21
Apr
2017

Il referendum Alitalia mostra i guai dei sindacati. E M5S prova a cavalcarlo

Ieri sono cominciate le operazioni di voto, e continueranno fino al 24 aprile. Il referendum tra tutti i lavoratori Alitalia sottopone al loro diretto giudizio l’intesa di ristrutturazione che Cisl, Uil e Cgil hanno sottoscritto, raggiungendo una forte riduzione degli esuberi proposti inizialmente, e una addirittura fortissima riduzione dei tagli salariali che l’azienda aveva richiesto, visto che si è scesi all’8% da un ordine di grandezza che arrivava fino al 30%.

Il motivo per cui si tiene questo referendum è presto detto. Sono stati in primis i soci italiani della compagnia, a partire dalle due grandi banche Unicredit e Intesa su cui grava il più del precedente come del nuovo sforzo finanziario, a chiedere che se si voleva ricapitalizzare la società allora l’accordo di ristrutturazione doveva essere pienamente esigibile. In un’azienda a fortissima dispersione di rappresentanza ,con una lunga tradizione di sindacatini ad hoc per questo o quel segmento del personale di terra o di volo, e con forti flussi di trasmigrazione tra le sigle sindacali come oggi documentato dal Messaggero, le banche non intendono ritrovarsi nella condizione, tante volte ripetutasi in Alitalia, di nuovi roventi conflitti una volta sottoscritto l’accordo. La ricapitalizzazione di 2 miliardi di cui 900 milioni di finanza fresca, secondo le cifre ribadite ieri da Luigi Gubitosi, sin dall’inizio aveva questa precondizione necessaria: le firme sindacali da sole non bastano, bisogna contare i lavoratori e avere la controprova manifesta del loro sì.

Considerando i ripetuti disastri di Alitalia nella storia, è una richiesta fondata.  E ieri l’ad di Unicredit Mustier l’ha ricordato scandendo la cifra: “come banca abbiamo perso 500 milioni in Alitalia nei soli ultimi tre anni: troppi e ora basta”. Le tre confederazioni nazionali sindacali sapevano di non avere alternativa, e chiedono un sì in assenza del quale l’azienda porterebbe i libri in tribunale. Vedremo quale sarà il risultato finale. E se davvero lo Stato vorrà comunque tornare a impegnare in Alitalia una sua società per offrire garanzia pubblica alla ricapitalizzazione: cosa che sarebbe assolutamente da evitare: non solo per scongiurare ovvie accuse di aiuti di Stato che potrebbero fioccare da parte di compagnie concorrenti, quanto perché il ritorno in pista dello Stato ingenererebbe inevitabilmente tra sindacati e azionisti l’idea che, se fallisse anche questo ennesimo piano, sarebbe la mano pubblica a doversene accollare gli oneri. Ergo maggiore attenzione andrebbe invece prestata a un piano i cui obiettivi, francamente, non appaiono per nulla a portata di mano: ma analisi dati alla mano come questa dell’ottimo Andrea Giuricin purtroppo scarseggiano, nel dibattito pubblico.

Con il referendum affiora tuttavia una grande questione, al di là dei destini di Alitalia. Al voto diretto dei lavoratori, in questi anni, si va sempre più spesso su intese di radicale ristrutturazione, o su contratti in deroga rispetto a quelli nazionali. Sono ipotesi molto diverse da quella prevista all’articolo 21 nel vecchio Statuto dei lavoratori, cioè da referendum di iniziativa sindacale che non impegnavano le confederazioni al loro esito. E distinte anche dalle ipotesi introdotte dagli accordi interconfederali firmati nel 2011 e poi ancora nel 2013 tra le grandi confederazioni sindacali e le associazioni datoriali: referendum vincolanti ma su rinnovi contrattuali rispetto ai quali una delle grandi confederazioni non fosse stata d’accordo.

Quelle ipotesi di referendum nascono per legge o per intesa tra le parti al fine di tutelare il dissenso tra grandi sindacati.  In Fiat, quando la Cgil si opponeva all’azienda nei Tribunali, o più recentemente nel caso Almaviva di Napoli, e ancora oggi in Alitalia, i referendum si tengono invece su ipotesi di discontinuità radicale delle condizioni di lavoro, in aziende chiamate a cambiare radicalmente marcia se vogliono sopravvivere. Sono referendum che testimoniano la difficoltà oggettiva dei sindacati a rappresentare davvero il corpo dei lavoratori a cui quelle misure si applicano. Sono consultazioni che esprimono – in alcune aziende o in alcuni settori – un problema centrale che i sindacati negano, ma che esiste eccome: a prescindere dagli iscritti a un sindacato, nessuno sa davvero come la pensino i più die lavoratori, su tagli di organici e tagli salariali in cambio della continuità aziendale per chi resta.

Siamo così passati da referendum a tutela del dissenso tra sindacati, a referendum che scandagliano il dissenso tra lavoratori e sindacati.  Le confederazioni possono fingere quanto vogliono che il problema non esista, ma invece c’è ed è grande come una casa.

E’ sbagliato far di tutt’erbe un fascio. La CGIL ha impostato negli anni una sua battaglia antagonista che in Fiat ha visto la FIOM sconfitta, e che recentemente le debolezze del Pd hanno però riportato alla vittoria con l’assunzione repentina dell’abrogazione dei voucher. Altri sindacati e altre categorie, tra tutti in prima fila i meccanici della FIM Cisl guidati da Marco Bentivogli, hanno sposato la necessità di un cambiamento profondo dell’idea e della prassi di “fare sindacato”.

E tuttavia, attenzione: servirebbe uno scatto in avanti, servirebbero altri leader come Bentivogli capaci essi per primi di intaccare sacri tabù, figli di un’epoca che non esiste più. Grillo la settimana scorsa ha lanciato il tema della “disintermediazione sindacale”, e l’ex leader sindacale della FIOM Cremaschi ne ha condiviso le posizioni. I 5 Stelle hanno visto il problema, e sono pronti a cavalcarlo, come si desume dal voto on line dei militanti m5S. Non sono liberali, chiedono la settimana lavorativa di 4 giorni a salario invariato, ma vi aggiungono un blocco di proposte per tagliare le unghie ai sindacati perché capiscono che il tema esiste ed è popolare. Stride sulle loro bocche l’appello agli individui piuttosto che alla intese collettive, visto che invocano Stato e beni comuni a ogni piè sospinto. Ma quando propongono argini alle carriere politiche dei leader sindacali intuiscono che così si possano strappare altri voti alla sinistra tradizionale, e ai sindacati che di alcune regole sacre della sinistra tradizionale sono custodi, con le imprese che per decenni hanno retto spesso il loro gioco, preferendo estenuanti trattative al ribasso ma comunque intese valide per legge erga omnes, anche se firmate solo dai capi sindacali.

Ora quell’erga omnes resta in teoria nella legge, ma nella realtà non vale più, se si deve decidere a che condizioni far vivere o saltare un’impresa. Servirebbero liberali veri, sindacalisti di nuova generazione, imprenditori meno collusi col passato, per immaginare un sindacato senza più quote d’iscrizione raccolte automaticamente dall’impresa ma rinnovate liberamente ogni anno, e disposti a una legge di attuazione costituzionale che li impegnasse a presentare bilanci completi e trasparenti, in conto economico e patrimoniale.

Non è detto che da casi come Almaviva e Alitalia non ne nascano le premesse, per simili sviluppi. Ma intanto il problema c’è. E’ per questo che in Alitalia tutti trattengono il fiato per la conta dei voti. Credere che nel mondo privato si possa tornare a fare come nel settore pubblico, in cui i sindacati si stanno prendendo la rivincita su Renzi in settori come la scuola o sulle partecipate pubbliche, è una pia illusione.  Le imprese oggi non possono più permettersi intese consociative. E per costruire insieme un welfare aziendale e di partecipazione, come bisognerebbe fare prendendo atto che quello pubblico non basta, occorrono sindacalisti e  imprenditori analogamente immersi sino al collo nel contatto quotidiano con tutti i lavoratori, abbiano una tessera sindacale oppure no. E anche con i milioni che il lavoro non ce l’hanno, e figurarsi se hanno il problema di iscriversi a un sindacato,

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21
Apr
2017

Tecnologia e occupazione: guardare al costo del lavoro e alla libertà di scelta

Un aspetto sovente trascurato nella discussione sulla tecnologia e il lavoro riguarda il costo di quest’ultimo. Come viene spesso ripetuto, il ritmo di sviluppo di molte tecnologie accelera esponenzialmente (penso all’intelligenza artificiale, alla realtà virtuale, ai droni e alle driverless cars) e molti posti di lavoro potrebbero presto scomparire: è stato stimato che in due decadi la metà dei lavori attualmente svolti dai cittadini americani verrà automatizzata. Basti pensare che a tutt’oggi uno dei lavori più comuni negli Stati Uniti sia quello del camionista e che negli ultimi anni molti camion sono stati guidati con successo da un programma.

L’aspetto che, dicevamo, sfugge dalla discussione se “sarà vero o no che le macchine ruberanno il lavoro agli uomini?” riguarda il costo del lavoro o, meglio, quel rapporto che la microeconomia analizza in termini di  produttività marginale e prezzo dei fattori produttivi. In parole povere, non dobbiamo dimenticarci che, a parità di produttività, un uomo verrà sostituito da un macchina se e solo se il costo di impiegare quel lavoratore è superiore al costo di impiegare un robot. Su questo punto si gioca il futuro dell’occupazione, non su quanto straordinarie possano essere le mansioni svolte dalle macchine.

La domanda che si deve fare chi si preoccupa del futuro riguarda allora come cambierà nel tempo il costo del lavoro. Le tecnologie che verranno sviluppate nei prossimi anni saranno sicuramente impressionanti e verosimilmente possiamo aspettarci che il loro costo si riduca molto velocemente nel tempo. Due decadi spesso sono sufficienti per trasformare tecnologie (penso al caso dello smartphone) da oggetti di fantascienza a prodotti di largo consumo. Il  costo del lavoro ha tre componenti principali: la remunerazione, la componente fiscale e quella contributiva. E’ risaputo che in Italia e in molti paesi europei le ultime due componenti  pesano tanto quanto la prima, ovvero che un lavoratore costa al suo datore di lavoro il doppio della sua remunerazione.

Il lettore avrà già probabilmente capito dove voglio arrivare: mentre la tecnologia si sviluppa sempre più velocemente e applicarla diventa sempre meno caro, le rigidità di natura politica che influiscono su imposte, contributi sociali e regole del lavoro non permettono che il suo costo si adegui altrettanto velocemente. Le regole e il sistema istituzionale – per inciso – rappresentano un onere spesso nascosto che grava sulla scelta se impiegare o meno un lavoratore. In passato avevo studiato come in Italia il sistema giudiziario – per lentezza e bias ideologico – aumenta il costo di un licenziamento individuale e di conseguenza anche di una nuova assunzione. Potremmo ben aspettarci che tra dieci anni il lavoro costi tanto quanto oggi (magari per via di regole che sono state scritte quando l’Italia era ancora un Paese con la grande industria e che non sono mai cambiate) e che nel frattempo una macchina avrà imparato a svolgere quello stesso ruolo e lo farà ad un prezzo inferiore.

Come fare allora per ridurre il costo del lavoro? La soluzione che propongo è semplice e si chiama libertà di scelta. Per l’imprenditore significa scegliere liberamente tra un uomo e una macchina. Per il contratto di lavoro significa libertà per le due parti di stabilire salario, condizioni e regole. Due persone libere vorranno forse stipulare un contratto che peggiora la loro condizione? Per quanto riguarda la componente fiscale significa lasciare al contribuente la libertà di scegliere quali servizi chiedere al settore pubblico in cambio di quante imposte. Per quanto riguarda la componente contributiva significa lasciare scegliere al diretto interessato quanta parte di stipendio mettere da parte per la vecchiaia e a chi affidarne la gestione. E’ semplice, ho detto, ma non è facile, mi rendo conto. E’ una soluzione radicale proprio perché affronta il problema alla radice: l’idea che qualcun’altro possa prendere tutte queste scelte meglio di me.

@emilrocca

13
Apr
2017

La concorrenza in autoanalisi

Mala tempora currunt, per la concorrenza nel nostro Paese, e non è una novità. Dal tentativo di estromissione di Flixbus dal mercato del trasporto interregionale su gomma al ddl concorrenza impantanato al Senato da due anni (nonostante la legge imponga teoricamente l’adozione di un provvedimento a favore della concorrenza ogni anno), dai limiti a Uber e ad Airbnb alla proroga dell’abolizione della maggior tutela nel mercato dell’energia elettrica, non c’è giorno che passi senza nuovi freni, nuovi limiti, nuovi tentativi di fermare il mercato e l’innovazione.

Il problema è che la concorrenza, cioè la libertà economica, necessita innanzitutto di una predisposizione culturale. E la mancanza di quest’ultima non si manifesta nei casi eclatanti, come quello di Uber, ma nelle pieghe sonnecchianti di vicende più ‘piccole’, forse, ma perfino più emblematiche. È il caso della recente sentenza n. 66/2017 della Corte Costituzionale.

La vicenda, in sintesi, è la seguente. Un anno fa, la regione Piemonte approvava una legge di riforma dei servizi farmaceutici regionali, che – fra le altre cose – ribadiva la possibilità, per le farmacie della regione, di offrire servizi di autoanalisi del sangue ai propri pazienti. Tali servizi, di fatto, consistono nella possibilità di utilizzare semplici strumenti diagnostici per controllare – in pochi minuti, senza code o prenotazioni – i principali parametri ematici, così da favorire la prevenzione e individuazione di eventuali patologie, oltre che il monitoraggio delle eventuali terapie in corso. La legge regionale, inoltre, estendeva questa possibilità alle parafarmacie, ma solo per il rilevamento di trigliceridi, glicemia e colesterolo. Una formalità, si direbbe. E invece no.

Qualche settimana dopo l’approvazione della legge, il Consiglio dei Ministri ricorre alla Corte Costituzionale, sottolineando la presunta incostituzionalità dell’estensione alle parafarmacie della possibilità di offrire servizi di autoanalisi ai propri pazienti. Per chi ha mai fatto uso di tali servizi, una cosa del genere potrebbe apparire bizzarra, per usare un eufemismo: l’autoanalisi, infatti, viene normalmente effettuata da milioni di pazienti ogni giorno in autonomia, anche in casa propria. Non si tratta, cioè, di un’operazione per la quale è necessaria l’assistenza di un farmacista e tantomeno di un medico. E, in ogni caso, anche qualora lo fosse, nelle parafarmacie lavorano farmacisti abilitati tanto quanto quelli che lavorano nelle farmacie. Stesso percorso di studi, stessa abilitazione, stesse competenze.

La Corte Costituzionale, tuttavia, non giudica secondo il buon senso, bensì secondo le norme. E le norme sono chiare: la legislazione statale vigente consente che nelle parafarmacie e nei punti vendita nei GDO possano vendersi alcuni medicinali non soggetti a prescrizione medica, ma nulla dice a proposito dell’erogazione di “servizi”, come è l’autoanalisi, la cui possibilità di effettuazione è stata estesa dal d. lgs. n. 153/2009 alle sole farmacie. Oltretutto, sostiene la Corte, la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che i criteri stabiliti dalla legislazione statale relativi all’organizzazione dei servizi delle farmacie costituiscano «principi fondamentali» in materia di tutela della salute, in quanto finalizzati a garantire che sia mantenuto un elevato e uniforme livello di qualità dei servizi in tutto il territorio, a tutela di un bene, quale la salute della persona, «che per sua natura non si presterebbe a essere protetto diversamente alla stregua di valutazioni differenziate, rimesse alla discrezionalità dei legislatori regionali» (sentenza n. 255/2013).

Di conseguenza, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge della regione Piemonte, riservando l’autoanalisi alle sole farmacie. E, lo dico con amarezza, ha fatto bene. Come ho scritto per altri casi simili, non credo sia opportuno o lungimirante attribuire alla discrezionalità della magistratura il potere di decidere come le cose dovrebbero essere, invece che limitarlo al giudizio asettico su come sono: il rischio è che per ogni decisione che rispecchi la nostra visione delle cose ve ne siano due, cinque o dieci che non lo fanno. Il bersaglio della nostra insoddisfazione verso assurdità del genere, invece, dovrebbe essere un altro: la politica, incapace di prendere decisioni e assumersi responsabilità.

Nel caso di specie, l’unico modo per evitare il ripetersi di vicende simili è la liberalizzazione del mercato delle farmacie, sostituendo il numero massimo di farmacie sul territorio con un numero minimo e attribuendo a chiunque possegga l’abilitazione come farmacista di poter aprire ed esercitare la propria attività. Sino ad allora, il nostro ordinamento resterà un campo minato, in cui norme sorte molto prima di oggi, e palesemente anacronistiche, continueranno ad essere agitate come un feticcio da chi mantiene la propria rendita di posizione in nome dei diritti più vari.

Twitter: @glmannheimer

11
Apr
2017

L’ordinanza “anti-Uber” e il dado del legislatore

È la fine di Uber in Italia? A leggere della decisione del Tribunale di Roma, parrebbe proprio di sì. È stato infatti ordinato il blocco, entro 10 giorni, dei servizi “Uber Black” offerti dal gruppo Uber in Italia. Si tratta dell’epilogo più drastico possibile, che segna l’espulsione, per via giudiziaria, dell’ultimo servizio di Uber ancora consentito nel nostro Paese. Nell’ordinanza si legge che gli autisti delle “berline nere” Uber sarebbero soggetti attivi di una condotta di «concorrenza sleale», ai sensi dell’art. 2598 comma 3 del nostro Codice Civile. In un primo momento, si è avuta l’impressione che questa slealtà derivasse dalla possibilità che Uber ha di “fare prezzi più competitivi” rispetto ai tassisti, dal momento in cui i suoi autisti non sono tenuti a tariffe amministrativamente predeterminate.

Ma, in realtà, ci si è resi conto che questo punto è solo “secondario”: il Tribunale ha, infatti, fondato su ben altre (e ben più “gravi”) basi la propria decisione. La ritenuta condotta di concorrenza “sleale” non è stata individuata tanto nella possibilità di praticare prezzi “più competitivi”, quanto nel funzionamento stesso dell’app di Uber. È proprio il servizio di intermediazione offerto da Uber a essere stato ritenuto illegale: per il Tribunale di Roma la legge quadro consente la prenotazione del servizio NCC esclusivamente presso la rimessa di quest’ultimo, mentre l’app di Uber consentirebbe il sorgere del rapporto tra autista e cliente anche fuori dalla rimessa, accedendo quindi al segmento di clientela “indifferenziata” che sarebbe, per legge, riservato al servizio taxi. Ma questo non è vero.

La possibilità esclusiva di prenotazione in rimessa potrebbe derivare solo dall’obbligo, per gli NCC, di rientro e stazionamento al termine di ogni corsa: possibilità che, attenzione!, non è prevista dalla legge quadro del ’92, ma dalla modifica operata dal legislatore nel 2008, la cui efficacia è, però, come noto, da allora sospesa (da ultimo, la proroga è stata ribadita dal contestato emendamento Lanzillotta). La legge quadro del ’92, infatti, quando stabilisce che «l’utenza specifica […] avanza, presso la sede del vettore, apposita richiesta», non si occupa né della posizione dell’auto al momento della prenotazione (l’importante è dove si riceve la prenotazione), né impone che tale prenotazione debba necessariamente avvenire presso la rimessa (non è detto che “sede del vettore” e “rimessa” coincidano). Si tratta quindi di una interpretazione della legislazione vigente che lascia, dietro di sé, molti dubbi (e conseguenze che vanno ben oltre Uber, applicandosi essa, indistintamente, a tutti gli autisti NCC).

Quel che è certo che è una decisione così “ardita” è stata favorita anche dall’incertezza e dell’insostenibilità dell’attuale quadro regolatorio. Da più parti (Commissione Europea, Autorità Antitrust, Corte Costituzionale) si è messa in luce la necessità di rivedere una normativa ormai obsoleta: come scritto altrove, «ormai non si tratta più solo di garantire maggiore concorrenza all’interno del tradizionale servizio di trasporto pubblico non di linea, ma di riconoscere che i suoi stessi confini e i player in esso agenti sono nuovi e diversi». Un intervento legislativo non è più rinviabile: persistendo in questa situazione, si è arrivati al punto paradossale di voler adattare l’innovazione al superato quadro legislativo, anziché adeguare quest’ultimo al cambiamento della realtà. Ma come si può pensare che basti una legge o una sentenza per fermare il tempo? Il dado è quindi nelle mani del legislatore: finché non sarà lui a trarlo, decisioni come quelle dei Tribunali di Milano e Torino (contro UberPop) e ora di Roma (contro il servizio di Uber tout-court) non faranno che moltiplicarsi.

@GiuseppePortos

11
Apr
2017

Dipendente o autonomo: è questo il problema?

Come nelle migliori tragedie shakespeariano il mondo del lavoro italiano è  sconvolto dall’ennesimo dilemma che travolge le sue granitiche certezze:  come inquadrare le nuove masse operaie senza tute blu, ma con  tshirt rosa, iphone e bicicletta? Dipendenti, autonomi, collaboratori? Che CCNL applicare?Ciclisti di tutto il mondo unitevi! Sono sbarcati in Italia Foodora e Deliveroo. Tanto semplice quanto brillante idea: servire a domicilio, attraverso fattorini in bicicletta, il pasto della trattoria che preferisci, la pizza della pizzeria che più ti piace, una vasta scelta di ristoranti della città che ti recapitano i loro pranzetti o cenette direttamente sul posto di lavoro o sul divano di casa. Pochissimi ristoranti riescono ad organizzare in autonomia questo comodissimo servizio di delivery e così nascono società che ci hanno pensato progettando e sviluppando efficienti piattaforme informatiche. Come avvengono i reclutamenti? Leggete l’application form sui siti, è facile facile :vogliono conoscere i tuoi dati generali, se hai una bici, uno scooter, un cellulare, quante ore di pedalate settimanali metti a disposizione e in che giorni della settimana.  Insomma, è chiaro come la luce del sole: un metodo per arrotondare andando in bicicletta, nessuna falsa promessa, si chiarisce infatti “ Sei alla ricerca di un lavoro flessibile che ti possa aiutare a integrare le tue entrate ?” Vi ricordate di quando si tirava su qualche lira affrancando buste o impacchettando collanine spedite a domicilio? Ma naturalmente qualcuno ha travisato: i bikers rivoltosi avevano già sospeso il servizio, bloccato i pedali, incrociato i manubri e chiamato i sindacati. “Pagati poco e nessuna garanzia” si lamentano. Soprattutto non hanno digerito il passaggio da una retribuzione iniziale di € 5,40 all’ora a quella di € 2,70 a consegna. Ma è davvero peggio?O meglio? O cambia poco? E via gli sproloqui sul neotaylorismo cibernetico ed il neoschiavismo degli algoritmi. Se si leggono le interviste, “gli scioperanti” sono dottorandi in giurisprudenza, ricercatori in lettere antiche, fuori corso in medicina, tutti, come dire, “ bianchi ed istruiti”. E’ chiaro che nessuno di questi ragazzi si sarà mai sognato di fare il ciclista dipendente di Foodora e simili a vita.  C’è molta  ipocrisia nelle recriminazioni avanzate, non tanto e non solo da alcuni bikers, quanto dalla ben più vasta platea dei loro paladini, quelli che fanno la morale con le storie e le vite degli altri, pratica, purtroppo, molto di moda. Peccato che nessuno abbia il minimo rispetto per chi, invece, ha esattamente capito cosa sta facendo e ne accetta le condizioni ed arrotonda davvero le proprie entrate; così come non c’è nessuna attenzione per gli esercenti che incrementano i loro fatturati, soddisfano la clientela, ed al volano positivo che questo servizio crea per il mondo della ristorazione. E’ molto lontano il tempo delle polemiche sul fenomeno dei “ ragazzi del pony express”- che ispirò il noto cult movie del miglior Calà anni “80- e di quando la CGIL tuonava contro l’apertura dei McDonald’s e le sue regole. Ma la politica di oggi? E’ già agguerritissima la corrazzata degli interventisti che   gridano  “C’è un  vuoto normativo”: peccato che il vuoto non c’era, finché non si è deciso di eliminare i voucher e tornare indietro, anziché guardare al futuro. La politica è ancora ferma lì, al palo, 30 anni dopo, e colpisce il vuoto, quello sì, pneumatico, di chi non vuole capire che oggi i rigidi schemi del passato in tema di legislazione sul lavoro non fanno altro che bloccare lo sviluppo di nuove idee per offrire nuovi servizi e permettere nuove occupazioni, anche piccole, ma non necessariamente solo quelle: il problema non è Deliveroo, Foodora, la sharing economy o la gig economy, il problema è che non si riescono a creare anche nuovi posti di lavoro e nuovi lavori che siano buoni, interessanti e ben pagati, proprio a causa della stessa, identica e solita mentalità ed approccio di chi sa solo limitare, ostacolare, vietare, proibire.

7
Apr
2017

Aiuto! Il Parlamento vuole limitare gli sconti sui libri

È stata presentata una proposta di legge che punta a fissare al 5% massimo lo sconto praticabile sulla vendita dei libri, aggravando così i limiti della legge Levi (che attualmente contingenta nel 15% il massimo sconto praticabile). Poiché la beffa s’accompagna sempre al danno, la norma in questione è inserita in una proposta intitolata «Disposizioni per la promozione della lettura, il sostegno delle librerie di qualità, dei traduttori nonché delle piccole e medie imprese editoriali». Com’è noto, quando il nostro Parlamento decide di approvare una legge per “promuovere” e “sostenere”, c’è sempre all’orizzonte un costo per i contribuenti o per i consumatori: questo caso ne è l’ennesima, indesiderata, conferma.

Più che da buone intenzioni, la strada che dal Parlamento italiano porta all’inferno è lastricata da ipocrisie e non detti. Infatti, anche se nessuno lo ammette apertamente, questa – come la legge Levi – è una norma anti-concorrenziale e protezionistica, pensata per sostenere piccole e grandi rendite di posizione contro il modello rappresentato da Amazon e dagli altri venditori on-line (anche italiani: si pensi ad Ibs.it). Pur con qualche sfumatura, quasi tutta l’industria libraria italiana si è infatti schierata a favore della sua approvazione: com’è costume italiano, quando non si riesce più a competere sul mercato, si invoca l’aiuto e la protezione dello Stato. Ma chi potrebbe mai pensare di promuovere la lettura, mentre si rendono più costosi i libri? Chi potrebbe mai pensare che un consumatore, che non compra oggi un libro, lo farà domani perché gli sconti non potranno superare il 5% del prezzo di copertina?

Inoltre, come notato da Filippo Guglielmone, direttore commerciale di Mondadori: «in Italia ci sono circa 21 milioni di lettori, quasi 18 dei quali comprano almeno un libro all’anno. Ma oltre 13 milioni vivono in comuni sotto i 10 mila abitanti dove non esiste nemmeno una libreria». Per questa fascia di clientela, l’unica possibilità di comprare un libro è rappresentata dalla Grande Distribuzione Organizzata o da Internet. La legge avrà come risultato quello di rendere ancora più difficoltoso e limitato l’accesso alla cultura per questi 13 milioni di italiani.

I promotori della legge fanno poi un ragionamento curioso. Si legge, nel testo della proposta, che «dall’approvazione della cosiddetta legge Levi (…) il prezzo medio è sceso (dati Nielsen), in linea del resto con quanto avviene negli altri grandi paesi europei che hanno adottato politiche più restrittive sullo sconto del prezzo dei libri (Germania, Francia, Spagna)». In realtà, come ha rilevato il Post, i dati del 2016 dicono che nell’ultimo anno il mercato ha tenuto essenzialmente grazie all’innalzamento dei prezzi di copertina. E una legge che limita la praticabilità degli sconti quale risultato potrebbe mai sortire? Quello di far diminuire, ancora di più, il numero di libri venduti e letti. Altro che promozione della lettura!

Come quella dei tassisti contro Uber e dei servizi di trasporto “tradizionali” contro Flixbus, anche questa è una battaglia di retroguardia di cui faranno le spese i consumatori. L’importante è che sia chiaro: in Parlamento c’è chi ci vuole tutti più poveri. Sia economicamente che culturalmente.

@GiuseppePortos

4
Apr
2017

Innovazione e servizi: tre esperienze a confronto—di Luca Bazzana

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Luca Bazzana.

Da anni si parla di come lo sviluppo tecnologico sia un elemento di svolta in diversi campi di applicazione. Per quanto riguarda il mondo imprenditoriale, la tecnologia ha reso disponibili numerosi strumenti che possono essere sfruttati per poter creare nuove modalità di fruizione di servizi e prodotti. Tuttavia è chiaro come l’innovazione ponga diversi interrogativi. Alcuni settori sono stati del tutto rivoluzionati grazie alla nascita di nuove imprese capaci di sfruttare le opportunità dettate dalla tecnologia e dalla graduale liberalizzazione dei mercati (nonostante negli ultimi anni sembrano svilupparsi ondate di protezionismo). L’intervento pubblico è di conseguenza diventato un ostacolo proprio perché spesso incapace di adattare la regolazione al nuovo contesto. Per discutere di queste tematiche, lunedì 27 Marzo si è svolto nella sede milanese dell’Istituto Bruno Leoni l’incontro “Innovazione e servizi: tre esperienze a confronto”. L’obiettivo era quello di poter dialogare con alcune realtà imprenditoriali legate tra loro dal filo conduttore dell’innovazione tecnologica. Moderati da Serena Sileoni, Andrea Incondi (Country Manager di FlixBus IT), Marco Piana (Presidente di Soundreef) e Alessandro Renna (Amministratore Delegato di 4cLegal) hanno potuto raccontare il loro modo di fare business nonché le difficoltà che in molti casi si incontrano nello svolgere attività imprenditoriale in Italia.

Ma di cosa si occupano le tre imprese? 4cLegal, in un contesto culturalmente restio all’apertura del mercato e all’innovazione dove, secondo Renna, spesso sono gli stessi professionisti a richiedere (e a ottenere) protezione sia all’Ordine che allo Stato, ha creato una piattaforma capace di aumentare la concorrenza tra i professionisti dell’area legale. Attraverso una gara (denominata beauty contest) un cliente che necessita di una consulenza legale o tributaria può stabilire in modo semplice quale Studio offra il servizio a lui più vantaggioso (sia in termini economici che qualitativi). Un’attività per ora unica in Europa. FlixBus, società nata nel 2011 in Germania, offre un servizio di trasporto sfruttando flotte di autobus di aziende terze che vogliono inserirsi in questo tipo di mercato. È FlixBus a definire i parametri che vanno dalla frequenza della percorrenza delle tratte, al marketing e individua quelli che possono essere i potenziali partner. Incondi spiega come, nonostante una regolazione particolarmente complicata, l’azienda decise di puntare sul nostro Paese già dal 2014, sfruttando la fine del periodo di transizione iniziata nel 2005, fatto che poneva l’Italia all’avanguardia su questo fronte. Adeguandosi alla normativa, FlixBus ottiene le autorizzazioni dal Ministero dei Trasporti e non incontra ostacoli fino alla ormai tristemente famosa “norma anti FlixBus”. Su questo punto, ci dice Incondi, l’azienda è convinta che il Governo rispetterà l’impegno preso nel voler cancellare l’emendamento. Infine Soundreef è una società fondata nel 2011 a Londra da Davide D’Atri, la quale opera in un settore molto particolare, quello dei diritti d’autore, un mercato molto sostanzioso dal punto di vista economico ma di fatto preda di monopoli più o meno legali nati anche oltre un secolo fa. Sfruttando una tecnologia disponibile da qualche anno in grado di poter monitorare in automatico quali opere vengono effettivamente fruite sui diversi canali, Soundreef, unica società privata nel settore in UE, inizia ad operare puntando sia su artisti italiani che internazionali. Concentrandosi sul caso italiano, Piana segnala come la SIAE goda di una tutela legale parziale basata su una legge del 1941 e proprio su questa base essa abbia costruito il suo monopolio di fatto. Fortunatamente però, sia a livello statale che comunitario esistono leggi che permettono a Soundreef di operare, tuttavia in un clima non particolarmente conciliante.

Ad accomunare le tre realtà sono purtroppo la poca trasparenza, un contesto culturale che spesso spinge per tutelare le rendite di posizione e una grande incertezza nella regolazione. Tuttavia, nonostante queste difficoltà, grazie a tecnologie all’avanguardia sono riusciti in pochi anni a sviluppare nuovi modelli di business capaci di intercettare una domanda spesso del tutto sopita in settori che possono definirsi tradizionali. In generale, nonostante la capacità di rispondere ai diversi tipi di domanda, pesa la poca chiarezza della regolazione. È Renna a denunciare la difficoltà di predisporre un progetto imprenditoriale di lungo termine in un contesto dove la normativa cambia in modo frequente e spesso senza seguire un filo logico. Anche Incondi sostiene che una regolazione poco chiara ha molteplici ricadute sui potenziali investimenti (italiani ed esteri):

innovazione, tecnologia e libero mercato sono qualcosa che si può provare a bloccare, ma sono come una cascata impossibile da fermare proprio perché fanno parte di un’esigenza richiesta dalla gente.

Sono quindi emblematiche le parole di Piana che interrogato sul Piano Industria 4.0 conclude chiedendo che vengano in primis rispettati alcuni strumenti di Industria 1.0:

rispetto delle leggi (anche da parte del Governo), una normativa che abbia come base l’interesse pubblico e uno Stato che non crei ostacoli normativi perché un ostacolo rimosso vale più di mille incentivi. Le persone sono in grado di fare impresa senza l’aiuto dello Stato.

4
Apr
2017

Cari sovranisti, combattete il debito

Tu chiamalo, se vuoi, sovranismo. È il trend politico del momento e accomuna leader e movimenti politici in tutto l’Occidente, da Nigel Farage a Donald Trump, da Matteo Salvini a Geert Wilders, da Norbert Hofer a Marine Le Pen. E non è certo un caso se il sovranismo viene spesso accostato al populismo, nei programmi dei movimenti politici che rappresentano queste istanze così come nella percezione dell’opinione pubblica. La domanda politica populista chiede di rimettere nelle mani della scelta collettiva (cioè della democrazia) ciò che rule of law, capitalismo, e globalizzazione hanno rimesso alla scelta individuale, ribaltando l’accezione negativa della dittatura della maggioranza e trasformandola in virtù, se non addirittura in un diritto da restituire ai cittadini.

In campo economico, il sovranismo aggiunge a questo principio il frutto di un’ideologia che si proclama rivoluzionaria e liberatrice, ma che – scartata la confezione – si rivela in realtà la metamorfosi più recente dello statalismo vecchia maniera. Cambia il nome, non la sostanza: i sovranisti semplicemente disprezzano il mercato e la libertà, promuovendo il ritorno al controllo dello Stato su ogni aspetto dell’economia, dalla politica monetaria all’importazione delle arance.

Nel campo della finanza pubblica, di conseguenza, il sovranismo osteggia qualunque limite al potere ‘democratico’ dei governi di spendere e tassare se, come e quando desiderano. Non a caso, uno dei bersagli classici dei leader sovranisti di destra e di sinistra è il sistema finanziario, reo, a loro detta, di esercitare un forte potere di ricatto sui governi, influenzandone le scelte.

Vi confesso una cosa: penso che i sovranisti, su questo punto, abbiano una parte di ragione. Spesso le politiche ‘suggerite’ dagli operatori nei mercati finanziari, dai loro rappresentanti istituzionali e dai loro influencers sono, a mio avviso, complessivamente preferibili a quelle che metterebbero in atto i governi in loro assenza. Non per tutti, però, il fine giustifica i mezzi. E, se si antepone il metodo al merito, l’influenza dei mercati sui governi costituisce innegabilmente un serio argine al potere di questi ultimi. Argine che, lo ribadisco, è a mio avviso cosa buona e giusta. Ma che per molti, legittimamente o meno, non lo è.

Ciò che fatico a comprendere della posizione sovranista sulla finanza pubblica, dunque, non è la posizione in sé, ma i nemici che si sceglie. La ragione per cui i governi subiscono il ricatto dei mercati finanziari non sta in qualche oscuro complotto ai nostri danni o nella naturale inclinazione di chi governa a prostrarsi al volere di qualche potente colletto bianco. No: la ragione per cui i governi subiscono il ricatto dei mercati finanziari è che questi posseggono un credito verso l’Italia molto superiore alla ricchezza che il nostro Paese è in grado di produrre in un anno. In altre parole, negli scorsi decenni ci siamo indebitati verso ‘i mercati’ di una cifra tale che non basterebbe un anno di lavoro di tutti gli italiani per ripagarla: duemilaquattrocento miliardi di Euro, cioè quasi 40mila Euro di debiti che pendono sulla testa di ciascun cittadino del nostro Paese, neonati compresi.

Tutto ciò è stato reso possibile dal fatto che in 150 anni di storia, l’Italia ha chiuso il proprio bilancio in pareggio solo due volte (nel 1875 e nel 1925). 148 volte su 150, i governi hanno chiuso l’anno spendendo più di quanto avessero a disposizione. E sapete dove ha trovato i soldi necessari a coprire la differenza? Chiedendoli in prestito ai mercati finanziari. Chi concederebbe mai un prestito a una famiglia o a un’azienda che ogni anno accumula debiti, spendendo più soldi di quelli che possiede? Facile: nessuno. A meno che i tassi d’interesse sul prestito siano particolarmente vantaggiosi. Per ciascuna lira e per ciascun Euro che ha chiesto in prestito ai mercati per poter spendere più di quanto disponesse, lo Stato italiano ne ha promessi in cambio due, tre, talvolta addirittura cinque o sei.

Ogni anno, l’Italia spende oltre 70 miliardi di Euro per ripagare gli interessi sul debito – e sarebbero molti di più, per inciso, se invece dell’Euro utilizzassimo una moneta nazionale. Con quei soldi potremmo permetterci redditi di cittadinanza, aumenti delle pensioni e chissà quali e quante altre misure care ai sovranisti e ai populisti del nostro Paese. Non solo: sono proprio i tassi d’interesse sul debito a generare l’arma del ricatto dei creditori del nostro Paese, che minacciano di non prestarci più soldi se non adottiamo le scelte politiche che essi stessi ci suggeriscono. Ecco perché non dovrebbe essere né l’Euro né i vincoli di Maastricht il vero nemico di chi vorrebbe che l’Italia tornasse ‘sovrana’, padrona del proprio destino e della propria economia: è il debito pubblico il primo e più importante limite alla nostra sovranità, ed è contro di esso che si dovrebbero concentrare gli sforzi di chi non vuole cedere al ricatto dei mercati e della finanza. Se siete davvero tali, cari sovranisti, combattete il debito.

Twitter: @glmannheimer

31
Mar
2017

Se Trump davvero scatena guerre commerciali, USA rischiano per primi. E chi plaude in Italia è fesso

Non una vera dichiarazione di guerra commerciale. Ma un segnale. Un segnale di guerra, comunque. L’indiscrezione lanciata ieri dal Wall Street Journal rivela un documento che il Dipartimento del Commercio USA avrebbe preparato, su indicazione della Casa Bianca. Oggetto: una di un cntinaio di prodotti “iconici” di alcuni grandi Paesi europei, da sottoporre a un dazio assassino del 100% del loro valore per consentirne l’ingresso negli Stati Uniti. Prodotti nessuno dei quali supera la soglia dei 100 milioni di import sul mercato Usa: come la Vespa della Piaggio, l’acqua minerale San Pellegrino, l’acqua Perrier della Nestlè, o il formaggio Roquefort. Lo scopo? Sbloccare una vecchia controversia che risale agli anni Novanta, relativa alle restrizioni europee sull’importazioni di carni bovine americane. L’Organizzazione Mondiale per il Commercio patrocinò un negoziato. Obama lo chiuse con l’Europa, e la restrizione restò per le sole carni trattate con ormoni. Ma gli allevatori americani hanno continuato ad accusare la Ue di inadempienza. Di fatto, basta approfondire un minimo la cosa per capire che nel merito hanno più ragione che torto, ed è un merito di Oscar Farinetti stamane riconoscerlo, nella sua intervista a Repubblica.  In ogni caso, Trump vuole rispondere al grido di dolore degli alllevatori americani, e lanciarci un avvertimento più generale.
Stiamo parlando di una voce di import europeo che pesa poco, 6 miliardi di dollari circa. Se la paragoniamo al surplus commerciale che la Ue vanta verso gli Usa, 157 miliardi di dollari nel 2015, davvero poca cosa. Ma è un segnale pessimo. Se Trump davvero intraprende la via delle guerre commerciali, come per altro ha ampiamente promesso in campagna elettorale, allora dimentica la lezione della storia. Che è purtroppo assolutamente univoca. Lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930 voluto dal presidente Hoover fu un disastro totale. Ed è sempre così. Chi alza i dazi con la scusa di proteggere i propri settori produttivi, promettendo così la difesa e l’aumento di posti di lavoro nazionali, scatena inevitabilmente reazioni a catena di segno analogo. Alla fine, nel medio periodo successivo, la storia moderna ha sempre dimostrato che le conseguenze sono tre. I settori protetti e sussidiati praticano prezzi più elevati, e diminuisce il potere d’acquisto dei consumatori, sia verso i prodotti domestici sia verso quelli importati a maggior prezzo . Viene colpito l’export verso gli altri paesi, che a propria volta alzano dazi e tariffe, e dunque si perdono occupati e imprese. E, terzo, la discesa del commercio mondiale abbatte la crescita globale per tutti, Paesi avanzati e meno, accresce invece di diminuire lo squilibrio nella bilancia dei pagamenti, accelera crisi valutarie, spesso sfocia in veri e propri conflitti armati.

Trump più volte ha fatto capire che entro una certa misura è disposto a correre il rischio. Calcolando cioè che nel breve, di fronte a scrolloni energici come il segnale lanciato ieri all’Europa, i Paesi in avanzo commerciale verso gli Usa capiscano che devono rassegnarsi a ridurlo. A cominciare dalla Cina, 367 miliardi di dollari di surplus 2015 verso gli Usa, la Ue con 157 come detto, il Giappone con 70 miliardi, il Messico con 67,5, e poi Vietnam, Corea del Sud, Canada e Taiwan. Trump ritiene che gli Usa se lo possono permettere, tanto i mercati delle commodities restano denominati in dollari e gli Usa sono unica potenza globale. E’ un calcolo che piace a tutti i protezionisti e sovranisti che in questi anni gonfiano di consensi il loro sostegno nei sondaggi di molti Paesi, Italia compresa. Ma è un calcolo miope. Il passato parla chiaro. Ed è pronto a punire chi lo sfida. Se davvero Trump lanciasse il guanto di sfida alla Cina, che detiene oltre 2mila miliardi di dollari di debito USA ed è presente con propri solidi interessi in vaste aree del mondo, il rischio del conflitto è un vero riorientamento del mondo verso Pechino (e Mosca, in Europa).

Quanto all’Italia, il nostro surplus commerciale verso gli Usa è stata una delle più potenti molle per realizzare la sia pur asfittica nostra crescita degli ultimi anni. Quel mercato è il primo extraeuropeo per sbocco dei nostri prodotti, dopo Germania e Francia, e dal 6% del nostro export nel 2010 è salito a oltre il 10% nel 2016, con un surplus commerciale complessivo di oltre 28 miliardi nel 2015. Più della Corea del Sud, dell’India, del Canada e della Francia. L’auto con la Fiat, la componentistica, la meccanica e i macchinari, la moda, gli alimentari e i farmaci sono nell’ordine i settori in cui andiamo forte. Visti questi successi, il ministro Calenda ha lanciato e finanziato un piano ad hoc per estendere la presenza in Usa di beni di consumo e marchi italiani. I dazi attuali praticati ai prodotti italiani negli States variano da oltre l’8% in media nel tessile (ma fino al 18% per abiti confezionati), al 6% nella ceramica, a poco più del 2% per autoveicoli, motocicli e alimentare. Chiunque può comprendere che innalzare dal 2% al 100% di dazio per Vespa e acqua san Pellegrino significa espellerli dal mercato statunitense.
Certo, la WTO esiste ancora. E a quel punto spetterebbe a lei dirimere la controversia. Ma Trump pensa a un mondo di intese bilaterali, per questo ha inabissato il TTIP multilaterale transatlantico. E lo stesso vuol fare con il Nafta che disciplina il commercio USA con Messico e Canada. Speriamo dunque che la squadra intorno a Trump lo faccia ragionare. In caso contrario, ricordiamoci che attualmente, nelle 6600 combinazioni di prodotto/mercati più diffusi nel commercio mondiale, in 900 casi Italia e Usa sono tra i primi cinque competitor. Dunque saremmo in condizione di “soffiare” ragionevolmente agli Usa a nostro vantaggio quote di valore e volumi di export in quelle specializzazioni, in molti Paesi nel mondo.
Ma senza dimenticare una cosa. Un mondo in cui gli Usa accendessero la spirale della guerra commerciale e valutaria diventa un mondo molto più instabile. E dopo 15 anni di logoramento in Medio Oriente, gli Usa non sono oggi la superpotenza unica di un tempo.

Infine: chi inneggia ai dazi in Italia è ancor più fesso che altrove. Siamo un paese trasformatore, quel poco di crescita asfittica dj questi ultimi anni si deve al miracolo dell’export, realizzato da poco più di 200 mila imprese italiane malgrado tutte le difficoltà buro-fiscal-amministrative. Tifare dall’Italia per chi alza i dazi ai nostri prodotti significa solo essere masochisti. Poi potranno pure dirsi sovranisti quanto vogliono, ma fessi e masochisti restano.