22
Gen
2017

Quanto costa chiudere le frontiere?—di Giuseppe Portonera

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Giuseppe Portonera.

Di fronte alla tragedia di un attentato terroristico sul suolo nazionale, la reazione immediata – sia nella società civile che nella classe politica – è quella di chiedere “misure di prevenzione” affinché non accada mai più niente di simile. Una delle proposte più comuni è rappresentata dalla chiusura delle frontiere o, addirittura, da un bando permanente all’immigrazione. Il buon senso – prima ancora che dei basilari rudimenti di analisi economica del diritto – suggerirebbe, però, di valutare con cura quali conseguenze avrebbero simili proposte, anche sul piano della sostenibilità economica per tutta la società. A questo fine torna molto utile una policy analysis del Cato Institute, a firma Alex Nowrasteh, esperto di politiche sull’immigrazione. Si tratta di uno studio molto denso e corposo, che prende in esame la situazione degli Stati Uniti d’America: un Paese in cui, storicamente, il nesso tra economia di mercato e libera circolazione delle persone è sempre stato molto forte.

Lo studio di Nowrasteh prende in considerazione un periodo di 41 anni (1975-2015). Durante questi anni, sono stati identificati 154 terroristi nati all’estero (foreign-born terrorist): di questi, solo 40 sono riusciti a portare a compimento i loro propositi, uccidendo in totale 3.024 persone (circa il 98,6% delle vittime – 2.983 – è caduto negli attentati dell’11 settembre). La possibilità per un americano di essere ucciso da un terrorista nato all’estero è stata quindi di 1 ogni 3.609.709 per anno, lo 0,00003% (la possibilità di essere ucciso da un non foreign-born terrorist è stata 252,9 volte più alta). Nello stesso periodo, 1,13 miliardi di stranieri sono entrati negli Stati Uniti: confrontando questo numero con quello degli attentati riusciti, abbiamo un rapporto di 28 milioni di stranieri arrivati negli States per ogni terrorista che sia riuscito a uccidere. Ma scomponendo quest’ultima classe di foreign-born terrorist a seconda del loro titolo di ingresso nel Paese, si scopre che la maggior parte di questi è rappresentata da turisti: 34, in totale (18 di questi erano gli attentatori-dirottatori dell’11 settembre, responsabili del 93,7% del totale delle vittime di foreign-born terrorism). Ciò vuol dire che se proprio si volesse pensare a un bando permanente di una classe di stranieri potenziali terroristi, si dovrebbe guardare non ai rifugiati o agli immigrati irregolari, ma ai turisti! I costi di un “tourism moratorium” sarebbero ovviamente immensi (secondo il World Travel and Tourism Council, solo nel 2014 il turismo internazionale ha prodotto ben 194,1 miliardi di dollari di ricavi negli States). Per giustificare l’impoverimento generale che seguirebbe a un bando al turismo, quest’ultimo dovrebbe essere in grado di evitare almeno 12.940 vittime all’anno (il che vuol dire che il numero di vittime di attentati dovrebbe essere 187,2 volte più alto di quanto lo sia adesso, stimando – come hanno fatto Hahn, Lutter e Viscusi per l’AEI – il valore di una vita umana in 15 milioni di dollari).

Se già questi numeri dovrebbero farci riflettere sulla non fattibilità di bandi all’ingresso di cittadini stranieri come strumento di prevenzione del terrorismo, la situazione si fa ancora più delicata quando si stimano i costi di una moratoria sull’immigrazione tout-court. Secondo le previsioni riportate da Nowrasteh e realizzate da Benjamin Powell della Tech University in Texas, il costo di un bando all’immigrazione sarebbe di 229 miliardi di dollari all’anno. Perché si bilancino costi e benefici della scelta, il bando in esame dovrebbe evitare 15.267 morti ogni anno (il che vuol dire che il numero di vittime di attentati dovrebbe essere 3.294 volte più alto della media di vittime di attentati realizzati da stranieri non foreign-born terrorist).

In sintesi, un qualsiasi bando – sia nei confronti di tutti gli stranieri che nei confronti di qualche classe speciale – produrrebbe costi immensi per benefici troppo piccoli. Nowrasteh ricorda che uno dei compiti essenziali e irrinunciabili del Governo è quello di proteggere la vita dei propri cittadini da minacce e violenze interne ed esterne, ma, al contempo, con il suo studio, dimostra che la chiusura delle frontiere non rappresenta uno strumento utile di prevenzione del terrorismo. E continuare a promuoverla significa non rendere un buon servizio al proprio Paese. Una politica che comporti più costi che benefici, infatti, è da rifiutare, perché i suoi scarsi effetti sono conseguiti al prezzo di distogliere risorse e attenzione da programmi più utili e efficaci. La policy analysis del Cato Institute, anche se concentrata sul particolare caso statunitense, stimola quindi riflessioni importanti anche per il contesto europeo e italiano. La lotta al terrorismo è una delle più grandi sfide del nostro tempo: se viene combattuta, però, a suon di politiche radicali ma inefficaci, elettoralmente vendibili ma infondate, si rischia seriamente di perderla.

19
Gen
2017

La natura della politica, di Raimondo Cubeddu—di Tommaso Alberini

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Tommaso Alberini.

Raimondo Cubeddu, ordinario di filosofia politica a Pisa, è un amico dell’IBL. Può capitare di incontrarlo ai seminari, agli eventi organizzati in giro per lo stivale o alla cena con annessa premiazione al freedom fighter dell’anno, tenuta ogni autunno a Milano. Il Premio Bruno Leoni 2016 è andato a Deirdre McCloskey, studiosa eclettica munita di cattedra a Chicago, nella stessa città i cui atenei hanno ospitato tanti altri campioni della libertà, da Milton Friedman a Friedrich von Hayek. Read More

12
Gen
2017

Voucher: il dito e la luna

Dei tre referendum abrogativi proposti dalla CGIL, su cui ieri si è espressa, per vagliarne la legittimità, la Corte Costituzionale, i due più rilevanti per il mercato del lavoro nel suo complesso sono certamente quelli sull’articolo 18 (il cui quesito è dichiarato inammissibile, auspicabilmente relegando per sempre il tema ai confini della storia) e sulla responsabilità solidale nei subappalti. Ma il terzo, sui cosiddetti voucher o buoni lavoro, ha un valore simbolico che i primi due non hanno.

La campagna referendaria dei prossimi mesi avrà per oggetto principale, con ogni probabilità, proprio quest’ultimo quesito. Ma la ragione che lo rende interessante non è questa – bensì il suo opposto. Sembrerebbe facile, infatti, identificare con precisione i fronti opposti della battaglia: quello della flessibilità da una parte, e quello delle tutele dall’altra. Il problema è che la partita che giocano è un’amichevole di mezza estate, perché il sempre più massiccio utilizzo dei voucher (più che raddoppiato negli ultimi dieci anni) è soltanto una spia di un problema molto più grande che affligge il nostro mercato del lavoro: e cioè che metà dello stipendio di ciascun lavoratore del settore privato è depredata dallo Stato e, ancor peggio, da sue articolazioni di matrice fascista. E se la metà dello stipendio di ciascun lavoratore finisce nelle mani dello Stato e delle sue articolazioni di matrice fascista, come possiamo sorprenderci se le imprese non assumono e ricorrono ai voucher?

Ma questo problema, nel referendum della prossima primavera e nella campagna che lo precederà, non troverà spazio. E, badate bene, la colpa non è solo della CGIL, ma soprattutto di chi negli ultimi anni ha destinato ogni sforzo politico, normativo ed economico alla flessibilizzazione dei contratti di lavoro senza intervenire sul cuneo fiscale (aumentato del 4% negli ultimi dieci anni), così offrendo ottimi argomenti a chi di argomenti non ne aveva proprio più, come la CGIL, per opporsi al Jobs Act facendo leva sui numeri, disastrosi, del mercato del lavoro negli anni della crisi. Se la surreale, anacronistica discussione sull’articolo 18 si è protratta sino ad oggi, insomma, la colpa è pertanto anche di quelle stesse forze politiche che, al referendum della prossima primavera, difenderanno i voucher.

Queste ultime, per inciso, hanno perfettamente ragione ad opporsi all’abrogazione dei buoni lavoro, per ragioni morali ancor prima che economiche. L’auspicio è che il giorno in cui costoro e i loro avversari capiranno che il problema principale del mercato del lavoro è che oggi ciascun posto di lavoro nel settore privato ne costa alle aziende uno e mezzo arrivi prima che quel posto ne costi due; di cui il secondo, magari, utile a pagare lo stipendio a ciascuna delle 900 persone che l’INPS intende assumere nel 2017.

Twitter: @glmannheimer

10
Gen
2017

Rai. Piccola rivoluzione in vista?—di Luca Minola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Luca Minola.

Dopo le dimissioni del direttore editoriale della Rai Carlo Verdelli, il consigliere Arturo Diaconale ha presentato al Cda una proposta per la riorganizzazione della Rai che prevede, sul piano di bilancio, l’eliminazione della pubblicità e la copertura delle entrate attraverso il ritorno del costo del canone al livello preesistente.

L’Istituto Bruno Leoni, dopo il trasferimento del canone in bolletta, aveva già proposto di «riallineare la RAI alla sua precipua funzione di concessionario di servizio pubblico, eliminando la presenza della pubblicità nelle trasmissioni della televisione pubblica e annullando, peraltro, ogni effetto distorsivo della concorrenza nei confronti delle emittenti private».

Secondo Silvio Boccalatte, autore del focus dedicato a una RAI senza pubblicità (o quasi), già solo dal maggior gettito atteso dalla modifica di riscossione del canone, la raccolta pubblicitaria potrebbe ridursi di un terzo. Se davvero lo si volesse, inoltre, l’autore dimostra nel dettaglio come da una riorganizzazione e riduzione di alcune voci di spesa si possa giungere ad eliminare la pubblicità dalla Rai. Se solo lo si volesse. E il fatto che una proposta simile giunga ora da uno dei consiglieri della Rai non può che essere colto come un segno in tale direzione.

9
Gen
2017

Voucher: la maxicontraddizione CGIL ridicolizza il suo referendum

Molte autorevoli opinioni di giuristi e osservatori sono state espresse sul tema dell’accoglibilità dei 3 quesiti referendari in materia di lavoro avanzati dalla CGIL. Vedremo come la Corte Costituzionale si pronuncerà mercoledì prossimo. Ovviamente, grande rispetto per le decisioni che assumerà la Consulta. Ma sulla natura “manipolativa” del quesito sull’articolo 18, che propone di tornare alla vecchia disciplina non nelle aziende oltre i 15 dipendenti com’era prima del Jobs Act, bensì “creativamente” estendendo i vecchi vincoli sopra i 5 dipendenti, come sui problemi di vuoto legislativo risultante dai quesiti sull’abrogazione dei voucher e nella disciplina del lavoro negli appalti, sembra ragionevole sostenere che non si tratti di argomenti capziosi e infondati.

Ma a tutto ciò si è aggiunto ora un punto di sostanza. Grave e rilevante. L’evidenza documentata dell’utilizzo dei voucher da parte di organizzazioni territoriali e di settore della stessa CGIL che propone di abrogarli.  Poi la comunicazione interna della CGIL alle proprie federazioni, invitandole a minimizzare, a non alimentare polemiche, a tenere il più possibile “bassa” sui media la manifesta e gigantesca contraddizione in cui sono stati beccati coloro che descrivono il voucher come strumento che maschera in maniera di comodo lavoro nero. Quando proprio la SPI-Pensionati della CGIL dell’Emilia Romagna ha dichiarato ai media che “non c’era alternativa all’utilizzo dei voucher, altrimenti avremmo dovuto pagare in nero”. Infine, le dichiarazioni della leader CGIL Susanna Camusso. Che ha ammesso l’uso dei voucher ma solo in maniera limitata ed episodica,  aggiungendo che del resto il referendum anti voucher sarebbe volto a una ridiscussione generale sulla precarietà del lavoro, non alla loro abrogazione tout court.

E’ evidente che questi tre fatti investono frontalmente la credibilità del referendum.  Delle due l’una: se è la federazione pensionati della CGIL (per altro, la più numerosa in quanto a iscritti) a riconoscere che per il lavoro accessorio di pensionati iscritti usare il voucher è la vera e unica alternativa al lavoro nero, ebbene quella è esattamente la ragione per cui lo strumento è stato introdotto nel nostro ordinamento. Mentre nel frattempo sparivano i contratti a collaborazione continuata e quelli a progetto.

Secondo: dispiace rilevarlo ma la Camusso, nel tentativo di giustificare la CGIL e insieme di tenere in piedi il referendum, dice l’esatto opposto di quanto sinora ripetuto da chi ha proposto il referendum.  Non vogliamo discutere di cambiamenti del voucher ma vogliamo abolirlo, è il mantra ribadito ogni giorno dalla Cgil e da chi si riconosce nella sua iniziativa. Mentre, al contrario, tanto da parte del governo che di molti osservatori ed esperti di mercato del lavoro è venuta la piena disponibilità a un intervento , dati alla mano, volto a correggere e inibire eventuali abusi del voucher. Quando diciamo dati alla mano intendiamo che finora sono gli stessi elementi di fatto – ancora troppo parziali – elaborati dall’INPS a mostrare che per due terzi degli utlizzatori si tratta esattamente, come nelle aspettative, di pensionati, disoccupati, o di doppio lavoro minimale. Mentre da chiarire è l’uso del voucher in aziende industriali, aziende pubbliche, e in settori come le costruzioni. Ma per fare questo serve un accorto intervento legislativo tarato con attenzione sulla realtà accertata dei fatti, non campagne ideologiche. Campagne ideologiche per di più brutalmente  affossate dall’uso, e dalla giustificazione dell’uso dei voucher, emersi oggi nella stessa CGIL.

Certo, sono contraddizioni e argomenti politici, non di diritto costituzionale. Ma diciamolo. I referendum sul lavoro su cui la Corte decide l’11 gennaio sono uno dei tre fondamentali pilastri politici sui quali si gioca la legislatura, insieme alla pronunzia della Corte stessa sull’Italicum, e alla conseguente determinazione che i partiti assumeranno sul fatto di votare presto con una legge nuova da concordare in poche settimane, oppure di prendere altro tempo.

I referendum sul lavoro sarebbero inevitabilmente una spinta potente per alcuni a tenere le elezioni al più presto, magari a costo di una nuova legge elettorale non ottimale, mentre  per altri costituirebbero un’ottima ragione per negarsi a qualunque convergenza parlamentare sulla necessitò di una legge elettorale in tempi rapidi.

La Cgil ha sempre detto ufficialmente che il suo obiettivo non era quello di affossare governi e orientare legislature, ma di battersi per un’idea diversa di mercato del lavoro. Sta di fatto che essere prima pubblicamente smascherata come utilizzatrice di ciò che indica come il male, per poi  minimizzare e sostenere altro da ciò che ha sinora detto, la rende purtroppo simile al peggio talora espresso dai partiti. Lo dico senza alcuna soddisfazione. Per una moderna cultura del lavoro, l’Italia ha bisogno certo anche delle più diverse posizioni culturali, politiche e sindacali. Ma questi mezzucci aggiungono solo polvere e caos alla già troppo elevata confusione italiana. Davvero non ce n’era e non ce n’è alcun bisogno.

9
Gen
2017

Il caso Apple-Irlanda tra politica e diritto

Con il deposito dei ricorsi contro la decisione della Direzione Generale per la Concorrenza sugli aiuti (fiscali) di stato, il triangolo Commissione-Apple-Irlanda è entrato nel vivo. Nonostante le evidenti incongruenze in essa contenute, solo poche voci isolate avevano manifestato perplessità – al momento dell’annuncio – sulla ricostruzione promossa dal commissario Vestager. Da un lato, l’accoglienza largamente entusiastica riservata al provvedimento rivelava la temperatura ideologica del dibattito europeo sul diritto tributario internazionale; dall’altro, però, l’entusiasmo prevalente si poteva spiegare con la scarsità delle informazioni disponibili sulle pratiche al centro del caso, scarsità che rafforzava ipso facto la credibilità degli addebiti. Le argomentazioni presentate dai ricorrenti – e in special modo dal governo di Dublino – permettono di cominciare a superare quest’asimmetria, prospettando un diverso inquadramento degli accordi contestati.

In primo luogo, l’esecutivo irlandese respinge l’opinione che gli accordi intervenuti tra l’amministrazione finanziaria e Apple abbiano conferito all’azienda californiana un vantaggio selettivo, requisito cruciale per l’identificazione di un aiuto di stato. Più nello specifico, i ruling del 1991 e del 2007 si sono limitati a ribadire quanto previsto dalla disciplina ordinaria per le filiali irlandesi di aziende non fiscalmente residenti, che limita la pretesa dello stato ai profitti effettivamente generati nel paese. Inoltre, i ricorrenti sostengono che la Commissione abbia frainteso il ruolo e la struttura di ASI e AOE, le due controllate del gruppo Apple che avrebbero beneficiato – secondo gli uffici di Bruxelles – del preteso regime preferenziale. Non solo appare del tutto fuorviante l’affermazione secondo la quale i due soggetti sarebbero poco più che scatole vuote, una constatazione basata su una lettura formalistica e inaccoglibile del rapporto di lavoro, ma soprattutto appare evidente che le principali funzioni di ASI e AOE fossero esercitate dagli Stati Uniti, dove veniva prodotta anche la proprietà intellettuale che ne costituiva la principale fonte di ricchezza. Il che porta alla principale aporia presente nell’analisi della Commissione: le imposte eventualmente non versate in Irlanda, sarebbero in ogni caso di competenza statunitense, e non certo riferibili agli altri mercati europei in cui Apple opera – si tratta, a ben vedere, di una forma di differimento della tassazione, un punto ottimamente argomentato da Stefano Morri e Stefano Guarino in un recente contributo per il Bollettino Tributario.

A queste lagnanze sostanziali, l’Irlanda affianca una serie di obiezioni formali, peraltro di notevole rilevanza sul piano della tenuta dell’edificio comunitario, dato che invocano temi come la certezza del diritto, la sovranità fiscale, la suddivisione delle competenze tra i paesi membri e l’Unione. Dopo una prima fase in cui al caso Apple-Irlanda è stata data una lettura tutta politica – lettura incoraggiata dalle misure draconiane della Commissione, se è vero che i 13 miliardi contabilizzati rappresentano di gran lunga la maggior somma mai recuperata in una procedura per aiuti di stato – è auspicabile che i nuovi argomenti proposti dai ricorrenti permettano di traslare la partita sul piano del diritto, quel congegno misterioso a cui alcuni nostalgici si ostinano a riconoscere ancora la primazia sui volubili umori della classe dirigente.

@masstrovato

7
Gen
2017

La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni: i piani anti-bufale e il Ministero della Verità—di Tomaso Invernizzi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Tomaso Invernizzi.

Qualunque persona con un minimo di cognizione scientifica può dirsi preoccupata della diffusione sul web di notizie false, credenze erronee, superstizioni. Ma istituire un’Autorità pubblica di controllo atta ad eliminare dalla rete le cosiddette “bufale” appare un rimedio preoccupante e pericoloso. Il presidente dell’Antitrust Pitruzzella ha auspicato l’istituzione di un’Autorità di controllo europea, incaricata di intervenire per rimuovere eventuali “bufale” dalla rete. A suo dire, non basta affidarsi all’autoregolamentazione da parte dei social network, ma è opportuno l’intervento pubblico. Anche la presidentessa della Camera dei deputati Laura Boldrini, indicando quella delle “bufale” come un’emergenza mondiale, ha sottolineato come il tema debba essere posto all’attenzione del legislatore. Ora, tutto ciò ricorda da vicino il Ministero della Verità, il Miniver, di orwelliana memoria, dove lavorava il protagonista del famoso romanzo “1984”. Egli doveva correggere le “bufale” dei giornali. I quotidiani vecchi dovevano essere corretti e ristampati in modo da far prevedere al Grande Fratello quello che poi era accaduto: “il Ministero dell’Abbondanza aveva promesso che nel corso del 1984 non ci sarebbe stata alcuna riduzione del razionamento del cioccolato. In realtà, come Winston sapeva bene, per la fine della settimana la razione di cioccolato sarebbe stata ridotta da trenta a venti grammi: bastava sostituire alla promessa originaria l’avvertenza che forse per il mese di aprile si sarebbe dovuti ricorrere a una riduzione della razione di cioccolato”. Introdurre un’autorità pubblica anti-bufale significa introdurre un’autorità governativa statale o superstatale di controllo della verità. Read More

1
Gen
2017

Cinque (anzi sei) biglietti d’auguri per il nuovo anno per gli italiani liberi e forti.

Auguri ai giovani laureati italiani; perché possano almeno partecipare ad un concorso pubblico per essere assunti all’interno della pubblica amministrazione italiana e non si vedano sbarrata la strada dalle migliaia di precari che da decenni prestano servizio per lo Stato, le regioni e gli enti locali, e che la politica vorrebbe adesso stabilizzare (vedi Sicilia e non solo) senza dare la possibilità agli altri cittadini quantomeno di cimentarsi nella verifica delle migliori attitudini e qualità per lo svolgimento di un impiego pubblico.
Auguri alle imprese e agli individui che vorrebbero partecipare ad una gara pubblica per l’aggiudicazione delle concessioni per la gestione degli stabilimenti balneari; perché possano quantomeno proporre progetti, idee, e investimenti e concorrere insieme a tutti coloro che vorrebbero provarci, compresi gli attuali gestori che da decenni beneficiano (senza mai avere partecipato ad un gara) di una rendita di posizione di cui nessuna autorità chiede conto e ragione (quanti investimenti fatti, quanto la redditività, quale la qualità del servizio).
Auguri a Uber e ai suoi dipendenti; perché possano finalmente operare in piena libertà e a parità di condizioni fiscali con i tassisti che invece da decenni non innovano, non permettono al cliente di scegliere la vettura che più gli aggrada, non competono sulle tariffe e tengono in ostaggio un intero Paese ogni qualvolta lo Stato tenta di scalfire un’inammissibile rendita di posizione.
Auguri a tutti coloro che gestiscono un bed&brekfast; perché possano continuare a fornire servizi di qualità a prezzi competitivi resistendo alle pressioni lobbistiche degli albergatori che vorrebbero limitarne l’attività con la forza della legge statale (regionale) perché incapaci di innovare, tenere il passo dei tempi e competere sulle tariffe grazie ad una migliore efficienza e organizzazione.
Auguri ai titolari di parafarmacie; perché possano finalmente vendere anche loro i farmaci di fascia C dietro prescrizione medica, considerato che posseggono lo stesso titolo di studio e la medesima abilitazione dei titolari di farmacie che in regime di contingentamento usufruiscono anch’essi di una ingiustificabile rendita di posizione.

Auguri ai consumatori italiani; perché possano usufruire dei benefici che la concorrenza e le liberalizzazioni generano sui prezzi e sulla qualità di centinaia di beni e servizi.
@roccotodero

1
Gen
2017

Consigli di lettura per il 2017 / Parte seconda

La seconda e ultima parte delle nostre proposte per il 2017. Buon anno e buone letture!

Allan Bloom, La chiusura della mente americana (Torino, Lindau, 2009 [1987], €24,50)
In questo libro Allan Bloom traccia un quadro preoccupante dello stato delle università americane alla fine degli anni ’80. Secondo Bloom, la politicizzazione degli studi letterali e della produzione culturale ha determinato un forte impoverimento della capacità delle università e dei professori di trasmettere quell’amore per la conoscenza libera e disinteressata tanto essenziale per difendere e preservare i capisaldi del libero pensiero e quindi in ultima analisi di una società libera.
– Nicolò Bragazza (Fellow IBL)

Russ Roberts, Come Adam Smith può cambiarvi la vita. Una guida inattesa alla natura umana e alla felicità (Torino, Add editore, 2016 [2014], €15)
I “classici” – si dice – sono libri senza tempo, che parlano al lettore in termini sempre attuali. Adam Smith ne scrisse due, il più conosciuto è la Ricchezza delle nazioni (1776), l’altro la Teoria dei sentimenti morali (1759). Ma i “classici” sono anche libri che vengono più citati che letti, mattoni di centinaia e centinaia di pagine, scritti con un linguaggio che, invece, di attuale ha molto poco. Accostarsi a questi testi richiede un certo sforzo, ma il più delle volte si viene ampiamente ripagati del sacrificio iniziale. Così è stato per Russ Roberts, research fellow presso la Hoover Institution e grande divulgatore in ambito economico con il suo podcast settimanale EconTalk, che dopo avere tenuto per trent’anni nella propria libreria una copia della Teoria dei sentimenti morali senza mai aprirla, un giorno si è deciso finalmente a farlo: «A un terzo della lettura, il libro mi aveva definitivamente conquistato. Lo portavo alle partite di calcio di mia figlia e lo leggevo durante l’intervallo o quando lei non era in campo. Lo leggevo ad alta voce a mia moglie e ai miei figli a tavola, sperando che si interessassero alle idee di Smith su come come relazionarsi con gli altri. I margini delle pagine si riempivano man mano di asterischi e punti esclamativi che indicavano passaggi che mi avevano colpito. Terminata la lettura, avrei voluto gridare ai quattro venti: “È un libro meraviglioso, un tesoro nascosto, dovete leggerlo tutti!». La lettura del testo di Smith fu a tal punto sconvolgente da portarlo a scriverci un pamphlet: Come Adam Smith può cambiarvi la vita. Una guida inattesa alla natura umana e alla felicità. Questo saggio di Roberts ci spiega proprio l’attualità della Teoria dei sentimenti morali e come la visione della natura umana di Smith sia valida ancora oggi, come possa insegnarci a conoscere meglio noi stessi e la società in cui viviamo oppure come possa – addirittura! – aiutarci a rendere il mondo un posto migliore (ma anche, meno ambiziosamente, come possa farci capire perché siamo così attaccati al nostro telefono o perché – incredibile a dirsi – in certi Paesi la gente ami i propri politici).
p.s. se a differenza di Roberts proprio non ce la fate ad aprire la vostra copia della Ricchezza delle nazioni o della Teoria dei sentimenti morali, una via più semplice e rapida per accostarsi a questi volumi è la lettura di La ricchezza delle nazioni in pillole, con un distillato della Teoria dei sentimenti morali di Eamonn Butler. Se poi volete proseguire le vostre letture smithiane, oltre al libro di Russ Roberts segnalo anche il bellissimo saggio di Ronald Coase “La visione dell’uomo di Adam Smith” contenuto in Sull’economia e gli economisti.
– Filippo Cavazzoni (Direttore editoriale IBL)

Pietrangelo Buttafuoco (a cura di), Il mio Leo Longanesi (Milano, Longanesi, 2016, €18,60)
L’approssimarsi del sessantesimo anniversario della scomparsa di Leo Longanesi offre lo spunto non soltanto per ricordare una singolare figura di intellettuale, ma anche per svolgere alcune amare considerazioni sulla borghesia italiana. Longanesi è stato forse uno dei maggiori fustigatori di questa particolare categoria umana, cui pure orgogliosamente apparteneva e alla quale preferibilmente si rivolgeva. Come ben si evince dalla piacevole lettura dell’antologia dei suoi scritti recentemente curata da Pietrangelo Buttafuoco per celebrare i settanta anni di attività dell’omonima casa editrice milanese, il fondatore de “Il Borghese” non ha mancato di contestare i vizi della borghesia nostrana anche quando voleva esaltarne le virtù. In particolare, lo si comprende scorrendo il capitolo efficacemente intitolato “Italietta”, a suscitare le invettive di Longanesi è l’attitudine clientelare spesso oggi ancora presente in quello che dovrebbe rappresentare il ceto produttivo del Belpaese. La borghesia italiana, anziché impegnata a competere nel mercato per incrementare legittimamente i propri affari, gli sembra piuttosto intenta a guadagnarsi i favori di chi pare in grado di assicurarle protezione. «Non gli occorre una tecnica particolare per tessere stoffa, per fondere ghisa o per stampare una casseruola; gli occorrono, invece, molti, moltissimi amici a Roma: amici questori, amici ammiragli, amici generali, amici giornalisti, amici avvocati, amici banchieri, amici onorevoli, amici di amici di amici. Perché è l’amicizia, è la confidenza che, in Italia, tesse le stoffe, fonde i metalli e stampa la latta; è l’unione di più influenze, il fascio di più amicizie, l’accordo di più interessi che crea quella forza che piega la legge, che corrompe i costumi, che spezza la concorrenza: è la “pastetta”, la sola, la vera, la grande capacità tecnica che domina il mercato». Difficile dargli torto.
– Luigi Ceffalo (Fellow IBL), @LuigiCeffalo

Mervyn King, The End of Alchemy: Money, Banking, and the Future of the Global Economy (New York, W. W. Norton & Company, 2016, $28.95)
Viste le amene condizioni in cui versano MPS e un certo rilevante numero di banche italiane a tanti anni dal 2008 e dal 2011, suggerisco questo libro che ho trovato molto onesto. Tra i banchieri centrali che erano al timone nella grande crisi, il barone di Lothbury ha il merito di tentare un’autocritica vera. A differenza di Ben Bernanke, che nel suo The Courage to ACT uscito nel 2015 ha più che altro consegnato ai posteri un’autodifesa esplicativa di quanto la “sua” FED ha fatto dopo Lehman, l’ex timoniere di Bank of England nelle sue oltre 400 pagine non evita l’ammissione di errori. E fa anche di più, da quegli errori tenta di far discendere una visione diversa di quel che dovrebbe essere la banca centrale, una visione che al lettore liberista austriaco non può che sembrare molto meno pericolosa del Moloch Onnipotente assiso oggi in trono, grazie alle sue politiche non ortodosse e a un QE sempre più esteso e con effetti sempre più distorcenti, negli USA e in UE come in Giappone. King riserva critiche radicali al QE e alla sovraregolamentazione di ogni minuzia del credito, destinata inevitabilmente però a dover essere interpretata caso per caso dalle autorità di vigilanza – buon profeta, viste le reazioni in corso in Italia sul caso MPS, sembra quasi che siano state la UE e la vigilanza BCE a metterla a tappeto – con effetti di accresciuta incertezza e discrezionalità. Scrive ottime pagine sull’inevitabile crisi sempre più esplosiva della sovranazionalità di organi tecnici UE, rispetto a mercati di beni, servizi e consenso politico che restano invece rigorosamente separati e nazionali. Uno dei pochi a non essere colto impreparato dal voto su Brexit, King, visto che il suo libro è stato scritto prima. Qui non c’è spazio per diffondersi sulla sua abbozzata teoria della banca centrale come semplice pawnbroker, assicuratore di liquidità a breve in cambio di pegni, ma con coefficienti di capitale rispetto agli asset delle banche molto più elevati degli attuali (che già ispirano la rivolta di banchieri e azionisti italiani). E per il resto senza superpoteri che servono solo a far credere ai politici di far più debito e deficit senza rischi, non nel breve di fronte a crisi di sistema, ma per sempre. Anche se è uscito nel marzo 2016, per tutto questo vale davvero la pena di leggere il libro di King.
– Oscar Giannino (Senior Fellow IBL), @OGiannino

Ida Magli, Contro l’Europa (Milano, Bompiani, 1997, €8,50) e Omaggio agli italiani. Una storia per tradimenti (Milano, Rizzoli, 2005, €10) 
Ida Magli si è spenta a Roma il 21 febbraio di quest’anno. Il suo pensiero era scomodo, indigesto, duro, scandaloso, spigoloso, inquietante. Leggerla significa accettare la sfida della sua coltissima provocazione, lo sgomento indotto dalle sua lucidissima logica argomentativa, la sconvolgente sorpresa di un pensiero nuovo, altro, rispetto al mainstream del pensiero omologato, e appassionato, lontano anni luce dalla conveniente pacatezza dell’establishment politico e culturale nostrano. Mai facili né rassicuranti ricette, mai accomodante: nei suoi scritti voleva semplicemente adempiere al dovere di un antropologo, cioè raccogliere, descrivere, testimoniare la civiltà che ha conosciuto. Lettura utile per mettere alla prova il senso del nostro europeismo è Contro l’Europa, nel quale denuncia la perdita delle sovranità nazionali, di libertà e democrazia, in una battaglia che è stata, innanzitutto, di richiesta di confronto e dibattito su un tema epocale per noi cittadini e che l’ha vista sola, isolata ed inascoltata. Ma le sue analisi e le sue riflessioni rappresentano oggi, ci piaccia o no, la sostanza profonda della crisi dell’Unione Europea. Preannunciò lo scontro mortale con il mondo islamico, quando all’epoca quasi nessuno sapeva bene cosa fosse al Qaeda e l’attentato alle Torri Gemelle era inimmaginabile; segnalò il pericolo della presenza musulmana in Europa e la necessità di difendere i diritti di libertà faticosamente costruiti in Occidente. Fu tacciata di arretratezza culturale, di chiusura mentale, di razzismo: anche in quel caso richiedeva, innanzitutto, discussione, ragionamento ed informazione, ma non trovò che silenzio, del quale oggi, assai amaramente, scontiamo gli effetti . In Omaggio agli italiani, Ida Magli combatte chi vuole eliminare per sempre le differenze tra i popoli e tra gli individui, “perché solo dalla competizione tra uomini e popoli prosperano le civiltà”. Denuncia che nessun popolo come quello italiano è stato tradito dai suoi governanti in maniera così metodica ed ossessiva, ma ci lascia un messaggio di speranza: “Questa è la grandezza degli Italiani. Aver continuato a pensare sempre, a creare sempre, perché soltanto l’intelligenza sa di essere libera, quali che siano le coercizioni esteriori. Sa che la grandezza dell’Uomo è nel pensiero, e sa che c’è sempre almeno un altro uomo che lo afferra e lo trasmette.”
– Gemma Mantovani (Collaboratrice Leoni Blog)

Frédéric Bastiat, Sofismi economici (Carnago VA, Libreria San Giorgio, 2013 [1845-46], €22)
Può un libro di centosettantadue anni fa essere attualissimo? La globalizzazione è sempre più nel mirino. E’ nel mirino dei populisti, agli occhi dei quali lo scambio internazionale ha l’unica conseguenza di impoverire i produttori dei paesi ricchi. Ma sono pronti ad attaccarla anche gli esponenti del cosiddetto establishment, ben felici di prometterne una “migliore governance” pur di sembrare impegnati a dar risposte agli elettori degli altri. Nelle recenti elezioni americane, lo scambio internazionale non se l’è cavata bene né da una parte né dall’altra: al nazionalismo economico “hard” di Trump, Hillary rispondeva col suo nazionalismo economico “soft”. I Sofismi economici di Frédéric Bastiat, disponibili in una recente, nuova edizione italiana curata da Michele Liati per la Libreria San Giorgio, sono anche per questo di grande attualità. Bastiat smonta gli argomenti dei protezionisti con lucidità e ironia. Lo scambio internazionale beneficia chi ha abbondanti risorse naturali da offrire? La competizione fa bene, sì, ma solo se le condizioni iniziali tra i concorrenti sono di parità? Siccome le imposte nel nostro Paese sono alte e strangolano le imprese, è opportuno imporre un dazio sulle merci che provengono da giurisdizioni meno fiscalmente esose perché la gara concorrenziale sia “fair”? Aprire le dogane significa che verremmo “inondati” di merci straniere? L’autosufficienza produttiva, perlomeno in materia d’energia e di agricoltura, non è necessaria nel caso sfortunato scoppi una guerra? Bastiat ha la risposta per ognuna delle obiezioni al libero scambio, sia quelle che sentite al bar, sia quelle che vi capita di ascoltare in un’aula universitaria. E’ una risposta saggia, brillante, piena di simpatia per il suo prossimo. Egli prende le parti degli “sfortunati consumatori” che contano nulla nel balletto degli interessi e spesso anche in quello delle opinioni. Bastiat è stato spesso considerato alla stregua di un giornalista economico e poc’altro: un blogger dei suoi tempi. Ma la grandezza di Bastiat, uomo, scrisse Francesco Ferrara, “che se ha polmoni ristretti, ha l’anima immensa”, è evidente a chiunque l’incontri senza pregiudizi, con la mente aperta. Henry Hazlitt conclude l’introduzione all’edizione americana dei Sofismi sospirando che “avremmo bisogno di qualche Bastiat in più oggi. In realtà, ne avremmo immensamente bisogno”. Figurarsi noi, in Italia, oggi.
– Alberto Mingardi (Direttore generale IBL), @amingardi

Nicola Porro, La disuguaglianza fa bene. Manuale di sopravvivenza per un liberista (Milano, La Nave di Teseo, 2016, €16,50)
Nei discorsi dei nostri intellettuali, dei nostri accademici, dei nostri politici, la disuguaglianza è a prova di gravità: essa va sempre e solo verso l’alto. E ciò influenza profondamente la comune percezione della realtà: se la vulgata è una sola (“la disuguaglianza è aumentata”), anche il pensiero sarà unico. In un clima così avverso, non può quindi che suscitare grande ammirazione il coraggio di Nicola Porro, il quale ha affrontato di petto il tema in esame, scrivendo un libro il cui titolo, da solo, varrebbe il suo acquisto: “La disuguaglianza fa bene”. Il libro di Porro si propone di essere un «manuale di sopravvivenza per un liberista», ma secondo me è qualcosa di più e di diverso. Esso non si rivolge soltanto a chi conosce già Hayek, Mises, Popper, Tocqueville etc etc: esso si propone, in prima battuta, a coloro i quali del liberalismo non hanno mai sentito parlare, se non nelle ridicole caricature dei vari Fusaro, Piketty, Varoufakis (in rigoroso ordine alfabetico)… E lo fa essendo esso stesso una piccola e compatta biblioteca: il libro presenta, infatti, una squisita carrellata delle opere dei maggiori intellettuali liberali, liberisti e libertari di tutto il mondo. Economisti, filosofi, storici, romanzieri: ce n’è per tutti i gusti, per scoprire che – sorpresa! – «anche la destra, individualista e liberale, legge». “La disuguaglianza fa bene” contiene però anche un monito centrale per i già liberali: quello di “svegliarsi”. C’è bisogno, infatti, di uno sfrontato e provocatore coraggio: lo stesso che ha avuto Porro nel ricordare che negli ultimi cinquant’anni siamo diventati tutti più ricchi e se il prezzo per questo da pagare è l’aumento (preteso) della disuguaglianza, allora “viva la disuguaglianza!”. Come mirabilmente ripete Deirdre McCloskey, è la crescita economica, non la forzata uguaglianza, a salvare i poveri. I liberali hanno la fortuna di avere dalla propria un incredibile arsenale intellettuale e un metodo – quello dell’individualismo metodologico – che consente di affrontare nel modo più efficace possibile i problemi del nostro tempo. Cosa fare dunque? Comprare, leggere e diffondere il libro di Porro è un buon inizio. Questo perché ci aiuta a utilizzare bene l’eredità dei classici del liberalismo mondiale e addirittura a riscoprirla, laddove necessario (si pensi al Manzoni economista). Solo così saremo in grado di «difendere l’indifendibile» [Block] e di vincere la battaglia delle idee. E solo così saremo in grado di prepararci per altre e ardue prove. A partire da quella elettorale.
– Giuseppe Portonera (Intern IBL), @GiuseppePortos

M.Scott Peck, The Road Less Traveled, 25th Anniversary Edition: A New Psychology of Love, Traditional Values, and Spiritual Growth (New York, Simon & Schuster, 2003 [1978], $28)
Oltre a numerosissime intuizioni, questo libro mi ha colpito per una riflessione su quanto l’amore sia un elemento completamente trascurato da coloro che studiano l’azione umana. Forse voi vi chiederete: cosa c’entra l’amore con la libertà o ancora di più con l’economia – temi a cui sono dedicate queste colonne? Uno dei motivi è che “le risposte a molte domande economiche dipendono in ultima analisi dalla nostra comprensione della natura umana” per citare ciò che scrive Enrico Colombatto in un libro che parimenti consiglio. Per capire l’economia bisogna capire l’uomo, in tutte le sue sfaccettature. Ma la vera scoperta che si può fare leggendo questo libro è che la libertà e la responsabilità sono due facce della stessa medaglia. Lo psichiatra Peck scrive: «in attempting to avoid the pain of responsibility, millions and even billions daily attempt to escape from freedom». Che questo atteggiamento interiore si rispecchi in un’economia fondamentalmente immatura, composta di individui bambini e di Stati-padri, penso sia un fatto evidente a molti. Scott Peck guida i lettori in una riflessione sul significato di una vita libera e responsabile: pur avendo venduto oltre sette milioni di copie con questo libro, questa strada resta sempre la meno percorsa.
– Emilio Rocca (Fellow IBL), @emilrocca

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