30
Dic
2016

Consigli di lettura per il 2017 / Parte prima

Anche quest’anno, il team dell’Istituto Bruno Leoni e di LeoniBlog vi propone alcune letture per i prossimi dodici mesi. Saggi per continuare a riflettere, anche nell’anno nuovo, sulla libertà individuale. Ecco i nostri primi dieci consigli di lettura per il 2017:

Phillip Blond, Red Tory. How Left and Right Broke Britain and How We Can Fix It (London, Faber and Faber, 2010, £14.99)
Phillip Blond è stato l’ideologo dietro al progetto “Big Society”, un’agenda di ristrutturazione del welfare britannico in senso ampiamente liberale. Il governo che si fece portavoce di questo progetto era quello di coalizione tra Conservatori e Lib-Dem, guidato da David Cameron. I radicali tagli alla spesa pubblica e la massiccia decentralizzazione del potere decisionale da Whitehall alle “localities” si attuarono nell’ottica di restituire potere agli individui e alle associazioni volontarie. Red Tory è stato il manuale d’istruzioni di quel progetto, rimasto ampiamente incompiuto com’era prevedibile che accadesse. Non solo, Blond offre un’acuta analisi della recente storia britannica (che si riflette in gran parte di quella europea) a giustificazione delle sue proposte radicali. La destra thatcheriana ha ridato valore al mercato come luogo d’incontro tra preferenze individuali, al costo di accentrare il potere di “supervisione” dello Stato. La sinistra blairiana ha esasperato questo nuovo assetto duopolistico tra politica e finanza trasformando il Regno Unito in un “mercato di polizia”. Tocca alla nuova generazione politica, dice Blond, ridare ossigeno al tradizionale liberalismo britannico, fondato su coesione sociale, attivismo famigliare e responsabilità individuale. Phillip Blond è un conservatore genuino e quindi, in un certo senso, un liberale classico. Il fondatore del think-tank londinese Res Publica ci ricorda così che uno degli aspetti più apprezzabili del liberalismo è il suo risvolto etico: sono gli individui, quasi sempre in maniera spontanea, che creano le condizioni per la migliore convivenza possibile e quindi per il loro stesso sviluppo. Conservare il buono per progredire verso il meglio: è questo il suo “red toryism”, discendente della più nobile tradizione disraeliana.
– Tommaso Alberini (Collaboratore IBL), @tomalberini

Richard H. Thaler e Cass R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile (Milano, Feltrinelli, 2009 [2008], €16)
Il Nudge – ossia la spinta gentile che dà il titolo al libro – è il metodo mediante cui Sunstein e Thaler reputano che gli individui possano essere posti in grado di decidere in maniera più consapevole e mirata, ovviando cioè a pregiudizi, errori cognitivi e stimoli condizionanti che ne orientano l’agire. Le persone compiono scelte da esseri umani (humans) e non da uomini economici (econs): ciò significa che i loro comportamenti costituiscono spesso reazioni indotte da sollecitazioni del contesto e da fallacie cognitive più che da ragionamenti logici. Il testo contiene un’esaustiva esposizione di quelle maggiormente ricorrenti: il Nudge può fungere quale strumento per rendere i singoli più coscienti e, quindi, indurli a scelte migliori per se stessi e per la collettività, al contempo. La lettura del libro è interessante non solo per conoscere i modi in cui opera il Nudge, ma soprattutto per un profilo che va oltre l’uso dello strumento: è importante per comprendere come i decision maker possano valutare preventivamente i meccanismi mentali che influenzano i soggetti cui le loro decisioni sono rivolte, per non correre il rischio di mancare gli obiettivi prefissati, adottando misure inadeguate. La nudge strategy, a differenza dei tradizionali strumenti fondati sul command and control, non comprime la libertà delle persone al fine di indurle a preferire l’opzione maggiormente desiderabile secondo il giudizio del decisore, ma lascia intatta la loro discrezionalità di compiere scelte “cognitivamente limitate”: per questo ultimo profilo, la “spinta gentile”, cioè non costrittiva, è stata definita quale strumento di “paternalismo libertario”, espressione che molti reputano un ossimoro. Al di là delle diverse opinioni circa l’uso di tale metodo, è indubbia la funzione che il testo di Sunstein e Thaler ha avuto nel conferire rilievo alla necessità di comprendere come gli individui “funzionano” e come rispondono a determinati “pungoli”, di regolazione e non. In un Paese, l’Italia, ove i governanti sono troppo propensi a una iper-produzione normativa e poco preoccupati preventivamente dell’esito che le loro disposizioni potranno produrre, operando spesso interventi che si risolvono in un ingente spreco di pubbliche risorse; e ove i governati non sempre sono consapevoli dei propri meccanismi di comportamento, né sempre dispongono di strumenti per difendersi adeguatamente da eventuali tentativi di manipolazione politica, la lettura del libro suggerito può fornire molti spunti di riflessione.
– Vitalba Azzollini (Collaboratrice Leoni Blog), @vitalbaa

Don Lavoie, Rivalry and Central Planning: The Socialist Calculation Debate Reconsidered (Arlington VA, Mercatus Center at George Mason University, 2015 [1985], $15.95)
Ci sono libri che non invecchiano mai e il libro di Don Lavoie del 1985 è sicuramente uno di questi. In 200 pagine vengono condensati i passaggi principali del dibattito teorico sul calcolo economico, con i sostenitori del mercato da un lato, e quelli della pianificazione dall’altro; in mezzo si trovano i neoclassici, che però faticano a includere il tempo e l’incertezza nei loro modelli. Il processo di scoperta innescato dalla competizione e la conseguente produzione di nuova conoscenza sono noti: in ultima analisi rendono preferibile il sistema di mercato e dei prezzi. D’altronde, la stessa competizione tra le tre diverse scuole di pensiero, come emerge chiaramente dal libro, ha accresciuto la comprensione del tema del calcolo economico più di quanto non abbia fatto alcun singolo contributo.
– Paolo Belardinelli (Research Fellow IBL), @paolobelardinel

Carlo M. Cipolla, Piccole cronache (Bologna, il Mulino, 2010, €10)
A quanto ammontava il debito pubblico nella Firenze del 1303? Quando nacque il costume di garantire un “paracadute” alle banche? E soprattutto: dove si nascondevano i soldi delle tangenti nel Seicento? A queste e altre domande risponde il grande storico dell’economia preindustriale e rinomato esegeta delle leggi della stupidità umana, Carlo Maria Cipolla. Brevi saggi distinti, apparentemente scollegati fra loro, ma uniti – come le perle di una collana – dal filo dello stile bonario e della profonda erudizione dell’autore. Traffici intercontinentali, politiche monetarie imperiali, finanziamenti di grandi imprese belliche. Vicende gigantesche e protagonisti smisurati – si va da Carlo Magno a Colombo, da Felipe II di Spagna al Kaiser -, righe densissime eppur lievi, in cui storia ed economia si intrecciano, narrate come “Piccole cronache”; trame colossali dipinte con la vivida efficacia delle miniature, dei marginalia medievali. Ed è questa la principale ragione per leggere questo smilzo libretto: in un’epoca in cui le star della divulgazione ricorrono inutilmente agli effetti speciali, questo compianto studioso illumina vicende buie di epoche oscure con l’umile ma sicura candela dell’ironia e del buonsenso; e riesce – ve ne accorgerete – a non annoiare mai.
– Francesco Cocco (Collaboratore IBL), @FrancescoCoccoT

Bradley A. Smith, Unfree Speech: The Folly of Campaign Finance Reform (Princeton NJ, Princeton University Press, 2003 [2001], $43.86)
Un libro di quelli che parlano di un tema specifico (il finanziamento della politica), illuminando in realtà temi assai più generali (i confini dell’intervento pubblico, la libertà individuale, i limiti della regolazione). Nominato membro della Federal Election Commission nonostante l’opposizione dei tanti benpensanti d’oltreoceano, Brad Smith, valente giurista in forza alla Capital Law School, compendiò in questo lavoro le sue convinzioni nella materia del finanziamento elettorale, e delle tanto invocate riforme che quei medesimi benpensanti invoca(va)no come un salvifico mantra anche negli Usa. Smith smonta una per una le false credenze diffuse sull’argomento, a cominciare dalla necessità di introdurre nuove restrizioni all’afflusso di denaro nella politica, e con logica implacabile tira fuori un saggio documentatissimo in punta di diritto, ma che è anche un’appassionata e godibilissima difesa della libertà come intesa dalla miglior tradizione americana, senza se e senza ma. Anche là dove implichi il diritto di finanziare senza restrizioni un candidato, in quanto forma di manifestazione del pensiero da proteggere come tutte le altre. Personalmente, è un libro che mi ha cambiato la vita, mostrandomi le cose da un’altra prospettiva, dove finalmente i conti tornavano un po’ di più. Se avete il sospetto che qualche vostro amico (che sappia leggere in inglese e sia un po’ interessato alla politica) sia portatore sano del virus della libertà, questo libro potrebbe essere l’ideale per risvegliarglielo. Astenersi perbenisti e politicamente corretti.
– Riccardo De Caria (Fellow IBL), @riccardodecaria

Ralph Raico, Great Wars, Great Leaders. A Libertarian Rebuttal (Auburn AL, Ludwig von Mises Institute, 2015 [2010], $10)
Scomparso solo poche settimane fa, Ralph Raico è stato uno più acuti interpreti della prospettiva liberale classica in un ambito – quello della storiografia contemporanea – essenzialmente dominato da prospettive “realiste”, che non sembrano lasciare molto spazio ai principi e alle categorie di quanti auspicano una società basata su proprietà e contratto. In Great Wars, Great Leaders (disponibile gratuitamente on-line nel sito del Mises Institute) Raico ha raccolto alcuni dei suoi saggi più interessanti, oltre che alcune recensioni di libri, e il quadro complessivo che ne esce è quello di una storia novecentesca assai lontana da quella propostaci da conservatori e progressisti. In effetti, molti idoli dell’uno e dell’altro campo (da Wilson a Churchill, per fare due nomi) escono del tutto ridimensionati in queste sue pagine tanto originali quanto avvincenti. Più in generale, l’idea che nel corso dell’ultimo secolo gli Stati Uniti e il Regno Unito abbiano giocato solo una politica estera schierata a difesa della giustizia e della libertà gli appare tanto indifendibile quanto ingiusta. In modo particolare Raico appare spietato nello smontare i luoghi comuni di quella propaganda (ancora assai viva) che ci ha presentato i tedeschi – dalla prima guerra mondiale in poi – quali responsabili di ogni nefandezza e ha, invece, tentato di assolvere i comunisti (l’Unione sovietica e i partiti che l’hanno appoggiata) da ogni responsabilità politica e morale. Nell’introduzione al libro Raico richiama i nomi di Richard Cobden, Herbert Spencer, Lysander Spooner, William Graham Sumner, Gustave de Molinari, Albert Jay Nock e Frank Chodorov come suoi modelli: quali interpreti di una storiografia liberale che guarda ai fatti ed evita le versioni propagandistiche, sempre con l’obiettivo ben chiaro di proteggere la libertà individuale e frenare l’espansione dello Stato. Significativamente, il libro è dedicato alla memoria di Murray N. Rothbard.
– Carlo Lottieri (Direttore Dipartimento Teoria Politica IBL), @CarloLottieri

Cristiano Gori (a cura di), L’alternativa al pubblico? Le forme organizzate di finanziamento privato nel welfare sociale (Milano, FrancoAngeli, 2012, €23,50)
Terminata la sbronza ideologica del Novecento, protagonisti indiscussi dell’hangover di chi vede nello Stato l’unica possibile fonte di giustizia sociale sono diventati i sistemi di welfare state europei, in perfetta coincidenza con la critica più diffusa alla libertà economica: il disinteresse nei confronti dei più deboli. In questo volume Cristiano Gori – professore di Politica Sociale e visiting senior fellow alla LSE – esamina, con sguardo accademico ma mai autoreferenziale, numerose esperienze di finanziamento privato del welfare sociale, raccontandone obiettivi, metodi, pregi e difetti: dal welfare aziendale alla conciliazione vita-lavoro, dal ruolo delle fondazioni contro la povertà ai fondi assicurativi per la non autosufficienza. La conclusione dell’autore è che il ruolo dei privati nel welfare sociale non possa in alcun modo sostituire un intervento pubblico adeguato, per stanziamenti ed efficienza. Tuttavia, le difficoltà incontrate da chi opera quotidianamente in questo campo (crowding out, difficoltà burocratiche, peso del fisco) contribuiscono senz’altro a ridurne il margine di integrazione al ruolo dello Stato, svantaggiando proprio le fasce più deboli della società.
– Giacomo Lev Mannheimer (Research Fellow IBL), @glmannheimer

Fred E. Foldvary, The Soul of Liberty. The Universal Ethic of Freedom and Human Rights (Berkeley CA, Gutenberg Press, 1980, $12)
Gran parte dei nostri problemi politici, economici e sociali sono essenzialmente questioni morali. Consideriamo questi esempi: esiste un sistema di tassazione giusto? Esistono i diritti al cibo, alla casa e alla salute? Come dovrebbero essere distribuite le risorse scarse? Gli animali hanno dei diritti? Queste sono, insieme a tante altre, le tipiche questioni che vengono sollevate nel libro. Ognuno di noi ha le sue opinioni al riguardo. Il punto è se dobbiamo considerarle all’interno delle leggi e dei programmi economici o sociali. Oppure, se è sufficiente una maggioranza di persone a determinare cosa è moralmente giusto. Ma soprattutto, se esiste un diritto morale assoluto che trascende dalle nostre opinioni individuali e fedi. L’autore dimostra l’esistenza di un diritto morale naturale e razionale che si applica a tutta l’umanità: un’etica universale che determina lo scopo dei diritti umani e definisce il significato della libertà individuale. Questo libro esplora la relazione che esiste tra le nostre opinioni personali e l’etica universale. In particolare, Foldvary cerca di dimostrarne la sua esistenza e la sua applicazione ai problemi politici economici e sociali di oggi.
– Luca Minola (Collaboratore IBL), @LucaMinola

Eric Ries, Partire leggeri. Il metodo Lean Startup: innovazione senza sprechi per nuovi business di successo (Milano, Rizzoli Etas, 2012 [2011], €23)
E se anche il governo e le PA adottassero la metodologia elaborata da Eric Ries? Quello descritto nel libro è un metodo per validare in modo empirico ogni idea che si voglia trasformare in qualcosa di reale e utile a qualcuno altrettanto esistente (esistente non solo nelle visioni degli imprenditori o nei faraonici progetti pubblici, ma esistente in carne ed ossa). Tale validazione assume infatti nel testo il significato di “avere mercato”, condizione per procedere con un modello iterativo che, una volta verificata una sufficiente quantità di domanda, permette di progettare e affinare la qualità dell’offerta raggiungendo la condizione di “product market fit”. In fin dei conti – i conti che sono spesso oggetto dei post che ospita questo blog – dal momento che la PA promuove ed eroga nuovi servizi, si potrebbe risparmiare sulla loro inutilità prima che il prezzo sia molto più alto di quello che consentirebbe la metodologia Lean grazie ad attività di testing preliminari e durante la progettazione di servizi e prodotti. Certo il più delle volte meglio sarebbe lasciare del tutto al mercato anche l’iniziativa di progettare l’offerta, ma almeno testare la presenza di una effettiva domanda senza presumerla a priori e verificare le preferenze e i bisogni degli utilizzatori finali sarebbe quantomeno un compromesso anche per la progettazione dei servizi pubblici, per avvicinarli alle logiche del mercato. Comunque sia – tralasciando l’applicazione nel pubblico per chi non cedesse come me alla fallacia del “wishfull thinking” contraria proprio all’approccio Lean (a questo punto suggerisco anche questo manuale-kit per difenderci da tutta una serie di fallace che sfidano ogni giorno la nostra razionalità) – The Lean Startup è un libro per chiunque avesse da parte un’idea e che magari ha accantonato proprio pensando di non avere modo di verificarne la reale utilità per il mondo, o comunque per una sua piccola, ma realmente interessata, porzione.
– Giacomo Reali (Research Fellow IBL), @giacreali

Calestous Juma, Innovation and Its Enemies: Why People Resist New Technologies (New York, Oxford University Press, 2016, $29.95)
L’innovazione è il principale motore della prosperità e del progresso. Perché, allora, trova tanti ostacoli, sia nelle società in via di sviluppo sia in quelle già sviluppate? È la domanda a cui tenta di rispondere Calestous Juma nel suo Innovation and Its Enemies. L’economista di Harvard mostra come le innovazioni tecnologiche, organizzative e istituzionali generino enormi benefici sociali. Proprio per questo, egli indaga le dinamiche sociali alla base di un’opposizione che, come emerge dai numerosi casi storici da lui ricostruiti, non può essere semplicemente liquidata facendo appello all’ignoranza delle masse o alla paura dell’ignoto. Piuttosto, Juma invita a distinguere le ragioni dichiarate della lotta all’innovazione – che non di rado trovano qualche fondamento più o meno religioso – dalle loro determinanti reali, sociali, politiche o economiche. L’innovazione e gli innovatori devono fare i conti con le loro stesse conseguenze: la creazione di prosperità è inestricabilmente connessa a una schumpeteriana distruzione di certezze e di posizioni di rendita. Il nemico dell’innovazione, allora, è la paura che essa metta in discussione lo status, il benessere, o anche solo le coordinate di riferimento di quanti si ritrovano dal lato sbagliato del cambiamento. Per questo, Juma ritiene che la battaglia per l’innovazione non possa né debba separarsi dallo sforzo di prendere sul serio l’inclusione sociale, specialmente in un tempo in cui i cambiamenti di paradigma tecnologico sono rapidi e hanno portata globale. Se vogliamo che l’innovazione migliori la vita di tutti, dobbiamo trovare strumenti per renderla digeribile anche da coloro i quali hanno qualcosa da perdere. Di conseguenza, il dibattito sull’innovazione, più ancora che un confronto sui rischi reali delle specifiche tecnologie, deve concentrarsi sulla percezione di tali rischi. «Le controversie tecnologiche – scrive Juma – spesso nascono da tensioni tra l’esigenza di innovare e la pressione a mantenere continuità, ordine sociale e stabilità». Ecco perché, oggi più che mai, «gestire le interazioni tra il cambiamento e la continuità rimane una delle funzioni più critiche dei governi».
– Carlo Stagnaro (Fellow IBL), @CarloStagnaro

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28
Dic
2016

Voucher: correggerli, non rottamarli come dice la Cgil

Lo abbiamo scritto e lo ripetiamo. In vista dei tre quesiti referendari sul lavoro presentati dalla Cgil e su cui si deve pronunciare a gennaio la Corte Costituzionale, il Pd sembra mostrare un problema serio. Diverse tra le sue componenti si iscrivono al partito dei “pentiti del riformismo”.  Se così fosse tanto da implicare un cambio di linea complessivo del Pd, sarebbe l’autorottamazione del Jobs Act: non certo il massimo, per chiedere futuri consensi all’elettorato.

Il problema si pone non solo sull’articolo 18, che la Cgil vuole ripristinare nella sua disciplina vincolistica anteriore al Jobs Act non solo, com’era prima, per le aziende con più di 15 dipendenti, ma per quelle con oltre 5 lavoratori. Sarebbe un referendum “creativo” e non abrogativo, e vedremo cosa la Consulta avrà da dire in proposito (sulla Stampa, oggi Roberto Giovannini scrive che secondo indiscrezioni si sta irrobustendo l’opinione avversa all’accoglibilità). Ma analoga questione si pone anche per i voucher, i buoni per il lavoro accessorio che nella vulgata sono diventati nuovi strumenti di un odioso precariato di massa. Le domande alle quali rispondere sono, nell’ordine, tre. I voucher sono davvero come li si dipinge? Oppure hanno espresso una domanda e offerta di lavoro positive? Che lezione trarre, che cosa fare in concreto?

Premessa su cosa siano, i voucher. I buoni per il lavoro accessorio sono diffusi da molti anni nel Nord Europa, hanno dato buona prova di sé in Francia e Belgio. Introdotti nel 2003 in Italia dalla legge Biagi, per anni non trovano applicazione. Nel 2008 l’allora ministro Damiano, che si opponeva alla Biagi, né da una prima attuazione nelle vendemmie e per lavori dunque stagionali agricoli.

L’idea diventa nel tempo quella di utilizzare i voucher per lavoretti occasionali per cui mai si stipula un contratto: assistenza a malati e portatori di handicap, lezioni private, giardinaggio, manutenzione edifici. Fatto sta che da poco più di 24 mila lavoratori “accessori” che lo utilizzano nel 2004, si passa nel 2015 a un milione e trecentomila percettori di voucher. Dal 2012 i voucher vengono infatti estesi dalla Fornero a tutti i settori. Nel 2013 col governo Letta si cancella il riferimento a mansioni “di natura occasionale”.

Perché la liberalizzazione? Perché nel frattempo si rafforzava sempre più l’idea di rafforzare i contratti a tempo indeterminato, e aumentavano le restrizioni alle forme di lavoro coordinato e continuativo: idea che di tappa in tappa sfocia nel Jobs Act, con la fine dei cosiddetti “co.co.co” e “co.co.pro”.  Nasce da questa premessa il duplice sospetto che l’enorme estensione negli anni del ricorso ai voucher sia il bacino i cui confluiscono mascherate le precedenti tipologie di precariato. E che, invece di far emergere lavoro prima offerto in nero senza tasse né contribuiti, il voucher finisca invece per coprire altro lavoro nero dietro la maschera di un buono da 10 euro di cui 7,5 di paga oraria per il beneficiario, e 2,5 euro per i contributi INPS e INAIL previdenziali, senza però aver diritto alle prestazioni a sostegno del reddito come disoccupazione, maternità, malattia, assegni familiari.

A onor del vero, il Jobs ACT ha già introdotto limitazioni. E’ stato introdotto il massimale annuale pagabile a voucher in 7mila euro, oltre a quello di 2mila euro annuali per lavoratore da parte di ogni singolo datore di lavoro. E’ stato inibito l’utilizzo dei voucher negli appalti. Ed è stato previsto l’obbligo di comunicazione all’INPS di tutte le caratteristiche d’uso del voucher, preventivamente al suo utilizzo. In teoria, apposta per impedire che il voucher copra lavoro nero. E il governo Renzi, fino a qualche settimana fa, ripeteva infatti che era anche per questo, che nei primi 10 mesi del 2016 sono sì stati venduti 121,5 milioni di voucher, ma con un incremento del 32,3% sull’analogo periodo del 2015, non più del 67,6% di crescita tra gennaio-ottobre 2015 rispetto al 2014.

Per capire che cosa fare è essenziale conoscere chi siano davvero i percettori del voucher, e quali le forme prevalenti di utilizzo. Nell’ultimo rapporto annuale INPS di qualche mese fa, quindi aggiornato ai dati 2015, apprendiamo che Il guadagno netto medio dei lavoratori retribuiti con i voucher negli ultimi anni non è mai arrivato a 500 euro, e che comunque raramente supera i 600. da questo dato, si direbbe che i voucher sono simili ai Mini-Jobs tedeschi. Il numero dei lavoratori è cresciuto costantemente negli anni, ma il numero medio di voucher riscossi dal singolo lavoratore è sostanzialmente invariato: circa 60 l’anno, dal 2012 in avanti. L’età media è andata sempre decrescendo, così come il differenziale di età tra i sessi. La percentuale di ragazze e donne è progressivamente aumentata, ed è attualmente superiore al 50%. Il ricorso ai voucher è concentrato nel Nord: il Nord-Est incide per il 36,8%, il Nord-ovest per il 29,5%.  La regione con maggiore ricorso ai voucher è la Lombardia, seguono Veneto ed Emilia- Romagna.

Il tipo di attività per la quale è stato acquistato il maggior numero di voucher è il commercio con un 16,8%, ma vanno forte anche l’assistenza alle persone e la manutenzione delle abitazioni. Il 36,7% include invece ”attività specifiche d’impresa”, ed è su questo terzo abbondante di utilizzo che si appuntano i sospetti di abuso. Che generano letture divergenti. Da una parte lo stesso presidente dell’INPS, Tito Boeri, a maggio ha lanciato un vero e proprio atto d’accusa. “I voucher – ha detto -sono nati per regolarizzare il lavoro accessorio, ma hanno avuto uno sviluppo diverso: in alcuni casi abbiamo una precarizzazione evidente, con lavoratori a tempo indeterminato o determinato che adesso hanno i voucher, e in questo senso sono anche controproducenti. Non sono tanti i lavoratori nelle fasce centrali d’età, si vedono poche persone che prima non lavoravano che di colpo prendono voucher. Il livello dei contributi che raccogliamo è basso, circa 150 milioni, lo 0.2% dei contributi totali dei lavoratori dipendenti, mentre i lavoratori che percepiscono voucher sono l’8%: è molto meno di quello che si potrebbe pensare alla luce del numero delle persone coinvolte. Sembrerebbe esserci un fenomeno di datori di lavoro che usano i voucher in maniera disonesta, per evitare un controllo o per pagare solo in parte le ore di lavoro”.

Senonché proprio uno studio INPS diretto da Bruno Anastasia nel 2015 mostra come i percettori dei voucher siano quasi al 10% pensionati, mentre il 55% si divide tra chi ha un altro lavoro e percettori di ammortizzatori sociali. Sommando queste tipologie si direbbe che i due terzi dei percettori utilizzano il voucher davvero per attività accessorie, e per tipi di mansioni in cui prima il nero era considerato imperante.

E’ solo dal miglioramento della raccolta sistematica di questi dati e la loro incrocio interpretativo, che può venire la migliore risposta al “che fare”. Se si vogliono identificare sulla base di dati concreti alcuni settori precisi di attività in cui forte è il sospetto di abusi, dopo quello degli appalti come già si è fatto, allora si possono e si devono adottare restrizioni a quelle tipologie. Le costruzioni sono per esempio, a mio giudizio, fondatamente sospettate. E anche l’utilizzo nei grandi gruppi industriali e nel settore pubblico va chiarito molto, dati alla mano. Ma buttare a mare i voucher in quanto tali, come pretendono la CGIL e molti “pentiti”, è un triplice errore. Ignora il fatto che in almeno i due terzi dei casi l’evidenza empirica sin qui raccolta comprova l’idea che il fine di contrasto al nero sia ottenuto. Rifiuta l’evidenza che per quei lavori mai e poi mai si stipulerà un contratto a tempo indeterminato. Respinge l’idea stessa che il lavoro – la sua cultura e la sua dignità – sia espressione di una società flessibile e in continua trasformazione, non immobilizzato in antiche forme ideologiche. In più, se avvenisse l’abiura, per il Pd sarebbe un clamoroso autogol: non per Renzi come pensano in tanti, ma per il Pd in quanto tale.

 

24
Dic
2016

Un brindisi per le festività , evviva la libertà !

Sono giorni di brindisi di auguri, con spumante o champagne, vini rossi o birre, non conta: ciò che conta è che siamo liberi di berci un sorso alla salute di amici e parenti, in piena libertà. Purtroppo non è lo stesso in Russia, come si apprende da un recente piccolo, ma emblematico, caso di cronaca.

Si tratta dell’avvelenamento di massa avvenuto a Irkutsk, in Siberia, dove oltre 40 persone sono morte e altre sono ricoverate in ospedale per aver bevuto una lozione cosmetica per il bagno chiamata ‘Boiarishnik’, ‘biancospino’, contenente metanolo. In Russia sono tristemente frequenti gli avvelenamenti da prodotti non bevibili contenenti alcol, usati come se fossero dei surrogati meno costosi delle bevande alcoliche regolarmente in vendita. La lozione per il bagno al biancospino non era destinata ad essere bevuta ma sopra c’era anche scritto che conteneva il 93 % di metanolo ed è per questo che decine di persone l’hanno ingerita come se si trattasse di una bevanda alcolica a basso prezzo. Il liquido, però, conteneva la sostanza letale.

Sembra di essere ripiombati nell’America degli anni ‘20, perché il governo russo,  con diverse leggi varate in questi ultimi anni, ha represso duramente il consumo e la commercializzazione degli alcolici. L’emergenza alcol, in un paese con un numero elevatissimi di alcolizzati, è stata affrontata con la peggiore delle ricette di sapore proibizionista, politiche della tolleranza zero, orari rigidissimo per la commercializzazione – nell’Unione Sovietica vigeva il divieto della vendita dei vini e della vodka dalle 19.00 alle 11.00 e nella Russia postcomunista il divieto è dalle 20.00 alle 08.00- oltre che controlli a tappeto. I costi degli alcolici, naturalmente sono alle stelle, con difficoltà nell’esportazione anche per i produttori italiani. “Queste misure devono portare a rafforzare l’istituzione della famiglia, ad incentivare la pratica dello sport e ad optare per uno stile di vita salutare”, si legge in una nota esplicativa della legge, evidentemente ispirata alle migliori dottrine dello stato etico. Per questo, non avendo la possibilità di acquistare bevande alcoliche, i cittadini cercano altri prodotti contenenti alcol,  con conseguenze dannosissime per la loro salute se non mortali, come nel caso siberiano.

Ma si sa, il divieto aguzza l’ingegno e per ovviare all’aberrazione di feste a base di shampoo e dopobarba, sono nate molte piccole imprese di consegna di alcol a casa che aggirano la legge con un semplice trucchetto: vendono succhi e acqua, che servono sempre per i cocktails, e regalano l’alcol. Si sceglie di non vendere alcol russo perché un altro pessimo effetto della legge è stato la naturale proliferazione di alcolici contraffatti assai intossicanti e nocivi. E’ molto diffusa anche la pratica elusiva dell’ “affitto” o della “consegna in uso temporaneo su cauzione”degli alcolici. Il cliente “prende in usufrutto” una bottiglia, lasciando al fornitore la “cauzione” equivalente al costo della bottiglia stessa. Entro la mattina successiva il cliente deve consegnare la bottiglia “presa in affitto”, ritirando la sua cauzione, altrimenti il fornitore incassa la “cauzione”. Naturalmente, nel cento per cento dei casi, avviene proprio questo.

I morti per avvelenamento causato dalle draconiane norme che regolano il consumo e la vendita di alcol in Russia, sono le vittime di uno stato che, purtroppo, non da solo e sempre più frequentemente, crede di risolvere un problema diffuso con la restrizione delle libertà individuali: una fatale e tragica politica contro la quale dovremo sempre combattere.

23
Dic
2016

Lo Stato in MPS: la grande collusione di questi anni, i rischi odierni

Nella tarda serata di ieri il Consiglio dei ministri ha varato il decreto per attivare lo scudo bancario autorizzato dal Parlamento. Cioè per attivare contemporaneamente le garanzie di liquidità necessarie a istituti di credito in crisi, volte a evitare ogni eventuale crisi da ritiro dei depositi, e per sottoscriverne aumenti di capitale. Naturalmente, si comincerà dall’intervento pubblico per l’aumento di capitale “precauzionale” del Monte dei Paschi. E’ infatti fallito il tentativo di aumento per 5 miliardi effettuato con criteri e soggetti di puro mercato. Anche se gli oltre 2,4 miliardi raccolti da conversione di obbligazioni, date le condizioni, non è stato un risultato disprezzabile.
Viene dunque il momento di un intervento pubblico che in realtà a molti è sembrato da tempo scontato. La sua delicatezza è molto elevata. Se verrà effettuato con rispetto delle regole europee e con limpida chiarezza verso i grandi fondi internazionali, potrebbe essere la svolta agli occhi del mercato dopo anni di colpevole sottovalutazione dei guai del sistema bancario italiano. Una svolta non solo per MPS, anche per le diverse banche italiane alle prese con rilevanti problemi. Prima di questo, però, vanno richiamate alcune considerazioni. Perché la svolta è tardiva. Molto, troppo tardiva. E i guai di MPS hanno storia lunga.
Primo. Se la ex terza banca italiana è arrivata a questo, l’origine prima dei guai è la politica e anzi un partito. Si è consentito per troppi anni che la politica senese controllata da quello che oggi si chiama Pd esercitasse, attraverso la Fondazione MPS, la guida della banca. La tracimazione da cui inizia il tracollo, il prezzo stellare di acquisizione di Antonveneta poco prima della crisi post Lehman del 2008, non sarebbe stata concepibile senza lo scudo che la politica offriva a quell’operazione, e al management che la condusse. Anche nel caso di Siena, come in troppe banche italiane, i regolatori hanno consentito per anni un canale di funding obbligazionario meno oneroso di quello riservandoli a investitori istituzionali, ai quali si sarebbe dovuto pagare un prezzo più elevato di quello offerto invece facendo sottoscrivere montagne di obbligazioni – come in nessun altro paese avanzato – a piccoli risparmiatori e clienti. Spesso in cambio di mutui e prestiti.
Secondo. Quando il problema senese esplose, nell’autunno 2012, gli interventi di Stato nelle banche erano praticati da mezza Europa, perché non vi era regolazione comune del meccanismo pubblico di intervento bancario. Ci fu chi chiese ai governi in carica allora, Monti prima e Letta poi, di attivare interventi nel sistema italiano attraverso i finanziamenti europei – il nostro alto debito pubblico e lo spread non consentiva interventi solo nazionali, come quelli praticati altrove – e programmi internazionalmente vigilati. Ma la politica italiana rifiutò, per non far apparire l’Italia come un paese sottoposto a vincoli simili a Spagna, Portogallo e Irlanda. In più, il desiderio evidente era di non farlo per una banca impestata per colpa del Pd. Si iniziò a ripetere il mantra delle banche italiane tra le più solide al mondo. I fatti, cioè l’esplosione dei crediti deteriorati fino a 360miliardi e la raffica di aumenti di capitale deliberata non appena la vigilanza bancaria divenne europea nel 2014, si sono incaricati di smentire quella tesi. Il governo di destra e poi quello tecnico preferirono impiccare MPS – in crisi di redditività sempre più evidente – al pagamento fino a oltre il 9% annuo dei Tremonti e dei Monti bonds. Altro errore. Si poteva allora azzerare la Fondazione, pubblicizzare e pulire la banca, per poi rapidamente ricederne il controllo al mercato. Sarebbe stato meglio: ma il consociativismo politico l’ha impedito. E per questo sono stati bruciati 10 miliardi di capitale inutilmente raccolti da Siena a più riprese sui mercati, la banca ha bruciato la credibilità dei suoi manager e perso pozzi di miliardi di depositi,. ben 20 solo in questo 2016. Costano, le palle che vi hanno raccontato politici, regolatori e media, costano care.
Terzo. Nel 2014 fu definita la direttiva europea per il risanamento e la risoluzione bancaria – la BRRD – proprio per impedire che gli Stati continuassero asimmetricamente a salvare banche coi soldi del contribuente, e introducendo il principio della compartecipazione al risanamento di azionisti e obbligazionisti, fino ai depositanti oltre 100mila euro. Sarebbe entrata in vigore a gennaio 2016, ma politica e regolatori italiani non se ne diedero per inteso. Partì anzi una massiccia campagna che imputava ai tedeschi l’imposizione di regole anti italiane. Ancor oggi il coro dei giornali italiani – leggere il Corriere oggi a pagina – considera un vanto per l’Italia affossare e aggirare quelle norme. Io penso l’esatto opposto.  A novembre 2015 con le 4 banche risolte abbiamo fatto finta di scoprire che gli obbligazionisti erano chiamati – secondo una precisa gerarchia relativa ai diversi tipi di titoli – a convertire i propri titoli in azioni e a vederli azzerati nel valore, fino a concorrere all’8% delle passività della banca finita in risoluzione. Classi dirigenti serie avrebbero dovuto saperlo da due anni, e regolarsi di conseguenza. Invece abbiamo preferito dar vita a un sistema di mutualizzazione che vede le banche migliori accollarsi gli oneri di quelle peggiori, ed è iniziato a diventare evidente che rinviare la soluzione dei problemi delle banche più compromesse comportava oneri maggiori per l’intero sistema. I 100 miliardi di prestiti in meno, che ancor oggi mancano alle imprese italiane rispetto al 2007, sono diventati un macigno per la ripresa italiana. Ma le classi dirigenti italiane preferiscono prendersela coi tedeschi, e troppi giornali si adeguano suonando la grancassa.
Quarto. Sette mesi fa, la vigilanza europea ha chiarito dopo gli stress test che MPS non poteva più aspettare, aveva bisogno di un aumento di capitale entro fine anno e di liberarsi del più dei suoi crediti deteriorati. Ancora una volta, politica e regolatori hanno pensato di prender tempo, ritardare e diluire. Hanno guardato al calendario politico interno cioè al referendum, sperando a fine dicembre di ottenere poi una proroga dalla BCE. Altro errore, la proroga non c’è stata. E il governo per primo ha preferito comunque la via di un aumento di mercato, il più della cui fattibilità – a cominciare da un prestito ponte di 6 miliardi per garantire i tempi lunghi della cessione di NPL- era garantito in cambio di enormi commissioni da JP Morgan. Non sapremo mai su che basi reali Costamagna, messo da Renzi ai vertici della CDP, abbia convinto Renzi che Jp Morgan avrebbe fatto il miracolo. Tutti hanno scritto per mesi, raccogliendo gli spifferi delle fonti ufficiali, che per l’aumento di capitale c’era la fila di fondi internazionali, in primis del Fondo Sovrano del Qatar. Bubbole. Alla fine non si è presentato nessuno.
Ed eccoci al punto finale. L’intervento su MPS, che sarà il primo ma non l’ultimo della serie. Potrebbero seguirne molto probabilmente diversi: sulle due banche venete, le 4 banche risolte, e diverse altre minori. A seconda di come questi interventi avverranno, si capirà se l’esperienza negativa maturata ha dato frutti. O se si ripeteranno pasticci che potrebbero essere ancor più gravi. Il mecccanismo d’intervento in una banca solvibile – qual è ancora MPS – e di profilo sistemico, che se manchi di realizzare aumenti di capitale sul mercato può avere rilevanti conseguenze a catena, è precisamente indicato dalla direttiva europea. A seconda di come il MEF deciderà di procedere alla conversione delle obbligazioni subordinate, del prezzo che offrirà rispetto al loro valore nominale se le acquista lui prima della conversione, o del meccanismo di ristoro proposto ai piccoli risparmiatori in caso di conversione e di caduta verticale del valore dell’azione rispetto al nominale del bond convertito, si lancerà un messaggio decisivo ai mercati. Se le cose saranno fatte bene, con la garanzia di liquidià alle banche da subito e con prezzi di cessione dei crediti deteriorati non troppo lontani dalle stime di mercato, allora è del tutto possibile che MPS per prima, oggi valutata una frazione incredibilmente bassa rispetto ai suoi asset residui, possa riprendersi. Naturalmente , bisogna che lo Stato tornato azionista indichi fin da subito termini temporali limitati per la sua presenza nel capitale, diciamo non oltre i 18 mesi, stabilisca zero dividendi e stop a retribuzioni e premi ai manager come quelli che abbiamo scandalosamente continuato a vedere in Italia, e renda il piano industriale di aumento della redditività meno azzardato di quello presentato da Viola prima e Moreli poi.
Infine, diciamola tutta. I mercati e i grandi fondi credono che a questo punto lo Stato eserciterà la sua presenza , a Siena e altrove, proprio per guidare il consolidamento bancario che è necessario, cioè inducendo grandi fusioni bancarie. Delicate, perché fondere banche diroccate implica aumenti di capitale ancora maggiori. Ma necessari. Se poi guardiamo all’oceano di piccole banche italiane, cioè appare assolutamente imprescindibile.
L’amarezza è che si sia arrivati a questo con 20 miliardi di debito pubblico in più, pagato dal contribuente. Con troppi consociativismi politici, e tra politica e regolatori. E troppi media compiacenti con la grande collusione all’origine della crisi bancaria. Ora non si può più sbagliare. Lo diciamo purtroppo sapendo che, in Italia, troppe volte si riesce a sbagliare comunque.

21
Dic
2016

Roma: nel bilancio bocciato il progetto che non c’è

Il sindaco Raggi e la sua giunta capitolina hanno tempo fino al 28 febbraio per riscrivere e approvare il bilancio previsionale di Roma 2017-2019. E’ il termine previsto per tutti i Comuni dalla legge di bilancio 2017, ma non sarà facile rispettarlo. Perché la stroncatura alla bozza di bilancio venuta ieri dall’OREF, l’organo indipendente di revisione finanziaria del Campidoglio, è veramente durissima. Purtroppo, si aggiunge ai troppi e troppo gravi incidenti nella formazione della giunta e dello staff del sindaco, protrattisi per sette mesi. Ma è più grave. Basta leggere i rilievi contenuti nelle 46 pagine dell’OREF, per capire che mancano ancora troppi presupposti essenziali per dare ordine ed equilibrio ai disastrati conti romani ereditati dalla giunta attuale.

L’ho già più volte scritto, che il nuovo sindaco e la sua giunta a Roma erano obbligati a considerare la situazione finanziaria come l’emergenza numero uno da affrontare. Si manifestano infatti almeno quattro emergenze una più seria dell’altra. Rispettare i termini del rientro del deficit, contrattati in cambio dell’ultimo decreto governativo Salva-Roma di fine 2013. Fronteggiare gli oneri aggiuntivi dei nuovi debiti fuori bilancio, nel frattempo emersi. Ridare all’amministrazione capitolina capacità, efficacia e trasparenza nel portare in cassa risorse proprie da canoni, imposte e tariffe, che la macchina amministrativa romana non riesce da anni a introitare in percentuali minimamente accettabili (è emergenza ancor più grave perché, con la riforma dei criteri contabili delle Autonomie, è cessata intanto la possibilità di “giocare” creativamente con residui attivi e passivi monstre). Infine, fronteggiare il disastro delle maggiori partecipate pubbliche romane, a cominciare da ATAC e AMA, facenti capo alla holding Roma Capitale, il cui potenziale squilibrio è stato cifrato fino a un miliardo di euro dall’ex ragioniere generale del Comune Fermante, prima delle sue dimissioni che, annunciate a fine settembre, sono poi – incredibilmente – diventate ufficiali solo a novembre.

L’OREF scrive che il documento previsionale presentato dalla giunta Raggi non restituisce l’equilibrio pregiudicato a nessuno di questi quattro pilastri. Non prevede interventi correttivi necessari al pareggio. Ricorre a previsioni di entrata non strutturali. Non indica modalità efficaci di recupero delle entrate tributarie e patrimoniali. Non presenta un piano di razionalizzazione e cessione delle partecipate, piano a cui la Capitale è tenuta per legge. Non prevede soluzioni per la gestione degli emersi oneri aggiuntivi fuori bilancio, né per le tensioni di liquidità che si aggiungono alla rata annuale di ammortamento di 200milioni, e che si genereranno nel 2017 per la gestione commissariale dei 13 miliardi di euro separati dal bilancio, grazie al primo Salva-Roma che il governo di destra concesse all’allora sindaco Alemanno. E ci fermiamo qui, solo restando ai capitoli fondamentali.

Come si vede, le motivazioni della bocciatura non vengono da dettagli tecnici su questa o quella misura. E’ la mancanza di una visione generale volta al riequilibrio, al risanamento e all’efficienza, quella che viene argomentatamente contestata alla giunta capitolina.  Una visione generale certamente molto difficile da elaborare, quando si hanno esigui margini a disposizione a fronte di squilibri strutturali che potenzialmente potrebbero superare i 2 miliardi sui poco più di 5 di entrate. Quando i romani subiscono già il massimo delle sovra aliquote Irpef e Irap e, sommando Comune e Regione, pagano già oltre 750 euro l’anno oltre la media nazionale. E quando la macchina comunale perde oltre 100 milioni di affitti l’anno sul suo patrimonio immobiliare, sconta 1,3 miliardi di euro di mancati pagamenti TARI (che vanno direttamente nelle casse dell’AMA, diversamente che in tutti i Comuni italiani) e 1,5 miliardi di mancate tariffe per servizi, e non riesce a processare l’anno oltre i 10% degli arretrati IMU. Col risultato che Roma incassa solo 900 milioni l’anno aggiuntivi ai trasferimenti centrali e alle tasse, rispetto ai 4 miliardi di euro di Milano, che ha meno della metà degli abitanti.

Senza una reingegnerizzazione complessiva dei conti e della macchina amministrativa di Roma non c’è riequilibrio possibile. Servono grandi manager pubblici, vista l’entità delle cifre in gioco. Perché altrimenti, come scrive giustamente l’OREF, ”ulteriori risparmi derivanti da interventi sulla spesa non appaiono possibili se non a danno della qualità dei servizi erogati dall’Ente ai cittadini”.

Purtroppo, non è stata la strada percorsa sinora. Dall’assessore al Bilancio Minenna siamo passati alla meteora De Dominicis, e poi recentemente a Mazzillo. Più volte, nelle partecipate come nella vicenda del salario accessorio ai dipendenti, è sembrato proprio che la giunta mancasse di volontà di interventi radicali sulla macchina capitolina. E il risultato è che ora il fantasma di un possibile commissariamento, se non verranno rispettati i tempi di fine febbraio, inizia ad aleggiare sui Colli fatali di Roma.

Non ce lo auguriamo. Al contrario, speriamo che di fronte a questa circostanza sindaco e giunta trovino tutta la concentrazione necessaria per evitare alla Capitale di scendere un altro gradino verso lo sprofondo. Anche se con quel che si è visto in sette mesi ogni pessimismo è legittimo, tuttavia il sindaco sa di non poter contare su un rapporto politico e istituzionale con il governo analogo a quello che consentì ad Alemanno di ottenere il primo decreto Salva-Roma, e a Ignazio Marino di ottenerne un secondo, perché anche lui – se lo ricordi bene il Pd che ora fa il “puro”, perché le cose andarono così – non riuscì senza una energica stampella governativa a venire a capo della sua prima proposta di bilancio, quella per il 2014.

A maggior ragione, nelle prossime otto settimane il sindaco Raggi deve riuscire a mostrare quel che non si è visto in sette mesi. Un organico progetto che metta insieme visione politica – quella della sua parte politica – rigore credibile dei conti e sostenibilità degli investimenti, necessari a quelle partecipate pubbliche romane da non destinare a cessione o liquidazione. E’ una sfida enorme. Su cui gravano troppi errori sin qui commessi. Ma che non ammette, questa volta, vie d’uscita diverse dal successo o dalla piena sconfitta. Con tutte le conseguenze che ciò comporterebbe anche sulla scena politica nazionale.

19
Dic
2016

Uber e la benevolenza del legislatore

Mentre la Corte di Giustizia dell’Unione europea è stata chiamata a stabilire cosa ‘sia’ Uber, la nostra Corte costituzionale è appena intervenuta sull’argomento, dichiarando illegittima una legge regionale del Piemonte che limitava il servizio di trasporto di persone ai taxi, escludendo le altre modalità di trasporto non di linea, come Uber. Tale materia, infatti, è di competenza legislativa esclusiva dello Stato, ed è pertanto illegittimo, per una Regione, legiferare su di essa.

Si tratta di un appello opportuno, ma, al tempo stesso, rischioso. Nella sentenza in questione, la Corte ha aggiunto, in coda ai ragionamenti di stretta inerenza della causa, un paragrafo ridondante nell’economia del caso, ma molto significativo, se collocato nel contesto delle emergenti attività di intermediazione come Uber (ma non solo).

La Corte sembra ammettere che la legislazione del 1992, che oggi regola interamente il settore, abbia bisogno –  data l’evoluzione tecnologica e i cambiamenti economici e sociali avvenuti nel frattempo – di essere aggiornata, e invita quindi il legislatore a farsene carico «tempestivamente».

Un invito, si diceva, opportuno e rischioso.

Opportuno dato che, nell’inidoneità della legislazione attuale, la risposta – sia della magistratura sia degli enti territoriali, come nel caso sottoposto alla Corte – è stata finora altamente reazionaria e conservatrice delle posizioni di rendita acquisite negli anni dai tassisti, ma al tempo stesso disordinata e spiazzante rispetto all’ordine normale delle cose, per cui le regole seguono le evoluzioni della realtà.

Rischioso perché, a prescindere dalle intenzioni della Corte, esperienza insegna che il legislatore si lascia molto più spesso convincere dalle argomentazioni di chi vanta già posizioni di rendita e ha con esso rapporti consolidati, rispetto ai nuovi entranti e a chi vuole innovare. D’altro canto, se il Parlamento avesse voluto intervenire in maniera tempestiva ed efficace rispetto alle evoluzioni del settore, avrebbe impiegato pochi giorni a fare l’unica cosa che deve fareabrogare le parti anacronistiche della legge del 1992 (cioè gli obblighi in capo agli NCC di ricevere le prenotazioni di trasporto presso la rimessa, di avere sede nel territorio del Comune che ha rilasciato l’autorizzazione, e di iniziare la corsa presso la rimessa) e porre le basi per l’adozione di un sistema unico di licenze, aperto a tutti gli operatori del settore, che rimuoverebbe il limite quantitativo all’offerta, senza tuttavia pregiudicare il rispetto dei requisiti ritenuti necessari alla circolazione delle auto pubbliche.

Se non l’ha ancora fatto, non è per mancanza di tempo o di capacità, ma di volontà, poiché i suoi interessi, che si misurano in termini di consenso elettorale, difficilmente coincidono con quelli degli outsider.

Twitter: @glmannheimer

19
Dic
2016

“Genova per noi che stiamo in fondo alla campagna” (P.Conte)

Lasciare le nebbiose e cupe lande padane per la Liguria dei “girasoli impazziti di luce” vale decisamente la pena. Ma poi, quando arrivi a Genova, come ti muovi?

“ Se non hai una moto o lo scooter non vai da nessuna parte” ti dicono tutti . E’ vero, Genova è una città meravigliosa che è un po’ tutto un su e giù come le montagne russe, ma che è anche un po’ russa nella testa, specie in quelle di alcune sigle sindacali e dei rappresentanti politici che li sostengono, come dimostra il milionesimo sciopero e pure selvaggio durato 4 giorni, dei dipendenti dell’ Azienda Trasporti Provinciali. La rivendicazione ha per oggetto la restituzione del 30 % dei compensi del contratto integrativo aziendale, come pattuito in sede di concordato fallimentare della società partecipata, nelle mani di Città metropolitana di Genova e AMT Genova S.p.A. e ora con l’ingresso di un socio finanziatore privato fortemente criticato ed osteggiato.

Era l’anno 2014, quando il nostro ex presidente del consiglio proclamava la rivoluzione nel campo delle municipalizzate. Ricorderete il documento “Programma di razionalizzazione delle partecipate locali” preparato  dal gruppo di lavoro coordinato dal commissario alla spending review : c’era un bel capitoletto dedicato ai trasporti pubblici locali (tlp) che è bene ricordare nei suoi punti salienti per capire cosa sta succedendo oggi, oltre ai rapporti e gli studi redatti in anni ancora precedenti anche dall’ IBL.

“Il tpl presenta diverse criticità”, si diceva, “come emerge anche dai raffronti internazionali: lo caratterizzano l’elevato livello dei costi operativi unitari, la bassa qualità di alcuni servizi, la bassa incidenza dei ricavi da traffico rispetto ai costi operativi , l’esistenza di un significativo eccesso di offerta rispetto alla domanda. Il risultato di queste criticità è un settore in costante perdita, richiedente un elevato livello di compensazione pubblica sia in termini di costi unitari sia i termini assoluti (…)Per migliorare l’efficienza del settore e ridurre il peso per i conti pubblici occorre intervenire su diversi piani relativi sia ai ricavi che ai conti di gestione. Intervento sui ricavi: un aumento dei ricavi può essere essenziale nel breve periodo per ridurre il peso del settore sulla finanza pubblica .Interventi mirati includono: rimodulazione tariffaria riguardanti gli abbonamenti mensili ed annuali del trasporto urbano , forme per le quali il divario con le tariffe europee è più pronunciato : dati relativi all’anno 2013 – Londra abbonamento mensile € 1428, Parigi € 679,80, Berlino € 710, Madrid € 546, Roma € 250, Milano € 330 . Misure per la riduzione dell’evasione tariffaria concentrata soprattutto nel trasporto su gomma e nelle regioni del sud : ad es. attribuzione agli agenti accertatori la qualifica di pubblici ufficiali e possibilità di accesso per le imprese all’anagrafe nazionale, obbligo di validazione del biglietto ad ogni singolo accesso, introduzione di sistemi elettronici di conteggio dei passeggeri(…).Un intervento sui costi è essenziale a causa della scarsa efficienza produttiva del settore rispetto ai principali paesi europei, sia nei valori del load factor, sia della produttività misurata dalle vetture – km per addetto: 20.000 vetture per km per addetto in Italia contro le circa 27.500 che si riscontrano in media in Francia, Spagna, Germania ed Inghilterra. Riguardo al trasporto su gomma -la modalità prevalente del tpl italiano – si osserva che sulla sua bassa produttività influiscono negativamente sia le condizioni di congestione delle città italiane che determinano una bassa velocità commerciale di bus, sia le generose condizioni normative – piuttosto che salariali – stabilite dalla contrattazioni aziendali a favore dei dipendenti. La strategia di riforma deve passare per l’introduzione di costi standard come strumento di verifica della congruità delle compensazioni stabilite per gli esistenti contratti di servizio pubblico affidati senza gara , in coerenza con il regolamento europeo, con obbligo eventuale di rinegoziazione del contratto non congruo(…); rendere l’affidamento per gara la modalità tipica di affidamento del servizio restringendo o disincentivando il ricorso agli affidamenti in house e diretti (…). Impiego del costo standard come base di gara . Le nuove gare dovrebbero dare la possibilità di rinegoziare il vigente contratto integrativo aziendale negoziato dall’incumbent. Riduzione degli eccessi di offerta di servizio rispetto alla domanda.(..)”.

Non credo sarebbe difficile analizzare i numeri di ATP Liguria alla luce di quelle indicazioni e capire che oggi le recriminazioni dei più incandescenti dei dipendenti sono la conseguenza dei tragici errori economico- finanziari ed industriali commessi in quel settore dalle società pubbliche. Perché risultava e risulta evidente che si dovranno necessariamente rinegoziare i contratti integrativi aziendali. Ma ognuno deve fare la sua parte, certamente, non solo i dipendenti. Rivedere i piani tariffari è indispensabile, come emerge dai raffronti con le altre realtà europee. Ma si sa, sono di più gli elettori alla fermata del bus di quelli che li guidano. E’ vero, però, che i dipendenti si sono sempre rifiutati di modificare i loro orari di lavoro e di rendersi flessibili nello svolgimento delle loro mansioni. Questa circostanza è causa di un’inefficienza non più tollerabile: gli autisti del resto d’ Europa macinano molti più chilometri e lavorano di più. Purtroppo si è perso, inutilmente, tanto tempo. Il 18 novembre scorso la Camera, nel corso dell’iter di conversione del “Decreto fiscale”, ha impegnato il Governo a determinare, in tempi brevi, i costi standard del TPL ed a rivedere i criteri di riparto delle risorse fra le Regioni superando il criterio della spesa storica : sono passati oltre 2 anni dalle indicazioni del rapporto sulla spending review, chi vivrà vedrà o , molto probabilmente, rimarrà cieco dalla rabbia, perché si è dolosamente sprecata una grande occasione di immediato intervento.

Ma continuiamo così, con autobus che girano a vuoto per pochi spicci ma con grandi costi per la collettività, che vagano, semi vuoti, per chilometri, per  raccogliere 4 o 5 persone, da qualche casupola nascosta tra limoni e mimose, mentre nelle ore di punta i passeggeri sono tutti schiacciati l’uno sull’altro, come alici nell’arbanella. Con quel ghigno sornione e sardonico che solo i liguri sanno avere nel dirti “Ti ghe sprescia?” mentre scalpiti, impaziente che il corteo di scioperanti si dissolva, alzi la mano per fermare l’autobus che sta arrivando all’orizzonte, manco fossi a New York. Ma il bus non si ferma, c’è una scritta rossa a caratteri cubitali sul parabrezza: “Fuori servizio”.

 

16
Dic
2016

Quanto fumo inutile su Vivendi-Mediaset. Ma la Consob dov’è?

Nella vicenda in corso tra la Vivendi di Bollorè e la Mediaset di Fininvest-Berlusconi bisognerebbe evitare polveroni inutili, in cui in Italia eccelliamo ogni volta che un gruppo estero mette nel mirino gruppi italiani. Distinguiamo almeno tre piani, allora, e stiamo ai fatti. Primo: è vero che l’Italia delle imprese è terra libera di preda per affamati gruppi stranieri? Secondo: c’è un senso industriale nelle operazioni di Bollorè in Italia, o è pura e spregiudicata guerra di corsa? Terzo: ha un senso mobilitare la politica e chissà quale suo diritto di veto, oppure nella vicenda in corso ci sono, bastano e avanzano banali ed elementari regole di mercato, al cui rispetto chiamare tutti i contendenti?

Cominciamo dalla prima questione. Lasciamo parlare i numeri. Mi spiace molto per le autorevolissime testate d’informazione che ogni volta riattaccano la tiritera dell’Italia d’impresa alla mercè di barbari stranieri che vengono qui a banchettare espropriandoci, ma pare proprio che le cose non stiano così. Se andiamo alla banca dati Reprint-Politecnico di Milano-ICE – dati ohimé aggiornati solo a fine 2014, quando ci daremo un sistema di statistiche nazionali più aggiornate sarà sempre troppo tardi – i dati sconfessano le geremiadi. Le imprese estere controllate da imprese italiane erano 20418 nel 2008 e sono salite a 23.433 a inizio 2015. Con un numero di addetti all’estero salito da un milione e 80mila unità a un milione e 170mila. E con un fatturato all’estero accresciutosi da 373 a 417 miliardi di euro. Le imprese italiane controllate da società straniere al contrario erano 9340 nel 2008 e sono salite a inizio 2015 a 10.148 unità, con addetti complessivi tra Italia e mondo passati da 822mila a 828mila unità, e un fatturato sceso da 422 a 417miliardi (soprattutto all’estero). Teniamo a mente questi dati: è vero che moltissimi marchi della moda o alimentari del nostro made in Italy sono passati in mani straniere, ma nessuno qui fa altrettanta attenzione alle centinaia di acquisizioni italiane all’estero annuali nella manifattura, meccanica, componentistica, engineering, energia, o a quelli di Luxottica negli USA. Abbiamo il problema opposto, semmai: lo stock di investimenti diretti esteri in Italia è pari a un terzo di quelli in Francia e a meno di un quinto di quelli nel Regno Unito: dovremmo puntare ad accrescerli, non ad allontanarli con barriere autarchico-nazionaliste.

Seconda questione. Mentre qui piagnucoliamo per tentare di difendere ossessivamente il duopolio tv Rai-Mediaset per altro da anni superato per fatturato da Sky e dalla sua offerta non generalista, il mondo da anni accelera verso grandi integrazioni di players globali. Ieri la 21st Century Fox di Murdoch ha comunicato di aver raggiunto un’intesa con il management di Sky per aggiudicarsene il pieno controllo, rilevandone il 60% che ancora non possiede con un deal da 14,6 miliardi di dollari. L’obiettivo è dar vita a un gigante transconcontientale a cui sommare i 22 milioni e oltre di clienti di Sky in Italia, Regno Unito, Irlanda, Austria e Germania, e unendo a Fox i diritti della Premier League britannica e di serie tv di successo mondiale come Game of Thrones. E’ la risposta di Murdoch alla sfida globale di Netflix. Mentre grandi telcos americane come AT&T hanno rilevato nel 2016 grandi gruppi leader nei contenuti e nelle library cinematografiche come Time Warner. Negli USA il 100% del mercato delle pay-tv è verticalmente integrato tra operatori tv e TLC. In Francia il 37%, in Germania il 29%. Solo in Italia restiamo con il 100% del mercato tv in mano solo a operatori televisivi: siamo fuori dalla storia. Netflix, Apple e Amazon hanno già il 67% del mercato globale dei video online a pagamento. Se anche Youtube entra nel settore dei contenuti video premium, oltre il 90% del mondo avrà player globali solo americani, che profilano i clienti e sanno tutto delle loro abitudini di consumo, cosa che conta molto più di quanti si limitano a pagare un abbonamento. Viene di qui l’interesse per un progetto che unisca Canal+ francese e la forza di advertising del gruppo Havas e di Vivendi, cioè di Bollorè, con Mediaset forte di Telecinco in Spagna, per un eventuale player europeo: capace anche di offerte integrate con Telecom Italia – di cui Bollorè è maggior azionista di riferimento – e magari con la Telefonica spagnola (Bolloré ne ha più volte parlato) e con la stessa telco francese Orange, in una prospettiva di cooperazione continentale.

Ma, certo, il problema è come farlo, con quali rapporti di forza societari, e con chi alla testa. Eccoci alla terza questione.  Ieri Agcom ha già tirato un freno, dicendo che qualunque ipotesi che mettesse insieme Telecom Italia e Mediaset sotto guida francese si scontrerebbe con i limiti antitrust, valicati dalla eventuale somma delle due società sul mercato italiano. Ma il punto non è il mercato domestico, bensì quello europeo e mondiale. Il governo e i politici si sono subito protesi a dire che l’italianità di Mediaset va preservata. L’italianità porta titoli sui giornali, ma  c’entra come i cavoli a merenda. L’unico punto di cui essere rigorosamente certi è che le regole di mercato siano rispettate. Mentre qui, da quel che sappiamo, a dire il vero è forte il sospetto in senso opposto. non sembra proprio.

Facciamo un passo indietro. Ad aprile scorso Vivendi e Mediaset realizzarono un’intesa perfettamente e bilateralmente chiusa e concordata.  Vivendi accettava di rilevare Premium (la tv a pagamento di Mediaset che perde un mucchio di denaro, ma ha i diritti della Champions League e non solo) valutandola 760milioni, nel segno di un’alleanza industriale europea duplice, per una piattaforma tv a pagamento e per una grande factory di produzione di film, format di trasmissioni e serie tv, a garanzia della quale le due società si scambiavano anche ciascuna il 3,5% del proprio capitale. Scambio che sarebbe avvenuto a un reciproco valore dei rispettivi titoli che nell’accordo veniva riconosciuto e sottoscritto dalle due parti. A luglio, Bollorè cambia idea e annuncia di contestare il deal, proponendo invece di rilevare una quota pari solo al 20% di Premium e proponendo invece di acquisire un 15% del capitale di Mediaset tramite un bond convertibile. Scattano immediatamente le impugnative legali di Mediaset, il cui titolo però subisce da allora un fiero colpo in Borsa per il venir meno del deconsolidamento del debito e delle perdite di Premium, e per il declino della prospettiva di integrazione europea, scendendo da quasi 5 euro a 2,2 a fine novembre. Tre giorni fa, Vivendi annuncia di aver avviato acquisti di massa del titolo Mediaset sul mercato secondario, e di proporsi di salire oltre il 20% nel capitale della società, cosa nel frattempo avvenuta.

Qui scatta il grande enorme problema. Sul mercato britannico, l’equivalente della nostra Consob in poche ore avrebbe ammonito Vivendi. Più o meno dicendole questo: cara Vivendi, tu risulti a tutti gli effetti, fintantoché le impugnative legali non chiariranno il punto, legata a un deal perfettamente chiuso con Mediaset su Premium, nel quale concordavate anche reciprocamente il valore a cui scambiarvi un’analoga quota di capitale. Poiché per effetto del tuo annuncio di luglio il titolo Mediaset è drasticamente sceso, tu hai comprato i suoi titoli sul mercato secondario a un valore molto inferiore a quello che avevi convenuto, grazie alla manipolazione che il tuo annuncio ha avuto su quel titolo. Mentre, per difendersi, Fininvest ha accresciuto la propria quota in Mediaset comprandone anch’essa un 3 e rotti per cento sul mercato che si aggiunge al suo 35%, ma a un prezzo schizzato verso l’alto dopo la dichiarata intenzione di Vivendi di candidarsi a scalarla. A fronte del fortissimo sospetto di una manipolazione del prezzo Mediaset da parte di Vivendi – prima verso il basso a proprio vantaggio, e  poi verso l’alto a svantaggio di Fininvest – cara Vivendi tu puoi comprare tutti i titoli Mediaset che vuoi, ma intanto come regolatore noi ti ammoniamo perché, sinché non si chiarisce chi ha ragione sul deal firmato ad aprile, e non si dissipa l‘ipotesi di manipolazione dei prezzi, a quelle azioni che stai comprando noi ci riserviamo di sterilizzare il diritto di voto. E quand’anche, cara Vivendi, ti presentassi in assemblea Mediaset e chiedessi amministratori di minoranza o costituissi minoranza di blocco, ricordati bene per l’articolo 2373 del codice civile italiano sul conflitto d’interesse i tuoi voti sarebbero impugnabili e nulli, perché il conflitto da Vivendi aperto sul deal relativo a Premium costituisce un danno oggettivo per Mediaset.

Ecco, fermiamoci qui. Basterebbe un regolatore dei mercati finanziari anglosassone e proteso in tempi immediati a richiamare il rispetto dei contratti tra privati e del codice civile, per ricollocare la vicenda in corso su binari della fair competition. Senza scomodare né l’autarchia della politica né i magistrati penali. E senza negare che è un grande interesse anche per Mediaset e per i players italiani, partecipare nel rispetto rigoroso delle norme all’eventuale costruzione di un grande soggetto europeo.

 

15
Dic
2016

L’ontologia di Uber di fronte alla Corte UE

Da quando i suoi servizi sono apparsi nelle strade di mezza Europa, Uber è diventata l’azienda simbolo di una delle maggiori battaglie culturali – ancor prima che commerciali – del nostro tempo: quella tra i sostenitori dell’innovazione, in grado di polverizzare rendite di posizione e normative d’altri tempi sfruttando la digital disruption, e chi invece difende le tutele e le garanzie che lo Stato ha assegnato a specifiche categorie, come quella dei tassisti, contro “l’invasore”.

Nel caso di specie, le diatribe – finite spesso in tribunale, come in Italia nel caso di UberPop – riguardano un tema tanto banale quanto delicato: la definizione legale di Uber. Codici e codicilli parlano, in modo perfino sin troppo esaustivo, di compagnie di trasporti da una parte, e di piattaforme digitali dall’altra. Ma nulla dicono di chi, come Uber, non offre direttamente alcun servizio, bensì mette in contatto persone che lo offrono e persone che lo cercano.

Il problema non riguarda solo Uber. Negli ultimi mesi è stata la volta di Airbnb, che diverse amministrazioni pubbliche – in Italia e in Europa – hanno costretto a rispettare le norme che regolano le strutture alberghiere. Con risultati, talvolta, a dir poco grotteschi. Ed è un problema che si porrà sempre e sempre di più, se la politica continuerà a cercare di inseguire l’economia digitale incasellandola nelle proprie categorie abituali, e non viceversa.

Tra i tanti casi emersi in questi anni vi è quello di un sindacato di tassisti di Barcellona, che nel 2014 fece causa a Uber per concorrenza sleale. Di appello in appello, la problematica è arrivata di fronte alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che a fine novembre ha aperto la discussione della causa.

La sentenza, che avrebbe effetto retroattivo su tutti i casi nell’UE, è attesa per la primavera e potrebbe, in ogni caso, essere di portata storica per il futuro della sharing economy nel vecchio continente. Se la Corte stabilirà che è una società di trasporti, Uber dovrà accordarsi con ciascun Paese nell’UE sulle norme da rispettare nei singoli Stati, adeguandosi alle norme sindacali e di sicurezza previste per i tassisti. Se al contrario Uber verrà giudicata come una semplice piattaforma digitale, i servizi di Uber potranno essere reintrodotti in tutta l’UE, anche retroattivamente (e anche per quanto riguarda UberPop nel nostro Paese).

Ciò detto, non è scontato che la sentenza della Corte sia così netta nei suoi effetti. Il giudice di Lussemburgo potrebbe infatti anche optare per una soluzione ‘mista’, che certamente rispecchierebbe meglio la reale configurazione di fatto di Uber, senza costringerla in categorie che non le appartengono, ma che d’altronde potrebbe gettare in una ancor più fitta confusione regolatoria il settore, spostando il problema dai tribunali ai parlamenti dei diversi Stati dell’UE.

Twitter: @glmannheimer