Quanto costa chiudere le frontiere?—di Giuseppe Portonera
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Giuseppe Portonera.
Di fronte alla tragedia di un attentato terroristico sul suolo nazionale, la reazione immediata – sia nella società civile che nella classe politica – è quella di chiedere “misure di prevenzione” affinché non accada mai più niente di simile. Una delle proposte più comuni è rappresentata dalla chiusura delle frontiere o, addirittura, da un bando permanente all’immigrazione. Il buon senso – prima ancora che dei basilari rudimenti di analisi economica del diritto – suggerirebbe, però, di valutare con cura quali conseguenze avrebbero simili proposte, anche sul piano della sostenibilità economica per tutta la società. A questo fine torna molto utile una policy analysis del Cato Institute, a firma Alex Nowrasteh, esperto di politiche sull’immigrazione. Si tratta di uno studio molto denso e corposo, che prende in esame la situazione degli Stati Uniti d’America: un Paese in cui, storicamente, il nesso tra economia di mercato e libera circolazione delle persone è sempre stato molto forte.
Lo studio di Nowrasteh prende in considerazione un periodo di 41 anni (1975-2015). Durante questi anni, sono stati identificati 154 terroristi nati all’estero (foreign-born terrorist): di questi, solo 40 sono riusciti a portare a compimento i loro propositi, uccidendo in totale 3.024 persone (circa il 98,6% delle vittime – 2.983 – è caduto negli attentati dell’11 settembre). La possibilità per un americano di essere ucciso da un terrorista nato all’estero è stata quindi di 1 ogni 3.609.709 per anno, lo 0,00003% (la possibilità di essere ucciso da un non foreign-born terrorist è stata 252,9 volte più alta). Nello stesso periodo, 1,13 miliardi di stranieri sono entrati negli Stati Uniti: confrontando questo numero con quello degli attentati riusciti, abbiamo un rapporto di 28 milioni di stranieri arrivati negli States per ogni terrorista che sia riuscito a uccidere. Ma scomponendo quest’ultima classe di foreign-born terrorist a seconda del loro titolo di ingresso nel Paese, si scopre che la maggior parte di questi è rappresentata da turisti: 34, in totale (18 di questi erano gli attentatori-dirottatori dell’11 settembre, responsabili del 93,7% del totale delle vittime di foreign-born terrorism). Ciò vuol dire che se proprio si volesse pensare a un bando permanente di una classe di stranieri potenziali terroristi, si dovrebbe guardare non ai rifugiati o agli immigrati irregolari, ma ai turisti! I costi di un “tourism moratorium” sarebbero ovviamente immensi (secondo il World Travel and Tourism Council, solo nel 2014 il turismo internazionale ha prodotto ben 194,1 miliardi di dollari di ricavi negli States). Per giustificare l’impoverimento generale che seguirebbe a un bando al turismo, quest’ultimo dovrebbe essere in grado di evitare almeno 12.940 vittime all’anno (il che vuol dire che il numero di vittime di attentati dovrebbe essere 187,2 volte più alto di quanto lo sia adesso, stimando – come hanno fatto Hahn, Lutter e Viscusi per l’AEI – il valore di una vita umana in 15 milioni di dollari).
Se già questi numeri dovrebbero farci riflettere sulla non fattibilità di bandi all’ingresso di cittadini stranieri come strumento di prevenzione del terrorismo, la situazione si fa ancora più delicata quando si stimano i costi di una moratoria sull’immigrazione tout-court. Secondo le previsioni riportate da Nowrasteh e realizzate da Benjamin Powell della Tech University in Texas, il costo di un bando all’immigrazione sarebbe di 229 miliardi di dollari all’anno. Perché si bilancino costi e benefici della scelta, il bando in esame dovrebbe evitare 15.267 morti ogni anno (il che vuol dire che il numero di vittime di attentati dovrebbe essere 3.294 volte più alto della media di vittime di attentati realizzati da stranieri non foreign-born terrorist).
In sintesi, un qualsiasi bando – sia nei confronti di tutti gli stranieri che nei confronti di qualche classe speciale – produrrebbe costi immensi per benefici troppo piccoli. Nowrasteh ricorda che uno dei compiti essenziali e irrinunciabili del Governo è quello di proteggere la vita dei propri cittadini da minacce e violenze interne ed esterne, ma, al contempo, con il suo studio, dimostra che la chiusura delle frontiere non rappresenta uno strumento utile di prevenzione del terrorismo. E continuare a promuoverla significa non rendere un buon servizio al proprio Paese. Una politica che comporti più costi che benefici, infatti, è da rifiutare, perché i suoi scarsi effetti sono conseguiti al prezzo di distogliere risorse e attenzione da programmi più utili e efficaci. La policy analysis del Cato Institute, anche se concentrata sul particolare caso statunitense, stimola quindi riflessioni importanti anche per il contesto europeo e italiano. La lotta al terrorismo è una delle più grandi sfide del nostro tempo: se viene combattuta, però, a suon di politiche radicali ma inefficaci, elettoralmente vendibili ma infondate, si rischia seriamente di perderla.