticalmente integrato tra operatori tv e TLC. In Francia il 37%, in Germania il 29%. Solo in Italia restiamo con il 100% del mercato tv in mano solo a operatori televisivi: siamo fuori dalla storia. Netflix, Apple e Amazon hanno già il 67% del mercato globale dei video online a pagamento. Se anche Youtube entra nel settore dei contenuti video premium, oltre il 90% del mondo avrà player globali solo americani, che profilano i clienti e sanno tutto delle loro abitudini di consumo, cosa che conta molto più di quanti si limitano a pagare un abbonamento. Viene di qui l’interesse per un progetto che unisca Canal+ francese e la forza di advertising del gruppo Havas e di Vivendi, cioè di Bollorè, con Mediaset forte di Telecinco in Spagna, per un eventuale player europeo: capace anche di offerte integrate con Telecom Italia – di cui Bollorè è maggior azionista di riferimento – e magari con la Telefonica spagnola (Bolloré ne ha più volte parlato) e con la stessa telco francese Orange, in una prospettiva di cooperazione continentale.

Ma, certo, il problema è come farlo, con quali rapporti di forza societari, e con chi alla testa. Eccoci alla terza questione.  Ieri Agcom ha già tirato un freno, dicendo che qualunque ipotesi che mettesse insieme Telecom Italia e Mediaset sotto guida francese si scontrerebbe con i limiti antitrust, valicati dalla eventuale somma delle due società sul mercato italiano. Ma il punto non è il mercato domestico, bensì quello europeo e mondiale. Il governo e i politici si sono subito protesi a dire che l’italianità di Mediaset va preservata. L’italianità porta titoli sui giornali, ma  c’entra come i cavoli a merenda. L’unico punto di cui essere rigorosamente certi è che le regole di mercato siano rispettate. Mentre qui, da quel che sappiamo, a dire il vero è forte il sospetto in senso opposto. non sembra proprio.

Facciamo un passo indietro. Ad aprile scorso Vivendi e Mediaset realizzarono un’intesa perfettamente e bilateralmente chiusa e concordata.  Vivendi accettava di rilevare Premium (la tv a pagamento di Mediaset che perde un mucchio di denaro, ma ha i diritti della Champions League e non solo) valutandola 760milioni, nel segno di un’alleanza industriale europea duplice, per una piattaforma tv a pagamento e per una grande factory di produzione di film, format di trasmissioni e serie tv, a garanzia della quale le due società si scambiavano anche ciascuna il 3,5% del proprio capitale. Scambio che sarebbe avvenuto a un reciproco valore dei rispettivi titoli che nell’accordo veniva riconosciuto e sottoscritto dalle due parti. A luglio, Bollorè cambia idea e annuncia di contestare il deal, proponendo invece di rilevare una quota pari solo al 20% di Premium e proponendo invece di acquisire un 15% del capitale di Mediaset tramite un bond convertibile. Scattano immediatamente le impugnative legali di Mediaset, il cui titolo però subisce da allora un fiero colpo in Borsa per il venir meno del deconsolidamento del debito e delle perdite di Premium, e per il declino della prospettiva di integrazione europea, scendendo da quasi 5 euro a 2,2 a fine novembre. Tre giorni fa, Vivendi annuncia di aver avviato acquisti di massa del titolo Mediaset sul mercato secondario, e di proporsi di salire oltre il 20% nel capitale della società, cosa nel frattempo avvenuta.

Qui scatta il grande enorme problema. Sul mercato britannico, l’equivalente della nostra Consob in poche ore avrebbe ammonito Vivendi. Più o meno dicendole questo: cara Vivendi, tu risulti a tutti gli effetti, fintantoché le impugnative legali non chiariranno il punto, legata a un deal perfettamente chiuso con Mediaset su Premium, nel quale concordavate anche reciprocamente il valore a cui scambiarvi un’analoga quota di capitale. Poiché per effetto del tuo annuncio di luglio il titolo Mediaset è drasticamente sceso, tu hai comprato i suoi titoli sul mercato secondario a un valore molto inferiore a quello che avevi convenuto, grazie alla manipolazione che il tuo annuncio ha avuto su quel titolo. Mentre, per difendersi, Fininvest ha accresciuto la propria quota in Mediaset comprandone anch’essa un 3 e rotti per cento sul mercato che si aggiunge al suo 35%, ma a un prezzo schizzato verso l’alto dopo la dichiarata intenzione di Vivendi di candidarsi a scalarla. A fronte del fortissimo sospetto di una manipolazione del prezzo Mediaset da parte di Vivendi – prima verso il basso a proprio vantaggio, e  poi verso l’alto a svantaggio di Fininvest – cara Vivendi tu puoi comprare tutti i titoli Mediaset che vuoi, ma intanto come regolatore noi ti ammoniamo perché, sinché non si chiarisce chi ha ragione sul deal firmato ad aprile, e non si dissipa l‘ipotesi di manipolazione dei prezzi, a quelle azioni che stai comprando noi ci riserviamo di sterilizzare il diritto di voto. E quand’anche, cara Vivendi, ti presentassi in assemblea Mediaset e chiedessi amministratori di minoranza o costituissi minoranza di blocco, ricordati bene per l’articolo 2373 del codice civile italiano sul conflitto d’interesse i tuoi voti sarebbero impugnabili e nulli, perché il conflitto da Vivendi aperto sul deal relativo a Premium costituisce un danno oggettivo per Mediaset.

Ecco, fermiamoci qui. Basterebbe un regolatore dei mercati finanziari anglosassone e proteso in tempi immediati a richiamare il rispetto dei contratti tra privati e del codice civile, per ricollocare la vicenda in corso su binari della fair competition. Senza scomodare né l’autarchia della politica né i magistrati penali. E senza negare che è un grande interesse anche per Mediaset e per i players italiani, partecipare nel rispetto rigoroso delle norme all’eventuale costruzione di un grande soggetto europeo.

 

15
Dic
2016

L’ontologia di Uber di fronte alla Corte UE

Da quando i suoi servizi sono apparsi nelle strade di mezza Europa, Uber è diventata l’azienda simbolo di una delle maggiori battaglie culturali – ancor prima che commerciali – del nostro tempo: quella tra i sostenitori dell’innovazione, in grado di polverizzare rendite di posizione e normative d’altri tempi sfruttando la digital disruption, e chi invece difende le tutele e le garanzie che lo Stato ha assegnato a specifiche categorie, come quella dei tassisti, contro “l’invasore”.

Nel caso di specie, le diatribe – finite spesso in tribunale, come in Italia nel caso di UberPop – riguardano un tema tanto banale quanto delicato: la definizione legale di Uber. Codici e codicilli parlano, in modo perfino sin troppo esaustivo, di compagnie di trasporti da una parte, e di piattaforme digitali dall’altra. Ma nulla dicono di chi, come Uber, non offre direttamente alcun servizio, bensì mette in contatto persone che lo offrono e persone che lo cercano.

Il problema non riguarda solo Uber. Negli ultimi mesi è stata la volta di Airbnb, che diverse amministrazioni pubbliche – in Italia e in Europa – hanno costretto a rispettare le norme che regolano le strutture alberghiere. Con risultati, talvolta, a dir poco grotteschi. Ed è un problema che si porrà sempre e sempre di più, se la politica continuerà a cercare di inseguire l’economia digitale incasellandola nelle proprie categorie abituali, e non viceversa.

Tra i tanti casi emersi in questi anni vi è quello di un sindacato di tassisti di Barcellona, che nel 2014 fece causa a Uber per concorrenza sleale. Di appello in appello, la problematica è arrivata di fronte alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che a fine novembre ha aperto la discussione della causa.

La sentenza, che avrebbe effetto retroattivo su tutti i casi nell’UE, è attesa per la primavera e potrebbe, in ogni caso, essere di portata storica per il futuro della sharing economy nel vecchio continente. Se la Corte stabilirà che è una società di trasporti, Uber dovrà accordarsi con ciascun Paese nell’UE sulle norme da rispettare nei singoli Stati, adeguandosi alle norme sindacali e di sicurezza previste per i tassisti. Se al contrario Uber verrà giudicata come una semplice piattaforma digitale, i servizi di Uber potranno essere reintrodotti in tutta l’UE, anche retroattivamente (e anche per quanto riguarda UberPop nel nostro Paese).

Ciò detto, non è scontato che la sentenza della Corte sia così netta nei suoi effetti. Il giudice di Lussemburgo potrebbe infatti anche optare per una soluzione ‘mista’, che certamente rispecchierebbe meglio la reale configurazione di fatto di Uber, senza costringerla in categorie che non le appartengono, ma che d’altronde potrebbe gettare in una ancor più fitta confusione regolatoria il settore, spostando il problema dai tribunali ai parlamenti dei diversi Stati dell’UE.

Twitter: @glmannheimer

15
Dic
2016

Se sull’art.18 il Pd ora fa marcia indietro, si sbriciola ogni sua ambizione di leadership

C’è un ordigno sotto la sedia del governo Gentiloni, e ha subito fatto avvertire il ticchettio del suo congegno a orologeria. Sono i tre referendum abrogativi in materia di mercato del lavoro promossi dalla Cgil, sui quali l’Ufficio Centrale per i referendum della Corte di Cassazione ha già espresso lo scorso 6 dicembre il proprio parere favorevole di conformità ai requisiti di legge, sia per numero di firme raccolte sia per l’appropriata espressione dei quesiti rispetto alle norme che s’intende abrogare.  E’ attesa per la seconda settimana di gennaio 2017 la pronunzia di legittimità della Corte Costituzionale, e l’opinione prevalente (§) è di un via libera. A quel punto i referendum dovrebbero tenersi tra metà aprile e metà giugno 2017, rinviabili all’anno successivo solo in caso di elezioni anticipate. Dei tre quesiti uno riguarda l’abolizione dei voucher, un secondo le norme sulle corresponsabilità di appaltatori e subappaltatori in ordine ai contratti di lavoro. Ma quello esplosivo è il terzo: propone l‘abrogazione di una delle modifiche essenziali intervenute con il Jobs Act, quella sull’articolo 18 del vecchio Statuto dei Lavoratori, e intende reintrodurre il principio generale della reintegra giudiziale rispetto alle modifiche intervenute e oggi vigenti, che la escludono per i licenziamenti diversi da quelli per giusta causa, giustificato motivo soggettivo, e discriminatori.

I media avevano silenziato in maniera assoluta il tema, finché c’era Renzi a palazzo Chigi, malgrado le firme ai quesiti siano state oltre tre milioni. Ma dopo la vittoria del no al referendum costituzionale del 4 dicembre, il tema è diventato immediatamente incandescente nel confronto interno al Pd. Nell’assemblea dei deputati Pd precedente il voto di fiducia al governo Gentiloni, l’onorevole Damiano ha detto senza mezzi termini che il Jobs Act a suo giudizio è ferito a morte e, se il Pd non vuole esporsi a un nuovo rigetto frontale da parte della maggioranza degli italiani nelle urne, l’unica alternativa è abolirne in parlamento le norme contestate dal referendum. La leader della Cgil Camusso ha subito rilanciato la palla, accusando il ministro Poletti di pensare alle elezioni anticipate per paura di affrontare il tema, mentre la via maestra sarebbe affrontare tutti i nodi che la Cgil ha posto in una propria proposta di legge di revisione integrale del Jobs Act. Anche la minoranza bersaniana, o almeno diversi suoi esponenti, si sono già pronunciati in senso analogo.

Visto il rilievo del tema, è il caso di essere estremamente chiari.  Avevo chiesto tre giorni fa qualche segnale chiaro per capire se il Pd intendesse avviare un’autocritica delle sue riforme, visto che la sola Giannini era stata sostituita per l’insoddisfazione sulla Buona Scuola: ma qui siamo a una stupefacente retromarcia assoluta. La nuova disciplina dell’articolo 18 è quella sulla quale si sono incardinati dal 2014 a oggi oltre tre milioni di attivazioni di nuovi contratti a tutele crescenti. L’ISTAT non rileva le tipologie di contratti tra quelli nel frattempo avviati a cessazione, ma anche nella peggiore delle ipotesi più di due milioni di lavoratori hanno oggi un contratto il cui fondamento sta proprio nella profonda revisione della vecchia disciplina della reintegra giudiziale affidata alla variabile valutazione del magistrato. Siamo ovviamente pienamente rispettosi di chi è nostalgico della vecchia disciplina ipervincolistica, che rendeva il nostro sistema uno dei più rigidi tra tutti i paesi avanzati del mondo (ne trovate conferma anche nel recentissimo indice delle liberalizzazioni IBL relativo ai dati comparati dei 28 paesi Ue del 2015: ITA a 69 punti come apertura del mercato del lavoro rispetto a 100 del Regno Unito, 93 della Danimarca, 91 della Svezia, 88 dei paesi Bassi, 81 Germania..). Ma il rispetto non ci impedisce di ribadire che quella nostalgia ha presupposti ideologici. Essi non hanno a che vedere con la necessità di avere da una parte più occupati, e dall’altra un regime di diritti e di sostegni al reddito dei disoccupati meglio coerenti e compatibili con la necessità di fondo di un sistema dinamico dell’impresa: cioè volto al miglior impiego e riconoscimento delle migliori qualifiche, e alla ri-formazione continua dei lavoratori per una nuova occupabilità. Il lavoro si estende e difende nella società italiana meglio con la nuova disciplina, che tornano alla vecchia idea tayloristica di difendere il lavoro a vita dov’era e com’era.

Ci sono almeno tre ragioni per contrastare chi vuole tornare al vecchio articolo 18.

Primo: la vittoria dei nostalgici creerebbe unna nuova iniqua frammentazione nel già troppo frastagliato  mondo degli occupati. Mentre con la riforma si è avviata una rapida transizione dalle vecchie tutele rigide a quelle nuove e dinamiche, se vincesse il no avremmo coorti di occupati pre-riforma con la reintegra giudiziale, poi milioni di occupati a tutele crescenti con la nuova disciplina che resterebbero però in un limbo, e ai quali si aggiungerebbero nuove coorti di occupati con nuovi contratti di nuovo la reintegra.  Una spaccatura in tre che verrebbe assunta nel mondo come riprova della totale incapacità del nostro paese di assumere indirizzi di riforma del lavoro tenendoli poi fermi nel tempo. Sarebbe un’Italia caricaturale alla sor Tentenna: dimmi in che anno arrivi al lavoro e ti dirò che contratto ti faccio.

Secondo: la marcia indietro sull’articolo 18 ferirebbe a morte anche l’avvio delle politiche attive del lavoro, che deve partire nel 2017 con il primo esperimento dell’assegno di ricollocazione, e la tutorship diretta per riqualificare i disoccupati di lungo periodo e accompagnarli personalmente a nuovi contratti adeguati al loro profilo. Il colpevole lunghissimo ritardo sul varo delle politiche attive è stato l’errore capitale del Jobs Act, oscurato dalla massiccia decontribuzione: è questa l’autocritica che avrei voluto sentire. Già è una novità, quella del primo esperimento dell’assegno di ricollocazione, sulla quale l’esito referendario del 4 dicembre allunga ombre preoccupanti, visto che le Regioni possono chiedere indietro le proprie competenze, bloccando così sul nascere una leva essenziale per favorire occupazione aggiuntiva. Ma cambiare l’articolo 18 significa innestare la retromarcia ideologica anche a favore del vecchio regime delle Casse Integrazioni ordinarie e straordinarie, dimenticando che esse hanno dato una prova storica irreversibile di non essere conciliabili con la riqualificazione e l’occupabilità dell’offerta di lavoro.

C’è poi una terza ragione: tutta politica. E’ del tutto evidente che il retroterra di questa iniziativa referendaria, come i suoi nuovi sostenitori che oggi vi si aggiungono nel Pd dopo il 4 dicembre, esprimono un problema di identità irrisolta della sinistra italiana. Un problema che si riapre in maniera lacerante. Proponendo un regolamento di conti il cui prezzo pagherebbe però l’intero paese, innanzitutto chi – giovani, donne e meridionali – resta ancor oggi incatenato a percentuali di partecipazione al mercato del lavoro scandalosamente basse. E’ questa la radice delle nuove povertà diffusesi nel nostro paese, è questa la ragione dell’enorme ingiustizia di un paese non per giovani. A tale emergenza sociale i nostalgici rispondono continuando a pensare solo a tutele rigide e a miliardi mobilitati per prepensionare, e in entrambi i casi questi interventi sono riservati a chi un lavoro ce l’ha. Non a chi ne è sprovvisto.

L’appello al Pd è dunque quello di non ribaltare sull’Italia il prezzo dei propri contrasti interni. Fingere che la riforma dell’articolo 18 non sia stata legittimamente votata dal Parlamento e innanzitutto dal Pd, è del tutto paradossale.  E’ come ammettere che la propria leadership su temi così centrali si esprime a tentoni, riservandosi di cambiare idea ogni anno.  Il governo deve vivere di vita propria, rispetto agli impegni che gli sono affidati a cominciare dalla legge elettorale. Ma un Pd che cambiasse idea tanto radicalmente su una delle sue scelte più importanti di questi anni e rifiutasse di difenderla abdicherebbe alle sue ambizioni di fronte all’elettorato.

(§): attenzione, però, come sottolinea tra gli altri Pietro Ichino un problema di accoglibiltà esiste, ed è proprio sulle modalità di taglia e incolla rispetto al testo vigente proposto dal quesito sull’articolo 18, al fine di “ridisegnare” un testo in cui si torni alla precedente disciplina della reintegra ma NON nelle imprese con più di 15 dipendenti (com’era prima del Jobs Act) bensì in quelle con più di 5 dipendenti. Bisognerà vedere se la Corte si attiene rigidamente al no ai referendm con effetti propositivi invece che meramente abrogativi e cassa dunque il quesito integralmente a quel punto sminando il quesito più esplosivo tra i tre, o se lo riscrive a propria volta cassando solo la parte della richiesta di applicazione della vecchia disciplina sopra i 5 dipendenti invece che sopra i 15.

 

13
Dic
2016

Bocciata la sola Giannini: ci sarà vera autocritica delle riforme di Renzi?

A giudicare dalla composizione del governo Gentiloni, con le conferme dei ministri Madia, Poletti e la promozione della Boschi, l’unico ministro del governo Renzi titolare di una “grande riforma” esplicitamente bocciato è Stefania Giannini, sostituita da Valeria Fedeli al MIUR. Del resto, il segretario del Pd da mesi ripeteva che il suo vero cruccio tra le riforme che andavano fatte meglio era proprio la Buona Scuola. Vista la sostituzione, cercare di capirne il perché aiuta a una considerazione di portata più generale: sulle riforme di Renzi e anzi sulle riforme più in generale quando nel nostro Paese intervengono su interessi di massa, generando dunque potenzialmente reazioni che hanno grande influenza nell’orientamento del corpo elettorale.

Non per concederle l’onore delle armi, ma se si considera il punto di partenza e quello di arrivo della Buona Scuola, Stefania Giannini a mio avviso non merita personalmente la bocciatura riservatale. Certamente, pesa molto il fatto che la Scelta Civica cui aveva dato vita Mario Monti, il partito cioè che ha espresso la Giannini, in Parlamento si è ridotta al lumicino, un’appendice dell’ALA di Verdini delusa dal governo Gentiloni.  Ma in realtà le riserve esplicite di Palazzo Chigi e del Pd verso la Giannini datano da un tempo molto precedente. Ricapitolandone i motivi si capisce anche una parte di autocritica sull’operato dell’ex governo che oggi resta ancora molto implicita nelle riflessioni pubbliche del Pd, ma che è (forse) destinata a manifestarsi ora che il partito va verso il suo congresso anticipato.

Innanzitutto: se il Pd fosse convinto che il mancato consenso dei giovani clamorosamente manifestatosi al referendum sia figlio della Buona Scuola, è una tesi azzardata. I voti che tradizionalmente “sposta” il comparto della Pubblica Istruzione col suo 1,1 milioni di dipendenti sono quelli degli insegnanti e del personale tecnico ATA, non degli studenti. Ma va ricordato che l’età media degli insegnanti italiani è la più elevata in Europa.  Eurostat certifica che nella scuola primaria italiana il 52,7% dei maestri ha più di 50 anni, nelle secondarie di primo grado la percentuale sale al 54,3%, in quelle di secondo grado si sale al 59,6%. In Gran Bretagna nella scuola primaria il 20% degli insegnanti ha tra i 25 e i 29 anni, mentre nel nostro paese questa fascia d’età rappresenta appena lo 0,5%, cioè un maestro ogni 200. Se dunque si dovesse giudicare semplicemente in base alle coorti anagrafiche, il no dei giovani non dipende della Buona Scuola. Ma resta vero che il Pd ha avvertito territorialmente in tutto il paese, che tra i dipendenti della scuola il consenso non era quello atteso e anzi, malgrado la riforma, il no era forte.

Diciamo allora che la glottologa Giannini, per anni rettore dell’Università per gli stranieri di Perugia, partiva con un duplice handicap.  Non aveva nel suo passato né il patrimonio di aver rappresentato per decenni un punto di riferimento istituzionale nel dibattito sull’istruzione per conto dell’area politico-culturale di cui il Pd odierno è erede, per intenderci di un Luigi Berlinguer.  Né l’aura di accreditato intellettuale d’area, grazie al quale per esempio Tullio de Mauro, da giovane liberale che era, divenne dagli anni Settanta sempre più riconosciuta autorità della scuola in un mondo che si estendeva dal Pci alla sua sinistra. Fino a ricevere il ministero sotto il governo Amato II, nel 2000. La Giannini aveva un duplice difetto: il mancato pedigree politico, e lo scarso appeal verso i due mondi tradizionalmente essenziali per ogni possibilità d’intervento sulla pubblica istruzione: la pachidermica e gelosa burocrazia ministeriale, alla testa di una macchina che da sola vale più di un terzo del pubblico impiego nel nostro paese, e ovviamente i sindacati. Se al posto della Giannini viene oggi nominata una sindacalista di lungo corso della Cgil come Valeria fedeli, alla testa per dieci anni di una delle categorie per altro più riformiste come i tessili (insieme ai chimici, la categoria con contratti storicamente più aperti alla flessibilità sin dagli anni Novanta) c’è una prima tessera utile per comprendere la ratio della scelta. tessera amara: la Fedeli sa nulla di scuola e università, di fatto si sceglie una sindacalista (non molto esperta a far di conto, visti alcuni suoi incidenti sul PIL e calcolo di unità e percentuali su social…) ma è il Pd che “commissaria” in quanto tale il MIUR

Andiamo al merito della riforma. Naturalmente NON parlo qui dal mio punto di vista, cioè di una riforma liberale dell’istruzione costruita sui voucher e sulla piena libertà delle famiglie e studenti di “spenderli” nell’offerta formativa che giudichino più efficace, in base alla piena concorrenza sotto standard qualitativi misurati per performance di risultato. Parliamo invece della Buona Scuola. Al Pd non piacque sin dall’inizio il testo di princìpi generali che la Giannini mise in consultazione. Non è un mistero: molti dei suoi punti non trovarono infatti traduzione nel testo del disegno di legge, nel tardo autunno 2014. E attenzione, fu allora che nella riforma assunse peso una delle novità destinata a suscitare tantissime critiche da parte di sindacati e insegnanti, cioè il rafforzamento dei poteri del dirigente scolastico rispetto ai docenti, e alla scelta delle piante organiche per la parte relativa al completamento dell’offerta formativa in ogni istituto. Il presidente del Consiglio era fortemente a favore del rafforzamento di quelli che un tempo si chiamavano presidi, anche se la storia preferirà invece dire che la responsabilità di quella scelta è della Giannini. Ma proprio tale rafforzamento complicò ulteriormente i rapporti coi sindacati, che invece erano giunti a trattare esplicitamente un ridimensionamento significativo degli scatti di anzianità retributivi uguali per tutti al posto di una componente molto più rilevante da destinare alla retribuzione differenziata merito, secondo le nuove procedure di valutazione, una delle vere potenziali grandi novità annunciate della riforma.

A quel punto, avvenne l’errore fatale. Si decise cioè di concentrare la vera grande ragione della riforma – cioè la messa in regola impostaci giustamente dall’Europa di centinaia di migliaia di precari, che dagli anni Ottanta la politica italiana aveva vergognosamente accumulato nella scuola italiana – in un solo anno scolastico. Opera erculea rivelatasi del tutto impari alle possibilità della macchina burocratica centrale e periferica del MIUR. Il che spiega perché di anni ne saranno necessari almeno un altro paio, stante che ancora oggi almeno 30mila restano i precari supplenti, e molti di più coloro che o non hanno superato il concorso quest’estate o restano nelle graduatorie. Si può credere di darne colpa alla Giannini, ma è molto improbabile che chiunque altro al suo posto sarebbe riuscito nell’impresa. Era semplicemente impossibile: la ragionevolezza avrebbe dovuto sin dall’inizio far prevedere un ciclo triennale di procedure per la messa in ruolo.

Anche perché, se l’attesa era il consenso dei messi in ruolo, era un calcolo mal fatto. La politica italiana per decenni ha coltivato oscenamente l’esercito dei precari perché quello sì era un meccanismo capace di portare consensi, promettendo a ogni elezione regolarizzazioni che poi regolarmente mancavano. La messa in ruolo di massa, con un’estrazione territoriale tanto diseguale dei precari al Sud rispetto a una domanda da coprire soprattutto al Nord, ha inevitabilmente imposto procedure di assegnazione a mobilità regionale molto elevata, anche a centinaia di chilometri dagli incarichi a tempo per anni ricoperti dai precari nelle province e nelle regioni di residenza. Altra ragione che ha fatto esplodere le proteste.

Conclusione. La Giannini paga per colpe che governo e Pd hanno in realtà ampiamente condiviso. Piuttosto, la morale è un’altra. Quando si varano riforme ad alto impatto, come Renzi ha tentato di fare, proprio la Buona Scuola dimostra che è meglio preferire interventi con princìpi chiari e forti da difendere con coerenza, piuttosto di piegarli nel tempo sminuendoli. Perché altrimenti si suscitano comunque vaste e dure proteste, ma insieme si attenuano però i consensi di chi le ha inizialmente condivise. Alla fine, la Giannini paga semplicemente perché è più debole dei suoi ex compagni di governo, punto.

 

 

12
Dic
2016

Cavour, il protezionismo e la globalizzazione. Pensieri moderni di 165 anni fa

Nel 1851 Camillo Benso Conte di Cavour all’età di 41 anni guidava il Ministero dell’agricoltura e del Commercio del Governo di Sua Maestà Vittorio Emanuele II Re di Sardegna. Nel mese di aprile di quello stesso anno il giovane Ministro dovette affrontare il dibattito parlamentare sul suo progetto di riforma doganale che prevedeva trattati commerciali con Belgio e Inghilterra e consistenti riduzioni dei dazi sino a quel momento vigenti.

A capo dell’opposizione protezionista il Conte Ottaviano Thaon di Revel fece osservare come il libero commercio nuocesse gravemente all’accumulo dei capitali all’interno del Regno di Sardegna e mettesse in serie difficoltà le imprese esposte alla concorrenza internazionale con conseguente flessione dei livelli occupazionali.

Cavour, che non fu mai un grande oratore ma i cui discorsi furono sempre chiari, asciutti e poco inclini alla retorica, replicò con un bellissimo intervento che riassunse le linee essenziali del suo pensiero in materia di politica economica e commerciale.

Con grande coraggio e lucida consapevolezza di come l’intervento dello Stato alterasse il libero gioco della concorrenza a vantaggio ora di questa ora di quella industria, Cavour esordì affermando che il suo Ministero professava “schiettamente il libero scambio”, e che fosse dell’avviso “che non si possa imporre alla generalità dei consumatori dazio veruno, onde favorire certi rami dell’industria…”

Il futuro Presidente del Consiglio dimostrò di comprendere appieno come il protezionismo non fosse altro che il risultato delle pressioni degli imprenditori più forti e capaci di rappresentare i loro interessi ai più alti livelli istituzionali ed una maschera, allo stesso tempo, con la quale si tentava di nascondere politiche distributive, utili solo a trasferire risorse dai consumatori ad alcuni produttori.

A chi insisteva nell’affermare che il protezionismo avrebbe consentito all’interno del Regno l’accumulazione di quei capitali di cui il sistema economico aveva necessità (sopratutto nei settori posti al riparo dalla concorrenza estera), il Conte di Cavour replicò dimostrando come in realtà il protezionismo alterasse proprio l’allocazione dei capitali poiché rappresentava un falso segnale capace di attirare risorse in settori protetti e per ciò solo incapaci di assicurare adeguato sviluppo e crescita.

Il sistema protettore non ha facoltà di creare capitali, ma solo che i capitali disponibili e destinati alla produzione si rivolgano a questo, piuttosto che a quell’altro ramo dell’industria – affermò Cavour, e più avanti precisò il suo pensiero dichiarando come – il sistema protettore abbia per effetto di spingere i capitali nelle vie che sono meno profittevoli.

Dimostrando grande capacità di leggere i fenomeni dell’economia mondiale il Ministro del Commercio illustrò le conseguenze nefaste che il protezionismo avrebbe avuto sulla divisione internazionale del lavoro e sulla capacità delle imprese (sopratutto in una realtà molto piccola come il Piemonte) di innovare e progredire perché stimolate dalla concorrenza esterna:

Ora, signori, il sistema protettore impedisce appunto la divisione del lavoro, col far sì che il capitale nazionale disponibile, il capitale di riproduzione, si rivolga a tutti quei rami d’industria di cui il Paese ha bisogno, ma i cui prodotti potrebbe procurarsi dall’estero; ma l’avere attivato tutti questi rami d’industria, riuscendo d’impedimento alla riunione dei diversi capitali in un’industria, impedisce appunto la divisione del lavoro, e ciò mi pare assolutamente evidente … ed accade sempre che mercè il dazio protettore,  produttori si addormentano e sono lentissimi nei progressi che altrove si fanno celermente.

Cavour, infine, si fece carico (col garbo del linguaggio e la forza dell’argomentazione razionale) di svelare come l’idea degli industriali protezionisti di tutelare il lavoro dei loro operai per mezzo dei dazi fosse radicalmente sbagliata perché sottovalutava il profondo legale fra la quantità di capitali investita in un sistema economico e l’aumento della forza lavoro:

Se il sistema protettore avesse la virtù di aumentare i capitali, tornerebbe certamente proficuo alla classe degli operai: ma se invece di aumentare i capitali, non dà che un cattivo interesse, invece di tornare utile le torna dannoso. Potrà, egli è vero, essere di vantaggio ad una determinata località. È vero che il sistema protettore può favorire notevolmente, largamente, una provincia addetta ad una particolare industria … Ma bisogna vedere se il vantaggio che la valle d’Aosta ha ricavato dal dazio protettore sui ferri non sia stato pagato dieci volte dalle altre parti dello Stato.

Tutto questo nell’aprile del 1851,165 anni fa…

@roccotodero

5
Dic
2016

Gli individui risolvono la crisi economica se lo Stato…—di Federico Morganti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Federico Morganti.

Chiunque appartenga alla ristretta galassia liberale-liberista sa bene quanto sia importante la crescita economica e quali siano le condizioni che possono agevolarla: uno stato leggero, la certezza del diritto, stabilità istituzionale. Condizioni tanto più importanti in tempo di crisi, quando l’occupazione, le opportunità di investimento e le possibilità di risparmio delle famiglie languono. Il liberista diffida, e a ragione, della pretesa dello stato di fornire la ricetta per uscire dalla crisi. Lo ha ben sottolineato Emilio Rocca in un recente intervento su “Leoni Blog”. Semplicemente, lo stato non ha gli strumenti per far promuovere, in positivo, la crescita del paese. Non c’è sussidio o intervento a favore di questo o quel gruppo che potrà aiutare l’Italia a riprendersi. Le energie per la ripresa non verranno dall’apparato pubblico, bensì dal basso: dai comuni cittadini, da imprenditori piccoli e grandi, commercianti e produttori di beni e di servizi (in una parola: di valore). La vera domanda, dunque, non è “cosa può fare lo Stato per risolvere la crisi economica?” bensì “cosa può fare l’individuo per risolvere la crisi economica?”. È il secondo e non il primo a produrre valore e a contribuire dunque a quell’indicatore aggregato della crescita di un paese qual è il PIL. “La risposta migliore dell’individuo di fronte alla crisi economica”, scrive Rocca, “sarebbe quella di produrre maggiore valore”.
C’è del vero in queste considerazioni, ma c’è anche qualcosa che manca. Per rendercene conto, basta porre un’ulteriore domanda: come mai nel nostro paese gli individui fanno fatica a produrre valore, a innovare, a escogitare nuovi modi per servire il consumatore? A questa domanda, il liberista dà una risposta secca: lo stato, sotto forma di tassazione, burocrazia e regolamentazione schiacciante.
Se ciò è vero, ne consegue che c’è molto che lo stato può fare per mettersi la crisi alle spalle: può ridurre la spesa pubblica e tagliare le tasse; può razionalizzare la spesa pensionistica; può rivedere il funzionamento della pubblica amministrazione; può alleggerire il carico regolatorio e burocratico sulle imprese; può spingere l’Unione Europea a rimuovere le barriere commerciali con il terzo mondo. Poiché è lo stato a imbavagliare le energie degli individui con lacci e lacciuoli di ogni tipo, esso si trova in un’ottima posizione per promuovere la crescita, e cioè rimuovendo quei vincoli. È lo stesso Rocca, del resto, a suggerirlo: “Cosa direbbe [Adam Smith] di elettori che affrontano la crisi economica chiedendo allo stato di fare esattamente l’opposto di una famiglia di buon senso, ovvero di aumentare la spesa e di fare più debito?”. Ma la riduzione della spesa e del debito pubblico devono necessariamente passare per un cambio di rotta della politica.
Come spingere la politica a fare questo, come diffondere un po’ di cultura liberale tra gli organi istituzionali è un problema di non facile soluzione, su cui è perfino lecito essere pessimisti. Ma può il liberale escludere a priori che la politica possa fare qualcosa per la crisi? E quali sono le strade più promettenti che il liberale deve invece battere? Possiamo certamente promuovere la diffusione delle idee liberali, una maggiore educazione ai benefici del mercato e della globalizzazione: obiettivi senz’altro auspicabili benché raggiungibili solo nel medio-lungo termine. Ma nello sforzo di istruire circa i benefici dello stato minimo e dell’autonomia del mercato, non dimentichiamo che, purtroppo, in Italia lo stato non è “minimo” e di libero mercato ce n’è ben poco. Per far sì che gli individui contribuiscano all’uscita dalla crisi è dapprima necessario rimuovere gli ostacoli che impediscono loro di farlo. E per far ciò, una cosa che lo stato può fare in effetti c’è: farsi da parte, e speriamo per molto tempo.