9
Feb
2017

Follie: miliardi per prepensionare chi un lavoro ce l’ha, ma niente contributo-libri scolastici ai poveri

Dicono che i giornali non servano a molto. Invece no. Ha colpito nel segno, l’inchiesta condotta per giorni del Mattino sul ritardo abissale con cui nella scuola secondaria si provvede al pagamento dei contributi dello Stato alle famiglie più povere, per i libri di testo dei loro figli. Nel giro di pochi giorni, dal caso napoletano dell’Istituto Virgilio 4 a Scampia, il quotidiano ha ricostruito come lo scandalo vergognoso non sia napoletano, ma nazionale. Purtroppo investe alcune centinaia di migliaia di famiglie, dal Nord al Sud. Figlio di un’incredibile catena burocratica che sin qui passava dal Ministero dell’Interno – che chissà perché deteneva i fondi preposti –  al MIUR che ne stabiliva la ripartizione, alle Regioni e ai Comuni, prima di disporre concretamente il pagamento. Effetto dei ritardi con cui ogni passaggio burocratico veniva espletato, rispetto all’inizio dell’anno scolastico. Ma anche dei diversi criteri seguiti da Regione a Regione per via dell’incomprensibile più che mai “finto” federalismo italiano, a fronte invece di un ammontare di risorse deciso nazionalmente, per tutte le Regioni che non hanno finanza equilibrata e non integrano la somma resa disponibile dal governo, come invece fa la Lombardia. E come se invece lo standard di sostegno alle famiglie con meno reddito non dovesse essere nazionale.

Save the Children ha meritoriamente calcolato che soltanto tre Regioni (e tutte a Statuto speciale) su venti sono virtuose su questo versante, cioè lì i buoni libro arrivano a inizio anno scolastico. Ma in quattro Regioni – Campania, Sicilia, Piemonte e Molise – bisogna attendere almeno due anni. In Piemonte, addirittura, nel 2016 è stato lanciato un bando “su doppia annualità” per l’erogazione degli assegni per gli anni scolastici 2014/15 e 2015/16. A Palermo, racconta Barbara Evola, assessore alla scuola, “stiamo pagando i libri di studio della secondaria risalenti al 2013–2014 e le borse di studio per i meritevoli concesse nel 2011, il tutot riguarda 9mila bambini». A Terni, aggiunge il sindaco Leopoldo Di Girolamo, «lo scorso anno li abbiamo erogati con tre o quattro mesi di ritardo. Quest’anno poi, visto che abbiamo presentato richiesta per il dissesto dei conti, i fondi poi sono congelati fino al via libera del ministero dell’Economia». E via proseguendo, in questo strano paese a casacca di Arlecchino.

C’è la Regione che adotta il comodato d’uso dei libri, quella che paga anche atlanti e dizionari, quella che integra nel caso in cui il costo dei libri adottati ecceda di parecchio il contributo massimale previsto. Ma la stragrande maggioranza paga in ritardo inescusabile, rispetto all’inizio dell’anno scolastico quando i libri servono ai ragazzi. Con tempi inaccettabili, come in Sicilia.  E con la differenza da Comune a Comune derivante dallo stato di salute della finanza dell’ente locale, perché in quelli in predefault amministrati peggio non può essere adottato alcun anticipo di cassa da parte dell’amministrazione, finché la somma non è concretamente versata nel suo conto di tesoreria.

Il ministro Fedeli oggi ha scritto al Mattino, mostrando di condividere la vergogna assoluta della denuncia documentata dal quotidiano. Scrive che salterà il primo gradino della piramide burocratica, quello del ministero dell’Interno, e si comincerà direttamente dalla disponibilità delle somme al MIUR. Ma resta il fatto che non si capisce quale logica presieda a tutti i passaggi che restano, prima alle Regioni e poi ai Comuni. In un paese ordinato, signor ministro, l’iter dovrebbe restare tutto all’interno dell’amministrazione centrale e territoriale del MIUR. Perché il contributo libri nella scuola secondaria – introdotto 4 anni fa – va inteso come espressione di criteri nazionali di eguaglianza delle opportunità costituzionalmente tutelate, non delle variegate politiche di welfare locale affidate a Regioni  e Comuni. Bene quindi che il ministro Fedeli non nasconda l’inaccettabilità, per colpa dell’inefficienza pubblica, di lasciare migliaia di famiglie in tutt’Italia nella vergogna di non poter comprare i libri ai figli, affidandosi alla buona volontà di dirigenti scolastici e insegnanti per provvedere a spese proprie alle fotocopie. Ma siamo ancora lontani dalla radicale semplificazione che sarebbe logica e giusta, per abbattere i tempi della soddisfazione del bisogno al momento in cui si crea. Non quando, magari, molte ragazze e ragazzi nel frattempo hanno abbandonato la scuola, come capita in percentuali più alte proprio laddove il disagio sociale e di reddito si concentra ed è più diffuso. Cioè esattamente dove il contributo serve e serve in tempo: perché se le famiglie avessero i soldi per comprarli, i libri, il contributo sarebbe superfluo.

C’è una legge in cui ci si si imbatte, quando si studiano i fondamenti dell’economia pubblica. Si chiama legge di Wagner, e non c’entra nulla ovviamente l’arcinoto musicista tedesco. Prende il nome dall’economista Adolphe Wagner, che la elaborò. E’ una legge secondo la quale la spesa pubblica tende a crescere, nei paesi avanzati, più rapidamente di quanto cresca il reddito-procapite.  E’ alla radice delle proliferazione dei soggetti pubblici e dell’estensione del loro perimetro, dell’aumento nel tempo delle loro risorse rispetto al PIl, della continua necessità di alzare le tasse per inseguire l’aumento di spesa. Oltre una certa soglia sul PIL – che in Italia è varcata da tempo –  è la legge che spiega perché le amministrazioni pubbliche perseguano innanzitutto il fine di estendere i propri poteri di gestione e di veto, rispetto invece a catene burocratiche e amministrative snelle ed efficienti.

E’ questa legge ad aver disegnato la folle catena di competenze e passaggi burocratici che negano alle famiglie povere di Scampia e di tutta Italia il contribuito per comprare i libri ai figli quando servono.  Un paese che spende miliardi nel welfare per prepensionare chi il lavoro ce l’ha, e non riesce a far comprare i libri ai figli dei poveri, non è un paese in cui non si spende abbastanza, come molti ripetono a torto. E’ un paese invece cui un mare di risorse va a chi ne avrebbe meno bisogno, in cui ci concede il bonus di 500 euro ai diciottenni e agli insegnanti, mentre si nega il dovuto a chi ne ha bisogno assoluto, più di ogni altro. E’ un paese che si riempie la bocca di giustizia sociale, ma la riserva solo a chi ha voce e potere organizzato per farsi sentire nell’arena pubblica del consenso ai partiti. Abbiamo parlato da due anni di scuola incentrando il 95% dell’attenzione sul problema dell’assunzione in ruolo di chi nella scuola lavora, se debba avere la cattedra vicino a casa, o se debba essere chiamato laddove le cattedre sono scoperte. E ci scordiamo bestialmente che la scuola va invece prioritariamente considerata nell’interesse di chi la frequenta. Perché, se è di famiglia povera, è l’unico vero ascensore sociale dal quale può aspettarsi di non morire nella stessa povertà in cui è nato.

9
Feb
2017

“Se non riesci a convincerli, confondili” ( Confucio).

Nel 1997 8.322.166 italiani espressero la volontà di abolire l’ordine dei giornalisti: non pochi. Ma a nessuna maggioranza di eletti venne mai in mente di mettere mano alla questione: l’ennesima prova, se ce ne fosse bisogno, della siderale lontananza della nostra classe politica da un’idea di società libera e aperta. Vale davvero la pena rileggere le parole di Luigi Einaudi ne Il buongoverno: “Albi di giornalisti! Idea da pedanti, da falsi professori, da giornalisti mancati, da gente vogliosa di impedire altrui di pensare colla propria testa. Giornalisti sono tutti coloro che hanno qualcosa da dire o che semplicemente sentono di poter dire meglio o presentar meglio la stessa idea che gli altri dicono o presentano male… Ammettere il principio dell’albo obbligatorio sarebbe un risuscitare i peggiori istituti delle caste e delle corporazioni chiuse, prone ai voleri dei tiranni e nemiche acerrime dei giovani, dei ribelli, dei non-conformisti”. Il M5S qualche anno fa ha presentato un disegno di legge per l’abolizione dell’ordine dei giornalisti ed alcuni suoi esponenti si sono dichiarati anche favorevoli, in generale, alla revisione del sistema degli ordini professionali. Già nel secondo “Vday” dell’aprile 2008 si raccoglievano le firme “per una libera informazione in un libero Stato”, per l’abrogazione della legge 66/1963, “perché l’accesso alla professione di giornalista e il suo esercizio siano liberi da vincoli burocratici e corporativi di sorta”. Ma dispiace capire che  neppure questo è un reale obiettivo del movimento. Perché l’onorevole Di Maio chiede oggi all’ordine dei giornalisti di intervenire per punire  una lista di giornalisti considerati contro il movimento. Con questa iniziativa Di Maio vuole proprio far risorgere il più becero spirito fondativo dell’ordine dei giornalisti, una delle massime espressioni e strumento del corporativismo e del totalitarismo fascista. Ma, d’altro canto, il movimento è sempre meno 5 stelle e sempre più mille lune, tanto sono mutevoli le idee dei suoi componenti. Forse all’onorevole Di Maio gli ordini professionali piacciono, così come il protezionismo e un certo nazionalismo in salsa antieuropea: non a caso l’ordine dei giornalisti è una perla tutta italiana, non esiste né in Francia, né in Germania, tantomeno in UK. Ad altri del movimento, forse, queste posizioni piacciono meno, ma chi può dirlo, si tratta di ipotesi, anzi, peggio, di illazioni, perché la forza e l’arma più potente e tremendamente efficace del movimento è proprio l’irriconoscibilità. All’indomani della sentenza della consulta sui quesiti riguardanti il Jobs Act, sempre Di Maio tuonava su Facebook: “Saremo chiamati a votare per il referendum che elimina la schiavitù dei voucher”. Contemporaneamente il guru delle politiche del lavoro grilline Domenico De Masi da alle stampe il suo libro: “Lavorare gratis, lavorare tutti”. Dunque, il M5S, al “giogo” dei voucher pagati preferisce la “libertà” del lavoro gratis? Mistero. Su un punto, però, sembrano tutti convergere in modo chiaro: vincere le elezioni e prendere il potere. Esattamente come tutti sempre, da 50 anni a questa parte: non è importante che si capisca quale sia la loro idea di paese, il loro progetto, le loro posizioni: come dice la canzone, visto che è periodo di Sanremo, ci vogliono tutti “Confusi e infelici”.

6
Feb
2017

È il “miraggio crudele” dello statalismo a generare l’anti-politica

Si resta a volta sorpresi dal fatto che l’anti-politica italiana sia, in realtà, tutto tranne che “anti-politica”. Essa non chiede mai ai politici di restare fuori dalle nostre vite: chiede, piuttosto, “altri” politici. Nonostante il conclamato fallimento delle classi politiche di ogni colore e sfumatura ideologica, l’anti-politica italiana si ostina a immaginare che prima o poi arriverà la tornata elettorale giusta, quella in cui il “buon governante”, finalmente, farà la sua tanto attesa apparizione. E se questo non avverrà, pazienza: è sufficiente prepararsi per le successive elezioni. Ci sono sempre nuovi e (tendenzialmente) peggiori “paladini” tra cui scegliere.

Come ha fatto Angelo Panebianco, in un fondo sul Corriere della Sera di qualche mese fa, si possono distinguere due tipi di “anti-politica”, una vera e una falsa. Quella vera è quella di Reagan e Thatcher, quella per cui il “governo non è la soluzione, ma parte del problema”. Quella falsa è quella che «convoglia il disprezzo dei cittadini sulla politica, ma pretende altresì che la politica resti l’impicciona di sempre». È quella «oggi di moda», scrive Panebianco, «un ossimoro: è un’antipolitica statalista». È una disamina perfetta, se non fosse per il fatto di ritenere che l’anti-politica “falsa” sia un fenomeno dell’oggi. Essa ha, infatti, radici ben più profonde e risalenti nella storia della politica italiana. Lo aveva capito bene Sergio Ricossa, che – nel suo “I fuochisti della vaporiera” (1978), di prossima ristampa per IBL libri – ha individuato nel fallimento del primo centro-sinistra (che troppo aveva promesso e troppo poco mantenuto) l’inizio dell’infatuazione statalista dell’elettorato italiano: «A furia di sentir cianciare di “qualità della vita”, adesso voleva una vita di qualità… Chiedere l’intervento dello Stato divenne la forma più comune, e forse la più pericolosa, di pigrizia mentale. Anche il ceto medio, quella parte della popolazione che una volta eccelleva per laboriosità, si era stancato. Perché ammazzarsi di fatica per mettere da parte qualcosa, se era la politica a decidere il bello e il brutto tempo? Gli italiani erano stati convinti che la politica fosse tutto, ma che quei politici fossero niente. Il miraggio della programmazione aveva fatto vedere fontane inesistenti agli assetati nel deserto. Era stato un miraggio crudele, che chiedeva vendetta».

Da quel “miraggio crudele”, in effetti, l’Italia non si è più ripresa. Quando fu promosso, il centro-sinistra nato dall’alleanza tra DC, partiti minori di centro e socialisti fu pensato come “irreversibile”: e in una certa misura, esso lo fu. Come nota Ricossa, le sue politiche economiche e sociali non si limitarono a vanificare i risultati straordinari del miracolo economico, ma ebbero un impatto “formativo” straordinario su intere generazioni. Ne cambiarono – ahinoi, in peggio – le aspettative e l’atteggiamento nei confronti dello Stato: non più soggetto da tenere a debita distanza, bensì oggetto da blandire e riverire. I beni pubblici la cui erogazione si aspettava non erano più ordine e amministrazione della giustizia: ma sussidi, baby-pensioni… perfino occhiali e panettoni! Ci si rese conto che davvero lo Stato è l’illusione attraverso la quale tutti pensano di poter vivere sulle spalle di tutti. Oggi gli occhiali e i panettoni vengono prodotti e venduti da aziende private, ma la richiesta di prebende non è affatto diminuita: anzi, attualmente, la policy più distintiva dell’anti-politica italiana è pagare le persone perché queste non facciano niente, corrispondendo loro un “reddito” per il solo fatto di essere “cittadini”.

L’Italia è un Paese schizofrenico: nei giorni pari lamenta l’incompetenza dei governanti; nei giorni dispari chiede che essi facciano qualcosa in più e di diverso. Paradossalmente, il più grande “successo” della politica italiana sta in questo: nel suo riuscire a perpetuarsi proprio grazie all’anti-politica “falsa”, che si concentra su una battaglia di nomi e colori, anziché su una di sistemi e condizioni istituzionali. Le promesse politiche italiane non possono che fallire (per via di quell’impiccio noto come ‘principio di realtà’): eppure, a ogni fallimento corrisponderà una reazione uguale e non contraria (con buona pace di Newton). Il “miraggio crudele” di cui scrive Ricossa esige vendetta, che si consuma con la sostituzione delle persone pro-tempore al Governo e non con il mutamento radicale dei metodi di Governo. È questa l’essenza dell’anti-politica italiana: i grillini non si sono inventati nulla. E anche Renzi sembra averlo capito: le sue ultime uscite “populiste” sembrano deporre a favore di un tentativo di arrestare la crescita dell’anti-politica “falsa”, prima che questa realizzi la sua vendetta (la bocciatura del referendum costituzionale ne è stato un assaggio).

Non è facile dire se ci sarà mai spazio per un’anti-politica “vera” in Italia. L’attuale congiuntura internazionale non ci permette di essere fiduciosi: un messaggio politico anti-mercato, anti-scienza, anti-globalizzazione trova un terreno fertile nel nostro agone elettorale. Quello che dobbiamo fare, però, è far nostra la lezione di Sergio Ricossa: è il miraggio statalista a generare l’anti-politica. Se non lo si dissolve al più presto, il nostro Paese finirà per consumarsi definitivamente. E allora, il risveglio, brusco, avrà gli occhi del default.

@GiuseppePortos

4
Feb
2017

Come cambia il mutuo soccorso

Le società operaie di mutuo soccorso si svilupparono durante l’Ottocento. Stando agli storici, alcune forme simili a queste associazioni si possono far risalire alla Roma Antica, ma è indubbiamente nel pieno della rivoluzione industriale che queste, basate sulla solidarietà tra i membri della classe operaia, cominciarono ad affermarsi e ad acquisire rilevanza. Una forma di assicurazione, che come tale si basava, e si basa ancora oggi, sulla collettivizzazione di alcuni rischi tra un elevato numero di soggetti.

Inizialmente, i rischi in questione erano quelli inerenti, per esempio, la malattia, gli incidenti sul lavoro, i decessi o la disoccupazione. Poi arrivò lo Stato Sociale, che monopolizzò l’organizzazione di tutte queste attività. Nel frattempo poi la qualità della vita e le condizioni di lavoro migliorarono talmente tanto che le società di mutuo soccorso finirono con lo specializzarsi su alcune specifiche questioni “secondarie”, come ad esempio attività educative, culturali e ricreative a favore degli associati.

E arriviamo ai giorni nostri, in cui succede che nascano cooperative di mutuo soccorso tra partite IVA. Un esempio è dato da SMART, una società di mutuo soccorso tra professionisti del settore culturale e ricreativo, con sede anche a Milano, che sta guadagnando sempre più affiliati (ne conta più di 75.000). L’idea è nata in Belgio nel 1998 ed è molto semplice: a fronte di una ritenuta sui compensi dei lavoratori autonomi, SMART si fa carico di tutte le procedure burocratiche e amministrative a cui sono tenuti a sottostare questi lavoratori, sobbarcandosi anche il rischio dei ritardi nei pagamenti dunque pagando i propri affiliati in anticipo rispetto alla reale riscossione. I freelance che utilizzano SMART, in cambio di una percentuale sui propri compensi dunque, possono offrire e svolgere il proprio lavoro autonomo senza doversi preoccupare dei requisiti burocratici a cui li sottopone lo stato italiano o dei clienti pigri nei tempi di pagamento.

La narrativa sulle origini delle società di mutuo soccorso è solita glorificare le vittorie del movimento operaio contro la crudeltà del mercato. Scrive, per esempio, Adriana Luciano, in un working paper pubblicato da Euricse:

…il mutuo soccorso nasce come forma organizzata di reciproco aiuto con il capitalismo. Costituisce una prima risposta collettiva alle conseguenze drammatiche del processo di industrializzazione e segna l’affermazione concreta della rivendicazione di dignità e di autonomia di interi gruppi sociali che affermano concretamente la volontà di difendersi collettivamente dai rischi del mercato sfuggendo all’umiliazione di dover chiedere aiuto nei momenti drammatici dell’esistenza…

Si può certamente imputare al mercato, al capitale e alla nascita delle fabbriche la formazione della classe operaia. Tuttavia le condizioni di vita di allora erano pessime per tutti, con alcuni agi e comodità riservati a pochi fortunati. Quelle condizioni non le ha create il mercato, erano reali. Il libero mercato, insieme a istituzioni in grado di proteggere adeguatamente i diritti di proprietà, ha fatto sì che da quelle condizioni si potesse uscire. È curioso che le pessime condizioni dei freelance di oggi, invece, siano per buona parte imputabili direttamente allo stato, che quando va bene li sovrasta con tasse e richieste di adempimenti burocratici infiniti, e quando va male non li paga, come fanno i peggiori clienti.

Il servizio offerto da SMART per rispondere alla domanda delle partite IVA sembra avere successo. Complimenti a loro. L’auspicio è che in futuro, anche in Italia, esso possa essere legato ai rischi inerenti lo svolgimento di ogni attività autonoma, e non agli artifici di uno stato ingiusto come quello che vediamo oggi.

@paolobelardinel

2
Feb
2017

Come l’assenza di diritti di proprietà diffusi causò la Grande carestia irlandese—di Giuseppe Portonera

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Giuseppe Portonera.

La Grande carestia, che colpì l’Irlanda (in gaelico irlandese: An Gorta Mór) tra gli anni 1845-1850, uccise circa un milione di persone e ne costrinse all’emigrazione altrettante, causando un crollo tra il 20 e il 25% della popolazione dell’isola. Eric Hobsbawm la definì «la più terribile catastrofe umana della storia europea» di quel periodo. Com’è noto, la carestia scoppiò a seguito dell’attacco di un microrganismo conosciuto come “peronospora” che distrusse gran parte del raccolto di patate, il cibo principale della dieta irlandese. Ma il diffondersi del fungo fu solo la causa scatenante di quella tragedia: altre e ben più ataviche situazioni erano alla base del fragile sistema economico irlandese, come dimostra il libro “An Gorta Mór. La Grande carestia irlandese (1845-1850)” (edito da La vita felice per la Fondazione Ivo de Carneri e curato da Valeria Carozzi e Luigi Mariani). Il volume è di particolare interesse perché raccoglie una serie di scritti di Carlo Cattaneo e John Stuart Mill pubblicati nel periodo della Grande carestia e che ci offrono, quindi, il punto di vista sul tema di due grandi intellettuali del tempo, in presa quasi diretta.
Siamo abituati a leggere nella carestia irlandese un fallimento delle politiche liberiste. I saggi e gli articoli di Cattaneo e Mill ci aiutano, invece, a indagare le cause vere e profonde di An Gorta Mór, senza farci fermare da facili ma devianti interpretazioni. Come mostrano nei propri scritti Cattaneo e Mill, la colpa della Grande carestia non fu affatto del laissez-faire, ma della situazione istituzionale irlandese, che non conosceva una proprietà diffusa e tutelata dall’ordinamento. Proprio An Gorta Mór è una delle prove storiche dell’ineludibile nesso che lega il riconoscimento dei diritti di proprietà alla crescita economica. Read More

1
Feb
2017

Viareggio-Fs. Tesi impopolare: non mi piace ciò che la stessa Cassazione considera “giustizia preventiva”

La sentenza di primo grado sul disastro ferroviario di Viareggio, l’ecatombe che costò la vita a 32 persone il 29 giugno 2009, deve interrogarci tutti. Mauro Moretti, oggi alla guida di Finmeccanica ridenominata Leonardo, è stato condannato a sette anni di reclusione come ex ad allora di Rete Ferroviaria. Sette anni e sei mesi è la pena inflitta a Michele Mario Elia, all’epoca dei fatti al vertice di Rfi. Stessa condanna per Vincenzo Soprano, all’epoca dei fatti ad di Trenitalia. In più molte altre condanne a manager della società, e a queste ultime pesanti sanzioni amministrative. Per tutti gli imputati le accuse andavano dal disastro ferroviario all’omicidio colposo plurimo, dall’incendio colposo alle lesioni colpose.

La premessa a ogni considerazione sulla sentenza – in doverosa attesa, per altro, delle motivazioni – non può che essere, ancora una volta, la piena, totale e assoluta condivisione del cordoglio e del dolore dei familiari delle vittime. Non era e non è in discussione il fatto che le imprese – tutte: piccole e grandi, pubbliche e private –  debbano fare sempre di più e sempre di meglio per tutelare la sicurezza sul lavoro, quella dei loro prodotti e servizi. E del resto i segnali ci sono, di una lenta progressione anno dopo anno verso il contenimento dei disastri sul lavoro. Le denunce di infortunio mortale lavorativo sono state 1.018 nel 2016, erano 1.172 nel 2015. Anche se, naturalmente, pure una sola vittima è di troppo. Figuriamoci poi quando un convoglio ferroviario si trasforma in un letale ordigno incendiario in un centro abitato. Il dolore dei familiari di chi ha perso la vita è irrisarcibile e irrimediabile. E si traduce, giustamente, in una sete inesauribile di giustizia: perché i responsabili non sfuggano alle loro responsabilità.

E’ lo stesso meccanismo che ha portato a processi come quello per le vittime all’altoforno Thyssen a Torino, al processo Eternit sempre a Torino per disastro doloso per le morti da amianto, prescritto prima ancora di cominciare l’indagine ma poi riaperto dalla Procura per omicidio volontario.  O al processo a carico dei manager Olivetti a Ivrea, sempre per le morti da amianto, sfociato in una condanna di primo grado a 5 anni  e 2 mesi a Carlo De Benedetti e al fratello Franco, e 1 anno e 11 mesi all’allora ad Corrado Passera. Però in nessun paese avanzato le morti da amianto, usato per decenni prima di apprendere delle sue letali conseguenze cancerogene, sono mai sfociate in processi penali e condanne dei manager delle imprese. Lo stesso vale per gli incidenti nelle acciaierie. O per quelli ferroviari. La domanda da porsi è: come mai? Sono gli altri, i paesi incivili, barbari spregiatori della vita umana? Oppure c’è qualcosa su cui riflettere qui da noi in Italia, a proposito delle scelte che hanno fatto della giustizia penale contro i capi azienda la via maestra da percorrere quando avvengono gravi incidenti d’impresa?

Ricordiamoci da dove viene, la germinazione nel nostro ordinamento che ha attribuito alle procure la facoltà di indagare imprenditori e manager per fattispecie di reato tanto gravi, dalla strage al procurato disastro, all’omicidio. Fu una norma nata dal recepimento di una direttiva europea, assai più ristretta nelle sue intenzioni e prescrizioni, a divenire nel passaggio tra governo e parlamento uno strumento di estensione punitiva senza eguali nei paesi avanzati. Fu un decreto legislativo, il 231 del 2001, attraverso il quale si affermò nel nostro ordinamento la cancellazione dell’antico principio per il quale societas delinquere non potest. Da quel momento in poi, fu affermato al suo posto il principio della responsabilità delle persone giuridiche, cioè delle imprese, per i reati e gli illeciti compiuti nella presunzione di un proprio vantaggio – economico, fiscale, organizzativo, il fine è estensibile a iosa. Nonché quella penale dei loro dirigenti, manager e proprietari se esercitanti funzioni di controllo e guida operativa.  Come la Corte di cassazione ebbe a dichiarare nella sentenza n. 26654 del 27 marzo 2008: “Il sistema sanzionatorio proposto dal D. Lgs. 231/01 opera certamente sul piano della deterrenza, persegue una massiccia finalità social-preventiva”.

Il fine dichiarato era quello di evitare una volta per tutte la possibilità di utilizzare lo strumento societario come schermo per evitare che la macchina della giustizia potesse imporre sanzioni in caso di violazione della legge. Di conseguenza di quei reati risponde l’azienda, se non ha posto in grado tutte le procedure di controllo più necessarie e avanzate, e direttamente in sede penale chi la guidava, sia se abbia omesso vigilanza e controlli, sia se abbia posto in essere condotte volte non certo a produrre vittime, ma afferenti a qualunque circostanza possa aver avuto un ruolo causale o accidentale nel concorrere a produrre l’incidente e le sue vittime. Non a caso per l’ecatombe di Viareggio, durante i mesi e mesi di processo, i sistemi di sicurezza ferroviari, di linea e del personale conduttore, sono stati approfonditi in lungo e in largo nel dibattimento. Ed è ovvio che su quei sistemi abbiano deciso i manager di Fs. Ma è cosa del tutto diversa dall’aver essi posto in essere strategie volte all’esposizione al rischio di cose e persone, o di produrre stragi.

Quando si emanano sentenze in cui i manager vengono condannati a pene detentive di anni per accuse come strage, disastro, omicidio volontario o colposo, si condannano i vertici aziendali e i responsabili della sicurezza come assassini. E’ un unicum che avviene solo in Italia. E’ un unicum che non identifica affatto gli eventuali responsabili di errate manutenzioni o errori di condotta materialmente all’origine dell’incidente, ma con cui si colpisce “in alto”, seguendo l’idea che la massima giustizia conseguibile sia quella di una esemplare punizione di chi “comanda”. Condannato per essere disposto colpevolmente a voler far morire i propri dipendenti, e cittadini inermi. E’ questo, il succo della “giustizia deterrente e preventiva”, per usare le parole della Cassazione.

Ma la giustizia “preventiva” non c’entra nulla con l’assicurare sempre maggior sicurezza. Questo è un dovere imperativo di civiltà, oltre che efficienza economica. E’ invece l’idea stessa della giustizia sul lavoro e nell’offerta di beni e servizi, che dalla 231 a oggi in Italia è diventata, di fatto e di diritto, una giustizia sommaria: la cui finalità “deterrente” prevale sulla precedentemente obbligatoria e scrupolosa ricerca degli elementi soggettivi e personali del reato, non meramente derivanti dalla carica ricoperta in una catena gerarchica aziendale.

Naturalmente, chi qui scrive è del tutto consapevole che rivedere criticamente le norme che hanno spalancato le porte a una tale idea apparirebbe oggi un’insanabile offesa ai parenti delle vittime. E verrebbe bollato come un’indegna pulsione alla sottovalutazione della sicurezza del lavoro. Perciò, i dubbi che ho esposto resteranno certamente senza esito. Come quasi sempre capita da anni sul ring della conclamata confusione italica tra l’idea di giustizia, e la sua traduzione in cieco giustizialismo. E tuttavia pensateci. Condannare un amministratore delegato come un attentatore alla vita altrui significa avere un’idea del confronto sociale da Tribunale Speciale. Evoca le tricoteuses giacobine che esultavano al carro dei condannati.  E le purghe sovietiche.

 

29
Gen
2017

Salario minimo: quel che si vede e quel che non si vede—di Federico Morganti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Federico Morganti.

Politiche dalle buone intenzioni hanno spesso conseguenze inintenzionali negative. Pochi interventi esemplificano questa realtà altrettanto bene quanto l’innalzamento del salario minimo. La critica economica al salario minimo si basa sull’idea che obbligare i datori di lavoro a pagare un dipendente più di quanto sia disposta a fare sulla base della produttività attesa, indurrà le imprese a recuperare quel costo in altre forme: effettuando tagli al personale, limitando le assunzioni, riducendo il salario di altri lavoratori, effettuando tagli su forme di benefit o altri costi, ricorrendo al lavoro in nero. Normalmente un innalzamento del salario minimo avrà effetti negativi sull’occupazione, come recentemente avvenuto a Porto Rico e Seattle.
I sostenitori del salario minimo tendono a contestare la connessione tra salario minimo e disoccupazione. Ne sia esempio un recente articolo su “The Atlantic”, che riassume in modo egregio gli argomenti (perlopiù di ispirazione keynesiana) a favore del minimum wage: paghe più alte aumentano la produttività dei lavoratori; le aziende possono compensare i costi aggiuntivi innalzando i prezzi dei beni offerti; salari più alti aumentano il potere d’acquisto dei lavoratori (sorvoliamo sul fatto che se i prezzi aumentano il potere d’acquisto diminuisce).
Se le scienze sociali insegnano qualcosa è che il comportamento degli attori sociali è estremamente difficile da prevedere. È questa, del resto, una delle ragioni per cui i liberali invocano lo stato minimo e la dispersione del potere decisionale. La verità è che nessuno può essere certo che un innalzamento del salario minimo abbia in tutti i casi l’effetto di ridurre i posti di lavoro. Secondo uno studio della Cornell University – riportato ancora da “The Atlantic” – negli Stati Uniti innalzamenti modesti del salario minimo non hanno avuto un impatto negativo sul settore della ristorazione, in termini di numero di ristoranti aperti o di posti di lavoro. Tuttavia, se lo studio non ha trovato effetti negativi, forse è perché si è concentrato unicamente sulle predizioni classiche (ad esempio la riduzione dei posti di lavoro). Srikant Devaraj della Ball State University ha studiato gli effetti del minimum wage nei ristoranti dello stato di Washington, trovando che a un innalzamento di 0.10$ nel salario minimo reale ha fatto seguito un aumento delle violazioni negli standard d’igiene compreso tra il 3.35 e l’8.99%. Insomma, salari più alti, ristoranti più sporchi, maggiori rischi per la salute. Un ristorante potrà anche mantenere invariato il numero dei posti di lavoro, ma per fronteggiare l’aumento di spesa potrebbe tagliare le ore lasciando inalterato il carico di lavoro: dipendenti che lavorano meno, o sono costretti a lavorare peggio, saranno meno efficienti nel tenere pulito un locale.
Il legislatore non ha il potere di sollevare le condizioni dei lavoratori per semplice decreto, né le capacità di anticipare in che modo gli attori sociali, in questo caso i ristoratori, reagiranno ai nuovi obblighi. Una cosa che può invece prevedere è che posto di fronte alla prospettiva di una perdita nel fatturato, il datore di lavoro cercherà in qualche modo di compensare. In termini più generali, affinché un’impresa prosperi deve poter organizzare la propria attività con pochi vincoli esterni. Se messa nelle condizioni di essere produttiva e soddisfare i propri clienti – ad esempio offrendo un locale pulito – sarà anche in grado di pagare di più i propri dipendenti. Il rischio, in caso contrario, è penalizzare questi ultimi sotto forma di condizioni di lavoro peggiori. Ora che in seno all’Unione Europea tornano a manifestarsi spinte per una revisione dei minimi salariali nazionali, sarà bene tenere a mente questi rischi.

27
Gen
2017

E se fossero privati?—di Luca Minola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Luca Minola.

Come ogni anno l’istituto di ricerca Eurispes ha pubblicato il proprio “Rapporto Italia” in cui analizza e fotografa la situazione economica e politica della penisola.

Il rapporto conferma che gli italiani continuano, e a ragione, a ritenere la pressione fiscale come un problema. Il 62,5% degli intervistati ritiene che non ci sia stata una sensibile diminuzione delle tasse: le uniche riduzioni, percepite come tali, riguardano, infatti, il canone RAI e la Tasi-Imu.

Al di là di questo dato, prevedibile dato il livello di pressione fiscale a cui siamo sottoposti, una delle sezioni più interessanti del rapporto è quella dedicata alla valutazione dei servizi da parte del campione interpellato, che evidenzia un netto giudizio negativo per quelli forniti dal settore pubblico.

Le amministrazioni pubbliche centrali ottengono il 72.4% delle bocciature, mentre quelle locali il 61%. Non vengono risparmiate nemmeno la Giustizia che ottiene solo il 43.1% dei giudizi positivi, la Sanità e la Difesa che ottengono, invece, il 47.7%.

Il giudizio negativo non è così sorprendente, visto che i cittadini soffrono sulla propria pelle i noti mali della burocrazia e dell’elefantiasi pubblica: si pensi solo agli effetti sulla vita delle persone dei tempi della giustizia o delle liste d’attesa nella sanità pubblica.

Ma oltre a questo vi è un dato ancor più significativo che emerge dal rapporto: dovendo scegliere, il 40% degli intervistati si dice convinto della maggiore qualità dei servizi privati, contro il 24% che, invece, premia quelli pubblici. Le motivazioni dietro a questa scelta non si conoscono, ma basta poco per immaginarle. Generalmente i servizi privati sono efficienti, dinamici, aperti all’innovazione e attenti alla qualità offerta proprio perché sottoposti alle regole della concorrenza.

Si tratta di un giudizio su cui riflettere, dal momento che il grande tabù della riduzione della spesa pubblica, che è la prima esigenza del nostro paese, è l’inviolabilità della gestione pubblica dei servizi di interesse generale. Gli italiani, almeno secondo l’indagine Eurispes, sembrano pensarla diversamente.

Appare evidente che, oltre a semplificare l’apparato burocratico e normativo, l’unica carta rimasta a disposizione per diminuire la spesa pubblica ed aumentare la qualità dei servizi che oggi sono in capo allo Stato, ma che potrebbero tranquillamente essere forniti dal mercato, sembra essere la loro privatizzazione e liberalizzazione.

Solamente attraverso questi processi è possibile sollevare le amministrazioni pubbliche dal compito di offrire alcune prestazioni, oggi inefficienti e onerose a causa della loro pessima gestione, ma puntualmente garantite dalle tasse dei contribuenti.

26
Gen
2017

Blockchain e pubblica amministrazione, la strana coppia

Bitcoin, la criptovaluta inventata quasi dieci anni fa da un programmatore noto sotto lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto, è da molti considerata una forma di denaro ‘a-politica’. Nel paper con cui lo lanciò e descrisse, Nakamoto scrive che Bitcoin è money without trust: denaro senza (necessità di) fiducia. A differenza di quasi ogni altra valuta contemporanea, infatti, la sua emissione e il suo valore non sono in alcun modo regolati da banche centrali o politiche economiche: bensì, rispettivamente, da un protocollo accessibile, prevedibile e immutabile senza il consenso unanime dei possessori della valuta, e dal valore che le persone attribuiscono liberamente a ogni sua unità.

Money without trust significa dunque poter effettuare transazioni senza dover riporre fiducia in una qualche autorità. E il segreto tecnico di questa grande virtù di Bitcoin risiede in un registro pubblico, aperto, decentralizzato e non modificabile chiamato blockchain, che grazie alla tecnologia peer-to-peer garantisce la sicurezza e la trasparenza di tutte le transazioni in Bitcoin, in tutto il mondo.

Alla luce di tutto questo, potrebbe sembrare folle (e certamente ironico) applicare la tecnologia blockchain – nata dichiaratamente in reazione all’esistenza di autorità – alle istituzioni politiche. Ma forse, in fondo, non è poi così vero che Bitcoin è a-politico: lo è, se s’intende la politica come strumento di potere; non lo è, se s’intende la politica come organizzazione della società.

Poche settimane fa, alcuni consiglieri della Regione Lazio hanno presentato una proposta di legge che, all’articolo 7, prevede l’utilizzo della tecnologia blockchain a diversi fini, tra i quali il monitoraggio e la trasparenza dei flussi finanziari tra Regione, Enti regionali, fornitori e cittadini, la semplificazione e interoperabilità dei registri pubblici (catasto, registro delle imprese, registro delle associazioni, eccetera), e la trasparenza di atti e controlli amministrativi.

Di qui all’operatività di questa e di altre norme simili passeranno tempo, denaro e tentativi. Tuttavia, in un Paese che da decenni pone seri problemi di accountability della classe politica e delle istituzioni, ben vengano esperimenti come questo: come spesso accade, la digitalizzazione potrebbe all’improvviso rendere obsoleti nodi irrisolti da secoli di norme e discussioni, perfino nella gestione (e nel significato) della democrazia.

Twitter: @glmannheimer