8
Mar
2017

Ancora sulla norma “anti-scorrerie”, il contrario di quel che servirebbe

Sulla norma “anti-scorrerie” il governo fa sul serio. Al di là delle critiche agli effetti che la norma avrà sulla contendibilità delle società, c’è da evidenziare che – alla data di oggi – non è ancora noto il testo dell’emendamento e quindi i precisi contorni che esso assumerà. Il primo punto da chiarire è quale sarà la soglia di capitale al cui superamento scatterà l’obbligo di comunicazione rafforzato: la scorsa settimana, infatti, il relatore del ddl concorrenza, Luigi Marino, aveva lasciato intendere che l’orientamento era sul 10% del capitale sociale; il Ministro Calenda, invece, a margine di un convegno dell’Antitrust, ha detto di puntare su una soglia ancora più bassa (al 5%).

Altro elemento da definire sono le successive quote di capitale il cui superamento comporterà le ulteriori dichiarazioni di intenti: anche qui, sembra che il legislatore si stia muovendo verso degli scaglioni del 5%. Tenuto conto che l’obbligo del lancio di un’OPA totalitaria si colloca al superamento del 30% del capitale sociale, ciò vuol dire che, nell’ipotesi estrema, il soggetto acquirente potrebbe essere tenuto alla comunicazione ben cinque volte, prima di arrivare alla fatidica soglia. E nelle piccole società quotate, che possono prevedere statutariamente una differente soglia – compresa tra il 25 e il 40% – la situazione rischia di essere ancora più grave (e costosa), considerando che proprio le piccole società sono quelle più a rischio di rimanere avvinghiate a un management inefficiente.

È confermata, infatti, l’intenzione di estendere la portata dell’emendamento a qualsiasi settore, perché – come ha ammesso il Ministro Calenda – è impossibile stabilire a priori quali siano quelli “strategici”. Il che è un (paradossale) punto d’onestà: la valutazione di “strategicità” di una società è rimessa a indici che afferiscono più al campo della discrezionalità politica che a quello delle regole economiche, più a un capitalismo “di relazione” che a uno “di mercato”. Elementi, questi, che mal si conciliano con le caratteristiche di generalità e astrattezza che una norma dovrebbe sempre avere: è stato proprio Calenda a ricordare molto correttamente che elemento imprescindibile per l’esplicarsi del libero gioco della concorrenza è una cornice giuridica chiara e stabile. Ma è impossibile non notare che il combinato disposto tra la soglia al 5% e l’estensione indiscriminata a qualsiasi quotata dell’obbligo di comunicazione rafforzata non farà che aggravare le criticità dell’emendamento “anti-scorrerie” (o “anti-scalate”, come lo abbiamo polemicamente definito). In Italia, il mercato delle società quotate è già piuttosto esiguo (ed esangue): una norma così protezionistica è proprio il contrario di quello che ci vorrebbe per rianimarlo.

@GiuseppePortos

3
Mar
2017

Norma “anti-scorrerie”. C’era una volta il ddl concorrenza

La norma “anti-scorrerie” di cui si parla in questi giorni s’ispira alla disciplina francese, che prevede l’introduzione di obblighi di comunicazione rafforzata per ogni soggetto che superi determinate quote di capitale (tra loro molto ravvicinate) in una SpA quotata. Il soggetto acquirente sarebbe così tenuto a comunicare a ogni giro di boa quali intenzioni muovano il suo acquisto e quali siano i suoi progetti futuri. La notizia di oggi è che – sebbene i contenuti tecnici dell’emendamento siano ancora in fase di definizione – quest’obbligo verrà esteso a qualsiasi società quotata, eliminando quindi l’iniziale limitazione ai soli settori “di interesse strategico”. Il che rende ancora più grave e pericoloso quanto sta accadendo.

Non bisogna lasciarsi ingannare dal nome così “evocativo” scelto dal Ministro Calenda: quella in esame non è una norma “anti-scorrerie”, ma una “anti-scalate”. Essa avrà un solo effetto plausibilmente ipotizzabile: rendere più difficile il processo di contendibilità di una società. Una simile sequela di obblighi informativi, infatti, rischia di “esporre” il potenziale acquirente di una società quotata (di qualsiasi dimensione) prima del momento opportuno e cioè prima del superamento della soglia che rende obbligatoria un’OPA. Ciò rappresenta, al contempo, un portentoso strumento di difesa del management in carica di una società (che si presume non particolarmente capace e efficiente, se rischia di vedersi scalzato da un nuovo investitore) e un danneggiamento delle opportunità degli azionisti diffusi di una quotata estranei al gruppo di controllo (che vedranno allontanarsi la possibilità di partecipare al godimento del premio di controllo della società). E, ovviamente, l’ennesimo ostacolo a investimenti esteri, in un Paese sempre più a corto di capitali nazionali e complessivamente poco internazionalizzato a confronto delle altre maggiori economie europee: in percentuale del PIL, la consistenza degli investimenti diretti esteri in Italia è meno della metà dei livelli di Francia, Germania, Regno Unito e Spagna.

In tutta questa storia, c’è poi una sorta di ciliegina finale sulla torta dell’assurdo: una norma che serve a fossilizzare gli assetti proprietari, rendendo più costoso il processo di contendibilità di un’azienda, infatti, verrà inserita in una legge che dovrebbe servire a iniettare maggiore concorrenza nel nostro sistema economico. Questo ci conferma in un antico sospetto: in Italia si vendono come “concorrenziali” scelte regolatorie che sono invece a misura degli incumbent e che sono, pertanto, pensate per poter mettere fuori gioco qualsiasi outsider. Se non ci fosse da piangere, verrebbe quasi da ridere.

@GiuseppePortos

3
Mar
2017

Cosa frena davvero i disoccupati dal farsi imprenditori?

Senza un’imprenditorialità diffusa e attiva non può esistere produzione e distribuzione di ricchezza. Questo è vero sempre, ma lo è a maggior ragione in tempi di recessione prolungata. Ciò ha spinto verso l’adozione di politiche di sostegno e promozione del fare impresa: ma nessuna di queste sembra aver sortito un effetto rilevante. Perché? Se lo sono chiesti gli autori del volume «Disoccupazione, imprenditorialità e crescita. Cosa frena davvero i disoccupati?» (a cura di Raffaele De Mucci e Rosamaria Bitetti, edizioni Rubbettino, pp. 117, € 12), i quali hanno realizzato un’analisi “dal basso”, per capire cosa freni davvero i disoccupati – tipici destinatari di una politica di incentivazione all’imprenditorialità – dall’avviare autonomamente un’attività economica, intervistandone direttamente un campione rappresentativo. Se si vuole, infatti, adottare una politica efficace bisogna prima studiare a fondo le cause del problema: finché si compiono scelte assunte da una visuale dirigista, queste saranno inesorabilmente destinate al fallimento.

I risultati dell’indagine statistica tornano pertanto molto utili: su un campione di 750 intervistati, spicca come principale causa ostativa al “fare impresa” l’attitudine personale (31%), seguita dall’accesso al credito (23%), dalla situazione congiunturale (19%), dalla paura di corruzione e mafia e dall’assenza di competenze economico-manageriali (a pari merito, 8%), dai costi regolatori (7%) e dall’impossibilità di fare affidamento su un network di competenze (4%). Come nota Bitetti nel saggio introduttivo del volume, la carenza di attitudine personale è giustificata in maniera preponderante da un’avversione al rischio: il 9,3% degli intervistati preferirebbe svolgere un lavoro dipendente; l’8,3% si dice preoccupato di poter perdere tutto; il 7,3% non vuole fare debiti. Il problema è quindi di natura “culturale”: non si è pronti ad assumere i rischi che costituiscono elemento ineliminabile dell’attività imprenditoriale e si preferisce una prospettiva di vita più “assicurata”, come può essere un lavoro dipendente. Utilizzando la celebre definizione di Frank H. Knight, il campione intervistato non sembra attrezzato opportunamente per affrontare l’“incertezza” in cui opera tipicamente l’imprenditore (e forse, non sembra neanche comprenderla appieno). L’attitudine culturale dei disoccupati italiani è quindi aggravata da una mancanza di strumenti basilari per l’intrapresa personale: e ciò sembra confermato anche dalle risposte sulla materia dell’accesso al credito. Posti di fronte alla difficoltà del reperimento delle risorse, i disoccupati intervistati pensano immediatamente ai propri risparmi personali (e, di fatti, la loro scarsità li dissuade dall’impegnarsi in un’attività economica autonoma), mostrando notevole diffidenza rispetto alla possibilità di farsi finanziare da un creditore (e così la debole conoscenza del funzionamento del mercato del credito diventa un ostacolo evidente alla diffusione di progetti imprenditoriali).

La poca consapevolezza che il campione mostra di avere delle coordinate fondamentali dell’imprenditorialità risulta evidente anche alla luce delle altre risposte fornite: è sorprendente la sottovalutazione che esso compie della rilevanza di adeguate competenze tecnico-manageriali e dell’impatto (proibitivo, ma non percepito) dei costi di regolazione. Ed è preoccupante poi la preferenza dichiarata per un sostegno da parte delle istituzioni o di reti amicali rispetto allo sviluppo di un network di conoscenze (per comprendere come le preferenze personali siano influenzate anche dal contesto istituzionale in cui esse si esprimono, si consiglia la lettura del saggio di Fallocco che si trova nel volume). Che fare, dunque? La soluzione passa per quella che De Mucci, nel testo, definisce come una vera e propria “rivoluzione culturale”: «piuttosto che “cercare lavoro”, le nuove generazioni devono assumere la prospettiva di “crearsi un lavoro”». Come emerge dal sondaggio, infatti, sono gli under 35 i più propensi ad avere una cultura imprenditoriale ed è quindi su di loro che si può (deve) puntare con più convinzione. Ai giovani si deve quindi indicare l’imprenditore, unico vero produttore di ricchezza, come modello sociale positivo, come prospettiva di vita desiderabile.

Ovviamente – ed è proprio De Mucci a ricordarlo – l’efficacia di qualsiasi investimento di tipo “culturale” non può prescindere dalla creazione di un ecosistema istituzionale favorevole all’impresa libera e privata: non è, dunque, spuria la correlazione che lega la 48° posizione dell’Italia – la più bassa tra i Paesi OCSE, se si esclude il Messico – nel Global Enterpreneurship Index (che misura la diffusione dell’indice di imprenditorialità) al nostro 50° posto nella classifica Doing Business della Banca Mondiale, che è basata sulla “facilità” di fare impresa (peggio di noi, nell’UE, fanno solo Grecia e Malta).

Finché “intraprendere” significherà scontrarsi con mostruosi costi di regolazione, coriacee barriere all’ingresso, burocrazia, legislazione e giustizia “nemiche”, è difficile assistere a una rinascita della diffusione della cultura d’impresa. E come ci mostra, però, l’analisi in esame, è vero anche il contrario. Al diminuire dell’interesse verso l’attività di impresa, infatti, corrisponde un aumento della diffusione dell’ignoranza del peso economico di questi ostacoli. Ed è per questo improbabile che essi diminuiranno, fintantoché sempre meno persone saranno costrette ad affrontarli. Del resto, come ci insegnò Mises, i governi diventano liberali solo quando sono costretti ad esserlo dai loro cittadini.

@GiuseppePortos

28
Feb
2017

Disuguaglianza, un problema relativo o assoluto?—di Alessandro D’Amico

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Alessandro D’Amico.

La diseguaglianza è un argomento centrale nel dibattito contemporaneo. Il rapporto Oxfam del mese scorso è l’esempio più recente.
Dopo la sua pubblicazione, in molti si sono chiesti se sia giusto, o normale, che le otto persone più ricche del mondo posseggano tanta ricchezza quanto i tre miliardi e mezzo di persone più indigenti.
Questo dato, al netto dei dubbi su come sia stato calcolato, ha contribuito a mettere in discussione il modello capitalista delle economie sviluppate, fornendo ulteriore materiale ai suoi critici, dopo nove anni di crisi globale.

Il rapporto di Oxfam fa leva sugli istinti primitivi di tutti noi. In natura, gli animali si sono evoluti per riconoscere l’ingiustizia intrinseca nell’allocazione impari delle risorse. Questo comportamento è visibile già nei bambini e negli scimpanzé.
Non c’è dubbio, quindi, che una simile rappresentazione della distribuzione della ricchezza possa scandalizzare e far riflettere sulla salute del nostro sistema produttivo.
Tuttavia, il mondo è assai diverso da quello che abbiamo conosciuto quando eravamo cacciatori e raccoglitori. Si è trasformato (lo abbiamo trasformato…) troppo in fretta perchè noi ci potessimo adattare secondo i ritmi lenti dell’evoluzione.
Per questo motivo, informazioni che ci appaiono istintivamente rilevanti, scandalose e sintomo di un problema devono essere analizzate razionalmente, alla luce delle conoscenze teoriche ed empiriche che possediamo circa i sistemi economici.

Quando si parla di “extreme income inequality” è importante distinguere tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo.
Infatti, le considerazioni circa la diseguaglianza del reddito nei due casi raggiungono risultati quasi del tutto opposti.
Alla base della mia tesi ci sono due concetti teorici molto datati e strettamente correlati tra loro: la piramide dei bisogni di Maslow e l’utilità marginale decrescente del denaro.
La piramide di Maslow stabilisce una gerarchia dei bisogni umani: i bisogni fisiologici e più impellenti stanno alla base e vanno soddisfatti per primi.
Gli altri bisogni, cioè stima, sicurezza, senso di appartenenza, autorealizzazione vengono soddisfatti solo in seguito.
L’utilità marginale decrescente del denaro fa da corollario all’argomentazione empirica della piramide di Maslow, mostrando che il denaro perde d’importanza per chi lo possiede man mano che si accumula.
Chi riceve lo stipendio al 27 del mese prima paga l’affitto e le bollette, poi fa la spesa, la benzina e poi paga l’abbonamento alla pay tv, va al cinema e al ristorante e mette via quel che resta per le vacanze.

Insomma, con ogni euro guadagnato si sale verso l’apice della piramide di Maslow e si soddisfano bisogni sempre meno impellenti. Come diceva Paperino in una delle storie di Carl Barks: cinque dollari non sono niente per chi li ha, sono tutto per chi non li ha.

Per i motivi esposti sopra, la diseguaglianza del reddito è un tema che assume due portate radicalmente opposte a seconda dei redditi delle persone coinvolte.
Questo resta vero anche se consideriamo, relativamente, lo stesso livello di ineguaglianza in tutto il mondo.
Immaginiamo un’economia con tre individui: un povero, un benestante e un immensamente ricco. Il benestante è 100 volte più ricco del povero e il ricco è 10000 volte più ricco del benestante. Il povero è alla base della piramide di Maslow, il benestante è già in cima, anche se ha qualche sfizio da togliersi, mentre il ricco è sazio e annoiato e non sa nemmeno cosa significhi la parola “bisogno”.

Sarebbe semplice sia per il benestante che per il ricco corrompere il povero e indurlo a infrangere la legge o ad abusare del suo potere istituzionale, qualora lo avesse, facendo leva sui suoi bisogni primari. Per esempio potremmo pensare a un poliziotto di un paese emergente che viene convinto da un ricco turista a chiudere un occhio su una multa. Questo atteggiamento lederebbe gli abitanti di quel paese, venendo trattati diversamente dalle proprie istituzioni, che discriminerebbero tra ricchi e poveri. Ovviamente il ricco potrebbe corrompere il poliziotto con più facilità. Invece, sarebbe assai più difficile per il ricco corrompere il poliziotto se lui fosse benestante, essendo già perlopiù sazio, al vertice della propria piramide. Probabilmente il benestante si lascerebbe corrompere comunque, ma per il ricco, o i ricchi, sarebbe difficile corrompere i benestanti se questi fossero svariati miliardi e non più uno solo.

Per i motivi citati sopra ciò che conta realmente, quando si parla di diseguaglianza, non è tanto la dimensione relativa nella disparità di ricchezza, quanto la ricchezza assoluta della parte più debole. Maggiore è la ricchezza della parte debole e minore sarà il potere del ricco su di essa.
Se osserviamo il fenomeno da questo punto di vista, il sistema capitalista gioca un doppio ruolo.
Da una parte esso è il presunto colpevole della disparità nella distribuzione della ricchezza, ma dall’altro lato è quasi certamente il responsabile del più grande incremento della ricchezza umana mai registrato.

Quindi, finché la capacità del capitalismo di generare nuova ricchezza non è compromessa e questo è capace di sollevare dal loro stato di povertà sempre più persone, la diseguaglianza è un fenomeno scarsamente rilevante, destinato a diventarlo ancora meno nel tempo.

La diseguaglianza minaccia il capitalismo là dove le istituzioni sono più deboli.
Noi abitanti delle regioni sviluppate del mondo dovremmo, perciò, impegnarci per tutelare la democrazia e il libero mercato dei paesi in via di sviluppo, per garantire che anche lì le persone diventino abbastanza ricche da essere libere e serene in cima alla loro piramide.

25
Feb
2017

OPA e stranieri: la norma “antiscorrerie” premia l’inefficienza

Arriva la “norma antiscorrerie”, l’intenzione del governo è stata ieri annunciata dal ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda. E’ presentata come una misura di maggior trasparenza nell’assunzione progressiva di quote di società quotate, ma detto in parole semplici la volontà è di mettere sabbia nell’ingranaggio delle scalate ostili alle società quotate. E sarà inserita nel disegno di legge sulla concorrenza, che giace da oltre due anni in parlamento ormai disossato proprio da tutte le misure inizialmente più efficaci per aprire il mercato. Il paradosso è che ora verrà invece approvata, ma per introdurre nel nostro ordinamento misure volte a rendere meno contendibile il controllo delle imprese.

Naturalmente, governo e partiti sostengono che misure simili non sono affatto dettate dalla necessità di alzare muri contro il finanziere bretone Bolloré e la sua Vivendi in Mediaset, della quale è giunto la scorsa estate a possedere il 28,8% che con i diritti di voto diventerà tra poco il 29,9%, cioè a un soffio dalla soglia dell’OPA obbligatoria, facendo a tutti immaginare di volerla associare a un progetto comune con Telecom Italia, di cui è primo socio con oltre il 24% del capitale. Fatto sta che l’annuncio viene all’indomani della notizia di Bolloré indagato per aggiotaggio dalla Procura di Milano per il comportamento tenuto nella vicenda Premiumtv-Mediaset. E mentre si resta in attesa dell’indagine aperta dall’Agcom sull’eventualità che la posizione di eventuale controllo in Mediaset e Telecom Italia oltrepassi nel mercato delle comunicazioni la soglia della posizione dominante.

Vero è che, oltre a Mediaset e Telecom, la politica teme anche che magari dietro il successo clamoroso di Unicredit, che ha appena annunciato la chiusura a 13 miliardi del suo aumento di capitale (e per fortuna: Mustier va ringraziato, se avesse fallito un nuovo tsunami si sarebbe abbattuto su tutte le banche italiane), possano esservi ingressi sostanziosi di “pesanti” soggetti bancari e assicurativi europei. E la stessa cosa la politica teme in Generali, sulla quale proprio ieri Banca Intesa ha annunciato formalmente di rinunciare a ogni mira. A queste preoccupazioni sui pochi residui giganti finanziari italiani, e naturalmente sulle centinaia di miliardi di titoli pubblici che hanno in pancia, la politica aggiunge la necessità della “reciprocità” nei confronti della Francia. E’ in corso il braccio di ferro tra la nostra Fincantieri e il governo francese, che si è messo di mezzo contro l’intenzione italiana di rilevare il 66% dei cantieri di Saint Nazaire finora detenuto dai sudcoreani di STX. Perché mai allora l’Italia non dovrebbe adottare una norma antiscalata esattamente analoga a quella francese?

“Nel mondo la globalizzazione arretra e si torna al protezionismo, noi non siamo più fessi degli altri”, è diventato il motto del governo. Eppure, qualche dubbio dovrebbe venire. Sarà un caso ma non lo è: dopo la soglia unica al 30% disposta negli anni ’90 per l’Opa obbligatoria nelle quotate dal TUF a cui lavorò Mario Draghi, la prima sostanziale modifica è venuta tre anni fa, introducendo una soglia del 25% nelle grandi quotate se chi la raggiunge è primo socio della compagine, e con la libertà per le quotate inferiori ai 200 milioni di capitalizzazione di portare la soglia dal 25% al 40%, introducendola liberamente nel proprio statuto. Ma, guarda guarda, anche in quel caso la legge nacque per bloccare gli spagnoli di Telefonica in Telecom Italia, e oggi quella stessa soglia spiega perché Bolloré vi rimanga sotto di poco, sempre nella stessa Telecom Italia. Difficile credere a interventi di portata “generale”, se ogni volta si parla di tlc e tv.

Si dirà: ma mica possiamo farci comprare tutto a buon mercato dagli stranieri. Innanzitutto, anche se nessuno sembra farci caso, il numero di imprese estere partecipate e controllate da imprese italiane è costantemente cresciuto, anche negli annidi crisi 2008-2015: del 15,8% dice l’ICE. Le sole grandi imprese italiane controllano attività estere per oltre un milione di dipendenti, 246 mila lavoratori in imprese straniere rispondono al controllo di medie aziende italiane, e 146mila quelli dall’estero controllate da piccole imprese italiane. La globalizzazione ha funzionato a doppio senso. Mentre qui da noi sembriamo attenti solo alle acquisizioni estere nella nostra moda e finanza, le imprese tricolori hanno continuato a espandersi all’estero: nell’automotive, metallurgia, farmaceutica e alimentare.

Inoltre: ma poiché siamo un paese a corto di capitali e con banche stressate dal credito deteriorato e inefficienza gestionale, conviene davvero poi respingere i capitali stranieri? No, dovremmo fare l’esatto contrario. In che cosa consiste la “strategicità”, se di fatto Telecom Italia ha perso per malagestione il più delle sue presenze estere e ha margini bassissimi sul mercato domestico, mentre Mediaset nel mercato tv italiano non può crescere, e oltre la Spagna non ha abbordabili sviluppi internazionali possibili? In un mondo in cui l’integrazione tra produzioni d’intrattenimento e d’informazione e piattaforme multimediali è il drive della crescita?

Ecco, porsi queste domande significa guardare alle bandierine nazionali che esercitano il controllo con un’altra prospettiva. Se vogliamo che le imprese che restano in Italia crescano, la via dell’integrazione in grandi catene internazionali del valore e della finanza è uno sviluppo molto positivo: e lo è anche se cambia la proprietà, lo è in tutti i casi in cui chi controlla oggi le imprese italiane quell’integrazione non riesce a conseguirla.

Ma non è il ragionamento che va per la maggiore oggi. Nella politica e nel dibattito pubblico nostrano torna a suonare prepotente la sirena del nazionalismo, del protezionismo, dell’autarchia. Il disastro Alitalia sembra non insegnare niente a nessuno: quando invece di buttare pacchi di miliardi pubblici prima e privati con generoso aiuto pubblico nel post 2008, i fatti hanno mostrato anche ai ciechi che sarebbe stato mille volte meglio la fusione con gli olandesi di KLM, negli anni Novanta dello scorso secolo.

Ecco perché è molto probabile che finiremo per adottare la nuova disciplina “francese” delle OPA: con obblighi di comunicazione rafforzata per ogni soggetto cha superi la quota prima del 5%, poi del 10%, del 15% e infine del 20% del capitale in una quotata, tenuto a comunicare a ogni boa che intenzioni abbia, chi lo finanzia, perché lo stia facendo. Com’è ovvio, una norma simile renderà ancora più difficile che gli azionisti diffusi si vedano un giorno associati a godere del premio al controllo dell’azienda, visto che a questo serve l’OPA obbligatoria. Non è una norma dunque che nasce per favorire la contendibilità cioè la maggior efficienza dell’impresa, e non è nell’interesse dei piccoli soci. Serve solo a rendere più forti i soci di controllo attuali, e ad evitare che usino più capitale per continuare a esercitare il controllo e per rendere l’azienda più efficiente. Viva il nazionalismo, nuovo oppio dei popoli e della politica. Ma che sia un bene sol perché altri lo perseguono più di noi, è indimostrabile: la storia dice l’esatto contrario.

 

20
Feb
2017

“Le idee hanno conseguenze”: Hayek e la causa della libertà

Qualche anno dopo aver ricevuto il Premio Nobel per l’Economia, Friedrich Von Hayek disse: «quand’ero giovane, soltanto i vecchi credevano nel libero mercato; quand’ero un uomo di mezza età, ero praticamente il solo a crederci; e ora ho il piacere di aver vissuto tanto a lungo da vedere che i giovani cominciano a credere nel libero mercato. È un cambiamento epocale». Era il 1978 e il cambiamento epocale, dopo decenni di sbornia keynesiana, era solo ai suoi albori: l’anno seguente, infatti, Margaret Thatcher avrebbe vinto le elezioni nel Regno Unito; due anni dopo, sarebbe stato il turno della schiacciante vittoria di Ronald Reagan negli Stati Uniti. Se tutto ciò stava avvenendo, il merito era soprattutto di Hayek, che era riuscito a tenere alta la bandiera del liberalismo classico durante tutti quegli anni in cui i politici, sia di destra che di sinistra, avevano usato l’impalcatura teorica offerta da Keynes per giustificare un’estensione sregolata e ultra-invasiva dello Stato nell’economia.

Oggi, però, contrariamente alla speranza di Hayek, i giovani non sembrano più credere nei valori del libero mercato. I sondaggi condotti annualmente dal Pew Research Center mostrano un crescente apprezzamento dei millennials statunitensi (18-29 anni) verso il “socialismo”. Addio, quindi, sogno americano, la cui architrave è costituita dall’etica individuale e liberal-liberista? Non proprio. Perché quando nei medesimi sondaggi si giunge alla domanda «meglio un’economia di mercato o una controllata dal Governo?», gli stessi giovani rispondono in massa in favore dalla prima. Come si spiega una simile divergenza? La risposta è intuitiva: non è vero che i giovani non credono nei valori del libero mercato; più semplicemente, non li conoscono. O, addirittura, non li riconoscono. La generazione dei millennials è quella che più di tutte ha usufruito delle immense possibilità offerte dall’apertura dei mercati globali e dalla libera circolazione delle persone. Tutto ciò è merito dell’applicazione su larga scala dei valori del liberalismo: ma questo lo dicono in pochi. Essa è anche, però, la generazione che incontra più difficoltà nell’entrare stabilmente nel mercato del lavoro e che viene spremuta sempre più per finanziare un welfare generoso con tutti, meno che con lei. E sono in tanti a ritenere che sia stato il (fantomatico) “neo-liberismo” a renderci tutti più poveri e insicuri. Nulla di più falso: è l’ancora troppo pressante e soffocante peso dello Stato a comprimere e rallentare il processo di diffusione della ricchezza creata dall’impresa privata e dall’economia libera. E questo tanto negli Stati Uniti quanto (e più) in Italia.

Come si fa, quindi, a far capire ai giovani (e meno giovani) che non esiste sistema migliore del libero mercato? Diffondere la lezione di Hayek è il punto da cui partire. Io stesso ho cominciato il mio cammino di adesione ai valori del liberalismo dopo la lettura de “La via verso la schiavitù”: solo dopo aver divorato quel phamplet – lucido, rigoroso, appassionato – ho scoperto di essere stato fino ad allora uno di quei “socialisti di tutti i partiti”, a cui il libro si rivolge. E sono sicuro che Hayek potrà avere lo stesso effetto liberatorio su molti altri. Utilissimo, al riguardo, torna quindi una delle ultime pubblicazioni dell’Istituto Bruno Leoni: “Hayek. L’essenziale”, di Donald J. Boudreaux (Professore di economia alla George Mason University). In questo breve testo, con un linguaggio semplice e accessibile, Boudreaux presenta tutte le coordinate essenziali del pensiero di Hayek a vantaggio di quanti si accostano all’opera del pensatore austriaco per la prima volta: dal funzionamento del meccanismo dei prezzi e della concorrenza alle riflessioni giuridiche (che, anche grazie all’influenza di Bruno Leoni, sono tra le più ricche di implicazioni feconde, come ha ricordato Nicola Porro sul Giornale), passando per la spiegazione delle dannose dinamiche inflazionistiche… Come scrive Boudreaux nel capitolo conclusivo del suo libro, “le idee hanno conseguenze”: dall’adozione di una determinata politica in luogo di un’altra passa spesso lo sviluppo della società; e questa scelta è determinata dalle idee “vincenti”, che hanno conquistato il sostegno dell’opinione pubblica. La lettura e la comprensione di Hayek ci aiutano, allora, a portare avanti la battaglia in favore del libero mercato: «le idee di Hayek, tra le più profonde mai formulate nel campo delle scienze sociali, continueranno a nutrire la causa della libertà per molte generazioni a venire». Del resto – come usava fare Margaret Thatcher mostrando una copia de «La società libera» di Hayek a quanti le chiedevano cosa avrebbe fatto il suo governo – dobbiamo sempre essere pronti a ripetere «This is what we believe!». Questo è quello in cui crediamo!

@GiuseppePortos

19
Feb
2017

God save Uber—di Luca Minola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Luca Minola.

Ci risiamo. Giovedì i tassisti di tutt’Italia hanno spento i motori e sono scesi in piazza per protestare. Le grida si sono levate, ancora una volta, contro le aziende private – una su tutte Uber – che forniscono un servizio di trasporto alternativo al servizio pubblico non di linea, mettendo in contatto passeggeri ed autisti: il cosiddetto servizio di noleggio con conducente o Ncc.

In particolare, al centro della protesta vi è l’emendamento denominato “pro Uber”, inserito all’interno del decreto milleproroghe, approvato dal Senato e firmato dai parlamentari Lanzillotta e Cociancich.

A differenza di quello che si pensa, l’emendamento non solo non favorisce nessuna azienda privata, ma non liberalizza neanche il servizio di trasporto pubblico non di linea. La sua introduzione prevede semplicemente di rinviare a fine anno il termine entro il quale il Ministero delle Infrastrutture dovrà emanare un provvedimento che impedisca l’esercizio abusivo dei taxi e quello di noleggio con conducente. Inoltre, in attesa del provvedimento è stata anche sospesa la norma che imporrebbe agli Ncc di non sostare nel suolo pubblico fuori dal Comune che ha concesso la licenza.

Basta poco per capire come la protesta dei tassisti sia solo un altro modo per riaffermare e ribadire, semmai ce ne fosse stato bisogno, che la loro rendita di posizione, garantita dallo Stato attraverso le licenze, non deve essere toccata, ma anzi mantenuta e preservata. Pena? La paralisi delle città e meno voti alle prossime elezioni.

Anziché curarsi dei voti che potrebbero arrivare da migliaia di tassisti, le amministrazioni dovrebbero valutare quali sono i reali benefici per i cittadini, considerando che questi tipi di servizi, come il noleggio con conducente o il car sharing, sono sicuramente una valida ed economica alternativa al tradizionale e costoso taxi.

Prima però si devono chiarire alcune questioni.

Oggi, per ottenere una licenza da tassista è necessario acquistarla da un altro conducente che ha intenzione di cederla. Tuttavia, l’origine delle licenze non è affatto onerosa dato che vengono rilasciate dai Comuni in modo gratuito.

Ciò che le ha rese così costose è stata la gestione che ne ha fatto la categoria dei tassisti negli ultimi trent’anni. Un titolo gratuito è stato trasformato in un’autorizzazione da commerciare, diventando così una sorta di liquidazione di fine carriera.

L’innovazione tecnologica non ha fatto altro che generare nuove forme di concorrenza, mettendo in crisi l’impenetrabile mercato dei tassisti e delle licenze. Più concorrenza significherebbe, per i tassisti, annullare il potere di acquisto delle loro licenze, ma per i cittadini avere maggiori benefici.

Se l’offerta del servizio di trasporto non di linea si amplia, il vantaggio principale del consumatore sarà quello di pagare meno. Anche alle fasce di popolazione a basso reddito, tradizionalmente escluse dall’uso dei taxi, sarà finalmente concessa la possibilità di usufruirne. Ma non solo. Chiunque abbia a disposizione un’auto potrà migliorarne l’utilizzo e diventare imprenditore di sé sesso. Uno degli aspetti più positivi legato alla sharing economy è quello di consentire al proprietario di incrementare la produttività di beni capitali sottoutilizzati – in questo caso l’auto – in poco tempo e a bassi costi, garantendo una buona redditività.

Il legislatore, più che prorogare di un anno l’emendamento, dovrebbe rivedere l’interno sistema delle licenze, magari adottando delle soluzioni transitorie in modo da permettere in futuro la loro eliminazione ed aprire finalmente il mercato verso soluzioni più vantaggiose per i cittadini.

Altrimenti ci penserà inevitabilmente la tecnologia, a colpi di app.

19
Feb
2017

Ricordare Michael Novak. Leggendolo

La triste notizia della morte di Michael Novak, il grande filosofo americano autore tra l’altro di The Spirit of Democratic Capitalism  è un’occasione per tornare a riflettere sui rapporti tra cattolicesimo ed economia di mercato.

Come ha ricordato padre Robert Sirico nel commemorarlo, Novak ha fondamentalmente dedicato la sua opera a dimostrare la compatibilità tra la tradizione cristiana di interesse sociale per i più deboli e i principi del mercato.

Molti videro l’ influenza di Novak anche nell’enciclica Centesimus Annus del 1991, che senza dubbio rimane il documento del Magistero più positivo verso i principi dell’economia di mercato.

La diffusa cultura antimercato infatti che permea il nostro paese, che dipenda o no storicamente dal cattolicesimo, mal sopporta infatti l’approccio di Novak – per di più assai rigoroso – volto a dimostrare che è proprio un sistema di libero mercato che meglio valorizza la persona umana e migliora le chance di vita anche dei più poveri. Da ciò ne consegue inevitabilmente che non esiste nessun motivo per ritenere a priori “più etica” ovvero “più cristiana” l’allocazione delle risorse tramite i poteri pubblici rispetto al meccanismo di mercato.

La cultura antimercato ha fatto e fa del male al nostro sistema economico – sociale e alle sue prospettive di crescita, poiché inevitabilmente filtri concettuali e credenze generali si traducono in consistenti comportamenti concreti.

Non è difficile supporre che la visione antimercato si traduca in invidia o disapprovazione sociale per chi si arricchisce grazie al talento ovvero generi la ricerca di rendite parassitarie invece che del profitto frutto della faticosa competizione. E non è difficile pensare all’impatto di tutto questo quando tali comportamenti investono nei decenni milioni di soggetti.

E’ senza dubbio vero che l’influenza della Chiesa Cattolica si è nei decenni ridotta nel plasmare i comportamenti individuali ma è lungi dall’essere secondaria nel Paese dove ha sede il Vaticano

Sia chiaro che non sosteniamo una ingenua tesi à la Weber sulla rilevanza della religione protestante nel plasmare lo spirito capitalista e della differenza di questa con il  cattolicesimo. Sui limiti di questa tesi si sono espressi in così tanti e autorevoli che non è utile ritornarci. Basterà solo ricordare Jean Baechler e il suo fondamentale opera sulle origini del capitalismo.

Piuttosto ci piace ragionare all’opposto: una minore avversione concettuale e pratica al mercato e un più diffuso sostegno del pensiero cattolico potrebbero essere un (neanche piccolo) contributo a quella rivoluzione culturale pro mercato che a mio avviso rappresenta una della condizioni fondamentali per tornare consistentemente a crescere.

Il modo migliore di ricordare Michael Novak è proprio riscoprire e promuovere il suo pensiero per provare finalmente a muovere in questa direzione.

16
Feb
2017

Pensioni: NON sono in equilibrio, è un welfare NON per giovani, famiglie e poveri

Non date retta a chi dice che sulle pensioni è tutto ormai stabilizzato, e che l’unica cosa da fare è prepensionare. Anche se molti osservatori e l’intera politica da destra a sinistra sostiene queste tesi, i numeri dicono altro. O meglio: lo dicono se non li si manipola. Ma purtroppo molti preferiscono farlo. In queste osservazioni si può sintetizzare la situazione dell’INPS fotografata ieri dal rendiconto della Corte dei conti sul bilancio 2015, e dal IV° rapporto annuale di Itinerari Previdenziali, che analizza andamenti, costi e oneri delle pensioni, assistenza e spesa sociale complessiva nel nostro paese.Cerchiamo di sintetizzare in pillole alcuni punti ipersemplificati, visto che tra conto economico, patrimoniale e gestione finanziaria le tecnicalità sono complesse e insidiose, data la foresta di normative e gestioni diverse che nell’INPS si sommano.

Primo: una rassicurazione, niente paura. Sì, nel 2015 l’INPS ha chiuso con un risultato economico negativo di 16,3 miliardi di euro, per via di 13 miliardi di accantonamenti per crediti contributivi ormai a rischio di inesigibilità. E il conto patrimoniale piange anch’esso: da 21,8 miliardi di attivo del 2012 è sceso in picchiata a 5,8 miliardi nel 2015. E nel 2016 entrerà per la prima volta in territorio negativo, registrando -1,7 miliardi. Nel 2017, secondo il bilancio previsionale INPS, peggiorerà ancora, fino a  -7,8 miliardi. Ma come giustamente ricordato dal presidente dell’INPS, Tito Boeri, sulle pensioni INPS c’è una garanzia di Stato. Di conseguenza, potete stare tranquilli. Anche se non significa che non si debba correre ai ripari. Perché la vostra tranquilllità di incassare poggia su esborsi enormi a carico non dei vostri contributi versati ma dei contribuenti. E purtroppo così facendo aggraviamo ancora l’emergenza dell’ingiustizia tra generazioni, a scapito dei giovani.

Secondo; ma come si rimedia al deficit?  La prima via è di far crescere ulteriormente il contributo annuale che all’INPS viene dalla fiscalità generale cioè dalle tasse, che nel 2015 è stato di 103 miliardi e rotti, 5 miliardi più che nel 2014. Senza di essi, l’istituto non avrebbe potuto sobbarcarsi al complesso delle sue prestazioni erogate per 307 miliardi, di cui 250 miliardi circa in pensioni “in senso stretto” e il resto nelle diverse forme di assistenza, a fronte di 192 miliardi di contributi previdenziali raccolti.

Terzo: ma non è iniquo, aumentare ulteriormente l’esborso aggiuntivo da tasse, oltre a quello delle aliquote contributive? La risposta a questa domanda è “dipende”. Per i sindacati e molti osservatori- assertori della tesi “il sistema è in equilibrio” – no, non è iniquo. Perché attraverso scomposizioni del totale della spesa INPS che vi risparmiamo perché non basterebbe una pagina, sostengono in realtà che lo squilibrio viene tutto dall’assistenza, non dalle pensioni di anzianità e vecchiaia che sarebbero in anzi in lieve avanzo, tra contributi raccolti annuali e prestazioni erogate nello stesso anno (ricordate che è questa l’unica cosa che conta, il nostro sistema in lenta transizione tra principio retributivo e contributivo è rimasto però a ripartizione: non funziona affatto come molti credono, pensando che il proprio assegno previdenziale sia effetto del totale dei propri contributi versati; sono i contributi annuali raccolti da chi lavora a pagare i trattamenti in pagamento nello stesso periodo).

Quarto: perché altri sostengono che è iniquo? Intanto, perché dire che pensioni pure e contributi sono in pareggio è una deliberata forzatura contabile (è la tesi che trovate sostenuta del rapporto di Itinerari Previdenziali, secondo cui addirittura la gestione delle pensioni “in senso stretto” vede addirittura un attivo di 3 miliardi nel 2015 rispetto ai contributi raccolti, cfr pag 12),  visto che chi propone questo calcolo include nell’assistenza il totale dei 68 miliardi di oneri a carico della GIAS che però includono niente affatto solo prestazioni assistenziali, ma anche ripiani di alcuni sbilanci del tutto previdenziali in senso stretto, nonché considera “assistenza” anche sgravi contributivi concessi dallo Stato, che assistenza non sono affatto. E’ questa la spiegazione per cui la spesa “stretta” previdenziale 2015 va considerata di circa 250 miliardi, non di 168 miliardi o addirittura di 159 come sostiene Brambilla (leggere l’ultimo lungo paragrafo di pag 12 del link richiamato) per argomentarne un equilibrio delle pensioni previdenziali che invece NON sussiste: e oggi l’abbiamo spiegato anche in dettaglio in radio a versionedioscar con Stefano Patriarca, che lavora a palazzo Chigi come consigliere insieme a Nannicini, e di previdenza si occupa da una vita. Sette punti di PIL l’anno vanno dalla fiscalità generale ogni anno a sostenere lo squilibrio previdenziale, non la mera assistenza. Se pensate per esempio che il 52% del totale delle imposte italiane sul reddito delle persone fisiche è pagato dal solo 11% del totale degli oltre 60, 8 milioni di italiani, mentre lo squilibrio delle pensioni si deve alla generosità degli assegni retributivi che paghiamo (ancora larghissimamente maggioritari sul totale delle prestazioni erogate), si capisce al volo che è un’iniquità. Effettuiamo ogni anno un massiccio trasferimento di risorse in deficit a vantaggio di milioni di italiani che NON sono affatto i poveri veri (povertà assoluta). Brambilla calcola – e in questo ha ragione – che dal 1980, inizio dello squilibrio previdenziale, a questa posta si debba ” l’accumulo di un debito in moneta corrente di 1.000,087 miliardi di euro pari al 45% dell’attuale debito pubblico complessivo. Calcolando invece, come più correttamente si deve fare, l’incidenza dei disavanzi sul debito pubblico in moneta 2015 si arriva a un totale di 1.491,18 miliardi pari al 67% dell’intero debito pubblico italiano, di cui hanno beneficiato, in buona parte ogni anno gli oltre 16 milioni tra pensionati e assistiti, facendo esplodere il rapporto tra debito pubblico e PIL dal 59,4% del 1980 al 132,7% attuale”. Aggiungo ancora un’altra rilevantissima iniquità: perché in realtà sappiamo benissimo da anni, da dove viene il più recente balzo in avanti dello sbilancio economico e patrimoniale dell’INPS. Ad aver spinto a fondo i conti INPS dal 2012 è stata l‘incorporazione dell’INPDAP, cioè dei pensionati pubblici. Nel solo 2015 la gestione dei dipendenti pubblici ha registrato un passivo di 28,9 miliardi  rispetto a 26,8 nel 2014. Viene poi il fondo  ex Ferrovie dello Stato con perdite di 4,2 miliardi nel 2015, la Gestione Coltivatori Diretti con -3,1 e il Fondo Trasporti con un miliardo di squilibrio. Le gestioni in attivo sono solo 3 nel recinto INPS, e il più dell’attivo, che va a coprire almeno in parte la voragine dei pensionati pubblici, viene dal fondo dei parasubordinati: in attivo nel 2015 per oltre 7 miliardi.Ma vi pare accettabile, che lo scalino più basso delle garanzie e della piramide dei redditi italiani, quello appunto dei parasubordinati, debba rifondere onni anno almeno in parte i buchi delle pensioni pubbliche? E’ ovvio che no: bisognerebbe dunque alzare l’aliquota contributiva a carico del lavoro pubblico fino al pareggio del deficit annuale. Ma su questo, chissà perché, lo Stato non ci sente, quello stesso Stato che per decenni in realtà non ha neanche fatto finta di versarli davvero, i contributi dovuti per la pensione dei suoi dipendenti. mentre poi, se pensassimo a un’aliquota contributiva media generale per l’equilibrio delle prestazioni previdenziali , allora essa dovrebbe salire dal 33% attuale al 44%. Ecco, mi fermo qui: queste sono solo alcune delle più gravi ragioni di iniquità persistenti ancor oggi nel sistema previdenziale italiano. Che NON è in equilibrio, e grazie all’odiatissima riforma Fornero è entrato sì in un regime pluriennale di stabilizzazione: ma nell’arco dei prossimi 30 anni, perché a oggi anno dopo anno la spesa previdenziale cresce ancora eccome (il 2015 segna il record, e salirà ancora nel 2016 e 2017) . Altro che abbassare l’età della pensione di vecchiaia come propongono i partiti ( a oggi sono state introdotte 12 diverse forme di prepensionamento rispetto al testo Fornero): noi continueremo per anni e anni a pagare milioni di trattamenti di anzianità in deficit, maturati in passato a età tra i 40 e i 50 anni…

Quinto: lo squilibrio ulteriore che deve preoccuparci, quello all’interno della spesa sociale. Abbiamo una spesa sociale, sommando tutte le componenti dalla sanità alla previdenza all’assistenza, tra le più elevate in Europa (altra evidenza che viene spessissimo NEGATA nel dibattito pubblico): è pari nel 2015 a 447,3 miliardi cioè al 54% del totale della spesa pubblica. Ma spendiamo troppo più degli altri paesi europei in pensioni: il 15,8 % del PIL nel 2015 (dicono ISTAT ed Eurostat, naturalmente Brambilla con le sue elaborazioni al ribasso sostiene che siano diversi punti di PIL in meno, la solita storia per cui in Italia si gioca coi numeri a seconda della tesi da sostenere invece di affidarsi a quelli univoci della contabilità pubblica….)  rispetto al 11% nell’euroarea. Mentre spendiamo il 50% per cento in meno rispetto alla media europea per la famiglia: solo l’1,2% del PIL. E quasi zero per la casa, rispetto allo 0,6% di Pil annuo nella Ue.

Conclusione amara. Il nostro è non solo un welfare a debito, con 7 punti di PIL l’anno per l’INPS a carico di pochissimi contribuenti. Ma è soprattutto un welfare troppo spostato a favore degli anziani, avarissimo coi giovani, inesistente o quasi per i poveri assoluti : il che aggrava anno dopo anno il nostro deficit demografico e di produttività.