2
Feb
2017

Come l’assenza di diritti di proprietà diffusi causò la Grande carestia irlandese—di Giuseppe Portonera

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Giuseppe Portonera.

La Grande carestia, che colpì l’Irlanda (in gaelico irlandese: An Gorta Mór) tra gli anni 1845-1850, uccise circa un milione di persone e ne costrinse all’emigrazione altrettante, causando un crollo tra il 20 e il 25% della popolazione dell’isola. Eric Hobsbawm la definì «la più terribile catastrofe umana della storia europea» di quel periodo. Com’è noto, la carestia scoppiò a seguito dell’attacco di un microrganismo conosciuto come “peronospora” che distrusse gran parte del raccolto di patate, il cibo principale della dieta irlandese. Ma il diffondersi del fungo fu solo la causa scatenante di quella tragedia: altre e ben più ataviche situazioni erano alla base del fragile sistema economico irlandese, come dimostra il libro “An Gorta Mór. La Grande carestia irlandese (1845-1850)” (edito da La vita felice per la Fondazione Ivo de Carneri e curato da Valeria Carozzi e Luigi Mariani). Il volume è di particolare interesse perché raccoglie una serie di scritti di Carlo Cattaneo e John Stuart Mill pubblicati nel periodo della Grande carestia e che ci offrono, quindi, il punto di vista sul tema di due grandi intellettuali del tempo, in presa quasi diretta.
Siamo abituati a leggere nella carestia irlandese un fallimento delle politiche liberiste. I saggi e gli articoli di Cattaneo e Mill ci aiutano, invece, a indagare le cause vere e profonde di An Gorta Mór, senza farci fermare da facili ma devianti interpretazioni. Come mostrano nei propri scritti Cattaneo e Mill, la colpa della Grande carestia non fu affatto del laissez-faire, ma della situazione istituzionale irlandese, che non conosceva una proprietà diffusa e tutelata dall’ordinamento. Proprio An Gorta Mór è una delle prove storiche dell’ineludibile nesso che lega il riconoscimento dei diritti di proprietà alla crescita economica. Read More

1
Feb
2017

Viareggio-Fs. Tesi impopolare: non mi piace ciò che la stessa Cassazione considera “giustizia preventiva”

La sentenza di primo grado sul disastro ferroviario di Viareggio, l’ecatombe che costò la vita a 32 persone il 29 giugno 2009, deve interrogarci tutti. Mauro Moretti, oggi alla guida di Finmeccanica ridenominata Leonardo, è stato condannato a sette anni di reclusione come ex ad allora di Rete Ferroviaria. Sette anni e sei mesi è la pena inflitta a Michele Mario Elia, all’epoca dei fatti al vertice di Rfi. Stessa condanna per Vincenzo Soprano, all’epoca dei fatti ad di Trenitalia. In più molte altre condanne a manager della società, e a queste ultime pesanti sanzioni amministrative. Per tutti gli imputati le accuse andavano dal disastro ferroviario all’omicidio colposo plurimo, dall’incendio colposo alle lesioni colpose.

La premessa a ogni considerazione sulla sentenza – in doverosa attesa, per altro, delle motivazioni – non può che essere, ancora una volta, la piena, totale e assoluta condivisione del cordoglio e del dolore dei familiari delle vittime. Non era e non è in discussione il fatto che le imprese – tutte: piccole e grandi, pubbliche e private –  debbano fare sempre di più e sempre di meglio per tutelare la sicurezza sul lavoro, quella dei loro prodotti e servizi. E del resto i segnali ci sono, di una lenta progressione anno dopo anno verso il contenimento dei disastri sul lavoro. Le denunce di infortunio mortale lavorativo sono state 1.018 nel 2016, erano 1.172 nel 2015. Anche se, naturalmente, pure una sola vittima è di troppo. Figuriamoci poi quando un convoglio ferroviario si trasforma in un letale ordigno incendiario in un centro abitato. Il dolore dei familiari di chi ha perso la vita è irrisarcibile e irrimediabile. E si traduce, giustamente, in una sete inesauribile di giustizia: perché i responsabili non sfuggano alle loro responsabilità.

E’ lo stesso meccanismo che ha portato a processi come quello per le vittime all’altoforno Thyssen a Torino, al processo Eternit sempre a Torino per disastro doloso per le morti da amianto, prescritto prima ancora di cominciare l’indagine ma poi riaperto dalla Procura per omicidio volontario.  O al processo a carico dei manager Olivetti a Ivrea, sempre per le morti da amianto, sfociato in una condanna di primo grado a 5 anni  e 2 mesi a Carlo De Benedetti e al fratello Franco, e 1 anno e 11 mesi all’allora ad Corrado Passera. Però in nessun paese avanzato le morti da amianto, usato per decenni prima di apprendere delle sue letali conseguenze cancerogene, sono mai sfociate in processi penali e condanne dei manager delle imprese. Lo stesso vale per gli incidenti nelle acciaierie. O per quelli ferroviari. La domanda da porsi è: come mai? Sono gli altri, i paesi incivili, barbari spregiatori della vita umana? Oppure c’è qualcosa su cui riflettere qui da noi in Italia, a proposito delle scelte che hanno fatto della giustizia penale contro i capi azienda la via maestra da percorrere quando avvengono gravi incidenti d’impresa?

Ricordiamoci da dove viene, la germinazione nel nostro ordinamento che ha attribuito alle procure la facoltà di indagare imprenditori e manager per fattispecie di reato tanto gravi, dalla strage al procurato disastro, all’omicidio. Fu una norma nata dal recepimento di una direttiva europea, assai più ristretta nelle sue intenzioni e prescrizioni, a divenire nel passaggio tra governo e parlamento uno strumento di estensione punitiva senza eguali nei paesi avanzati. Fu un decreto legislativo, il 231 del 2001, attraverso il quale si affermò nel nostro ordinamento la cancellazione dell’antico principio per il quale societas delinquere non potest. Da quel momento in poi, fu affermato al suo posto il principio della responsabilità delle persone giuridiche, cioè delle imprese, per i reati e gli illeciti compiuti nella presunzione di un proprio vantaggio – economico, fiscale, organizzativo, il fine è estensibile a iosa. Nonché quella penale dei loro dirigenti, manager e proprietari se esercitanti funzioni di controllo e guida operativa.  Come la Corte di cassazione ebbe a dichiarare nella sentenza n. 26654 del 27 marzo 2008: “Il sistema sanzionatorio proposto dal D. Lgs. 231/01 opera certamente sul piano della deterrenza, persegue una massiccia finalità social-preventiva”.

Il fine dichiarato era quello di evitare una volta per tutte la possibilità di utilizzare lo strumento societario come schermo per evitare che la macchina della giustizia potesse imporre sanzioni in caso di violazione della legge. Di conseguenza di quei reati risponde l’azienda, se non ha posto in grado tutte le procedure di controllo più necessarie e avanzate, e direttamente in sede penale chi la guidava, sia se abbia omesso vigilanza e controlli, sia se abbia posto in essere condotte volte non certo a produrre vittime, ma afferenti a qualunque circostanza possa aver avuto un ruolo causale o accidentale nel concorrere a produrre l’incidente e le sue vittime. Non a caso per l’ecatombe di Viareggio, durante i mesi e mesi di processo, i sistemi di sicurezza ferroviari, di linea e del personale conduttore, sono stati approfonditi in lungo e in largo nel dibattimento. Ed è ovvio che su quei sistemi abbiano deciso i manager di Fs. Ma è cosa del tutto diversa dall’aver essi posto in essere strategie volte all’esposizione al rischio di cose e persone, o di produrre stragi.

Quando si emanano sentenze in cui i manager vengono condannati a pene detentive di anni per accuse come strage, disastro, omicidio volontario o colposo, si condannano i vertici aziendali e i responsabili della sicurezza come assassini. E’ un unicum che avviene solo in Italia. E’ un unicum che non identifica affatto gli eventuali responsabili di errate manutenzioni o errori di condotta materialmente all’origine dell’incidente, ma con cui si colpisce “in alto”, seguendo l’idea che la massima giustizia conseguibile sia quella di una esemplare punizione di chi “comanda”. Condannato per essere disposto colpevolmente a voler far morire i propri dipendenti, e cittadini inermi. E’ questo, il succo della “giustizia deterrente e preventiva”, per usare le parole della Cassazione.

Ma la giustizia “preventiva” non c’entra nulla con l’assicurare sempre maggior sicurezza. Questo è un dovere imperativo di civiltà, oltre che efficienza economica. E’ invece l’idea stessa della giustizia sul lavoro e nell’offerta di beni e servizi, che dalla 231 a oggi in Italia è diventata, di fatto e di diritto, una giustizia sommaria: la cui finalità “deterrente” prevale sulla precedentemente obbligatoria e scrupolosa ricerca degli elementi soggettivi e personali del reato, non meramente derivanti dalla carica ricoperta in una catena gerarchica aziendale.

Naturalmente, chi qui scrive è del tutto consapevole che rivedere criticamente le norme che hanno spalancato le porte a una tale idea apparirebbe oggi un’insanabile offesa ai parenti delle vittime. E verrebbe bollato come un’indegna pulsione alla sottovalutazione della sicurezza del lavoro. Perciò, i dubbi che ho esposto resteranno certamente senza esito. Come quasi sempre capita da anni sul ring della conclamata confusione italica tra l’idea di giustizia, e la sua traduzione in cieco giustizialismo. E tuttavia pensateci. Condannare un amministratore delegato come un attentatore alla vita altrui significa avere un’idea del confronto sociale da Tribunale Speciale. Evoca le tricoteuses giacobine che esultavano al carro dei condannati.  E le purghe sovietiche.

 

29
Gen
2017

Salario minimo: quel che si vede e quel che non si vede—di Federico Morganti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Federico Morganti.

Politiche dalle buone intenzioni hanno spesso conseguenze inintenzionali negative. Pochi interventi esemplificano questa realtà altrettanto bene quanto l’innalzamento del salario minimo. La critica economica al salario minimo si basa sull’idea che obbligare i datori di lavoro a pagare un dipendente più di quanto sia disposta a fare sulla base della produttività attesa, indurrà le imprese a recuperare quel costo in altre forme: effettuando tagli al personale, limitando le assunzioni, riducendo il salario di altri lavoratori, effettuando tagli su forme di benefit o altri costi, ricorrendo al lavoro in nero. Normalmente un innalzamento del salario minimo avrà effetti negativi sull’occupazione, come recentemente avvenuto a Porto Rico e Seattle.
I sostenitori del salario minimo tendono a contestare la connessione tra salario minimo e disoccupazione. Ne sia esempio un recente articolo su “The Atlantic”, che riassume in modo egregio gli argomenti (perlopiù di ispirazione keynesiana) a favore del minimum wage: paghe più alte aumentano la produttività dei lavoratori; le aziende possono compensare i costi aggiuntivi innalzando i prezzi dei beni offerti; salari più alti aumentano il potere d’acquisto dei lavoratori (sorvoliamo sul fatto che se i prezzi aumentano il potere d’acquisto diminuisce).
Se le scienze sociali insegnano qualcosa è che il comportamento degli attori sociali è estremamente difficile da prevedere. È questa, del resto, una delle ragioni per cui i liberali invocano lo stato minimo e la dispersione del potere decisionale. La verità è che nessuno può essere certo che un innalzamento del salario minimo abbia in tutti i casi l’effetto di ridurre i posti di lavoro. Secondo uno studio della Cornell University – riportato ancora da “The Atlantic” – negli Stati Uniti innalzamenti modesti del salario minimo non hanno avuto un impatto negativo sul settore della ristorazione, in termini di numero di ristoranti aperti o di posti di lavoro. Tuttavia, se lo studio non ha trovato effetti negativi, forse è perché si è concentrato unicamente sulle predizioni classiche (ad esempio la riduzione dei posti di lavoro). Srikant Devaraj della Ball State University ha studiato gli effetti del minimum wage nei ristoranti dello stato di Washington, trovando che a un innalzamento di 0.10$ nel salario minimo reale ha fatto seguito un aumento delle violazioni negli standard d’igiene compreso tra il 3.35 e l’8.99%. Insomma, salari più alti, ristoranti più sporchi, maggiori rischi per la salute. Un ristorante potrà anche mantenere invariato il numero dei posti di lavoro, ma per fronteggiare l’aumento di spesa potrebbe tagliare le ore lasciando inalterato il carico di lavoro: dipendenti che lavorano meno, o sono costretti a lavorare peggio, saranno meno efficienti nel tenere pulito un locale.
Il legislatore non ha il potere di sollevare le condizioni dei lavoratori per semplice decreto, né le capacità di anticipare in che modo gli attori sociali, in questo caso i ristoratori, reagiranno ai nuovi obblighi. Una cosa che può invece prevedere è che posto di fronte alla prospettiva di una perdita nel fatturato, il datore di lavoro cercherà in qualche modo di compensare. In termini più generali, affinché un’impresa prosperi deve poter organizzare la propria attività con pochi vincoli esterni. Se messa nelle condizioni di essere produttiva e soddisfare i propri clienti – ad esempio offrendo un locale pulito – sarà anche in grado di pagare di più i propri dipendenti. Il rischio, in caso contrario, è penalizzare questi ultimi sotto forma di condizioni di lavoro peggiori. Ora che in seno all’Unione Europea tornano a manifestarsi spinte per una revisione dei minimi salariali nazionali, sarà bene tenere a mente questi rischi.

27
Gen
2017

E se fossero privati?—di Luca Minola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Luca Minola.

Come ogni anno l’istituto di ricerca Eurispes ha pubblicato il proprio “Rapporto Italia” in cui analizza e fotografa la situazione economica e politica della penisola.

Il rapporto conferma che gli italiani continuano, e a ragione, a ritenere la pressione fiscale come un problema. Il 62,5% degli intervistati ritiene che non ci sia stata una sensibile diminuzione delle tasse: le uniche riduzioni, percepite come tali, riguardano, infatti, il canone RAI e la Tasi-Imu.

Al di là di questo dato, prevedibile dato il livello di pressione fiscale a cui siamo sottoposti, una delle sezioni più interessanti del rapporto è quella dedicata alla valutazione dei servizi da parte del campione interpellato, che evidenzia un netto giudizio negativo per quelli forniti dal settore pubblico.

Le amministrazioni pubbliche centrali ottengono il 72.4% delle bocciature, mentre quelle locali il 61%. Non vengono risparmiate nemmeno la Giustizia che ottiene solo il 43.1% dei giudizi positivi, la Sanità e la Difesa che ottengono, invece, il 47.7%.

Il giudizio negativo non è così sorprendente, visto che i cittadini soffrono sulla propria pelle i noti mali della burocrazia e dell’elefantiasi pubblica: si pensi solo agli effetti sulla vita delle persone dei tempi della giustizia o delle liste d’attesa nella sanità pubblica.

Ma oltre a questo vi è un dato ancor più significativo che emerge dal rapporto: dovendo scegliere, il 40% degli intervistati si dice convinto della maggiore qualità dei servizi privati, contro il 24% che, invece, premia quelli pubblici. Le motivazioni dietro a questa scelta non si conoscono, ma basta poco per immaginarle. Generalmente i servizi privati sono efficienti, dinamici, aperti all’innovazione e attenti alla qualità offerta proprio perché sottoposti alle regole della concorrenza.

Si tratta di un giudizio su cui riflettere, dal momento che il grande tabù della riduzione della spesa pubblica, che è la prima esigenza del nostro paese, è l’inviolabilità della gestione pubblica dei servizi di interesse generale. Gli italiani, almeno secondo l’indagine Eurispes, sembrano pensarla diversamente.

Appare evidente che, oltre a semplificare l’apparato burocratico e normativo, l’unica carta rimasta a disposizione per diminuire la spesa pubblica ed aumentare la qualità dei servizi che oggi sono in capo allo Stato, ma che potrebbero tranquillamente essere forniti dal mercato, sembra essere la loro privatizzazione e liberalizzazione.

Solamente attraverso questi processi è possibile sollevare le amministrazioni pubbliche dal compito di offrire alcune prestazioni, oggi inefficienti e onerose a causa della loro pessima gestione, ma puntualmente garantite dalle tasse dei contribuenti.

26
Gen
2017

Blockchain e pubblica amministrazione, la strana coppia

Bitcoin, la criptovaluta inventata quasi dieci anni fa da un programmatore noto sotto lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto, è da molti considerata una forma di denaro ‘a-politica’. Nel paper con cui lo lanciò e descrisse, Nakamoto scrive che Bitcoin è money without trust: denaro senza (necessità di) fiducia. A differenza di quasi ogni altra valuta contemporanea, infatti, la sua emissione e il suo valore non sono in alcun modo regolati da banche centrali o politiche economiche: bensì, rispettivamente, da un protocollo accessibile, prevedibile e immutabile senza il consenso unanime dei possessori della valuta, e dal valore che le persone attribuiscono liberamente a ogni sua unità.

Money without trust significa dunque poter effettuare transazioni senza dover riporre fiducia in una qualche autorità. E il segreto tecnico di questa grande virtù di Bitcoin risiede in un registro pubblico, aperto, decentralizzato e non modificabile chiamato blockchain, che grazie alla tecnologia peer-to-peer garantisce la sicurezza e la trasparenza di tutte le transazioni in Bitcoin, in tutto il mondo.

Alla luce di tutto questo, potrebbe sembrare folle (e certamente ironico) applicare la tecnologia blockchain – nata dichiaratamente in reazione all’esistenza di autorità – alle istituzioni politiche. Ma forse, in fondo, non è poi così vero che Bitcoin è a-politico: lo è, se s’intende la politica come strumento di potere; non lo è, se s’intende la politica come organizzazione della società.

Poche settimane fa, alcuni consiglieri della Regione Lazio hanno presentato una proposta di legge che, all’articolo 7, prevede l’utilizzo della tecnologia blockchain a diversi fini, tra i quali il monitoraggio e la trasparenza dei flussi finanziari tra Regione, Enti regionali, fornitori e cittadini, la semplificazione e interoperabilità dei registri pubblici (catasto, registro delle imprese, registro delle associazioni, eccetera), e la trasparenza di atti e controlli amministrativi.

Di qui all’operatività di questa e di altre norme simili passeranno tempo, denaro e tentativi. Tuttavia, in un Paese che da decenni pone seri problemi di accountability della classe politica e delle istituzioni, ben vengano esperimenti come questo: come spesso accade, la digitalizzazione potrebbe all’improvviso rendere obsoleti nodi irrisolti da secoli di norme e discussioni, perfino nella gestione (e nel significato) della democrazia.

Twitter: @glmannheimer

22
Gen
2017

Quanto costa chiudere le frontiere?—di Giuseppe Portonera

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Giuseppe Portonera.

Di fronte alla tragedia di un attentato terroristico sul suolo nazionale, la reazione immediata – sia nella società civile che nella classe politica – è quella di chiedere “misure di prevenzione” affinché non accada mai più niente di simile. Una delle proposte più comuni è rappresentata dalla chiusura delle frontiere o, addirittura, da un bando permanente all’immigrazione. Il buon senso – prima ancora che dei basilari rudimenti di analisi economica del diritto – suggerirebbe, però, di valutare con cura quali conseguenze avrebbero simili proposte, anche sul piano della sostenibilità economica per tutta la società. A questo fine torna molto utile una policy analysis del Cato Institute, a firma Alex Nowrasteh, esperto di politiche sull’immigrazione. Si tratta di uno studio molto denso e corposo, che prende in esame la situazione degli Stati Uniti d’America: un Paese in cui, storicamente, il nesso tra economia di mercato e libera circolazione delle persone è sempre stato molto forte.

Lo studio di Nowrasteh prende in considerazione un periodo di 41 anni (1975-2015). Durante questi anni, sono stati identificati 154 terroristi nati all’estero (foreign-born terrorist): di questi, solo 40 sono riusciti a portare a compimento i loro propositi, uccidendo in totale 3.024 persone (circa il 98,6% delle vittime – 2.983 – è caduto negli attentati dell’11 settembre). La possibilità per un americano di essere ucciso da un terrorista nato all’estero è stata quindi di 1 ogni 3.609.709 per anno, lo 0,00003% (la possibilità di essere ucciso da un non foreign-born terrorist è stata 252,9 volte più alta). Nello stesso periodo, 1,13 miliardi di stranieri sono entrati negli Stati Uniti: confrontando questo numero con quello degli attentati riusciti, abbiamo un rapporto di 28 milioni di stranieri arrivati negli States per ogni terrorista che sia riuscito a uccidere. Ma scomponendo quest’ultima classe di foreign-born terrorist a seconda del loro titolo di ingresso nel Paese, si scopre che la maggior parte di questi è rappresentata da turisti: 34, in totale (18 di questi erano gli attentatori-dirottatori dell’11 settembre, responsabili del 93,7% del totale delle vittime di foreign-born terrorism). Ciò vuol dire che se proprio si volesse pensare a un bando permanente di una classe di stranieri potenziali terroristi, si dovrebbe guardare non ai rifugiati o agli immigrati irregolari, ma ai turisti! I costi di un “tourism moratorium” sarebbero ovviamente immensi (secondo il World Travel and Tourism Council, solo nel 2014 il turismo internazionale ha prodotto ben 194,1 miliardi di dollari di ricavi negli States). Per giustificare l’impoverimento generale che seguirebbe a un bando al turismo, quest’ultimo dovrebbe essere in grado di evitare almeno 12.940 vittime all’anno (il che vuol dire che il numero di vittime di attentati dovrebbe essere 187,2 volte più alto di quanto lo sia adesso, stimando – come hanno fatto Hahn, Lutter e Viscusi per l’AEI – il valore di una vita umana in 15 milioni di dollari).

Se già questi numeri dovrebbero farci riflettere sulla non fattibilità di bandi all’ingresso di cittadini stranieri come strumento di prevenzione del terrorismo, la situazione si fa ancora più delicata quando si stimano i costi di una moratoria sull’immigrazione tout-court. Secondo le previsioni riportate da Nowrasteh e realizzate da Benjamin Powell della Tech University in Texas, il costo di un bando all’immigrazione sarebbe di 229 miliardi di dollari all’anno. Perché si bilancino costi e benefici della scelta, il bando in esame dovrebbe evitare 15.267 morti ogni anno (il che vuol dire che il numero di vittime di attentati dovrebbe essere 3.294 volte più alto della media di vittime di attentati realizzati da stranieri non foreign-born terrorist).

In sintesi, un qualsiasi bando – sia nei confronti di tutti gli stranieri che nei confronti di qualche classe speciale – produrrebbe costi immensi per benefici troppo piccoli. Nowrasteh ricorda che uno dei compiti essenziali e irrinunciabili del Governo è quello di proteggere la vita dei propri cittadini da minacce e violenze interne ed esterne, ma, al contempo, con il suo studio, dimostra che la chiusura delle frontiere non rappresenta uno strumento utile di prevenzione del terrorismo. E continuare a promuoverla significa non rendere un buon servizio al proprio Paese. Una politica che comporti più costi che benefici, infatti, è da rifiutare, perché i suoi scarsi effetti sono conseguiti al prezzo di distogliere risorse e attenzione da programmi più utili e efficaci. La policy analysis del Cato Institute, anche se concentrata sul particolare caso statunitense, stimola quindi riflessioni importanti anche per il contesto europeo e italiano. La lotta al terrorismo è una delle più grandi sfide del nostro tempo: se viene combattuta, però, a suon di politiche radicali ma inefficaci, elettoralmente vendibili ma infondate, si rischia seriamente di perderla.

19
Gen
2017

La natura della politica, di Raimondo Cubeddu—di Tommaso Alberini

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Tommaso Alberini.

Raimondo Cubeddu, ordinario di filosofia politica a Pisa, è un amico dell’IBL. Può capitare di incontrarlo ai seminari, agli eventi organizzati in giro per lo stivale o alla cena con annessa premiazione al freedom fighter dell’anno, tenuta ogni autunno a Milano. Il Premio Bruno Leoni 2016 è andato a Deirdre McCloskey, studiosa eclettica munita di cattedra a Chicago, nella stessa città i cui atenei hanno ospitato tanti altri campioni della libertà, da Milton Friedman a Friedrich von Hayek. Read More

12
Gen
2017

Voucher: il dito e la luna

Dei tre referendum abrogativi proposti dalla CGIL, su cui ieri si è espressa, per vagliarne la legittimità, la Corte Costituzionale, i due più rilevanti per il mercato del lavoro nel suo complesso sono certamente quelli sull’articolo 18 (il cui quesito è dichiarato inammissibile, auspicabilmente relegando per sempre il tema ai confini della storia) e sulla responsabilità solidale nei subappalti. Ma il terzo, sui cosiddetti voucher o buoni lavoro, ha un valore simbolico che i primi due non hanno.

La campagna referendaria dei prossimi mesi avrà per oggetto principale, con ogni probabilità, proprio quest’ultimo quesito. Ma la ragione che lo rende interessante non è questa – bensì il suo opposto. Sembrerebbe facile, infatti, identificare con precisione i fronti opposti della battaglia: quello della flessibilità da una parte, e quello delle tutele dall’altra. Il problema è che la partita che giocano è un’amichevole di mezza estate, perché il sempre più massiccio utilizzo dei voucher (più che raddoppiato negli ultimi dieci anni) è soltanto una spia di un problema molto più grande che affligge il nostro mercato del lavoro: e cioè che metà dello stipendio di ciascun lavoratore del settore privato è depredata dallo Stato e, ancor peggio, da sue articolazioni di matrice fascista. E se la metà dello stipendio di ciascun lavoratore finisce nelle mani dello Stato e delle sue articolazioni di matrice fascista, come possiamo sorprenderci se le imprese non assumono e ricorrono ai voucher?

Ma questo problema, nel referendum della prossima primavera e nella campagna che lo precederà, non troverà spazio. E, badate bene, la colpa non è solo della CGIL, ma soprattutto di chi negli ultimi anni ha destinato ogni sforzo politico, normativo ed economico alla flessibilizzazione dei contratti di lavoro senza intervenire sul cuneo fiscale (aumentato del 4% negli ultimi dieci anni), così offrendo ottimi argomenti a chi di argomenti non ne aveva proprio più, come la CGIL, per opporsi al Jobs Act facendo leva sui numeri, disastrosi, del mercato del lavoro negli anni della crisi. Se la surreale, anacronistica discussione sull’articolo 18 si è protratta sino ad oggi, insomma, la colpa è pertanto anche di quelle stesse forze politiche che, al referendum della prossima primavera, difenderanno i voucher.

Queste ultime, per inciso, hanno perfettamente ragione ad opporsi all’abrogazione dei buoni lavoro, per ragioni morali ancor prima che economiche. L’auspicio è che il giorno in cui costoro e i loro avversari capiranno che il problema principale del mercato del lavoro è che oggi ciascun posto di lavoro nel settore privato ne costa alle aziende uno e mezzo arrivi prima che quel posto ne costi due; di cui il secondo, magari, utile a pagare lo stipendio a ciascuna delle 900 persone che l’INPS intende assumere nel 2017.

Twitter: @glmannheimer

10
Gen
2017

Rai. Piccola rivoluzione in vista?—di Luca Minola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Luca Minola.

Dopo le dimissioni del direttore editoriale della Rai Carlo Verdelli, il consigliere Arturo Diaconale ha presentato al Cda una proposta per la riorganizzazione della Rai che prevede, sul piano di bilancio, l’eliminazione della pubblicità e la copertura delle entrate attraverso il ritorno del costo del canone al livello preesistente.

L’Istituto Bruno Leoni, dopo il trasferimento del canone in bolletta, aveva già proposto di «riallineare la RAI alla sua precipua funzione di concessionario di servizio pubblico, eliminando la presenza della pubblicità nelle trasmissioni della televisione pubblica e annullando, peraltro, ogni effetto distorsivo della concorrenza nei confronti delle emittenti private».

Secondo Silvio Boccalatte, autore del focus dedicato a una RAI senza pubblicità (o quasi), già solo dal maggior gettito atteso dalla modifica di riscossione del canone, la raccolta pubblicitaria potrebbe ridursi di un terzo. Se davvero lo si volesse, inoltre, l’autore dimostra nel dettaglio come da una riorganizzazione e riduzione di alcune voci di spesa si possa giungere ad eliminare la pubblicità dalla Rai. Se solo lo si volesse. E il fatto che una proposta simile giunga ora da uno dei consiglieri della Rai non può che essere colto come un segno in tale direzione.