9
Gen
2017

Voucher: la maxicontraddizione CGIL ridicolizza il suo referendum

Molte autorevoli opinioni di giuristi e osservatori sono state espresse sul tema dell’accoglibilità dei 3 quesiti referendari in materia di lavoro avanzati dalla CGIL. Vedremo come la Corte Costituzionale si pronuncerà mercoledì prossimo. Ovviamente, grande rispetto per le decisioni che assumerà la Consulta. Ma sulla natura “manipolativa” del quesito sull’articolo 18, che propone di tornare alla vecchia disciplina non nelle aziende oltre i 15 dipendenti com’era prima del Jobs Act, bensì “creativamente” estendendo i vecchi vincoli sopra i 5 dipendenti, come sui problemi di vuoto legislativo risultante dai quesiti sull’abrogazione dei voucher e nella disciplina del lavoro negli appalti, sembra ragionevole sostenere che non si tratti di argomenti capziosi e infondati.

Ma a tutto ciò si è aggiunto ora un punto di sostanza. Grave e rilevante. L’evidenza documentata dell’utilizzo dei voucher da parte di organizzazioni territoriali e di settore della stessa CGIL che propone di abrogarli.  Poi la comunicazione interna della CGIL alle proprie federazioni, invitandole a minimizzare, a non alimentare polemiche, a tenere il più possibile “bassa” sui media la manifesta e gigantesca contraddizione in cui sono stati beccati coloro che descrivono il voucher come strumento che maschera in maniera di comodo lavoro nero. Quando proprio la SPI-Pensionati della CGIL dell’Emilia Romagna ha dichiarato ai media che “non c’era alternativa all’utilizzo dei voucher, altrimenti avremmo dovuto pagare in nero”. Infine, le dichiarazioni della leader CGIL Susanna Camusso. Che ha ammesso l’uso dei voucher ma solo in maniera limitata ed episodica,  aggiungendo che del resto il referendum anti voucher sarebbe volto a una ridiscussione generale sulla precarietà del lavoro, non alla loro abrogazione tout court.

E’ evidente che questi tre fatti investono frontalmente la credibilità del referendum.  Delle due l’una: se è la federazione pensionati della CGIL (per altro, la più numerosa in quanto a iscritti) a riconoscere che per il lavoro accessorio di pensionati iscritti usare il voucher è la vera e unica alternativa al lavoro nero, ebbene quella è esattamente la ragione per cui lo strumento è stato introdotto nel nostro ordinamento. Mentre nel frattempo sparivano i contratti a collaborazione continuata e quelli a progetto.

Secondo: dispiace rilevarlo ma la Camusso, nel tentativo di giustificare la CGIL e insieme di tenere in piedi il referendum, dice l’esatto opposto di quanto sinora ripetuto da chi ha proposto il referendum.  Non vogliamo discutere di cambiamenti del voucher ma vogliamo abolirlo, è il mantra ribadito ogni giorno dalla Cgil e da chi si riconosce nella sua iniziativa. Mentre, al contrario, tanto da parte del governo che di molti osservatori ed esperti di mercato del lavoro è venuta la piena disponibilità a un intervento , dati alla mano, volto a correggere e inibire eventuali abusi del voucher. Quando diciamo dati alla mano intendiamo che finora sono gli stessi elementi di fatto – ancora troppo parziali – elaborati dall’INPS a mostrare che per due terzi degli utlizzatori si tratta esattamente, come nelle aspettative, di pensionati, disoccupati, o di doppio lavoro minimale. Mentre da chiarire è l’uso del voucher in aziende industriali, aziende pubbliche, e in settori come le costruzioni. Ma per fare questo serve un accorto intervento legislativo tarato con attenzione sulla realtà accertata dei fatti, non campagne ideologiche. Campagne ideologiche per di più brutalmente  affossate dall’uso, e dalla giustificazione dell’uso dei voucher, emersi oggi nella stessa CGIL.

Certo, sono contraddizioni e argomenti politici, non di diritto costituzionale. Ma diciamolo. I referendum sul lavoro su cui la Corte decide l’11 gennaio sono uno dei tre fondamentali pilastri politici sui quali si gioca la legislatura, insieme alla pronunzia della Corte stessa sull’Italicum, e alla conseguente determinazione che i partiti assumeranno sul fatto di votare presto con una legge nuova da concordare in poche settimane, oppure di prendere altro tempo.

I referendum sul lavoro sarebbero inevitabilmente una spinta potente per alcuni a tenere le elezioni al più presto, magari a costo di una nuova legge elettorale non ottimale, mentre  per altri costituirebbero un’ottima ragione per negarsi a qualunque convergenza parlamentare sulla necessitò di una legge elettorale in tempi rapidi.

La Cgil ha sempre detto ufficialmente che il suo obiettivo non era quello di affossare governi e orientare legislature, ma di battersi per un’idea diversa di mercato del lavoro. Sta di fatto che essere prima pubblicamente smascherata come utilizzatrice di ciò che indica come il male, per poi  minimizzare e sostenere altro da ciò che ha sinora detto, la rende purtroppo simile al peggio talora espresso dai partiti. Lo dico senza alcuna soddisfazione. Per una moderna cultura del lavoro, l’Italia ha bisogno certo anche delle più diverse posizioni culturali, politiche e sindacali. Ma questi mezzucci aggiungono solo polvere e caos alla già troppo elevata confusione italiana. Davvero non ce n’era e non ce n’è alcun bisogno.

9
Gen
2017

Il caso Apple-Irlanda tra politica e diritto

Con il deposito dei ricorsi contro la decisione della Direzione Generale per la Concorrenza sugli aiuti (fiscali) di stato, il triangolo Commissione-Apple-Irlanda è entrato nel vivo. Nonostante le evidenti incongruenze in essa contenute, solo poche voci isolate avevano manifestato perplessità – al momento dell’annuncio – sulla ricostruzione promossa dal commissario Vestager. Da un lato, l’accoglienza largamente entusiastica riservata al provvedimento rivelava la temperatura ideologica del dibattito europeo sul diritto tributario internazionale; dall’altro, però, l’entusiasmo prevalente si poteva spiegare con la scarsità delle informazioni disponibili sulle pratiche al centro del caso, scarsità che rafforzava ipso facto la credibilità degli addebiti. Le argomentazioni presentate dai ricorrenti – e in special modo dal governo di Dublino – permettono di cominciare a superare quest’asimmetria, prospettando un diverso inquadramento degli accordi contestati.

In primo luogo, l’esecutivo irlandese respinge l’opinione che gli accordi intervenuti tra l’amministrazione finanziaria e Apple abbiano conferito all’azienda californiana un vantaggio selettivo, requisito cruciale per l’identificazione di un aiuto di stato. Più nello specifico, i ruling del 1991 e del 2007 si sono limitati a ribadire quanto previsto dalla disciplina ordinaria per le filiali irlandesi di aziende non fiscalmente residenti, che limita la pretesa dello stato ai profitti effettivamente generati nel paese. Inoltre, i ricorrenti sostengono che la Commissione abbia frainteso il ruolo e la struttura di ASI e AOE, le due controllate del gruppo Apple che avrebbero beneficiato – secondo gli uffici di Bruxelles – del preteso regime preferenziale. Non solo appare del tutto fuorviante l’affermazione secondo la quale i due soggetti sarebbero poco più che scatole vuote, una constatazione basata su una lettura formalistica e inaccoglibile del rapporto di lavoro, ma soprattutto appare evidente che le principali funzioni di ASI e AOE fossero esercitate dagli Stati Uniti, dove veniva prodotta anche la proprietà intellettuale che ne costituiva la principale fonte di ricchezza. Il che porta alla principale aporia presente nell’analisi della Commissione: le imposte eventualmente non versate in Irlanda, sarebbero in ogni caso di competenza statunitense, e non certo riferibili agli altri mercati europei in cui Apple opera – si tratta, a ben vedere, di una forma di differimento della tassazione, un punto ottimamente argomentato da Stefano Morri e Stefano Guarino in un recente contributo per il Bollettino Tributario.

A queste lagnanze sostanziali, l’Irlanda affianca una serie di obiezioni formali, peraltro di notevole rilevanza sul piano della tenuta dell’edificio comunitario, dato che invocano temi come la certezza del diritto, la sovranità fiscale, la suddivisione delle competenze tra i paesi membri e l’Unione. Dopo una prima fase in cui al caso Apple-Irlanda è stata data una lettura tutta politica – lettura incoraggiata dalle misure draconiane della Commissione, se è vero che i 13 miliardi contabilizzati rappresentano di gran lunga la maggior somma mai recuperata in una procedura per aiuti di stato – è auspicabile che i nuovi argomenti proposti dai ricorrenti permettano di traslare la partita sul piano del diritto, quel congegno misterioso a cui alcuni nostalgici si ostinano a riconoscere ancora la primazia sui volubili umori della classe dirigente.

@masstrovato

7
Gen
2017

La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni: i piani anti-bufale e il Ministero della Verità—di Tomaso Invernizzi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Tomaso Invernizzi.

Qualunque persona con un minimo di cognizione scientifica può dirsi preoccupata della diffusione sul web di notizie false, credenze erronee, superstizioni. Ma istituire un’Autorità pubblica di controllo atta ad eliminare dalla rete le cosiddette “bufale” appare un rimedio preoccupante e pericoloso. Il presidente dell’Antitrust Pitruzzella ha auspicato l’istituzione di un’Autorità di controllo europea, incaricata di intervenire per rimuovere eventuali “bufale” dalla rete. A suo dire, non basta affidarsi all’autoregolamentazione da parte dei social network, ma è opportuno l’intervento pubblico. Anche la presidentessa della Camera dei deputati Laura Boldrini, indicando quella delle “bufale” come un’emergenza mondiale, ha sottolineato come il tema debba essere posto all’attenzione del legislatore. Ora, tutto ciò ricorda da vicino il Ministero della Verità, il Miniver, di orwelliana memoria, dove lavorava il protagonista del famoso romanzo “1984”. Egli doveva correggere le “bufale” dei giornali. I quotidiani vecchi dovevano essere corretti e ristampati in modo da far prevedere al Grande Fratello quello che poi era accaduto: “il Ministero dell’Abbondanza aveva promesso che nel corso del 1984 non ci sarebbe stata alcuna riduzione del razionamento del cioccolato. In realtà, come Winston sapeva bene, per la fine della settimana la razione di cioccolato sarebbe stata ridotta da trenta a venti grammi: bastava sostituire alla promessa originaria l’avvertenza che forse per il mese di aprile si sarebbe dovuti ricorrere a una riduzione della razione di cioccolato”. Introdurre un’autorità pubblica anti-bufale significa introdurre un’autorità governativa statale o superstatale di controllo della verità. Read More

1
Gen
2017

Cinque (anzi sei) biglietti d’auguri per il nuovo anno per gli italiani liberi e forti.

Auguri ai giovani laureati italiani; perché possano almeno partecipare ad un concorso pubblico per essere assunti all’interno della pubblica amministrazione italiana e non si vedano sbarrata la strada dalle migliaia di precari che da decenni prestano servizio per lo Stato, le regioni e gli enti locali, e che la politica vorrebbe adesso stabilizzare (vedi Sicilia e non solo) senza dare la possibilità agli altri cittadini quantomeno di cimentarsi nella verifica delle migliori attitudini e qualità per lo svolgimento di un impiego pubblico.
Auguri alle imprese e agli individui che vorrebbero partecipare ad una gara pubblica per l’aggiudicazione delle concessioni per la gestione degli stabilimenti balneari; perché possano quantomeno proporre progetti, idee, e investimenti e concorrere insieme a tutti coloro che vorrebbero provarci, compresi gli attuali gestori che da decenni beneficiano (senza mai avere partecipato ad un gara) di una rendita di posizione di cui nessuna autorità chiede conto e ragione (quanti investimenti fatti, quanto la redditività, quale la qualità del servizio).
Auguri a Uber e ai suoi dipendenti; perché possano finalmente operare in piena libertà e a parità di condizioni fiscali con i tassisti che invece da decenni non innovano, non permettono al cliente di scegliere la vettura che più gli aggrada, non competono sulle tariffe e tengono in ostaggio un intero Paese ogni qualvolta lo Stato tenta di scalfire un’inammissibile rendita di posizione.
Auguri a tutti coloro che gestiscono un bed&brekfast; perché possano continuare a fornire servizi di qualità a prezzi competitivi resistendo alle pressioni lobbistiche degli albergatori che vorrebbero limitarne l’attività con la forza della legge statale (regionale) perché incapaci di innovare, tenere il passo dei tempi e competere sulle tariffe grazie ad una migliore efficienza e organizzazione.
Auguri ai titolari di parafarmacie; perché possano finalmente vendere anche loro i farmaci di fascia C dietro prescrizione medica, considerato che posseggono lo stesso titolo di studio e la medesima abilitazione dei titolari di farmacie che in regime di contingentamento usufruiscono anch’essi di una ingiustificabile rendita di posizione.

Auguri ai consumatori italiani; perché possano usufruire dei benefici che la concorrenza e le liberalizzazioni generano sui prezzi e sulla qualità di centinaia di beni e servizi.
@roccotodero

1
Gen
2017

Consigli di lettura per il 2017 / Parte seconda

La seconda e ultima parte delle nostre proposte per il 2017. Buon anno e buone letture!

Allan Bloom, La chiusura della mente americana (Torino, Lindau, 2009 [1987], €24,50)
In questo libro Allan Bloom traccia un quadro preoccupante dello stato delle università americane alla fine degli anni ’80. Secondo Bloom, la politicizzazione degli studi letterali e della produzione culturale ha determinato un forte impoverimento della capacità delle università e dei professori di trasmettere quell’amore per la conoscenza libera e disinteressata tanto essenziale per difendere e preservare i capisaldi del libero pensiero e quindi in ultima analisi di una società libera.
– Nicolò Bragazza (Fellow IBL)

Russ Roberts, Come Adam Smith può cambiarvi la vita. Una guida inattesa alla natura umana e alla felicità (Torino, Add editore, 2016 [2014], €15)
I “classici” – si dice – sono libri senza tempo, che parlano al lettore in termini sempre attuali. Adam Smith ne scrisse due, il più conosciuto è la Ricchezza delle nazioni (1776), l’altro la Teoria dei sentimenti morali (1759). Ma i “classici” sono anche libri che vengono più citati che letti, mattoni di centinaia e centinaia di pagine, scritti con un linguaggio che, invece, di attuale ha molto poco. Accostarsi a questi testi richiede un certo sforzo, ma il più delle volte si viene ampiamente ripagati del sacrificio iniziale. Così è stato per Russ Roberts, research fellow presso la Hoover Institution e grande divulgatore in ambito economico con il suo podcast settimanale EconTalk, che dopo avere tenuto per trent’anni nella propria libreria una copia della Teoria dei sentimenti morali senza mai aprirla, un giorno si è deciso finalmente a farlo: «A un terzo della lettura, il libro mi aveva definitivamente conquistato. Lo portavo alle partite di calcio di mia figlia e lo leggevo durante l’intervallo o quando lei non era in campo. Lo leggevo ad alta voce a mia moglie e ai miei figli a tavola, sperando che si interessassero alle idee di Smith su come come relazionarsi con gli altri. I margini delle pagine si riempivano man mano di asterischi e punti esclamativi che indicavano passaggi che mi avevano colpito. Terminata la lettura, avrei voluto gridare ai quattro venti: “È un libro meraviglioso, un tesoro nascosto, dovete leggerlo tutti!». La lettura del testo di Smith fu a tal punto sconvolgente da portarlo a scriverci un pamphlet: Come Adam Smith può cambiarvi la vita. Una guida inattesa alla natura umana e alla felicità. Questo saggio di Roberts ci spiega proprio l’attualità della Teoria dei sentimenti morali e come la visione della natura umana di Smith sia valida ancora oggi, come possa insegnarci a conoscere meglio noi stessi e la società in cui viviamo oppure come possa – addirittura! – aiutarci a rendere il mondo un posto migliore (ma anche, meno ambiziosamente, come possa farci capire perché siamo così attaccati al nostro telefono o perché – incredibile a dirsi – in certi Paesi la gente ami i propri politici).
p.s. se a differenza di Roberts proprio non ce la fate ad aprire la vostra copia della Ricchezza delle nazioni o della Teoria dei sentimenti morali, una via più semplice e rapida per accostarsi a questi volumi è la lettura di La ricchezza delle nazioni in pillole, con un distillato della Teoria dei sentimenti morali di Eamonn Butler. Se poi volete proseguire le vostre letture smithiane, oltre al libro di Russ Roberts segnalo anche il bellissimo saggio di Ronald Coase “La visione dell’uomo di Adam Smith” contenuto in Sull’economia e gli economisti.
– Filippo Cavazzoni (Direttore editoriale IBL)

Pietrangelo Buttafuoco (a cura di), Il mio Leo Longanesi (Milano, Longanesi, 2016, €18,60)
L’approssimarsi del sessantesimo anniversario della scomparsa di Leo Longanesi offre lo spunto non soltanto per ricordare una singolare figura di intellettuale, ma anche per svolgere alcune amare considerazioni sulla borghesia italiana. Longanesi è stato forse uno dei maggiori fustigatori di questa particolare categoria umana, cui pure orgogliosamente apparteneva e alla quale preferibilmente si rivolgeva. Come ben si evince dalla piacevole lettura dell’antologia dei suoi scritti recentemente curata da Pietrangelo Buttafuoco per celebrare i settanta anni di attività dell’omonima casa editrice milanese, il fondatore de “Il Borghese” non ha mancato di contestare i vizi della borghesia nostrana anche quando voleva esaltarne le virtù. In particolare, lo si comprende scorrendo il capitolo efficacemente intitolato “Italietta”, a suscitare le invettive di Longanesi è l’attitudine clientelare spesso oggi ancora presente in quello che dovrebbe rappresentare il ceto produttivo del Belpaese. La borghesia italiana, anziché impegnata a competere nel mercato per incrementare legittimamente i propri affari, gli sembra piuttosto intenta a guadagnarsi i favori di chi pare in grado di assicurarle protezione. «Non gli occorre una tecnica particolare per tessere stoffa, per fondere ghisa o per stampare una casseruola; gli occorrono, invece, molti, moltissimi amici a Roma: amici questori, amici ammiragli, amici generali, amici giornalisti, amici avvocati, amici banchieri, amici onorevoli, amici di amici di amici. Perché è l’amicizia, è la confidenza che, in Italia, tesse le stoffe, fonde i metalli e stampa la latta; è l’unione di più influenze, il fascio di più amicizie, l’accordo di più interessi che crea quella forza che piega la legge, che corrompe i costumi, che spezza la concorrenza: è la “pastetta”, la sola, la vera, la grande capacità tecnica che domina il mercato». Difficile dargli torto.
– Luigi Ceffalo (Fellow IBL), @LuigiCeffalo

Mervyn King, The End of Alchemy: Money, Banking, and the Future of the Global Economy (New York, W. W. Norton & Company, 2016, $28.95)
Viste le amene condizioni in cui versano MPS e un certo rilevante numero di banche italiane a tanti anni dal 2008 e dal 2011, suggerisco questo libro che ho trovato molto onesto. Tra i banchieri centrali che erano al timone nella grande crisi, il barone di Lothbury ha il merito di tentare un’autocritica vera. A differenza di Ben Bernanke, che nel suo The Courage to ACT uscito nel 2015 ha più che altro consegnato ai posteri un’autodifesa esplicativa di quanto la “sua” FED ha fatto dopo Lehman, l’ex timoniere di Bank of England nelle sue oltre 400 pagine non evita l’ammissione di errori. E fa anche di più, da quegli errori tenta di far discendere una visione diversa di quel che dovrebbe essere la banca centrale, una visione che al lettore liberista austriaco non può che sembrare molto meno pericolosa del Moloch Onnipotente assiso oggi in trono, grazie alle sue politiche non ortodosse e a un QE sempre più esteso e con effetti sempre più distorcenti, negli USA e in UE come in Giappone. King riserva critiche radicali al QE e alla sovraregolamentazione di ogni minuzia del credito, destinata inevitabilmente però a dover essere interpretata caso per caso dalle autorità di vigilanza – buon profeta, viste le reazioni in corso in Italia sul caso MPS, sembra quasi che siano state la UE e la vigilanza BCE a metterla a tappeto – con effetti di accresciuta incertezza e discrezionalità. Scrive ottime pagine sull’inevitabile crisi sempre più esplosiva della sovranazionalità di organi tecnici UE, rispetto a mercati di beni, servizi e consenso politico che restano invece rigorosamente separati e nazionali. Uno dei pochi a non essere colto impreparato dal voto su Brexit, King, visto che il suo libro è stato scritto prima. Qui non c’è spazio per diffondersi sulla sua abbozzata teoria della banca centrale come semplice pawnbroker, assicuratore di liquidità a breve in cambio di pegni, ma con coefficienti di capitale rispetto agli asset delle banche molto più elevati degli attuali (che già ispirano la rivolta di banchieri e azionisti italiani). E per il resto senza superpoteri che servono solo a far credere ai politici di far più debito e deficit senza rischi, non nel breve di fronte a crisi di sistema, ma per sempre. Anche se è uscito nel marzo 2016, per tutto questo vale davvero la pena di leggere il libro di King.
– Oscar Giannino (Senior Fellow IBL), @OGiannino

Ida Magli, Contro l’Europa (Milano, Bompiani, 1997, €8,50) e Omaggio agli italiani. Una storia per tradimenti (Milano, Rizzoli, 2005, €10) 
Ida Magli si è spenta a Roma il 21 febbraio di quest’anno. Il suo pensiero era scomodo, indigesto, duro, scandaloso, spigoloso, inquietante. Leggerla significa accettare la sfida della sua coltissima provocazione, lo sgomento indotto dalle sua lucidissima logica argomentativa, la sconvolgente sorpresa di un pensiero nuovo, altro, rispetto al mainstream del pensiero omologato, e appassionato, lontano anni luce dalla conveniente pacatezza dell’establishment politico e culturale nostrano. Mai facili né rassicuranti ricette, mai accomodante: nei suoi scritti voleva semplicemente adempiere al dovere di un antropologo, cioè raccogliere, descrivere, testimoniare la civiltà che ha conosciuto. Lettura utile per mettere alla prova il senso del nostro europeismo è Contro l’Europa, nel quale denuncia la perdita delle sovranità nazionali, di libertà e democrazia, in una battaglia che è stata, innanzitutto, di richiesta di confronto e dibattito su un tema epocale per noi cittadini e che l’ha vista sola, isolata ed inascoltata. Ma le sue analisi e le sue riflessioni rappresentano oggi, ci piaccia o no, la sostanza profonda della crisi dell’Unione Europea. Preannunciò lo scontro mortale con il mondo islamico, quando all’epoca quasi nessuno sapeva bene cosa fosse al Qaeda e l’attentato alle Torri Gemelle era inimmaginabile; segnalò il pericolo della presenza musulmana in Europa e la necessità di difendere i diritti di libertà faticosamente costruiti in Occidente. Fu tacciata di arretratezza culturale, di chiusura mentale, di razzismo: anche in quel caso richiedeva, innanzitutto, discussione, ragionamento ed informazione, ma non trovò che silenzio, del quale oggi, assai amaramente, scontiamo gli effetti . In Omaggio agli italiani, Ida Magli combatte chi vuole eliminare per sempre le differenze tra i popoli e tra gli individui, “perché solo dalla competizione tra uomini e popoli prosperano le civiltà”. Denuncia che nessun popolo come quello italiano è stato tradito dai suoi governanti in maniera così metodica ed ossessiva, ma ci lascia un messaggio di speranza: “Questa è la grandezza degli Italiani. Aver continuato a pensare sempre, a creare sempre, perché soltanto l’intelligenza sa di essere libera, quali che siano le coercizioni esteriori. Sa che la grandezza dell’Uomo è nel pensiero, e sa che c’è sempre almeno un altro uomo che lo afferra e lo trasmette.”
– Gemma Mantovani (Collaboratrice Leoni Blog)

Frédéric Bastiat, Sofismi economici (Carnago VA, Libreria San Giorgio, 2013 [1845-46], €22)
Può un libro di centosettantadue anni fa essere attualissimo? La globalizzazione è sempre più nel mirino. E’ nel mirino dei populisti, agli occhi dei quali lo scambio internazionale ha l’unica conseguenza di impoverire i produttori dei paesi ricchi. Ma sono pronti ad attaccarla anche gli esponenti del cosiddetto establishment, ben felici di prometterne una “migliore governance” pur di sembrare impegnati a dar risposte agli elettori degli altri. Nelle recenti elezioni americane, lo scambio internazionale non se l’è cavata bene né da una parte né dall’altra: al nazionalismo economico “hard” di Trump, Hillary rispondeva col suo nazionalismo economico “soft”. I Sofismi economici di Frédéric Bastiat, disponibili in una recente, nuova edizione italiana curata da Michele Liati per la Libreria San Giorgio, sono anche per questo di grande attualità. Bastiat smonta gli argomenti dei protezionisti con lucidità e ironia. Lo scambio internazionale beneficia chi ha abbondanti risorse naturali da offrire? La competizione fa bene, sì, ma solo se le condizioni iniziali tra i concorrenti sono di parità? Siccome le imposte nel nostro Paese sono alte e strangolano le imprese, è opportuno imporre un dazio sulle merci che provengono da giurisdizioni meno fiscalmente esose perché la gara concorrenziale sia “fair”? Aprire le dogane significa che verremmo “inondati” di merci straniere? L’autosufficienza produttiva, perlomeno in materia d’energia e di agricoltura, non è necessaria nel caso sfortunato scoppi una guerra? Bastiat ha la risposta per ognuna delle obiezioni al libero scambio, sia quelle che sentite al bar, sia quelle che vi capita di ascoltare in un’aula universitaria. E’ una risposta saggia, brillante, piena di simpatia per il suo prossimo. Egli prende le parti degli “sfortunati consumatori” che contano nulla nel balletto degli interessi e spesso anche in quello delle opinioni. Bastiat è stato spesso considerato alla stregua di un giornalista economico e poc’altro: un blogger dei suoi tempi. Ma la grandezza di Bastiat, uomo, scrisse Francesco Ferrara, “che se ha polmoni ristretti, ha l’anima immensa”, è evidente a chiunque l’incontri senza pregiudizi, con la mente aperta. Henry Hazlitt conclude l’introduzione all’edizione americana dei Sofismi sospirando che “avremmo bisogno di qualche Bastiat in più oggi. In realtà, ne avremmo immensamente bisogno”. Figurarsi noi, in Italia, oggi.
– Alberto Mingardi (Direttore generale IBL), @amingardi

Nicola Porro, La disuguaglianza fa bene. Manuale di sopravvivenza per un liberista (Milano, La Nave di Teseo, 2016, €16,50)
Nei discorsi dei nostri intellettuali, dei nostri accademici, dei nostri politici, la disuguaglianza è a prova di gravità: essa va sempre e solo verso l’alto. E ciò influenza profondamente la comune percezione della realtà: se la vulgata è una sola (“la disuguaglianza è aumentata”), anche il pensiero sarà unico. In un clima così avverso, non può quindi che suscitare grande ammirazione il coraggio di Nicola Porro, il quale ha affrontato di petto il tema in esame, scrivendo un libro il cui titolo, da solo, varrebbe il suo acquisto: “La disuguaglianza fa bene”. Il libro di Porro si propone di essere un «manuale di sopravvivenza per un liberista», ma secondo me è qualcosa di più e di diverso. Esso non si rivolge soltanto a chi conosce già Hayek, Mises, Popper, Tocqueville etc etc: esso si propone, in prima battuta, a coloro i quali del liberalismo non hanno mai sentito parlare, se non nelle ridicole caricature dei vari Fusaro, Piketty, Varoufakis (in rigoroso ordine alfabetico)… E lo fa essendo esso stesso una piccola e compatta biblioteca: il libro presenta, infatti, una squisita carrellata delle opere dei maggiori intellettuali liberali, liberisti e libertari di tutto il mondo. Economisti, filosofi, storici, romanzieri: ce n’è per tutti i gusti, per scoprire che – sorpresa! – «anche la destra, individualista e liberale, legge». “La disuguaglianza fa bene” contiene però anche un monito centrale per i già liberali: quello di “svegliarsi”. C’è bisogno, infatti, di uno sfrontato e provocatore coraggio: lo stesso che ha avuto Porro nel ricordare che negli ultimi cinquant’anni siamo diventati tutti più ricchi e se il prezzo per questo da pagare è l’aumento (preteso) della disuguaglianza, allora “viva la disuguaglianza!”. Come mirabilmente ripete Deirdre McCloskey, è la crescita economica, non la forzata uguaglianza, a salvare i poveri. I liberali hanno la fortuna di avere dalla propria un incredibile arsenale intellettuale e un metodo – quello dell’individualismo metodologico – che consente di affrontare nel modo più efficace possibile i problemi del nostro tempo. Cosa fare dunque? Comprare, leggere e diffondere il libro di Porro è un buon inizio. Questo perché ci aiuta a utilizzare bene l’eredità dei classici del liberalismo mondiale e addirittura a riscoprirla, laddove necessario (si pensi al Manzoni economista). Solo così saremo in grado di «difendere l’indifendibile» [Block] e di vincere la battaglia delle idee. E solo così saremo in grado di prepararci per altre e ardue prove. A partire da quella elettorale.
– Giuseppe Portonera (Intern IBL), @GiuseppePortos

M.Scott Peck, The Road Less Traveled, 25th Anniversary Edition: A New Psychology of Love, Traditional Values, and Spiritual Growth (New York, Simon & Schuster, 2003 [1978], $28)
Oltre a numerosissime intuizioni, questo libro mi ha colpito per una riflessione su quanto l’amore sia un elemento completamente trascurato da coloro che studiano l’azione umana. Forse voi vi chiederete: cosa c’entra l’amore con la libertà o ancora di più con l’economia – temi a cui sono dedicate queste colonne? Uno dei motivi è che “le risposte a molte domande economiche dipendono in ultima analisi dalla nostra comprensione della natura umana” per citare ciò che scrive Enrico Colombatto in un libro che parimenti consiglio. Per capire l’economia bisogna capire l’uomo, in tutte le sue sfaccettature. Ma la vera scoperta che si può fare leggendo questo libro è che la libertà e la responsabilità sono due facce della stessa medaglia. Lo psichiatra Peck scrive: «in attempting to avoid the pain of responsibility, millions and even billions daily attempt to escape from freedom». Che questo atteggiamento interiore si rispecchi in un’economia fondamentalmente immatura, composta di individui bambini e di Stati-padri, penso sia un fatto evidente a molti. Scott Peck guida i lettori in una riflessione sul significato di una vita libera e responsabile: pur avendo venduto oltre sette milioni di copie con questo libro, questa strada resta sempre la meno percorsa.
– Emilio Rocca (Fellow IBL), @emilrocca

Se ordini i tuoi libri da Amazon.com puoi utilizzare il programma Amazon Smile, donando così parte del ricavato all’associazione Friends of Istituto Bruno Leoni, un’associazione non-profit che supporta le attività di IBL negli Stati Uniti.

30
Dic
2016

Consigli di lettura per il 2017 / Parte prima

Anche quest’anno, il team dell’Istituto Bruno Leoni e di LeoniBlog vi propone alcune letture per i prossimi dodici mesi. Saggi per continuare a riflettere, anche nell’anno nuovo, sulla libertà individuale. Ecco i nostri primi dieci consigli di lettura per il 2017:

Phillip Blond, Red Tory. How Left and Right Broke Britain and How We Can Fix It (London, Faber and Faber, 2010, £14.99)
Phillip Blond è stato l’ideologo dietro al progetto “Big Society”, un’agenda di ristrutturazione del welfare britannico in senso ampiamente liberale. Il governo che si fece portavoce di questo progetto era quello di coalizione tra Conservatori e Lib-Dem, guidato da David Cameron. I radicali tagli alla spesa pubblica e la massiccia decentralizzazione del potere decisionale da Whitehall alle “localities” si attuarono nell’ottica di restituire potere agli individui e alle associazioni volontarie. Red Tory è stato il manuale d’istruzioni di quel progetto, rimasto ampiamente incompiuto com’era prevedibile che accadesse. Non solo, Blond offre un’acuta analisi della recente storia britannica (che si riflette in gran parte di quella europea) a giustificazione delle sue proposte radicali. La destra thatcheriana ha ridato valore al mercato come luogo d’incontro tra preferenze individuali, al costo di accentrare il potere di “supervisione” dello Stato. La sinistra blairiana ha esasperato questo nuovo assetto duopolistico tra politica e finanza trasformando il Regno Unito in un “mercato di polizia”. Tocca alla nuova generazione politica, dice Blond, ridare ossigeno al tradizionale liberalismo britannico, fondato su coesione sociale, attivismo famigliare e responsabilità individuale. Phillip Blond è un conservatore genuino e quindi, in un certo senso, un liberale classico. Il fondatore del think-tank londinese Res Publica ci ricorda così che uno degli aspetti più apprezzabili del liberalismo è il suo risvolto etico: sono gli individui, quasi sempre in maniera spontanea, che creano le condizioni per la migliore convivenza possibile e quindi per il loro stesso sviluppo. Conservare il buono per progredire verso il meglio: è questo il suo “red toryism”, discendente della più nobile tradizione disraeliana.
– Tommaso Alberini (Collaboratore IBL), @tomalberini

Richard H. Thaler e Cass R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile (Milano, Feltrinelli, 2009 [2008], €16)
Il Nudge – ossia la spinta gentile che dà il titolo al libro – è il metodo mediante cui Sunstein e Thaler reputano che gli individui possano essere posti in grado di decidere in maniera più consapevole e mirata, ovviando cioè a pregiudizi, errori cognitivi e stimoli condizionanti che ne orientano l’agire. Le persone compiono scelte da esseri umani (humans) e non da uomini economici (econs): ciò significa che i loro comportamenti costituiscono spesso reazioni indotte da sollecitazioni del contesto e da fallacie cognitive più che da ragionamenti logici. Il testo contiene un’esaustiva esposizione di quelle maggiormente ricorrenti: il Nudge può fungere quale strumento per rendere i singoli più coscienti e, quindi, indurli a scelte migliori per se stessi e per la collettività, al contempo. La lettura del libro è interessante non solo per conoscere i modi in cui opera il Nudge, ma soprattutto per un profilo che va oltre l’uso dello strumento: è importante per comprendere come i decision maker possano valutare preventivamente i meccanismi mentali che influenzano i soggetti cui le loro decisioni sono rivolte, per non correre il rischio di mancare gli obiettivi prefissati, adottando misure inadeguate. La nudge strategy, a differenza dei tradizionali strumenti fondati sul command and control, non comprime la libertà delle persone al fine di indurle a preferire l’opzione maggiormente desiderabile secondo il giudizio del decisore, ma lascia intatta la loro discrezionalità di compiere scelte “cognitivamente limitate”: per questo ultimo profilo, la “spinta gentile”, cioè non costrittiva, è stata definita quale strumento di “paternalismo libertario”, espressione che molti reputano un ossimoro. Al di là delle diverse opinioni circa l’uso di tale metodo, è indubbia la funzione che il testo di Sunstein e Thaler ha avuto nel conferire rilievo alla necessità di comprendere come gli individui “funzionano” e come rispondono a determinati “pungoli”, di regolazione e non. In un Paese, l’Italia, ove i governanti sono troppo propensi a una iper-produzione normativa e poco preoccupati preventivamente dell’esito che le loro disposizioni potranno produrre, operando spesso interventi che si risolvono in un ingente spreco di pubbliche risorse; e ove i governati non sempre sono consapevoli dei propri meccanismi di comportamento, né sempre dispongono di strumenti per difendersi adeguatamente da eventuali tentativi di manipolazione politica, la lettura del libro suggerito può fornire molti spunti di riflessione.
– Vitalba Azzollini (Collaboratrice Leoni Blog), @vitalbaa

Don Lavoie, Rivalry and Central Planning: The Socialist Calculation Debate Reconsidered (Arlington VA, Mercatus Center at George Mason University, 2015 [1985], $15.95)
Ci sono libri che non invecchiano mai e il libro di Don Lavoie del 1985 è sicuramente uno di questi. In 200 pagine vengono condensati i passaggi principali del dibattito teorico sul calcolo economico, con i sostenitori del mercato da un lato, e quelli della pianificazione dall’altro; in mezzo si trovano i neoclassici, che però faticano a includere il tempo e l’incertezza nei loro modelli. Il processo di scoperta innescato dalla competizione e la conseguente produzione di nuova conoscenza sono noti: in ultima analisi rendono preferibile il sistema di mercato e dei prezzi. D’altronde, la stessa competizione tra le tre diverse scuole di pensiero, come emerge chiaramente dal libro, ha accresciuto la comprensione del tema del calcolo economico più di quanto non abbia fatto alcun singolo contributo.
– Paolo Belardinelli (Research Fellow IBL), @paolobelardinel

Carlo M. Cipolla, Piccole cronache (Bologna, il Mulino, 2010, €10)
A quanto ammontava il debito pubblico nella Firenze del 1303? Quando nacque il costume di garantire un “paracadute” alle banche? E soprattutto: dove si nascondevano i soldi delle tangenti nel Seicento? A queste e altre domande risponde il grande storico dell’economia preindustriale e rinomato esegeta delle leggi della stupidità umana, Carlo Maria Cipolla. Brevi saggi distinti, apparentemente scollegati fra loro, ma uniti – come le perle di una collana – dal filo dello stile bonario e della profonda erudizione dell’autore. Traffici intercontinentali, politiche monetarie imperiali, finanziamenti di grandi imprese belliche. Vicende gigantesche e protagonisti smisurati – si va da Carlo Magno a Colombo, da Felipe II di Spagna al Kaiser -, righe densissime eppur lievi, in cui storia ed economia si intrecciano, narrate come “Piccole cronache”; trame colossali dipinte con la vivida efficacia delle miniature, dei marginalia medievali. Ed è questa la principale ragione per leggere questo smilzo libretto: in un’epoca in cui le star della divulgazione ricorrono inutilmente agli effetti speciali, questo compianto studioso illumina vicende buie di epoche oscure con l’umile ma sicura candela dell’ironia e del buonsenso; e riesce – ve ne accorgerete – a non annoiare mai.
– Francesco Cocco (Collaboratore IBL), @FrancescoCoccoT

Bradley A. Smith, Unfree Speech: The Folly of Campaign Finance Reform (Princeton NJ, Princeton University Press, 2003 [2001], $43.86)
Un libro di quelli che parlano di un tema specifico (il finanziamento della politica), illuminando in realtà temi assai più generali (i confini dell’intervento pubblico, la libertà individuale, i limiti della regolazione). Nominato membro della Federal Election Commission nonostante l’opposizione dei tanti benpensanti d’oltreoceano, Brad Smith, valente giurista in forza alla Capital Law School, compendiò in questo lavoro le sue convinzioni nella materia del finanziamento elettorale, e delle tanto invocate riforme che quei medesimi benpensanti invoca(va)no come un salvifico mantra anche negli Usa. Smith smonta una per una le false credenze diffuse sull’argomento, a cominciare dalla necessità di introdurre nuove restrizioni all’afflusso di denaro nella politica, e con logica implacabile tira fuori un saggio documentatissimo in punta di diritto, ma che è anche un’appassionata e godibilissima difesa della libertà come intesa dalla miglior tradizione americana, senza se e senza ma. Anche là dove implichi il diritto di finanziare senza restrizioni un candidato, in quanto forma di manifestazione del pensiero da proteggere come tutte le altre. Personalmente, è un libro che mi ha cambiato la vita, mostrandomi le cose da un’altra prospettiva, dove finalmente i conti tornavano un po’ di più. Se avete il sospetto che qualche vostro amico (che sappia leggere in inglese e sia un po’ interessato alla politica) sia portatore sano del virus della libertà, questo libro potrebbe essere l’ideale per risvegliarglielo. Astenersi perbenisti e politicamente corretti.
– Riccardo De Caria (Fellow IBL), @riccardodecaria

Ralph Raico, Great Wars, Great Leaders. A Libertarian Rebuttal (Auburn AL, Ludwig von Mises Institute, 2015 [2010], $10)
Scomparso solo poche settimane fa, Ralph Raico è stato uno più acuti interpreti della prospettiva liberale classica in un ambito – quello della storiografia contemporanea – essenzialmente dominato da prospettive “realiste”, che non sembrano lasciare molto spazio ai principi e alle categorie di quanti auspicano una società basata su proprietà e contratto. In Great Wars, Great Leaders (disponibile gratuitamente on-line nel sito del Mises Institute) Raico ha raccolto alcuni dei suoi saggi più interessanti, oltre che alcune recensioni di libri, e il quadro complessivo che ne esce è quello di una storia novecentesca assai lontana da quella propostaci da conservatori e progressisti. In effetti, molti idoli dell’uno e dell’altro campo (da Wilson a Churchill, per fare due nomi) escono del tutto ridimensionati in queste sue pagine tanto originali quanto avvincenti. Più in generale, l’idea che nel corso dell’ultimo secolo gli Stati Uniti e il Regno Unito abbiano giocato solo una politica estera schierata a difesa della giustizia e della libertà gli appare tanto indifendibile quanto ingiusta. In modo particolare Raico appare spietato nello smontare i luoghi comuni di quella propaganda (ancora assai viva) che ci ha presentato i tedeschi – dalla prima guerra mondiale in poi – quali responsabili di ogni nefandezza e ha, invece, tentato di assolvere i comunisti (l’Unione sovietica e i partiti che l’hanno appoggiata) da ogni responsabilità politica e morale. Nell’introduzione al libro Raico richiama i nomi di Richard Cobden, Herbert Spencer, Lysander Spooner, William Graham Sumner, Gustave de Molinari, Albert Jay Nock e Frank Chodorov come suoi modelli: quali interpreti di una storiografia liberale che guarda ai fatti ed evita le versioni propagandistiche, sempre con l’obiettivo ben chiaro di proteggere la libertà individuale e frenare l’espansione dello Stato. Significativamente, il libro è dedicato alla memoria di Murray N. Rothbard.
– Carlo Lottieri (Direttore Dipartimento Teoria Politica IBL), @CarloLottieri

Cristiano Gori (a cura di), L’alternativa al pubblico? Le forme organizzate di finanziamento privato nel welfare sociale (Milano, FrancoAngeli, 2012, €23,50)
Terminata la sbronza ideologica del Novecento, protagonisti indiscussi dell’hangover di chi vede nello Stato l’unica possibile fonte di giustizia sociale sono diventati i sistemi di welfare state europei, in perfetta coincidenza con la critica più diffusa alla libertà economica: il disinteresse nei confronti dei più deboli. In questo volume Cristiano Gori – professore di Politica Sociale e visiting senior fellow alla LSE – esamina, con sguardo accademico ma mai autoreferenziale, numerose esperienze di finanziamento privato del welfare sociale, raccontandone obiettivi, metodi, pregi e difetti: dal welfare aziendale alla conciliazione vita-lavoro, dal ruolo delle fondazioni contro la povertà ai fondi assicurativi per la non autosufficienza. La conclusione dell’autore è che il ruolo dei privati nel welfare sociale non possa in alcun modo sostituire un intervento pubblico adeguato, per stanziamenti ed efficienza. Tuttavia, le difficoltà incontrate da chi opera quotidianamente in questo campo (crowding out, difficoltà burocratiche, peso del fisco) contribuiscono senz’altro a ridurne il margine di integrazione al ruolo dello Stato, svantaggiando proprio le fasce più deboli della società.
– Giacomo Lev Mannheimer (Research Fellow IBL), @glmannheimer

Fred E. Foldvary, The Soul of Liberty. The Universal Ethic of Freedom and Human Rights (Berkeley CA, Gutenberg Press, 1980, $12)
Gran parte dei nostri problemi politici, economici e sociali sono essenzialmente questioni morali. Consideriamo questi esempi: esiste un sistema di tassazione giusto? Esistono i diritti al cibo, alla casa e alla salute? Come dovrebbero essere distribuite le risorse scarse? Gli animali hanno dei diritti? Queste sono, insieme a tante altre, le tipiche questioni che vengono sollevate nel libro. Ognuno di noi ha le sue opinioni al riguardo. Il punto è se dobbiamo considerarle all’interno delle leggi e dei programmi economici o sociali. Oppure, se è sufficiente una maggioranza di persone a determinare cosa è moralmente giusto. Ma soprattutto, se esiste un diritto morale assoluto che trascende dalle nostre opinioni individuali e fedi. L’autore dimostra l’esistenza di un diritto morale naturale e razionale che si applica a tutta l’umanità: un’etica universale che determina lo scopo dei diritti umani e definisce il significato della libertà individuale. Questo libro esplora la relazione che esiste tra le nostre opinioni personali e l’etica universale. In particolare, Foldvary cerca di dimostrarne la sua esistenza e la sua applicazione ai problemi politici economici e sociali di oggi.
– Luca Minola (Collaboratore IBL), @LucaMinola

Eric Ries, Partire leggeri. Il metodo Lean Startup: innovazione senza sprechi per nuovi business di successo (Milano, Rizzoli Etas, 2012 [2011], €23)
E se anche il governo e le PA adottassero la metodologia elaborata da Eric Ries? Quello descritto nel libro è un metodo per validare in modo empirico ogni idea che si voglia trasformare in qualcosa di reale e utile a qualcuno altrettanto esistente (esistente non solo nelle visioni degli imprenditori o nei faraonici progetti pubblici, ma esistente in carne ed ossa). Tale validazione assume infatti nel testo il significato di “avere mercato”, condizione per procedere con un modello iterativo che, una volta verificata una sufficiente quantità di domanda, permette di progettare e affinare la qualità dell’offerta raggiungendo la condizione di “product market fit”. In fin dei conti – i conti che sono spesso oggetto dei post che ospita questo blog – dal momento che la PA promuove ed eroga nuovi servizi, si potrebbe risparmiare sulla loro inutilità prima che il prezzo sia molto più alto di quello che consentirebbe la metodologia Lean grazie ad attività di testing preliminari e durante la progettazione di servizi e prodotti. Certo il più delle volte meglio sarebbe lasciare del tutto al mercato anche l’iniziativa di progettare l’offerta, ma almeno testare la presenza di una effettiva domanda senza presumerla a priori e verificare le preferenze e i bisogni degli utilizzatori finali sarebbe quantomeno un compromesso anche per la progettazione dei servizi pubblici, per avvicinarli alle logiche del mercato. Comunque sia – tralasciando l’applicazione nel pubblico per chi non cedesse come me alla fallacia del “wishfull thinking” contraria proprio all’approccio Lean (a questo punto suggerisco anche questo manuale-kit per difenderci da tutta una serie di fallace che sfidano ogni giorno la nostra razionalità) – The Lean Startup è un libro per chiunque avesse da parte un’idea e che magari ha accantonato proprio pensando di non avere modo di verificarne la reale utilità per il mondo, o comunque per una sua piccola, ma realmente interessata, porzione.
– Giacomo Reali (Research Fellow IBL), @giacreali

Calestous Juma, Innovation and Its Enemies: Why People Resist New Technologies (New York, Oxford University Press, 2016, $29.95)
L’innovazione è il principale motore della prosperità e del progresso. Perché, allora, trova tanti ostacoli, sia nelle società in via di sviluppo sia in quelle già sviluppate? È la domanda a cui tenta di rispondere Calestous Juma nel suo Innovation and Its Enemies. L’economista di Harvard mostra come le innovazioni tecnologiche, organizzative e istituzionali generino enormi benefici sociali. Proprio per questo, egli indaga le dinamiche sociali alla base di un’opposizione che, come emerge dai numerosi casi storici da lui ricostruiti, non può essere semplicemente liquidata facendo appello all’ignoranza delle masse o alla paura dell’ignoto. Piuttosto, Juma invita a distinguere le ragioni dichiarate della lotta all’innovazione – che non di rado trovano qualche fondamento più o meno religioso – dalle loro determinanti reali, sociali, politiche o economiche. L’innovazione e gli innovatori devono fare i conti con le loro stesse conseguenze: la creazione di prosperità è inestricabilmente connessa a una schumpeteriana distruzione di certezze e di posizioni di rendita. Il nemico dell’innovazione, allora, è la paura che essa metta in discussione lo status, il benessere, o anche solo le coordinate di riferimento di quanti si ritrovano dal lato sbagliato del cambiamento. Per questo, Juma ritiene che la battaglia per l’innovazione non possa né debba separarsi dallo sforzo di prendere sul serio l’inclusione sociale, specialmente in un tempo in cui i cambiamenti di paradigma tecnologico sono rapidi e hanno portata globale. Se vogliamo che l’innovazione migliori la vita di tutti, dobbiamo trovare strumenti per renderla digeribile anche da coloro i quali hanno qualcosa da perdere. Di conseguenza, il dibattito sull’innovazione, più ancora che un confronto sui rischi reali delle specifiche tecnologie, deve concentrarsi sulla percezione di tali rischi. «Le controversie tecnologiche – scrive Juma – spesso nascono da tensioni tra l’esigenza di innovare e la pressione a mantenere continuità, ordine sociale e stabilità». Ecco perché, oggi più che mai, «gestire le interazioni tra il cambiamento e la continuità rimane una delle funzioni più critiche dei governi».
– Carlo Stagnaro (Fellow IBL), @CarloStagnaro

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28
Dic
2016

Voucher: correggerli, non rottamarli come dice la Cgil

Lo abbiamo scritto e lo ripetiamo. In vista dei tre quesiti referendari sul lavoro presentati dalla Cgil e su cui si deve pronunciare a gennaio la Corte Costituzionale, il Pd sembra mostrare un problema serio. Diverse tra le sue componenti si iscrivono al partito dei “pentiti del riformismo”.  Se così fosse tanto da implicare un cambio di linea complessivo del Pd, sarebbe l’autorottamazione del Jobs Act: non certo il massimo, per chiedere futuri consensi all’elettorato.

Il problema si pone non solo sull’articolo 18, che la Cgil vuole ripristinare nella sua disciplina vincolistica anteriore al Jobs Act non solo, com’era prima, per le aziende con più di 15 dipendenti, ma per quelle con oltre 5 lavoratori. Sarebbe un referendum “creativo” e non abrogativo, e vedremo cosa la Consulta avrà da dire in proposito (sulla Stampa, oggi Roberto Giovannini scrive che secondo indiscrezioni si sta irrobustendo l’opinione avversa all’accoglibilità). Ma analoga questione si pone anche per i voucher, i buoni per il lavoro accessorio che nella vulgata sono diventati nuovi strumenti di un odioso precariato di massa. Le domande alle quali rispondere sono, nell’ordine, tre. I voucher sono davvero come li si dipinge? Oppure hanno espresso una domanda e offerta di lavoro positive? Che lezione trarre, che cosa fare in concreto?

Premessa su cosa siano, i voucher. I buoni per il lavoro accessorio sono diffusi da molti anni nel Nord Europa, hanno dato buona prova di sé in Francia e Belgio. Introdotti nel 2003 in Italia dalla legge Biagi, per anni non trovano applicazione. Nel 2008 l’allora ministro Damiano, che si opponeva alla Biagi, né da una prima attuazione nelle vendemmie e per lavori dunque stagionali agricoli.

L’idea diventa nel tempo quella di utilizzare i voucher per lavoretti occasionali per cui mai si stipula un contratto: assistenza a malati e portatori di handicap, lezioni private, giardinaggio, manutenzione edifici. Fatto sta che da poco più di 24 mila lavoratori “accessori” che lo utilizzano nel 2004, si passa nel 2015 a un milione e trecentomila percettori di voucher. Dal 2012 i voucher vengono infatti estesi dalla Fornero a tutti i settori. Nel 2013 col governo Letta si cancella il riferimento a mansioni “di natura occasionale”.

Perché la liberalizzazione? Perché nel frattempo si rafforzava sempre più l’idea di rafforzare i contratti a tempo indeterminato, e aumentavano le restrizioni alle forme di lavoro coordinato e continuativo: idea che di tappa in tappa sfocia nel Jobs Act, con la fine dei cosiddetti “co.co.co” e “co.co.pro”.  Nasce da questa premessa il duplice sospetto che l’enorme estensione negli anni del ricorso ai voucher sia il bacino i cui confluiscono mascherate le precedenti tipologie di precariato. E che, invece di far emergere lavoro prima offerto in nero senza tasse né contribuiti, il voucher finisca invece per coprire altro lavoro nero dietro la maschera di un buono da 10 euro di cui 7,5 di paga oraria per il beneficiario, e 2,5 euro per i contributi INPS e INAIL previdenziali, senza però aver diritto alle prestazioni a sostegno del reddito come disoccupazione, maternità, malattia, assegni familiari.

A onor del vero, il Jobs ACT ha già introdotto limitazioni. E’ stato introdotto il massimale annuale pagabile a voucher in 7mila euro, oltre a quello di 2mila euro annuali per lavoratore da parte di ogni singolo datore di lavoro. E’ stato inibito l’utilizzo dei voucher negli appalti. Ed è stato previsto l’obbligo di comunicazione all’INPS di tutte le caratteristiche d’uso del voucher, preventivamente al suo utilizzo. In teoria, apposta per impedire che il voucher copra lavoro nero. E il governo Renzi, fino a qualche settimana fa, ripeteva infatti che era anche per questo, che nei primi 10 mesi del 2016 sono sì stati venduti 121,5 milioni di voucher, ma con un incremento del 32,3% sull’analogo periodo del 2015, non più del 67,6% di crescita tra gennaio-ottobre 2015 rispetto al 2014.

Per capire che cosa fare è essenziale conoscere chi siano davvero i percettori del voucher, e quali le forme prevalenti di utilizzo. Nell’ultimo rapporto annuale INPS di qualche mese fa, quindi aggiornato ai dati 2015, apprendiamo che Il guadagno netto medio dei lavoratori retribuiti con i voucher negli ultimi anni non è mai arrivato a 500 euro, e che comunque raramente supera i 600. da questo dato, si direbbe che i voucher sono simili ai Mini-Jobs tedeschi. Il numero dei lavoratori è cresciuto costantemente negli anni, ma il numero medio di voucher riscossi dal singolo lavoratore è sostanzialmente invariato: circa 60 l’anno, dal 2012 in avanti. L’età media è andata sempre decrescendo, così come il differenziale di età tra i sessi. La percentuale di ragazze e donne è progressivamente aumentata, ed è attualmente superiore al 50%. Il ricorso ai voucher è concentrato nel Nord: il Nord-Est incide per il 36,8%, il Nord-ovest per il 29,5%.  La regione con maggiore ricorso ai voucher è la Lombardia, seguono Veneto ed Emilia- Romagna.

Il tipo di attività per la quale è stato acquistato il maggior numero di voucher è il commercio con un 16,8%, ma vanno forte anche l’assistenza alle persone e la manutenzione delle abitazioni. Il 36,7% include invece ”attività specifiche d’impresa”, ed è su questo terzo abbondante di utilizzo che si appuntano i sospetti di abuso. Che generano letture divergenti. Da una parte lo stesso presidente dell’INPS, Tito Boeri, a maggio ha lanciato un vero e proprio atto d’accusa. “I voucher – ha detto -sono nati per regolarizzare il lavoro accessorio, ma hanno avuto uno sviluppo diverso: in alcuni casi abbiamo una precarizzazione evidente, con lavoratori a tempo indeterminato o determinato che adesso hanno i voucher, e in questo senso sono anche controproducenti. Non sono tanti i lavoratori nelle fasce centrali d’età, si vedono poche persone che prima non lavoravano che di colpo prendono voucher. Il livello dei contributi che raccogliamo è basso, circa 150 milioni, lo 0.2% dei contributi totali dei lavoratori dipendenti, mentre i lavoratori che percepiscono voucher sono l’8%: è molto meno di quello che si potrebbe pensare alla luce del numero delle persone coinvolte. Sembrerebbe esserci un fenomeno di datori di lavoro che usano i voucher in maniera disonesta, per evitare un controllo o per pagare solo in parte le ore di lavoro”.

Senonché proprio uno studio INPS diretto da Bruno Anastasia nel 2015 mostra come i percettori dei voucher siano quasi al 10% pensionati, mentre il 55% si divide tra chi ha un altro lavoro e percettori di ammortizzatori sociali. Sommando queste tipologie si direbbe che i due terzi dei percettori utilizzano il voucher davvero per attività accessorie, e per tipi di mansioni in cui prima il nero era considerato imperante.

E’ solo dal miglioramento della raccolta sistematica di questi dati e la loro incrocio interpretativo, che può venire la migliore risposta al “che fare”. Se si vogliono identificare sulla base di dati concreti alcuni settori precisi di attività in cui forte è il sospetto di abusi, dopo quello degli appalti come già si è fatto, allora si possono e si devono adottare restrizioni a quelle tipologie. Le costruzioni sono per esempio, a mio giudizio, fondatamente sospettate. E anche l’utilizzo nei grandi gruppi industriali e nel settore pubblico va chiarito molto, dati alla mano. Ma buttare a mare i voucher in quanto tali, come pretendono la CGIL e molti “pentiti”, è un triplice errore. Ignora il fatto che in almeno i due terzi dei casi l’evidenza empirica sin qui raccolta comprova l’idea che il fine di contrasto al nero sia ottenuto. Rifiuta l’evidenza che per quei lavori mai e poi mai si stipulerà un contratto a tempo indeterminato. Respinge l’idea stessa che il lavoro – la sua cultura e la sua dignità – sia espressione di una società flessibile e in continua trasformazione, non immobilizzato in antiche forme ideologiche. In più, se avvenisse l’abiura, per il Pd sarebbe un clamoroso autogol: non per Renzi come pensano in tanti, ma per il Pd in quanto tale.

 

24
Dic
2016

Un brindisi per le festività , evviva la libertà !

Sono giorni di brindisi di auguri, con spumante o champagne, vini rossi o birre, non conta: ciò che conta è che siamo liberi di berci un sorso alla salute di amici e parenti, in piena libertà. Purtroppo non è lo stesso in Russia, come si apprende da un recente piccolo, ma emblematico, caso di cronaca.

Si tratta dell’avvelenamento di massa avvenuto a Irkutsk, in Siberia, dove oltre 40 persone sono morte e altre sono ricoverate in ospedale per aver bevuto una lozione cosmetica per il bagno chiamata ‘Boiarishnik’, ‘biancospino’, contenente metanolo. In Russia sono tristemente frequenti gli avvelenamenti da prodotti non bevibili contenenti alcol, usati come se fossero dei surrogati meno costosi delle bevande alcoliche regolarmente in vendita. La lozione per il bagno al biancospino non era destinata ad essere bevuta ma sopra c’era anche scritto che conteneva il 93 % di metanolo ed è per questo che decine di persone l’hanno ingerita come se si trattasse di una bevanda alcolica a basso prezzo. Il liquido, però, conteneva la sostanza letale.

Sembra di essere ripiombati nell’America degli anni ‘20, perché il governo russo,  con diverse leggi varate in questi ultimi anni, ha represso duramente il consumo e la commercializzazione degli alcolici. L’emergenza alcol, in un paese con un numero elevatissimi di alcolizzati, è stata affrontata con la peggiore delle ricette di sapore proibizionista, politiche della tolleranza zero, orari rigidissimo per la commercializzazione – nell’Unione Sovietica vigeva il divieto della vendita dei vini e della vodka dalle 19.00 alle 11.00 e nella Russia postcomunista il divieto è dalle 20.00 alle 08.00- oltre che controlli a tappeto. I costi degli alcolici, naturalmente sono alle stelle, con difficoltà nell’esportazione anche per i produttori italiani. “Queste misure devono portare a rafforzare l’istituzione della famiglia, ad incentivare la pratica dello sport e ad optare per uno stile di vita salutare”, si legge in una nota esplicativa della legge, evidentemente ispirata alle migliori dottrine dello stato etico. Per questo, non avendo la possibilità di acquistare bevande alcoliche, i cittadini cercano altri prodotti contenenti alcol,  con conseguenze dannosissime per la loro salute se non mortali, come nel caso siberiano.

Ma si sa, il divieto aguzza l’ingegno e per ovviare all’aberrazione di feste a base di shampoo e dopobarba, sono nate molte piccole imprese di consegna di alcol a casa che aggirano la legge con un semplice trucchetto: vendono succhi e acqua, che servono sempre per i cocktails, e regalano l’alcol. Si sceglie di non vendere alcol russo perché un altro pessimo effetto della legge è stato la naturale proliferazione di alcolici contraffatti assai intossicanti e nocivi. E’ molto diffusa anche la pratica elusiva dell’ “affitto” o della “consegna in uso temporaneo su cauzione”degli alcolici. Il cliente “prende in usufrutto” una bottiglia, lasciando al fornitore la “cauzione” equivalente al costo della bottiglia stessa. Entro la mattina successiva il cliente deve consegnare la bottiglia “presa in affitto”, ritirando la sua cauzione, altrimenti il fornitore incassa la “cauzione”. Naturalmente, nel cento per cento dei casi, avviene proprio questo.

I morti per avvelenamento causato dalle draconiane norme che regolano il consumo e la vendita di alcol in Russia, sono le vittime di uno stato che, purtroppo, non da solo e sempre più frequentemente, crede di risolvere un problema diffuso con la restrizione delle libertà individuali: una fatale e tragica politica contro la quale dovremo sempre combattere.

23
Dic
2016

Lo Stato in MPS: la grande collusione di questi anni, i rischi odierni

Nella tarda serata di ieri il Consiglio dei ministri ha varato il decreto per attivare lo scudo bancario autorizzato dal Parlamento. Cioè per attivare contemporaneamente le garanzie di liquidità necessarie a istituti di credito in crisi, volte a evitare ogni eventuale crisi da ritiro dei depositi, e per sottoscriverne aumenti di capitale. Naturalmente, si comincerà dall’intervento pubblico per l’aumento di capitale “precauzionale” del Monte dei Paschi. E’ infatti fallito il tentativo di aumento per 5 miliardi effettuato con criteri e soggetti di puro mercato. Anche se gli oltre 2,4 miliardi raccolti da conversione di obbligazioni, date le condizioni, non è stato un risultato disprezzabile.
Viene dunque il momento di un intervento pubblico che in realtà a molti è sembrato da tempo scontato. La sua delicatezza è molto elevata. Se verrà effettuato con rispetto delle regole europee e con limpida chiarezza verso i grandi fondi internazionali, potrebbe essere la svolta agli occhi del mercato dopo anni di colpevole sottovalutazione dei guai del sistema bancario italiano. Una svolta non solo per MPS, anche per le diverse banche italiane alle prese con rilevanti problemi. Prima di questo, però, vanno richiamate alcune considerazioni. Perché la svolta è tardiva. Molto, troppo tardiva. E i guai di MPS hanno storia lunga.
Primo. Se la ex terza banca italiana è arrivata a questo, l’origine prima dei guai è la politica e anzi un partito. Si è consentito per troppi anni che la politica senese controllata da quello che oggi si chiama Pd esercitasse, attraverso la Fondazione MPS, la guida della banca. La tracimazione da cui inizia il tracollo, il prezzo stellare di acquisizione di Antonveneta poco prima della crisi post Lehman del 2008, non sarebbe stata concepibile senza lo scudo che la politica offriva a quell’operazione, e al management che la condusse. Anche nel caso di Siena, come in troppe banche italiane, i regolatori hanno consentito per anni un canale di funding obbligazionario meno oneroso di quello riservandoli a investitori istituzionali, ai quali si sarebbe dovuto pagare un prezzo più elevato di quello offerto invece facendo sottoscrivere montagne di obbligazioni – come in nessun altro paese avanzato – a piccoli risparmiatori e clienti. Spesso in cambio di mutui e prestiti.
Secondo. Quando il problema senese esplose, nell’autunno 2012, gli interventi di Stato nelle banche erano praticati da mezza Europa, perché non vi era regolazione comune del meccanismo pubblico di intervento bancario. Ci fu chi chiese ai governi in carica allora, Monti prima e Letta poi, di attivare interventi nel sistema italiano attraverso i finanziamenti europei – il nostro alto debito pubblico e lo spread non consentiva interventi solo nazionali, come quelli praticati altrove – e programmi internazionalmente vigilati. Ma la politica italiana rifiutò, per non far apparire l’Italia come un paese sottoposto a vincoli simili a Spagna, Portogallo e Irlanda. In più, il desiderio evidente era di non farlo per una banca impestata per colpa del Pd. Si iniziò a ripetere il mantra delle banche italiane tra le più solide al mondo. I fatti, cioè l’esplosione dei crediti deteriorati fino a 360miliardi e la raffica di aumenti di capitale deliberata non appena la vigilanza bancaria divenne europea nel 2014, si sono incaricati di smentire quella tesi. Il governo di destra e poi quello tecnico preferirono impiccare MPS – in crisi di redditività sempre più evidente – al pagamento fino a oltre il 9% annuo dei Tremonti e dei Monti bonds. Altro errore. Si poteva allora azzerare la Fondazione, pubblicizzare e pulire la banca, per poi rapidamente ricederne il controllo al mercato. Sarebbe stato meglio: ma il consociativismo politico l’ha impedito. E per questo sono stati bruciati 10 miliardi di capitale inutilmente raccolti da Siena a più riprese sui mercati, la banca ha bruciato la credibilità dei suoi manager e perso pozzi di miliardi di depositi,. ben 20 solo in questo 2016. Costano, le palle che vi hanno raccontato politici, regolatori e media, costano care.
Terzo. Nel 2014 fu definita la direttiva europea per il risanamento e la risoluzione bancaria – la BRRD – proprio per impedire che gli Stati continuassero asimmetricamente a salvare banche coi soldi del contribuente, e introducendo il principio della compartecipazione al risanamento di azionisti e obbligazionisti, fino ai depositanti oltre 100mila euro. Sarebbe entrata in vigore a gennaio 2016, ma politica e regolatori italiani non se ne diedero per inteso. Partì anzi una massiccia campagna che imputava ai tedeschi l’imposizione di regole anti italiane. Ancor oggi il coro dei giornali italiani – leggere il Corriere oggi a pagina – considera un vanto per l’Italia affossare e aggirare quelle norme. Io penso l’esatto opposto.  A novembre 2015 con le 4 banche risolte abbiamo fatto finta di scoprire che gli obbligazionisti erano chiamati – secondo una precisa gerarchia relativa ai diversi tipi di titoli – a convertire i propri titoli in azioni e a vederli azzerati nel valore, fino a concorrere all’8% delle passività della banca finita in risoluzione. Classi dirigenti serie avrebbero dovuto saperlo da due anni, e regolarsi di conseguenza. Invece abbiamo preferito dar vita a un sistema di mutualizzazione che vede le banche migliori accollarsi gli oneri di quelle peggiori, ed è iniziato a diventare evidente che rinviare la soluzione dei problemi delle banche più compromesse comportava oneri maggiori per l’intero sistema. I 100 miliardi di prestiti in meno, che ancor oggi mancano alle imprese italiane rispetto al 2007, sono diventati un macigno per la ripresa italiana. Ma le classi dirigenti italiane preferiscono prendersela coi tedeschi, e troppi giornali si adeguano suonando la grancassa.
Quarto. Sette mesi fa, la vigilanza europea ha chiarito dopo gli stress test che MPS non poteva più aspettare, aveva bisogno di un aumento di capitale entro fine anno e di liberarsi del più dei suoi crediti deteriorati. Ancora una volta, politica e regolatori hanno pensato di prender tempo, ritardare e diluire. Hanno guardato al calendario politico interno cioè al referendum, sperando a fine dicembre di ottenere poi una proroga dalla BCE. Altro errore, la proroga non c’è stata. E il governo per primo ha preferito comunque la via di un aumento di mercato, il più della cui fattibilità – a cominciare da un prestito ponte di 6 miliardi per garantire i tempi lunghi della cessione di NPL- era garantito in cambio di enormi commissioni da JP Morgan. Non sapremo mai su che basi reali Costamagna, messo da Renzi ai vertici della CDP, abbia convinto Renzi che Jp Morgan avrebbe fatto il miracolo. Tutti hanno scritto per mesi, raccogliendo gli spifferi delle fonti ufficiali, che per l’aumento di capitale c’era la fila di fondi internazionali, in primis del Fondo Sovrano del Qatar. Bubbole. Alla fine non si è presentato nessuno.
Ed eccoci al punto finale. L’intervento su MPS, che sarà il primo ma non l’ultimo della serie. Potrebbero seguirne molto probabilmente diversi: sulle due banche venete, le 4 banche risolte, e diverse altre minori. A seconda di come questi interventi avverranno, si capirà se l’esperienza negativa maturata ha dato frutti. O se si ripeteranno pasticci che potrebbero essere ancor più gravi. Il mecccanismo d’intervento in una banca solvibile – qual è ancora MPS – e di profilo sistemico, che se manchi di realizzare aumenti di capitale sul mercato può avere rilevanti conseguenze a catena, è precisamente indicato dalla direttiva europea. A seconda di come il MEF deciderà di procedere alla conversione delle obbligazioni subordinate, del prezzo che offrirà rispetto al loro valore nominale se le acquista lui prima della conversione, o del meccanismo di ristoro proposto ai piccoli risparmiatori in caso di conversione e di caduta verticale del valore dell’azione rispetto al nominale del bond convertito, si lancerà un messaggio decisivo ai mercati. Se le cose saranno fatte bene, con la garanzia di liquidià alle banche da subito e con prezzi di cessione dei crediti deteriorati non troppo lontani dalle stime di mercato, allora è del tutto possibile che MPS per prima, oggi valutata una frazione incredibilmente bassa rispetto ai suoi asset residui, possa riprendersi. Naturalmente , bisogna che lo Stato tornato azionista indichi fin da subito termini temporali limitati per la sua presenza nel capitale, diciamo non oltre i 18 mesi, stabilisca zero dividendi e stop a retribuzioni e premi ai manager come quelli che abbiamo scandalosamente continuato a vedere in Italia, e renda il piano industriale di aumento della redditività meno azzardato di quello presentato da Viola prima e Moreli poi.
Infine, diciamola tutta. I mercati e i grandi fondi credono che a questo punto lo Stato eserciterà la sua presenza , a Siena e altrove, proprio per guidare il consolidamento bancario che è necessario, cioè inducendo grandi fusioni bancarie. Delicate, perché fondere banche diroccate implica aumenti di capitale ancora maggiori. Ma necessari. Se poi guardiamo all’oceano di piccole banche italiane, cioè appare assolutamente imprescindibile.
L’amarezza è che si sia arrivati a questo con 20 miliardi di debito pubblico in più, pagato dal contribuente. Con troppi consociativismi politici, e tra politica e regolatori. E troppi media compiacenti con la grande collusione all’origine della crisi bancaria. Ora non si può più sbagliare. Lo diciamo purtroppo sapendo che, in Italia, troppe volte si riesce a sbagliare comunque.