25
Feb
2017

OPA e stranieri: la norma “antiscorrerie” premia l’inefficienza

Arriva la “norma antiscorrerie”, l’intenzione del governo è stata ieri annunciata dal ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda. E’ presentata come una misura di maggior trasparenza nell’assunzione progressiva di quote di società quotate, ma detto in parole semplici la volontà è di mettere sabbia nell’ingranaggio delle scalate ostili alle società quotate. E sarà inserita nel disegno di legge sulla concorrenza, che giace da oltre due anni in parlamento ormai disossato proprio da tutte le misure inizialmente più efficaci per aprire il mercato. Il paradosso è che ora verrà invece approvata, ma per introdurre nel nostro ordinamento misure volte a rendere meno contendibile il controllo delle imprese.

Naturalmente, governo e partiti sostengono che misure simili non sono affatto dettate dalla necessità di alzare muri contro il finanziere bretone Bolloré e la sua Vivendi in Mediaset, della quale è giunto la scorsa estate a possedere il 28,8% che con i diritti di voto diventerà tra poco il 29,9%, cioè a un soffio dalla soglia dell’OPA obbligatoria, facendo a tutti immaginare di volerla associare a un progetto comune con Telecom Italia, di cui è primo socio con oltre il 24% del capitale. Fatto sta che l’annuncio viene all’indomani della notizia di Bolloré indagato per aggiotaggio dalla Procura di Milano per il comportamento tenuto nella vicenda Premiumtv-Mediaset. E mentre si resta in attesa dell’indagine aperta dall’Agcom sull’eventualità che la posizione di eventuale controllo in Mediaset e Telecom Italia oltrepassi nel mercato delle comunicazioni la soglia della posizione dominante.

Vero è che, oltre a Mediaset e Telecom, la politica teme anche che magari dietro il successo clamoroso di Unicredit, che ha appena annunciato la chiusura a 13 miliardi del suo aumento di capitale (e per fortuna: Mustier va ringraziato, se avesse fallito un nuovo tsunami si sarebbe abbattuto su tutte le banche italiane), possano esservi ingressi sostanziosi di “pesanti” soggetti bancari e assicurativi europei. E la stessa cosa la politica teme in Generali, sulla quale proprio ieri Banca Intesa ha annunciato formalmente di rinunciare a ogni mira. A queste preoccupazioni sui pochi residui giganti finanziari italiani, e naturalmente sulle centinaia di miliardi di titoli pubblici che hanno in pancia, la politica aggiunge la necessità della “reciprocità” nei confronti della Francia. E’ in corso il braccio di ferro tra la nostra Fincantieri e il governo francese, che si è messo di mezzo contro l’intenzione italiana di rilevare il 66% dei cantieri di Saint Nazaire finora detenuto dai sudcoreani di STX. Perché mai allora l’Italia non dovrebbe adottare una norma antiscalata esattamente analoga a quella francese?

“Nel mondo la globalizzazione arretra e si torna al protezionismo, noi non siamo più fessi degli altri”, è diventato il motto del governo. Eppure, qualche dubbio dovrebbe venire. Sarà un caso ma non lo è: dopo la soglia unica al 30% disposta negli anni ’90 per l’Opa obbligatoria nelle quotate dal TUF a cui lavorò Mario Draghi, la prima sostanziale modifica è venuta tre anni fa, introducendo una soglia del 25% nelle grandi quotate se chi la raggiunge è primo socio della compagine, e con la libertà per le quotate inferiori ai 200 milioni di capitalizzazione di portare la soglia dal 25% al 40%, introducendola liberamente nel proprio statuto. Ma, guarda guarda, anche in quel caso la legge nacque per bloccare gli spagnoli di Telefonica in Telecom Italia, e oggi quella stessa soglia spiega perché Bolloré vi rimanga sotto di poco, sempre nella stessa Telecom Italia. Difficile credere a interventi di portata “generale”, se ogni volta si parla di tlc e tv.

Si dirà: ma mica possiamo farci comprare tutto a buon mercato dagli stranieri. Innanzitutto, anche se nessuno sembra farci caso, il numero di imprese estere partecipate e controllate da imprese italiane è costantemente cresciuto, anche negli annidi crisi 2008-2015: del 15,8% dice l’ICE. Le sole grandi imprese italiane controllano attività estere per oltre un milione di dipendenti, 246 mila lavoratori in imprese straniere rispondono al controllo di medie aziende italiane, e 146mila quelli dall’estero controllate da piccole imprese italiane. La globalizzazione ha funzionato a doppio senso. Mentre qui da noi sembriamo attenti solo alle acquisizioni estere nella nostra moda e finanza, le imprese tricolori hanno continuato a espandersi all’estero: nell’automotive, metallurgia, farmaceutica e alimentare.

Inoltre: ma poiché siamo un paese a corto di capitali e con banche stressate dal credito deteriorato e inefficienza gestionale, conviene davvero poi respingere i capitali stranieri? No, dovremmo fare l’esatto contrario. In che cosa consiste la “strategicità”, se di fatto Telecom Italia ha perso per malagestione il più delle sue presenze estere e ha margini bassissimi sul mercato domestico, mentre Mediaset nel mercato tv italiano non può crescere, e oltre la Spagna non ha abbordabili sviluppi internazionali possibili? In un mondo in cui l’integrazione tra produzioni d’intrattenimento e d’informazione e piattaforme multimediali è il drive della crescita?

Ecco, porsi queste domande significa guardare alle bandierine nazionali che esercitano il controllo con un’altra prospettiva. Se vogliamo che le imprese che restano in Italia crescano, la via dell’integrazione in grandi catene internazionali del valore e della finanza è uno sviluppo molto positivo: e lo è anche se cambia la proprietà, lo è in tutti i casi in cui chi controlla oggi le imprese italiane quell’integrazione non riesce a conseguirla.

Ma non è il ragionamento che va per la maggiore oggi. Nella politica e nel dibattito pubblico nostrano torna a suonare prepotente la sirena del nazionalismo, del protezionismo, dell’autarchia. Il disastro Alitalia sembra non insegnare niente a nessuno: quando invece di buttare pacchi di miliardi pubblici prima e privati con generoso aiuto pubblico nel post 2008, i fatti hanno mostrato anche ai ciechi che sarebbe stato mille volte meglio la fusione con gli olandesi di KLM, negli anni Novanta dello scorso secolo.

Ecco perché è molto probabile che finiremo per adottare la nuova disciplina “francese” delle OPA: con obblighi di comunicazione rafforzata per ogni soggetto cha superi la quota prima del 5%, poi del 10%, del 15% e infine del 20% del capitale in una quotata, tenuto a comunicare a ogni boa che intenzioni abbia, chi lo finanzia, perché lo stia facendo. Com’è ovvio, una norma simile renderà ancora più difficile che gli azionisti diffusi si vedano un giorno associati a godere del premio al controllo dell’azienda, visto che a questo serve l’OPA obbligatoria. Non è una norma dunque che nasce per favorire la contendibilità cioè la maggior efficienza dell’impresa, e non è nell’interesse dei piccoli soci. Serve solo a rendere più forti i soci di controllo attuali, e ad evitare che usino più capitale per continuare a esercitare il controllo e per rendere l’azienda più efficiente. Viva il nazionalismo, nuovo oppio dei popoli e della politica. Ma che sia un bene sol perché altri lo perseguono più di noi, è indimostrabile: la storia dice l’esatto contrario.

 

20
Feb
2017

“Le idee hanno conseguenze”: Hayek e la causa della libertà

Qualche anno dopo aver ricevuto il Premio Nobel per l’Economia, Friedrich Von Hayek disse: «quand’ero giovane, soltanto i vecchi credevano nel libero mercato; quand’ero un uomo di mezza età, ero praticamente il solo a crederci; e ora ho il piacere di aver vissuto tanto a lungo da vedere che i giovani cominciano a credere nel libero mercato. È un cambiamento epocale». Era il 1978 e il cambiamento epocale, dopo decenni di sbornia keynesiana, era solo ai suoi albori: l’anno seguente, infatti, Margaret Thatcher avrebbe vinto le elezioni nel Regno Unito; due anni dopo, sarebbe stato il turno della schiacciante vittoria di Ronald Reagan negli Stati Uniti. Se tutto ciò stava avvenendo, il merito era soprattutto di Hayek, che era riuscito a tenere alta la bandiera del liberalismo classico durante tutti quegli anni in cui i politici, sia di destra che di sinistra, avevano usato l’impalcatura teorica offerta da Keynes per giustificare un’estensione sregolata e ultra-invasiva dello Stato nell’economia.

Oggi, però, contrariamente alla speranza di Hayek, i giovani non sembrano più credere nei valori del libero mercato. I sondaggi condotti annualmente dal Pew Research Center mostrano un crescente apprezzamento dei millennials statunitensi (18-29 anni) verso il “socialismo”. Addio, quindi, sogno americano, la cui architrave è costituita dall’etica individuale e liberal-liberista? Non proprio. Perché quando nei medesimi sondaggi si giunge alla domanda «meglio un’economia di mercato o una controllata dal Governo?», gli stessi giovani rispondono in massa in favore dalla prima. Come si spiega una simile divergenza? La risposta è intuitiva: non è vero che i giovani non credono nei valori del libero mercato; più semplicemente, non li conoscono. O, addirittura, non li riconoscono. La generazione dei millennials è quella che più di tutte ha usufruito delle immense possibilità offerte dall’apertura dei mercati globali e dalla libera circolazione delle persone. Tutto ciò è merito dell’applicazione su larga scala dei valori del liberalismo: ma questo lo dicono in pochi. Essa è anche, però, la generazione che incontra più difficoltà nell’entrare stabilmente nel mercato del lavoro e che viene spremuta sempre più per finanziare un welfare generoso con tutti, meno che con lei. E sono in tanti a ritenere che sia stato il (fantomatico) “neo-liberismo” a renderci tutti più poveri e insicuri. Nulla di più falso: è l’ancora troppo pressante e soffocante peso dello Stato a comprimere e rallentare il processo di diffusione della ricchezza creata dall’impresa privata e dall’economia libera. E questo tanto negli Stati Uniti quanto (e più) in Italia.

Come si fa, quindi, a far capire ai giovani (e meno giovani) che non esiste sistema migliore del libero mercato? Diffondere la lezione di Hayek è il punto da cui partire. Io stesso ho cominciato il mio cammino di adesione ai valori del liberalismo dopo la lettura de “La via verso la schiavitù”: solo dopo aver divorato quel phamplet – lucido, rigoroso, appassionato – ho scoperto di essere stato fino ad allora uno di quei “socialisti di tutti i partiti”, a cui il libro si rivolge. E sono sicuro che Hayek potrà avere lo stesso effetto liberatorio su molti altri. Utilissimo, al riguardo, torna quindi una delle ultime pubblicazioni dell’Istituto Bruno Leoni: “Hayek. L’essenziale”, di Donald J. Boudreaux (Professore di economia alla George Mason University). In questo breve testo, con un linguaggio semplice e accessibile, Boudreaux presenta tutte le coordinate essenziali del pensiero di Hayek a vantaggio di quanti si accostano all’opera del pensatore austriaco per la prima volta: dal funzionamento del meccanismo dei prezzi e della concorrenza alle riflessioni giuridiche (che, anche grazie all’influenza di Bruno Leoni, sono tra le più ricche di implicazioni feconde, come ha ricordato Nicola Porro sul Giornale), passando per la spiegazione delle dannose dinamiche inflazionistiche… Come scrive Boudreaux nel capitolo conclusivo del suo libro, “le idee hanno conseguenze”: dall’adozione di una determinata politica in luogo di un’altra passa spesso lo sviluppo della società; e questa scelta è determinata dalle idee “vincenti”, che hanno conquistato il sostegno dell’opinione pubblica. La lettura e la comprensione di Hayek ci aiutano, allora, a portare avanti la battaglia in favore del libero mercato: «le idee di Hayek, tra le più profonde mai formulate nel campo delle scienze sociali, continueranno a nutrire la causa della libertà per molte generazioni a venire». Del resto – come usava fare Margaret Thatcher mostrando una copia de «La società libera» di Hayek a quanti le chiedevano cosa avrebbe fatto il suo governo – dobbiamo sempre essere pronti a ripetere «This is what we believe!». Questo è quello in cui crediamo!

@GiuseppePortos

19
Feb
2017

God save Uber—di Luca Minola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Luca Minola.

Ci risiamo. Giovedì i tassisti di tutt’Italia hanno spento i motori e sono scesi in piazza per protestare. Le grida si sono levate, ancora una volta, contro le aziende private – una su tutte Uber – che forniscono un servizio di trasporto alternativo al servizio pubblico non di linea, mettendo in contatto passeggeri ed autisti: il cosiddetto servizio di noleggio con conducente o Ncc.

In particolare, al centro della protesta vi è l’emendamento denominato “pro Uber”, inserito all’interno del decreto milleproroghe, approvato dal Senato e firmato dai parlamentari Lanzillotta e Cociancich.

A differenza di quello che si pensa, l’emendamento non solo non favorisce nessuna azienda privata, ma non liberalizza neanche il servizio di trasporto pubblico non di linea. La sua introduzione prevede semplicemente di rinviare a fine anno il termine entro il quale il Ministero delle Infrastrutture dovrà emanare un provvedimento che impedisca l’esercizio abusivo dei taxi e quello di noleggio con conducente. Inoltre, in attesa del provvedimento è stata anche sospesa la norma che imporrebbe agli Ncc di non sostare nel suolo pubblico fuori dal Comune che ha concesso la licenza.

Basta poco per capire come la protesta dei tassisti sia solo un altro modo per riaffermare e ribadire, semmai ce ne fosse stato bisogno, che la loro rendita di posizione, garantita dallo Stato attraverso le licenze, non deve essere toccata, ma anzi mantenuta e preservata. Pena? La paralisi delle città e meno voti alle prossime elezioni.

Anziché curarsi dei voti che potrebbero arrivare da migliaia di tassisti, le amministrazioni dovrebbero valutare quali sono i reali benefici per i cittadini, considerando che questi tipi di servizi, come il noleggio con conducente o il car sharing, sono sicuramente una valida ed economica alternativa al tradizionale e costoso taxi.

Prima però si devono chiarire alcune questioni.

Oggi, per ottenere una licenza da tassista è necessario acquistarla da un altro conducente che ha intenzione di cederla. Tuttavia, l’origine delle licenze non è affatto onerosa dato che vengono rilasciate dai Comuni in modo gratuito.

Ciò che le ha rese così costose è stata la gestione che ne ha fatto la categoria dei tassisti negli ultimi trent’anni. Un titolo gratuito è stato trasformato in un’autorizzazione da commerciare, diventando così una sorta di liquidazione di fine carriera.

L’innovazione tecnologica non ha fatto altro che generare nuove forme di concorrenza, mettendo in crisi l’impenetrabile mercato dei tassisti e delle licenze. Più concorrenza significherebbe, per i tassisti, annullare il potere di acquisto delle loro licenze, ma per i cittadini avere maggiori benefici.

Se l’offerta del servizio di trasporto non di linea si amplia, il vantaggio principale del consumatore sarà quello di pagare meno. Anche alle fasce di popolazione a basso reddito, tradizionalmente escluse dall’uso dei taxi, sarà finalmente concessa la possibilità di usufruirne. Ma non solo. Chiunque abbia a disposizione un’auto potrà migliorarne l’utilizzo e diventare imprenditore di sé sesso. Uno degli aspetti più positivi legato alla sharing economy è quello di consentire al proprietario di incrementare la produttività di beni capitali sottoutilizzati – in questo caso l’auto – in poco tempo e a bassi costi, garantendo una buona redditività.

Il legislatore, più che prorogare di un anno l’emendamento, dovrebbe rivedere l’interno sistema delle licenze, magari adottando delle soluzioni transitorie in modo da permettere in futuro la loro eliminazione ed aprire finalmente il mercato verso soluzioni più vantaggiose per i cittadini.

Altrimenti ci penserà inevitabilmente la tecnologia, a colpi di app.

19
Feb
2017

Ricordare Michael Novak. Leggendolo

La triste notizia della morte di Michael Novak, il grande filosofo americano autore tra l’altro di The Spirit of Democratic Capitalism  è un’occasione per tornare a riflettere sui rapporti tra cattolicesimo ed economia di mercato.

Come ha ricordato padre Robert Sirico nel commemorarlo, Novak ha fondamentalmente dedicato la sua opera a dimostrare la compatibilità tra la tradizione cristiana di interesse sociale per i più deboli e i principi del mercato.

Molti videro l’ influenza di Novak anche nell’enciclica Centesimus Annus del 1991, che senza dubbio rimane il documento del Magistero più positivo verso i principi dell’economia di mercato.

La diffusa cultura antimercato infatti che permea il nostro paese, che dipenda o no storicamente dal cattolicesimo, mal sopporta infatti l’approccio di Novak – per di più assai rigoroso – volto a dimostrare che è proprio un sistema di libero mercato che meglio valorizza la persona umana e migliora le chance di vita anche dei più poveri. Da ciò ne consegue inevitabilmente che non esiste nessun motivo per ritenere a priori “più etica” ovvero “più cristiana” l’allocazione delle risorse tramite i poteri pubblici rispetto al meccanismo di mercato.

La cultura antimercato ha fatto e fa del male al nostro sistema economico – sociale e alle sue prospettive di crescita, poiché inevitabilmente filtri concettuali e credenze generali si traducono in consistenti comportamenti concreti.

Non è difficile supporre che la visione antimercato si traduca in invidia o disapprovazione sociale per chi si arricchisce grazie al talento ovvero generi la ricerca di rendite parassitarie invece che del profitto frutto della faticosa competizione. E non è difficile pensare all’impatto di tutto questo quando tali comportamenti investono nei decenni milioni di soggetti.

E’ senza dubbio vero che l’influenza della Chiesa Cattolica si è nei decenni ridotta nel plasmare i comportamenti individuali ma è lungi dall’essere secondaria nel Paese dove ha sede il Vaticano

Sia chiaro che non sosteniamo una ingenua tesi à la Weber sulla rilevanza della religione protestante nel plasmare lo spirito capitalista e della differenza di questa con il  cattolicesimo. Sui limiti di questa tesi si sono espressi in così tanti e autorevoli che non è utile ritornarci. Basterà solo ricordare Jean Baechler e il suo fondamentale opera sulle origini del capitalismo.

Piuttosto ci piace ragionare all’opposto: una minore avversione concettuale e pratica al mercato e un più diffuso sostegno del pensiero cattolico potrebbero essere un (neanche piccolo) contributo a quella rivoluzione culturale pro mercato che a mio avviso rappresenta una della condizioni fondamentali per tornare consistentemente a crescere.

Il modo migliore di ricordare Michael Novak è proprio riscoprire e promuovere il suo pensiero per provare finalmente a muovere in questa direzione.

16
Feb
2017

Pensioni: NON sono in equilibrio, è un welfare NON per giovani, famiglie e poveri

Non date retta a chi dice che sulle pensioni è tutto ormai stabilizzato, e che l’unica cosa da fare è prepensionare. Anche se molti osservatori e l’intera politica da destra a sinistra sostiene queste tesi, i numeri dicono altro. O meglio: lo dicono se non li si manipola. Ma purtroppo molti preferiscono farlo. In queste osservazioni si può sintetizzare la situazione dell’INPS fotografata ieri dal rendiconto della Corte dei conti sul bilancio 2015, e dal IV° rapporto annuale di Itinerari Previdenziali, che analizza andamenti, costi e oneri delle pensioni, assistenza e spesa sociale complessiva nel nostro paese.Cerchiamo di sintetizzare in pillole alcuni punti ipersemplificati, visto che tra conto economico, patrimoniale e gestione finanziaria le tecnicalità sono complesse e insidiose, data la foresta di normative e gestioni diverse che nell’INPS si sommano.

Primo: una rassicurazione, niente paura. Sì, nel 2015 l’INPS ha chiuso con un risultato economico negativo di 16,3 miliardi di euro, per via di 13 miliardi di accantonamenti per crediti contributivi ormai a rischio di inesigibilità. E il conto patrimoniale piange anch’esso: da 21,8 miliardi di attivo del 2012 è sceso in picchiata a 5,8 miliardi nel 2015. E nel 2016 entrerà per la prima volta in territorio negativo, registrando -1,7 miliardi. Nel 2017, secondo il bilancio previsionale INPS, peggiorerà ancora, fino a  -7,8 miliardi. Ma come giustamente ricordato dal presidente dell’INPS, Tito Boeri, sulle pensioni INPS c’è una garanzia di Stato. Di conseguenza, potete stare tranquilli. Anche se non significa che non si debba correre ai ripari. Perché la vostra tranquilllità di incassare poggia su esborsi enormi a carico non dei vostri contributi versati ma dei contribuenti. E purtroppo così facendo aggraviamo ancora l’emergenza dell’ingiustizia tra generazioni, a scapito dei giovani.

Secondo; ma come si rimedia al deficit?  La prima via è di far crescere ulteriormente il contributo annuale che all’INPS viene dalla fiscalità generale cioè dalle tasse, che nel 2015 è stato di 103 miliardi e rotti, 5 miliardi più che nel 2014. Senza di essi, l’istituto non avrebbe potuto sobbarcarsi al complesso delle sue prestazioni erogate per 307 miliardi, di cui 250 miliardi circa in pensioni “in senso stretto” e il resto nelle diverse forme di assistenza, a fronte di 192 miliardi di contributi previdenziali raccolti.

Terzo: ma non è iniquo, aumentare ulteriormente l’esborso aggiuntivo da tasse, oltre a quello delle aliquote contributive? La risposta a questa domanda è “dipende”. Per i sindacati e molti osservatori- assertori della tesi “il sistema è in equilibrio” – no, non è iniquo. Perché attraverso scomposizioni del totale della spesa INPS che vi risparmiamo perché non basterebbe una pagina, sostengono in realtà che lo squilibrio viene tutto dall’assistenza, non dalle pensioni di anzianità e vecchiaia che sarebbero in anzi in lieve avanzo, tra contributi raccolti annuali e prestazioni erogate nello stesso anno (ricordate che è questa l’unica cosa che conta, il nostro sistema in lenta transizione tra principio retributivo e contributivo è rimasto però a ripartizione: non funziona affatto come molti credono, pensando che il proprio assegno previdenziale sia effetto del totale dei propri contributi versati; sono i contributi annuali raccolti da chi lavora a pagare i trattamenti in pagamento nello stesso periodo).

Quarto: perché altri sostengono che è iniquo? Intanto, perché dire che pensioni pure e contributi sono in pareggio è una deliberata forzatura contabile (è la tesi che trovate sostenuta del rapporto di Itinerari Previdenziali, secondo cui addirittura la gestione delle pensioni “in senso stretto” vede addirittura un attivo di 3 miliardi nel 2015 rispetto ai contributi raccolti, cfr pag 12),  visto che chi propone questo calcolo include nell’assistenza il totale dei 68 miliardi di oneri a carico della GIAS che però includono niente affatto solo prestazioni assistenziali, ma anche ripiani di alcuni sbilanci del tutto previdenziali in senso stretto, nonché considera “assistenza” anche sgravi contributivi concessi dallo Stato, che assistenza non sono affatto. E’ questa la spiegazione per cui la spesa “stretta” previdenziale 2015 va considerata di circa 250 miliardi, non di 168 miliardi o addirittura di 159 come sostiene Brambilla (leggere l’ultimo lungo paragrafo di pag 12 del link richiamato) per argomentarne un equilibrio delle pensioni previdenziali che invece NON sussiste: e oggi l’abbiamo spiegato anche in dettaglio in radio a versionedioscar con Stefano Patriarca, che lavora a palazzo Chigi come consigliere insieme a Nannicini, e di previdenza si occupa da una vita. Sette punti di PIL l’anno vanno dalla fiscalità generale ogni anno a sostenere lo squilibrio previdenziale, non la mera assistenza. Se pensate per esempio che il 52% del totale delle imposte italiane sul reddito delle persone fisiche è pagato dal solo 11% del totale degli oltre 60, 8 milioni di italiani, mentre lo squilibrio delle pensioni si deve alla generosità degli assegni retributivi che paghiamo (ancora larghissimamente maggioritari sul totale delle prestazioni erogate), si capisce al volo che è un’iniquità. Effettuiamo ogni anno un massiccio trasferimento di risorse in deficit a vantaggio di milioni di italiani che NON sono affatto i poveri veri (povertà assoluta). Brambilla calcola – e in questo ha ragione – che dal 1980, inizio dello squilibrio previdenziale, a questa posta si debba ” l’accumulo di un debito in moneta corrente di 1.000,087 miliardi di euro pari al 45% dell’attuale debito pubblico complessivo. Calcolando invece, come più correttamente si deve fare, l’incidenza dei disavanzi sul debito pubblico in moneta 2015 si arriva a un totale di 1.491,18 miliardi pari al 67% dell’intero debito pubblico italiano, di cui hanno beneficiato, in buona parte ogni anno gli oltre 16 milioni tra pensionati e assistiti, facendo esplodere il rapporto tra debito pubblico e PIL dal 59,4% del 1980 al 132,7% attuale”. Aggiungo ancora un’altra rilevantissima iniquità: perché in realtà sappiamo benissimo da anni, da dove viene il più recente balzo in avanti dello sbilancio economico e patrimoniale dell’INPS. Ad aver spinto a fondo i conti INPS dal 2012 è stata l‘incorporazione dell’INPDAP, cioè dei pensionati pubblici. Nel solo 2015 la gestione dei dipendenti pubblici ha registrato un passivo di 28,9 miliardi  rispetto a 26,8 nel 2014. Viene poi il fondo  ex Ferrovie dello Stato con perdite di 4,2 miliardi nel 2015, la Gestione Coltivatori Diretti con -3,1 e il Fondo Trasporti con un miliardo di squilibrio. Le gestioni in attivo sono solo 3 nel recinto INPS, e il più dell’attivo, che va a coprire almeno in parte la voragine dei pensionati pubblici, viene dal fondo dei parasubordinati: in attivo nel 2015 per oltre 7 miliardi.Ma vi pare accettabile, che lo scalino più basso delle garanzie e della piramide dei redditi italiani, quello appunto dei parasubordinati, debba rifondere onni anno almeno in parte i buchi delle pensioni pubbliche? E’ ovvio che no: bisognerebbe dunque alzare l’aliquota contributiva a carico del lavoro pubblico fino al pareggio del deficit annuale. Ma su questo, chissà perché, lo Stato non ci sente, quello stesso Stato che per decenni in realtà non ha neanche fatto finta di versarli davvero, i contributi dovuti per la pensione dei suoi dipendenti. mentre poi, se pensassimo a un’aliquota contributiva media generale per l’equilibrio delle prestazioni previdenziali , allora essa dovrebbe salire dal 33% attuale al 44%. Ecco, mi fermo qui: queste sono solo alcune delle più gravi ragioni di iniquità persistenti ancor oggi nel sistema previdenziale italiano. Che NON è in equilibrio, e grazie all’odiatissima riforma Fornero è entrato sì in un regime pluriennale di stabilizzazione: ma nell’arco dei prossimi 30 anni, perché a oggi anno dopo anno la spesa previdenziale cresce ancora eccome (il 2015 segna il record, e salirà ancora nel 2016 e 2017) . Altro che abbassare l’età della pensione di vecchiaia come propongono i partiti ( a oggi sono state introdotte 12 diverse forme di prepensionamento rispetto al testo Fornero): noi continueremo per anni e anni a pagare milioni di trattamenti di anzianità in deficit, maturati in passato a età tra i 40 e i 50 anni…

Quinto: lo squilibrio ulteriore che deve preoccuparci, quello all’interno della spesa sociale. Abbiamo una spesa sociale, sommando tutte le componenti dalla sanità alla previdenza all’assistenza, tra le più elevate in Europa (altra evidenza che viene spessissimo NEGATA nel dibattito pubblico): è pari nel 2015 a 447,3 miliardi cioè al 54% del totale della spesa pubblica. Ma spendiamo troppo più degli altri paesi europei in pensioni: il 15,8 % del PIL nel 2015 (dicono ISTAT ed Eurostat, naturalmente Brambilla con le sue elaborazioni al ribasso sostiene che siano diversi punti di PIL in meno, la solita storia per cui in Italia si gioca coi numeri a seconda della tesi da sostenere invece di affidarsi a quelli univoci della contabilità pubblica….)  rispetto al 11% nell’euroarea. Mentre spendiamo il 50% per cento in meno rispetto alla media europea per la famiglia: solo l’1,2% del PIL. E quasi zero per la casa, rispetto allo 0,6% di Pil annuo nella Ue.

Conclusione amara. Il nostro è non solo un welfare a debito, con 7 punti di PIL l’anno per l’INPS a carico di pochissimi contribuenti. Ma è soprattutto un welfare troppo spostato a favore degli anziani, avarissimo coi giovani, inesistente o quasi per i poveri assoluti : il che aggrava anno dopo anno il nostro deficit demografico e di produttività.

 

9
Feb
2017

Follie: miliardi per prepensionare chi un lavoro ce l’ha, ma niente contributo-libri scolastici ai poveri

Dicono che i giornali non servano a molto. Invece no. Ha colpito nel segno, l’inchiesta condotta per giorni del Mattino sul ritardo abissale con cui nella scuola secondaria si provvede al pagamento dei contributi dello Stato alle famiglie più povere, per i libri di testo dei loro figli. Nel giro di pochi giorni, dal caso napoletano dell’Istituto Virgilio 4 a Scampia, il quotidiano ha ricostruito come lo scandalo vergognoso non sia napoletano, ma nazionale. Purtroppo investe alcune centinaia di migliaia di famiglie, dal Nord al Sud. Figlio di un’incredibile catena burocratica che sin qui passava dal Ministero dell’Interno – che chissà perché deteneva i fondi preposti –  al MIUR che ne stabiliva la ripartizione, alle Regioni e ai Comuni, prima di disporre concretamente il pagamento. Effetto dei ritardi con cui ogni passaggio burocratico veniva espletato, rispetto all’inizio dell’anno scolastico. Ma anche dei diversi criteri seguiti da Regione a Regione per via dell’incomprensibile più che mai “finto” federalismo italiano, a fronte invece di un ammontare di risorse deciso nazionalmente, per tutte le Regioni che non hanno finanza equilibrata e non integrano la somma resa disponibile dal governo, come invece fa la Lombardia. E come se invece lo standard di sostegno alle famiglie con meno reddito non dovesse essere nazionale.

Save the Children ha meritoriamente calcolato che soltanto tre Regioni (e tutte a Statuto speciale) su venti sono virtuose su questo versante, cioè lì i buoni libro arrivano a inizio anno scolastico. Ma in quattro Regioni – Campania, Sicilia, Piemonte e Molise – bisogna attendere almeno due anni. In Piemonte, addirittura, nel 2016 è stato lanciato un bando “su doppia annualità” per l’erogazione degli assegni per gli anni scolastici 2014/15 e 2015/16. A Palermo, racconta Barbara Evola, assessore alla scuola, “stiamo pagando i libri di studio della secondaria risalenti al 2013–2014 e le borse di studio per i meritevoli concesse nel 2011, il tutot riguarda 9mila bambini». A Terni, aggiunge il sindaco Leopoldo Di Girolamo, «lo scorso anno li abbiamo erogati con tre o quattro mesi di ritardo. Quest’anno poi, visto che abbiamo presentato richiesta per il dissesto dei conti, i fondi poi sono congelati fino al via libera del ministero dell’Economia». E via proseguendo, in questo strano paese a casacca di Arlecchino.

C’è la Regione che adotta il comodato d’uso dei libri, quella che paga anche atlanti e dizionari, quella che integra nel caso in cui il costo dei libri adottati ecceda di parecchio il contributo massimale previsto. Ma la stragrande maggioranza paga in ritardo inescusabile, rispetto all’inizio dell’anno scolastico quando i libri servono ai ragazzi. Con tempi inaccettabili, come in Sicilia.  E con la differenza da Comune a Comune derivante dallo stato di salute della finanza dell’ente locale, perché in quelli in predefault amministrati peggio non può essere adottato alcun anticipo di cassa da parte dell’amministrazione, finché la somma non è concretamente versata nel suo conto di tesoreria.

Il ministro Fedeli oggi ha scritto al Mattino, mostrando di condividere la vergogna assoluta della denuncia documentata dal quotidiano. Scrive che salterà il primo gradino della piramide burocratica, quello del ministero dell’Interno, e si comincerà direttamente dalla disponibilità delle somme al MIUR. Ma resta il fatto che non si capisce quale logica presieda a tutti i passaggi che restano, prima alle Regioni e poi ai Comuni. In un paese ordinato, signor ministro, l’iter dovrebbe restare tutto all’interno dell’amministrazione centrale e territoriale del MIUR. Perché il contributo libri nella scuola secondaria – introdotto 4 anni fa – va inteso come espressione di criteri nazionali di eguaglianza delle opportunità costituzionalmente tutelate, non delle variegate politiche di welfare locale affidate a Regioni  e Comuni. Bene quindi che il ministro Fedeli non nasconda l’inaccettabilità, per colpa dell’inefficienza pubblica, di lasciare migliaia di famiglie in tutt’Italia nella vergogna di non poter comprare i libri ai figli, affidandosi alla buona volontà di dirigenti scolastici e insegnanti per provvedere a spese proprie alle fotocopie. Ma siamo ancora lontani dalla radicale semplificazione che sarebbe logica e giusta, per abbattere i tempi della soddisfazione del bisogno al momento in cui si crea. Non quando, magari, molte ragazze e ragazzi nel frattempo hanno abbandonato la scuola, come capita in percentuali più alte proprio laddove il disagio sociale e di reddito si concentra ed è più diffuso. Cioè esattamente dove il contributo serve e serve in tempo: perché se le famiglie avessero i soldi per comprarli, i libri, il contributo sarebbe superfluo.

C’è una legge in cui ci si si imbatte, quando si studiano i fondamenti dell’economia pubblica. Si chiama legge di Wagner, e non c’entra nulla ovviamente l’arcinoto musicista tedesco. Prende il nome dall’economista Adolphe Wagner, che la elaborò. E’ una legge secondo la quale la spesa pubblica tende a crescere, nei paesi avanzati, più rapidamente di quanto cresca il reddito-procapite.  E’ alla radice delle proliferazione dei soggetti pubblici e dell’estensione del loro perimetro, dell’aumento nel tempo delle loro risorse rispetto al PIl, della continua necessità di alzare le tasse per inseguire l’aumento di spesa. Oltre una certa soglia sul PIL – che in Italia è varcata da tempo –  è la legge che spiega perché le amministrazioni pubbliche perseguano innanzitutto il fine di estendere i propri poteri di gestione e di veto, rispetto invece a catene burocratiche e amministrative snelle ed efficienti.

E’ questa legge ad aver disegnato la folle catena di competenze e passaggi burocratici che negano alle famiglie povere di Scampia e di tutta Italia il contribuito per comprare i libri ai figli quando servono.  Un paese che spende miliardi nel welfare per prepensionare chi il lavoro ce l’ha, e non riesce a far comprare i libri ai figli dei poveri, non è un paese in cui non si spende abbastanza, come molti ripetono a torto. E’ un paese invece cui un mare di risorse va a chi ne avrebbe meno bisogno, in cui ci concede il bonus di 500 euro ai diciottenni e agli insegnanti, mentre si nega il dovuto a chi ne ha bisogno assoluto, più di ogni altro. E’ un paese che si riempie la bocca di giustizia sociale, ma la riserva solo a chi ha voce e potere organizzato per farsi sentire nell’arena pubblica del consenso ai partiti. Abbiamo parlato da due anni di scuola incentrando il 95% dell’attenzione sul problema dell’assunzione in ruolo di chi nella scuola lavora, se debba avere la cattedra vicino a casa, o se debba essere chiamato laddove le cattedre sono scoperte. E ci scordiamo bestialmente che la scuola va invece prioritariamente considerata nell’interesse di chi la frequenta. Perché, se è di famiglia povera, è l’unico vero ascensore sociale dal quale può aspettarsi di non morire nella stessa povertà in cui è nato.

9
Feb
2017

“Se non riesci a convincerli, confondili” ( Confucio).

Nel 1997 8.322.166 italiani espressero la volontà di abolire l’ordine dei giornalisti: non pochi. Ma a nessuna maggioranza di eletti venne mai in mente di mettere mano alla questione: l’ennesima prova, se ce ne fosse bisogno, della siderale lontananza della nostra classe politica da un’idea di società libera e aperta. Vale davvero la pena rileggere le parole di Luigi Einaudi ne Il buongoverno: “Albi di giornalisti! Idea da pedanti, da falsi professori, da giornalisti mancati, da gente vogliosa di impedire altrui di pensare colla propria testa. Giornalisti sono tutti coloro che hanno qualcosa da dire o che semplicemente sentono di poter dire meglio o presentar meglio la stessa idea che gli altri dicono o presentano male… Ammettere il principio dell’albo obbligatorio sarebbe un risuscitare i peggiori istituti delle caste e delle corporazioni chiuse, prone ai voleri dei tiranni e nemiche acerrime dei giovani, dei ribelli, dei non-conformisti”. Il M5S qualche anno fa ha presentato un disegno di legge per l’abolizione dell’ordine dei giornalisti ed alcuni suoi esponenti si sono dichiarati anche favorevoli, in generale, alla revisione del sistema degli ordini professionali. Già nel secondo “Vday” dell’aprile 2008 si raccoglievano le firme “per una libera informazione in un libero Stato”, per l’abrogazione della legge 66/1963, “perché l’accesso alla professione di giornalista e il suo esercizio siano liberi da vincoli burocratici e corporativi di sorta”. Ma dispiace capire che  neppure questo è un reale obiettivo del movimento. Perché l’onorevole Di Maio chiede oggi all’ordine dei giornalisti di intervenire per punire  una lista di giornalisti considerati contro il movimento. Con questa iniziativa Di Maio vuole proprio far risorgere il più becero spirito fondativo dell’ordine dei giornalisti, una delle massime espressioni e strumento del corporativismo e del totalitarismo fascista. Ma, d’altro canto, il movimento è sempre meno 5 stelle e sempre più mille lune, tanto sono mutevoli le idee dei suoi componenti. Forse all’onorevole Di Maio gli ordini professionali piacciono, così come il protezionismo e un certo nazionalismo in salsa antieuropea: non a caso l’ordine dei giornalisti è una perla tutta italiana, non esiste né in Francia, né in Germania, tantomeno in UK. Ad altri del movimento, forse, queste posizioni piacciono meno, ma chi può dirlo, si tratta di ipotesi, anzi, peggio, di illazioni, perché la forza e l’arma più potente e tremendamente efficace del movimento è proprio l’irriconoscibilità. All’indomani della sentenza della consulta sui quesiti riguardanti il Jobs Act, sempre Di Maio tuonava su Facebook: “Saremo chiamati a votare per il referendum che elimina la schiavitù dei voucher”. Contemporaneamente il guru delle politiche del lavoro grilline Domenico De Masi da alle stampe il suo libro: “Lavorare gratis, lavorare tutti”. Dunque, il M5S, al “giogo” dei voucher pagati preferisce la “libertà” del lavoro gratis? Mistero. Su un punto, però, sembrano tutti convergere in modo chiaro: vincere le elezioni e prendere il potere. Esattamente come tutti sempre, da 50 anni a questa parte: non è importante che si capisca quale sia la loro idea di paese, il loro progetto, le loro posizioni: come dice la canzone, visto che è periodo di Sanremo, ci vogliono tutti “Confusi e infelici”.

6
Feb
2017

È il “miraggio crudele” dello statalismo a generare l’anti-politica

Si resta a volta sorpresi dal fatto che l’anti-politica italiana sia, in realtà, tutto tranne che “anti-politica”. Essa non chiede mai ai politici di restare fuori dalle nostre vite: chiede, piuttosto, “altri” politici. Nonostante il conclamato fallimento delle classi politiche di ogni colore e sfumatura ideologica, l’anti-politica italiana si ostina a immaginare che prima o poi arriverà la tornata elettorale giusta, quella in cui il “buon governante”, finalmente, farà la sua tanto attesa apparizione. E se questo non avverrà, pazienza: è sufficiente prepararsi per le successive elezioni. Ci sono sempre nuovi e (tendenzialmente) peggiori “paladini” tra cui scegliere.

Come ha fatto Angelo Panebianco, in un fondo sul Corriere della Sera di qualche mese fa, si possono distinguere due tipi di “anti-politica”, una vera e una falsa. Quella vera è quella di Reagan e Thatcher, quella per cui il “governo non è la soluzione, ma parte del problema”. Quella falsa è quella che «convoglia il disprezzo dei cittadini sulla politica, ma pretende altresì che la politica resti l’impicciona di sempre». È quella «oggi di moda», scrive Panebianco, «un ossimoro: è un’antipolitica statalista». È una disamina perfetta, se non fosse per il fatto di ritenere che l’anti-politica “falsa” sia un fenomeno dell’oggi. Essa ha, infatti, radici ben più profonde e risalenti nella storia della politica italiana. Lo aveva capito bene Sergio Ricossa, che – nel suo “I fuochisti della vaporiera” (1978), di prossima ristampa per IBL libri – ha individuato nel fallimento del primo centro-sinistra (che troppo aveva promesso e troppo poco mantenuto) l’inizio dell’infatuazione statalista dell’elettorato italiano: «A furia di sentir cianciare di “qualità della vita”, adesso voleva una vita di qualità… Chiedere l’intervento dello Stato divenne la forma più comune, e forse la più pericolosa, di pigrizia mentale. Anche il ceto medio, quella parte della popolazione che una volta eccelleva per laboriosità, si era stancato. Perché ammazzarsi di fatica per mettere da parte qualcosa, se era la politica a decidere il bello e il brutto tempo? Gli italiani erano stati convinti che la politica fosse tutto, ma che quei politici fossero niente. Il miraggio della programmazione aveva fatto vedere fontane inesistenti agli assetati nel deserto. Era stato un miraggio crudele, che chiedeva vendetta».

Da quel “miraggio crudele”, in effetti, l’Italia non si è più ripresa. Quando fu promosso, il centro-sinistra nato dall’alleanza tra DC, partiti minori di centro e socialisti fu pensato come “irreversibile”: e in una certa misura, esso lo fu. Come nota Ricossa, le sue politiche economiche e sociali non si limitarono a vanificare i risultati straordinari del miracolo economico, ma ebbero un impatto “formativo” straordinario su intere generazioni. Ne cambiarono – ahinoi, in peggio – le aspettative e l’atteggiamento nei confronti dello Stato: non più soggetto da tenere a debita distanza, bensì oggetto da blandire e riverire. I beni pubblici la cui erogazione si aspettava non erano più ordine e amministrazione della giustizia: ma sussidi, baby-pensioni… perfino occhiali e panettoni! Ci si rese conto che davvero lo Stato è l’illusione attraverso la quale tutti pensano di poter vivere sulle spalle di tutti. Oggi gli occhiali e i panettoni vengono prodotti e venduti da aziende private, ma la richiesta di prebende non è affatto diminuita: anzi, attualmente, la policy più distintiva dell’anti-politica italiana è pagare le persone perché queste non facciano niente, corrispondendo loro un “reddito” per il solo fatto di essere “cittadini”.

L’Italia è un Paese schizofrenico: nei giorni pari lamenta l’incompetenza dei governanti; nei giorni dispari chiede che essi facciano qualcosa in più e di diverso. Paradossalmente, il più grande “successo” della politica italiana sta in questo: nel suo riuscire a perpetuarsi proprio grazie all’anti-politica “falsa”, che si concentra su una battaglia di nomi e colori, anziché su una di sistemi e condizioni istituzionali. Le promesse politiche italiane non possono che fallire (per via di quell’impiccio noto come ‘principio di realtà’): eppure, a ogni fallimento corrisponderà una reazione uguale e non contraria (con buona pace di Newton). Il “miraggio crudele” di cui scrive Ricossa esige vendetta, che si consuma con la sostituzione delle persone pro-tempore al Governo e non con il mutamento radicale dei metodi di Governo. È questa l’essenza dell’anti-politica italiana: i grillini non si sono inventati nulla. E anche Renzi sembra averlo capito: le sue ultime uscite “populiste” sembrano deporre a favore di un tentativo di arrestare la crescita dell’anti-politica “falsa”, prima che questa realizzi la sua vendetta (la bocciatura del referendum costituzionale ne è stato un assaggio).

Non è facile dire se ci sarà mai spazio per un’anti-politica “vera” in Italia. L’attuale congiuntura internazionale non ci permette di essere fiduciosi: un messaggio politico anti-mercato, anti-scienza, anti-globalizzazione trova un terreno fertile nel nostro agone elettorale. Quello che dobbiamo fare, però, è far nostra la lezione di Sergio Ricossa: è il miraggio statalista a generare l’anti-politica. Se non lo si dissolve al più presto, il nostro Paese finirà per consumarsi definitivamente. E allora, il risveglio, brusco, avrà gli occhi del default.

@GiuseppePortos

4
Feb
2017

Come cambia il mutuo soccorso

Le società operaie di mutuo soccorso si svilupparono durante l’Ottocento. Stando agli storici, alcune forme simili a queste associazioni si possono far risalire alla Roma Antica, ma è indubbiamente nel pieno della rivoluzione industriale che queste, basate sulla solidarietà tra i membri della classe operaia, cominciarono ad affermarsi e ad acquisire rilevanza. Una forma di assicurazione, che come tale si basava, e si basa ancora oggi, sulla collettivizzazione di alcuni rischi tra un elevato numero di soggetti.

Inizialmente, i rischi in questione erano quelli inerenti, per esempio, la malattia, gli incidenti sul lavoro, i decessi o la disoccupazione. Poi arrivò lo Stato Sociale, che monopolizzò l’organizzazione di tutte queste attività. Nel frattempo poi la qualità della vita e le condizioni di lavoro migliorarono talmente tanto che le società di mutuo soccorso finirono con lo specializzarsi su alcune specifiche questioni “secondarie”, come ad esempio attività educative, culturali e ricreative a favore degli associati.

E arriviamo ai giorni nostri, in cui succede che nascano cooperative di mutuo soccorso tra partite IVA. Un esempio è dato da SMART, una società di mutuo soccorso tra professionisti del settore culturale e ricreativo, con sede anche a Milano, che sta guadagnando sempre più affiliati (ne conta più di 75.000). L’idea è nata in Belgio nel 1998 ed è molto semplice: a fronte di una ritenuta sui compensi dei lavoratori autonomi, SMART si fa carico di tutte le procedure burocratiche e amministrative a cui sono tenuti a sottostare questi lavoratori, sobbarcandosi anche il rischio dei ritardi nei pagamenti dunque pagando i propri affiliati in anticipo rispetto alla reale riscossione. I freelance che utilizzano SMART, in cambio di una percentuale sui propri compensi dunque, possono offrire e svolgere il proprio lavoro autonomo senza doversi preoccupare dei requisiti burocratici a cui li sottopone lo stato italiano o dei clienti pigri nei tempi di pagamento.

La narrativa sulle origini delle società di mutuo soccorso è solita glorificare le vittorie del movimento operaio contro la crudeltà del mercato. Scrive, per esempio, Adriana Luciano, in un working paper pubblicato da Euricse:

…il mutuo soccorso nasce come forma organizzata di reciproco aiuto con il capitalismo. Costituisce una prima risposta collettiva alle conseguenze drammatiche del processo di industrializzazione e segna l’affermazione concreta della rivendicazione di dignità e di autonomia di interi gruppi sociali che affermano concretamente la volontà di difendersi collettivamente dai rischi del mercato sfuggendo all’umiliazione di dover chiedere aiuto nei momenti drammatici dell’esistenza…

Si può certamente imputare al mercato, al capitale e alla nascita delle fabbriche la formazione della classe operaia. Tuttavia le condizioni di vita di allora erano pessime per tutti, con alcuni agi e comodità riservati a pochi fortunati. Quelle condizioni non le ha create il mercato, erano reali. Il libero mercato, insieme a istituzioni in grado di proteggere adeguatamente i diritti di proprietà, ha fatto sì che da quelle condizioni si potesse uscire. È curioso che le pessime condizioni dei freelance di oggi, invece, siano per buona parte imputabili direttamente allo stato, che quando va bene li sovrasta con tasse e richieste di adempimenti burocratici infiniti, e quando va male non li paga, come fanno i peggiori clienti.

Il servizio offerto da SMART per rispondere alla domanda delle partite IVA sembra avere successo. Complimenti a loro. L’auspicio è che in futuro, anche in Italia, esso possa essere legato ai rischi inerenti lo svolgimento di ogni attività autonoma, e non agli artifici di uno stato ingiusto come quello che vediamo oggi.

@paolobelardinel