27
Mar
2017

I 60 anni della Ue: ok l’entusiasmo, ma per l’Italia ecco i guai che restano

Andiamoci piano con il tripudio. Ieri la stampa italiana, molto più di quella europea, ha salutato il documento firmato a Roma in occasione del 60° del Trattato di Roma come se fosse la resurrezione di Lazzaro dalla tomba. L’Unione Europea c’è, tutti i 27 hanno firmato, la Brexit ormai è alle spalle, l’antieuropeismo e il nazionalismo spezza-Europa e spezza-euro sono alle spalle, questo in molti hanno detto. Dopo 24 ore, forse è il caso di riporre trombette e tamburi. Non è il caso di sostituire l’Europa al turno di serie A mancante ieri, con gli stessi atteggiamenti che le curve dei tifosi riservano ai propri colori.

È ovvio il sollievo al fatto che Polonia e Grecia alla fine abbiano firmato il documento senza porre veti, che minacciavano sia pur per motivi assai diversi. Benissimo, che l’atmosfera della cerimonia sia sembrata quella di un festoso pranzo di matrimonio. Ma l’analisi da fare non è «chi ha vinto e chi ha perso». Bensì quella, più concreta, «che cosa possiamo aspettarci»? Cercando di essere realisti, il documento è un buon testo per una ragione fondamentale, almeno per chi crede nell’Europa: ribadisce in faccia a Brexit che l’Unione è «indivisa e indivisibile». Non è per niente poco, visto che a firmarla sono governi conservatori e socialisti e di convergenza nazionale, ma anche fortemente identitar-nazionalisti come quello polacco e soprattutto ungherese. È anche molto apprezzabile il passaggio liberoscambista sul commercio internazionale, chiaramente un monito verso Trump, e un ponte verso la Cina. Ma, detto questo, per essere unitario e per comprendere quella buona frase essenziale, il testo è comunque pieno di compromessi. E nella loro interpretazione ognuno si appellerà a quel che più lo convince e gli interessa, che però non è affatto il minimo comun denominatore europeo.

I membri est-europei si riconoscono nella posizione polacca, che è riuscita a impedire che la cooperazione più stretta tra chi vuole diventasse uno sviluppo «ovunque possibile». Nel testo c’è scritto che essa sarà percorsa «se necessario», e con l’impegno di non lasciare «nessuno indietro». Facciamo due esempi per capire. Sulla difesa e sicurezza, uscito il Regno Unito i 3 maggiori paesi membri storici dell’Unione credono in una sfera di cooperazione ristretta «aggiuntiva» rispetto alla Nato. I Paesi est-europei a cominciare dalla Polonia sono risolutamente contrari: nessuna iniziativa europea deve essere immaginata per indebolire la Nato. Ai loro occhi, sono gli americani che li difendono da Putin, non certo italiani e francesi. Mettetevi nei loro panni. Hanno proprio torto? Oggettivamente: no.

Sul problema dei profughi e migranti, su cui è esplosa l’Europa dopo che la Merkel nell’estate 2015 spalancò le porte senza mettere in conto che per arrivare in Germania avrebbero dovuto percorrere il corridoio centroeuropeo e quello mediterraneo, il testo parla di una politica «efficace, responsabile, sostenibile, rispettosa delle norme internazionali», e altro bla bla. Di fatto, dunque, non solo il problema sollevato dai Paesi esteuropei sulla difesa resta in pieno. Anche sui profughi, bisognerà vedere come il corridoio mediterraneo, cioè l’Italia, riuscirà a ottenere più cooperazione europea per l’esercizio di filtri più efficaci. Ma è un percorso tutto da costruire.

Quanto agli sviluppi sull’economia, obiettivamente il documento è un gelato multigusto, che accontenta tutti i palati ma non indica priorità decisive. Dire che si vuole la crescita sostenibile, la coesione, la convergenza ma tenuto conto della diversità dei sistemi nazionali, la lotta contro la disoccupazione e la discriminazione e l’esclusione sociale beh non è proprio una chiara scelta di priorità che valga a turare le due falle economiche su cui l’Europa si è arenata. E cioè il mancato prosieguo nell’unificazione vera, per quanto a tappe, dei mercati del lavoro, dei beni e dei servici, anche per chi solo si accontenta del mercato unico. E, per i Paesi che invece hanno scelto l’euro, passi avanti concreti non solo nell’unificazione dei mercati ma soprattutto verso maggiori comuni di strumenti finanziari, di bilancio e di sostegno al reddito.

Idem dicasi per l’altro difetto «storico» della Ue funzionalista, cioè il deficit democratico. È particolarmente infelice la frase del documento che recita «ci impegniamo a dare ascolto alle preoccupazioni espresse dai nostri cittadini». Non si capisce come non sia venuto in mente agli estensori che essa rievoca testualmente le espressioni che usavano i monarchi di inizio Ottocento, allorché benignamente «concedevano» le prime Costituzioni dopo aver paternalisticamente porto il loro sollecito orecchio alle proteste del popolo

Quindi la conclusione del vertice di Roma è certo positiva, ma ora va riempita di contenuti. Servono leader davvero capaci di elaborare proposte concrete e in grado di ottenere il consenso ampio, per non rendere il documento firmato a Roma l’ennesima vana intenzione europea. E serve avere un chiaro senso delle priorità. Per un Paese come l’Italia, a bassa crescita, bassa produttività, bassa occupazione e alto debito, la prima sfida è costruire una proposta e una rete di alleanze a proposito della decisione che bisognerà assumere tra fine anno e inizio 2018 sul Fiscal Compact, che è extra Trattati e sul quale occorre decidere che futuro riservargli, e come modificarlo. Agli occhi degli anti euro il Fiscal Compact è come il ricatto che Brenno pose a Roma, chiedendone l’oro e gridando guai ai vinti. Al contrario, se esistono politici italiani davvero desiderosi di una cooperazione economica e sociale europea più stretta, il Fiscal Compact va aggiornato ma la convergenza delle finanze pubbliche va sposata: magari ricalibrata, ma non certo ripudiata. Non se ne vedono, sulla scena politica italiana, almeno tra i cosiddetti “leader”.

24
Mar
2017

In recessione, meglio tagliare le spese o aumentare le tasse?

Messi davanti alla necessità di un aggiustamento fiscale (fiscal adjustment), i governi hanno una classica alternativa: tagliare le spese o aumentare le tasse. Viene spesso ripetuto che questa scelta non è “neutra”, visto che è condizionata dalla contingenza economica di riferimento: in uno stato di recessione, si aggiunge, agire sul lato delle uscite anziché su quello delle entrate finirebbe per aggravare la situazione. Ma è davvero così? A guardare i Paesi che meglio di altri sono “usciti” dalla crisi economica post-2008, sembrerebbe di no: a livello europeo, il Regno Unito è forse l’esempio più immediato (il deficit è passato dal 10,2% del 2010 al 4,9% del 2015; l’incidenza della spesa sul PIL è scesa di 5 punti dal 2009 al 2014), ma anche la Spagna non scherza (deficit dal 11% del 2009 al 4,3% del 2015; l’incidenza della spesa sul PIL è scesa dell’1,3%) (dati). E la storia, spesso ripetuta come un mantra, degli Stati Uniti che crescono grazie agli aumenti di spesa non corrisponde al vero.

Ma allora conta di più il “quando” o il “come” nella realizzazione di questi aggiustamenti fiscali? Se lo sono chiesti, in uno studio per il National Bureau of Economic Research, i professori Alesina, Giavazzi, Azzalini, Favero e Miano. I risultati dello studio sono stati poi sintetizzati in un research brief per il Cato Institute. Chiariamo innanzitutto i termini di riferimento: per “quando” si intende il momento in cui l’aggiustamento viene realizzato (in un momento di recessione o di crescita economica); per “come” il contenuto di questo aggiustamento (se esso è basato maggiormente sull’aumento delle tasse o sul taglio delle spese). Ebbene, i risultati dello studio (che analizza le scelte di politica economica di 16 Paesi OCSE dal 1981 al 2014) mostrano (sorprendentemente?) che il “come” conta molto più del “quando” nel generare gli effetti di un aggiustamento fiscale. Quelli basati sul taglio delle spese sono, infatti, molto meno “costosi” in termini di perdite di output nel breve periodo (short-run output losses), su una media tendente a zero, rispetto, invece, a quelli basati sull’aumento di tasse, che vengono associati a più profonde e durature fasi di recessione (a prescindere – e questo è un punto interessante – dal fatto che essi vengano realizzati o meno durante una fase di recessione). Meglio tagliare le spese che aumentare le tasse, si potrebbe allora concludere: anche se ci si trova in recessione.

Forse, però, i risultati di questo studio non sono così sorprendenti per noi italiani: a vedere come i nostri governi hanno scelto di reagire alla crisi economica, si ha la conferma empirica del fatto che il “come” negli aggiustamenti fiscali conta moltissimo. Aumentare le tasse e tagliare (poco e male) le spese ha avuto come unico risultato quello di prolungare oltremisura lo stato di crisi, facendoci mancare la possibilità di agganciare il treno della ripresa.

@GiuseppePortos

17
Mar
2017

I voucher non servono a niente

Il ricorso ai voucher è il classico caso di ‘spia’ dei mali che affliggono il ricorso al lavoro regolare, sommerso dal peso insostenibile di tasse e contributi che depredano ciascun lavoratore del settore privato di metà del proprio stipendio e di una burocrazia asfissiante. Ma, come spesso accade quando si accende una spia che segnala l’esistenza di un problema, la politica oscura la spia e ignora il problema. È quello che è successo ieri, con l’abolizione dei voucher voluta dal governo per scongiurare il referendum proposto dalla CGIL per il prossimo maggio.

Grazie ai voucher era emersa parte dell’enorme iceberg del lavoro nero italiano, composto di rapporti di lavoro per cui mai e poi mai si stipulerebbe un contratto. Realisticamente, tornare indietro significa semplicemente riportare quei rapporti di lavoro nell’illegalità. L’alternativa non è tra i voucher e i contratti a tempo indeterminato: è tra i voucher e il lavoro nero. E se ci sono stati abusi nel loro utilizzo, la risposta di una politica lungimirante e responsabile dovrebbe essere una drastica semplificazione e defiscalizzazione degli altri schemi contrattuali. Ma, appunto, tra la spia del problema e il problema, anche stavolta si è deciso di agire sulla spia: eliminare i voucher, per combattere il precariato. Che è un po’ come eliminare la beneficienza per combattere la povertà: non solo non risolve il problema, lo nasconde. E quindi lo peggiora.

Ma il nodo di questa vicenda non si limita al fatto che l’abolizione dei voucher sia un enorme passo indietro per il nostro mercato del lavoro, o al fatto che il governo si mostri completamente subalterno alle minacce e ai ricatti della CGIL. Perché la vicenda dei voucher è solo l’ennesimo indizio dell’incapacità della politica di adattare le proprie scelte ai cambiamenti della società, invece di ostinarsi a volerne raddrizzare autoritariamente i legni storti, inseguendo un modello di società che le persone non sentono adattarsi alle proprie inclinazioni e necessità.

Non sarà l’abolizione dei voucher a risolvere il problema di un mondo del lavoro sempre più mutevole e incostante. Viviamo in un’epoca di trasformazioni rapide, imponenti e imprevedibili, che richiedono strumenti normativi semplici, economici, flessibili e universali, che si adattino facilmente ai mutevoli bisogni della società. Come sono, appunto, i voucher. E proprio questo è il punto: il ‘fine’ dei voucher lo decide chi lo usa, di volta in volta. I voucher non servono a niente in particolare, perché possono adattarsi a esigenze diverse a seconda delle necessità. Questa è la loro forza e il tipo di strumenti di cui la società ha bisogno: strumenti che le persone, e non la politica, possano stabilire se utilizzare, quando e perché.

Twitter: @glmannheimer

15
Mar
2017

Se abrogano i voucher non veniteci a parlare di cultura riformista

Si diffonde la notizia secondo la quale governo e maggioranza intenderebbero assecondare la CGIL, e abrogare del tutto i voucher. Chissà come mai non ne sono sorpreso. E’ l’ennesima conferma di una politica ridotta a pura incapacità di tenere la barra, tutta pancia e niente testa. Assolutamente indifferente al merito delle questioni e ai dati numerici, solo prigioniera delle lotte di leadership esplose dopo il no al referendum costituzionale del 4 dicembre.  Se si guardano i dati e i fatti, i voucher sono da correggere, non da abrogare. Ma poiché il governo ha scelto la data del 28 maggio per i due referendum residui sul lavoro proposti dalla Cgil, dopo che la Corte Costituzionale ha cassato quello sull’articolo 18 di maggior presa popolare, ecco che Pd e governo, pur di non rischiare una rischiosa modifica in tempi ristretti, preferiscono capitolare. Pessima scelta.

Diciamolo: i due quesiti residui rappresentano l’ennesima riproposizione di un errore troppe volte compiuto.  Sono cioè un nuovo esempio di richiesta abrogativa di norme le cui caratteristiche tecniche specifiche sono nettamente al di fuori di quelle scelte generali e di principio alle quali andrebbe riservato l’istituto del referendum. Ricordiamo un dato, relativo ai mancati raggiungimenti del quorum previsto per la validità della consultazione, il superamento alle urne del 50% dell’elettorato. Se i due referendum si tenessero il 28 maggio, sarebbero il 68° e 69° quesito abrogativo nella storia della Repubblica. Ma dal 1997 a oggi, consecutivamente in 20 anni ben 25 quesiti abrogativi non hanno registrato il quorum, l’unica eccezione è stata rappresentata dalle 4 proposte sottoposte alle urne nel 2011 (sul servizio idrico). La serie storica dovrebbe pur dire qualcosa, a chi propone referendum. Non è il caso della CGIL, che contava sul referendum anti Jobs Act per ottenere il quorum, ribaltare l’eredità su questo punto del governo Renzi, incidere profondamente nella lotta apertasi nel Pd. Eppure, malgrado la CGIL sia stata disarmata sull’articolo 18, pare proprio che vinca comunque.

E allora bisogna dirlo chiaro. La volontà abrogatrice dei voucher espressa dalla Cgil comunque rappresenta un passo indietro secco per il mondo del lavoro italiano. Ignora il fatto che i numeri sin qui rilevati dell’applicazione dei voucher mostrano che tale strumento ha effettivamente intaccato la montagna del lavoro nero italiano. Rifiuta l’evidenza che per la stragrande maggioranza di quei lavori mai e poi mai si stipulerà un contratto. Respinge l’idea stessa che il lavoro – la sua cultura e la sua dignità – sia espressione di una società flessibile e in continua trasformazione, non immobilizzata in antiche forme ideologiche.

L’abrogazione del voucher è richiesta in nome del fatto che, nato per il lavoro accessorio, sarebbe invece la catena intorno al collo del nuovo precariato.  Senonché lo studio INPS relativo ai dati 2015 effettuato da Bruno Anastasia e Pietro Garibaldi mostra come i percettori dei voucher siano quasi al 10% pensionati, mentre il 55% si divide tra chi ha un altro lavoro e percettori di ammortizzatori sociali. Sommando queste tipologie si direbbe dunque che il più dei percettori utilizzano il voucher davvero per attività accessorie, e per tipi di mansioni in cui prima il nero imperava. Comunque stiamo parlando di una platea pari all’8% del totale degli occupati nel 2015. E se le stime di Garibaldi e Anastasia sono corrette, significa che quasi 900mila del milione e seicentomila di percettori di voucher stimati nel 2016 sono stati strappati al nero in cui prima erano confinati, senza avere diritto a un euro di contributi versati. E’ così disprezzabile, in un’Italia in cui restano 3 milioni di disoccupati?

Certo, i dati dicono anche che alcuni correttivi – non certo l’abrogazione – sono magari utili. E’ del tutto fisiologico, non patologico, che i settori in cui il voucher è esteso siano turismo, commercio, giardinaggio e manutenzione edilizia, servizi alla persona. Un punto interrogativo riguarda l’uso in edilizia e agricoltura. Ma molti di coloro che si sono messi al lavoro in questi mesi per modificare il voucher non tendevano affatto a revisioni limitate e mirate. Volevano e vogliono di fatto neutralizzarlo. Cesare Damiano voleva alzarne la parte contributiva parificandola a quella del lavoro dipendente. Lo stesso ministro Poletti ha parlato di ridurne l’uso il più possibile alle sole famiglie. C’è chi ha proposto di limitarne i percettori a studenti, pensionati, disoccupati, disabili ed extracomunitari solo se regolarmente disoccupati da almeno sei mesi. C’è chi ha pensato di abbassarne drasticamente il tetto massimo attuale annuo sia per il soggetto pagatore, sia per il percettore, anche se la stragrande maggioranza dei percettori non arriva ai 5mila euro annui rispetto al tetto dei 7mila esistente. Tutti sembrano di colpo indifferenti di fronte al fatto che le nuove norme sulla tracciabilità, introdotte dal governo Renzi, hanno già negli ultimi mesi frenato la crescita dei voucher, e consentito di identificare e sanzionare centinaia di  usi impropri. E naturalmente tutti hanno dimenticato che la stessa CGIL che ha proposto il referendum usa i voucher per pagare in Emilia Romagna gli attivisti della sua federazione di maggior peso, quella dei pensionati.

Ecco perché, di fronte a tutte queste nuove divisioni nel Pd, il governo preferirebbe a questo punto azzerare i voucher e non se parli più. Non parlate per favore a vanvera di cultura riformista. Nell’attacco a testa bassa sui voucher si ripropone una vecchia strategia: ideologizzare una questione assolutamente non centrale in un paese a bassa occupazione e bassa produttività, per farne il vessillo di un ritorno al passato.

8
Mar
2017

L’esca fiscale per stranieri ricchi è mal pensata: serve una flat tax per tutti gli italiani

Piano, prima di celebrare la nuova trovata per attirare ricchi stranieri in Italia come fosse un bel segno, la prova che finalmente anche l’Italia ad altissimo prelievo fiscale si mette al passo con i paesi leader del mondo, capaci di attirare cervelli e capitali con tasse più basse. Ad un primo esame, infatti, non sembra proprio.

La norma è prevista nella legge di bilancio per il 2017, e oggi l’Agenzia delle Entrate ha comunicato che sono pronte le procedure attuative. Per chi è residente fuori Italia da almeno 9 anni nei precedenti 10 diventa possibile spostare la residenza qui da noi, versando una somma fissa di regolarizzazione annuale dei redditi che continua a realizzare all’estero: 100mila euro l’anno, più 25 mila per ogni componente del nucleo familiare se titolare di altri redditi, propri o in regime di splitting. La somma è dovuta per ogni anno di residenza in Italia fino a 15 a venire, l’ammissione al beneficio si può richiedere anche telematicamente, rispondendo poi a una serie di domande sul o sui paesi in cui si è risieduto e si continuerà a produrre il reddito. L’Agenzia delle Entrate si riserva un’istruttoria per la risposta affermativa. L’obiettivo è chiaro: attirare ricchi contribuenti, che realizzino all’estero redditi molto importanti da cespiti mobiliari o immobiliari, oltre che da lavoro. Finalmente faremo concorrenza a regimi simili adottati per esempio nel Regno Unito, si dice.

Attenzione, non è una flat tax, come erroneamente la definiscono molti. La flat tax – ci torneremo più avanti – è un’aliquota di tassazione dei redditi piatta, cioè proporzionale invece che progressiva. Qui non c’è aliquota e non conta nulla l’imponibile a cui applicarla. Non è neanche un condono, come altri scorrettamente dicono. Il condono si può applicare – spesso è avvenuto, purtroppo, in Italia – all’emersione di redditi di pertinenza del fisco italiano ma sottratti indebitamente alla sua imposizione: qui si tratta di redditi realizzati altrove, da soggetti che non erano tenuti ad alcun dovere fiscale verso la nostra Repubblica. In gergo tecnico è una lump sum: una somma forfettaria dovuta fuori dalle regole ordinarie del prelievo (ci sarebbe da fare un discorsetto sulla sua efficienza paretiana, caratteristica che deve avere per essere davvero una lump sum, ma è cosa per addetti ai lavori).

Definito bene ciò di cui si parla, e prendendo atto dell’apprezzabile volontà di diventare più attrattivi verso coloro che possano venire a spendere parecchio anche in Italia, dove sono i problemi? Ce ne sono eccome.

Cominciamo da quelli che riguardano i soggetti a cui la misura si rivolge, i ricchi stranieri. Per prima cosa, se diventano residenti in Italia e realizzano un reddito anche qui, ad esso si applicheranno le nostre attuali aliquote, quindi pagheranno tantissimo. Ma soprattutto, ora che possono prendere in considerazione l’offerta concreta italiana, non è affatto detto che possano contare sul fatto che essa vada bene al Paese in cui il reddito lo producono. L’Italia, come tutti i Paesi avanzati, è sottoposta al rispetto di una pila alta così di intese bilaterali in materia sottoscritte con tutti gli altri paesi OCSE, i cosiddetti “trattati sulla doppia imposizione”. Essi disciplinano proprio la regolazione dei rapporti fiscali sovrani sui soggetti d’imposta che stiano, per residenza o attività, “a cavallo” dell’ottemperanza tributaria in ognuno dei due Paesi.

C’è chi applica detrazioni anche cospicue o ritenute basse ai propri espatriati, che continuano però a percepire redditi realizzati nel Paese-fonte. C’è chi applica benefici invece minori, e chi anche non ne applica quasi per nulla: perché se li vuole tenere stretti, i propri contribuenti. Ma una cosa è sicura: qualcuno o molti paesi OCSE potrebbe benissimo considerare questa improvvisa “trovata” italiana come un tentativo improprio di sottrarre loro pingui entrate. E magari allora impugneranno le intese bilaterali con l’Italia. E qualcuno potrebbe anche denunciare Roma davanti alla Commissione Europea per trattamento fiscale anti-concorrenziale, cioè tale da procurare un indebito vantaggio fiscale a chi per esempio continuasse a ricavare redditi da capitale o impresa nel Paese-fonte, rispetto a tutti coloro che invece vi sono residenti e continuano a pagarvi le tasse dovute in quell’ordinamento.  Difficile immaginare dunque un esodo di massa di grandi ricchi dai paesi avanzati in Italia, finché non siano chiariti a livello bilaterale con molti grandi Paesi gli aspetti tecnici della nuova norma italiana.

Fin qui i problemi per gli eventuali beneficiari. Ma ora veniamo a quelli nostrani. Che sono ben più importanti. Come fanno a pensare al MEF che questo tributo capitario extra ordinamentale possa reggere a eventuali – ma diamole per scontate – impugnative davanti alla Corte costituzionale, derivanti da eccezioni sollevate con giudizio incidentale davanti a un giudice italiano? Perché la prima cosa che vien da pensare è che i 100mila euro annui a prescindere dall’imponibile siano una misura in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, cioè del principio di eguaglianza (in questo caso eguaglianza di trattamento fiscale rispetto ai contribuenti italiani), e dell’articolo 53, che informa il nostro sistema tributario a principi di progressività del prelievo.

MEF e AgEntrate possono in effetti pensare che nel nostro ordinamento in realtà le aliquote ordinarie sul reddito convivono già con una miriade di cedolari secche, cioè di prelievi proporzionali. Infatti purtroppo è vero: è la proliferazione di queste cedolari che ha stravolto il nostro sistema fiscale, ormai solo fittiziamente progressivo. Cioè progressivo, troppo progressivo, ma solo sul lavoro. E con effetti di drastica accelerazione del prelievo sopra i 28mila euro di reddito, come di enorme differenza dell’aliquota reale al di sotto, ulteriormente aggravati dall’effetto-soglia esercitato dal bonus 80 euro. Ricordate poi che a seconda del contratto di affitto che avete acceso da proprietari sul vostro immobile pagate un’aliquota diversa, proporzionale o progressiva. A seconda di quale sia il vostro cespite di reddito da capitale potete pagare un’aliquota proporzionale del 12,5% (naturalmente solo per i titoli di Stato..), del 20% o del 26%. Quanto al reddito d’impresa, a seconda della sua dimensione e anzianità si può pagare un’aliquota del 5%, del 15% o da quest’anno il 24%, rispetto al 27,5% dovuto l’anno scorso come aliquota legale IRES.

Rispetto a questa casacca di Arlecchino a cui è ridotto il prelievo sul reddito in Italia, che differenza potrà mai fare alla Corte costituzionale la lump sum dei 100mila euro a forfait riservata ai ricchi “impatriati”? Può invece farla, eccome. Perché le cedolari secche che abbiamo elencato prima hanno a che fare comunque con particolari cespiti e sono comunque proporzionali al reddito (talora anche a un mix redditual-patrimoniale, in Italia le follie fiscali non ci fanno mancare nulla). Mentre i 100mila euro riservati ai ricchi stranieri non distinguono cespiti ma li raggruppano tutti, e comunque prescindono dai redditi reali, né sono ad essi in proporzione. Ergo la Corte costituzionale potrebbe eccepire benissimo, su questa imposta sostitutiva extra ordinem. Perché su questa base resta difficilmente comprensibile come un italiano debba pagare sul reddito di immobili all’estero la sua disperante aliquota alta, mentre un neoresidente no. Per non parlare del rischio che qualche criminale italiano approfitti della generosa offerta dei 100mila euro per regolarizzare redditi da patrimoni detenuti all’estero (su questo, prendiamone atto, AgEntrate promette che vigilerà attentamente)

Conclusione. Per come appare, è una misura dalle buone intenzioni ma gravata da enormi possibili e seri problemi. Atra cosa sarebbe proporla in contemporanea a una generale riforma dell’IRPEF, volta a mettere ordine nella pluralità di tassazioni cedolari e razionalizzando l’attuale progressività impropria, per disegnare invece per tutti gli italiani un’aliquota unica di convergenza a cui sottoporre la tassazione di tutti i redditi, senza eccezione. Un’aliquota unica – quella sì allora definibile come flat tax – resa costituzionalmente compatibile con gli articoli 3 e 53 della Carta perché di effetto progressivo, attraverso un disegno appunto progressivo delle detrazioni e deduzioni. Tale da coprire per gettito la spesa necessaria per un welfare efficiente. E capace di assicurare a chi sta sotto la povertà assoluta il minimo vitale, attraverso un’imposta negativa. Ne parleremo un’altra volta. Ma in quel quadro sì, che i 100mila euro agli stranieri sarebbero meno problematici. Perché renderemmo il fisco uno strumento finalmente favorevole e non ostile alla crescita. Ma alla crescita di tutti gli italiani, non di pochissimi agiati neoresidenti in Italia.

8
Mar
2017

Ancora sulla norma “anti-scorrerie”, il contrario di quel che servirebbe

Sulla norma “anti-scorrerie” il governo fa sul serio. Al di là delle critiche agli effetti che la norma avrà sulla contendibilità delle società, c’è da evidenziare che – alla data di oggi – non è ancora noto il testo dell’emendamento e quindi i precisi contorni che esso assumerà. Il primo punto da chiarire è quale sarà la soglia di capitale al cui superamento scatterà l’obbligo di comunicazione rafforzato: la scorsa settimana, infatti, il relatore del ddl concorrenza, Luigi Marino, aveva lasciato intendere che l’orientamento era sul 10% del capitale sociale; il Ministro Calenda, invece, a margine di un convegno dell’Antitrust, ha detto di puntare su una soglia ancora più bassa (al 5%).

Altro elemento da definire sono le successive quote di capitale il cui superamento comporterà le ulteriori dichiarazioni di intenti: anche qui, sembra che il legislatore si stia muovendo verso degli scaglioni del 5%. Tenuto conto che l’obbligo del lancio di un’OPA totalitaria si colloca al superamento del 30% del capitale sociale, ciò vuol dire che, nell’ipotesi estrema, il soggetto acquirente potrebbe essere tenuto alla comunicazione ben cinque volte, prima di arrivare alla fatidica soglia. E nelle piccole società quotate, che possono prevedere statutariamente una differente soglia – compresa tra il 25 e il 40% – la situazione rischia di essere ancora più grave (e costosa), considerando che proprio le piccole società sono quelle più a rischio di rimanere avvinghiate a un management inefficiente.

È confermata, infatti, l’intenzione di estendere la portata dell’emendamento a qualsiasi settore, perché – come ha ammesso il Ministro Calenda – è impossibile stabilire a priori quali siano quelli “strategici”. Il che è un (paradossale) punto d’onestà: la valutazione di “strategicità” di una società è rimessa a indici che afferiscono più al campo della discrezionalità politica che a quello delle regole economiche, più a un capitalismo “di relazione” che a uno “di mercato”. Elementi, questi, che mal si conciliano con le caratteristiche di generalità e astrattezza che una norma dovrebbe sempre avere: è stato proprio Calenda a ricordare molto correttamente che elemento imprescindibile per l’esplicarsi del libero gioco della concorrenza è una cornice giuridica chiara e stabile. Ma è impossibile non notare che il combinato disposto tra la soglia al 5% e l’estensione indiscriminata a qualsiasi quotata dell’obbligo di comunicazione rafforzata non farà che aggravare le criticità dell’emendamento “anti-scorrerie” (o “anti-scalate”, come lo abbiamo polemicamente definito). In Italia, il mercato delle società quotate è già piuttosto esiguo (ed esangue): una norma così protezionistica è proprio il contrario di quello che ci vorrebbe per rianimarlo.

@GiuseppePortos

3
Mar
2017

Norma “anti-scorrerie”. C’era una volta il ddl concorrenza

La norma “anti-scorrerie” di cui si parla in questi giorni s’ispira alla disciplina francese, che prevede l’introduzione di obblighi di comunicazione rafforzata per ogni soggetto che superi determinate quote di capitale (tra loro molto ravvicinate) in una SpA quotata. Il soggetto acquirente sarebbe così tenuto a comunicare a ogni giro di boa quali intenzioni muovano il suo acquisto e quali siano i suoi progetti futuri. La notizia di oggi è che – sebbene i contenuti tecnici dell’emendamento siano ancora in fase di definizione – quest’obbligo verrà esteso a qualsiasi società quotata, eliminando quindi l’iniziale limitazione ai soli settori “di interesse strategico”. Il che rende ancora più grave e pericoloso quanto sta accadendo.

Non bisogna lasciarsi ingannare dal nome così “evocativo” scelto dal Ministro Calenda: quella in esame non è una norma “anti-scorrerie”, ma una “anti-scalate”. Essa avrà un solo effetto plausibilmente ipotizzabile: rendere più difficile il processo di contendibilità di una società. Una simile sequela di obblighi informativi, infatti, rischia di “esporre” il potenziale acquirente di una società quotata (di qualsiasi dimensione) prima del momento opportuno e cioè prima del superamento della soglia che rende obbligatoria un’OPA. Ciò rappresenta, al contempo, un portentoso strumento di difesa del management in carica di una società (che si presume non particolarmente capace e efficiente, se rischia di vedersi scalzato da un nuovo investitore) e un danneggiamento delle opportunità degli azionisti diffusi di una quotata estranei al gruppo di controllo (che vedranno allontanarsi la possibilità di partecipare al godimento del premio di controllo della società). E, ovviamente, l’ennesimo ostacolo a investimenti esteri, in un Paese sempre più a corto di capitali nazionali e complessivamente poco internazionalizzato a confronto delle altre maggiori economie europee: in percentuale del PIL, la consistenza degli investimenti diretti esteri in Italia è meno della metà dei livelli di Francia, Germania, Regno Unito e Spagna.

In tutta questa storia, c’è poi una sorta di ciliegina finale sulla torta dell’assurdo: una norma che serve a fossilizzare gli assetti proprietari, rendendo più costoso il processo di contendibilità di un’azienda, infatti, verrà inserita in una legge che dovrebbe servire a iniettare maggiore concorrenza nel nostro sistema economico. Questo ci conferma in un antico sospetto: in Italia si vendono come “concorrenziali” scelte regolatorie che sono invece a misura degli incumbent e che sono, pertanto, pensate per poter mettere fuori gioco qualsiasi outsider. Se non ci fosse da piangere, verrebbe quasi da ridere.

@GiuseppePortos

3
Mar
2017

Cosa frena davvero i disoccupati dal farsi imprenditori?

Senza un’imprenditorialità diffusa e attiva non può esistere produzione e distribuzione di ricchezza. Questo è vero sempre, ma lo è a maggior ragione in tempi di recessione prolungata. Ciò ha spinto verso l’adozione di politiche di sostegno e promozione del fare impresa: ma nessuna di queste sembra aver sortito un effetto rilevante. Perché? Se lo sono chiesti gli autori del volume «Disoccupazione, imprenditorialità e crescita. Cosa frena davvero i disoccupati?» (a cura di Raffaele De Mucci e Rosamaria Bitetti, edizioni Rubbettino, pp. 117, € 12), i quali hanno realizzato un’analisi “dal basso”, per capire cosa freni davvero i disoccupati – tipici destinatari di una politica di incentivazione all’imprenditorialità – dall’avviare autonomamente un’attività economica, intervistandone direttamente un campione rappresentativo. Se si vuole, infatti, adottare una politica efficace bisogna prima studiare a fondo le cause del problema: finché si compiono scelte assunte da una visuale dirigista, queste saranno inesorabilmente destinate al fallimento.

I risultati dell’indagine statistica tornano pertanto molto utili: su un campione di 750 intervistati, spicca come principale causa ostativa al “fare impresa” l’attitudine personale (31%), seguita dall’accesso al credito (23%), dalla situazione congiunturale (19%), dalla paura di corruzione e mafia e dall’assenza di competenze economico-manageriali (a pari merito, 8%), dai costi regolatori (7%) e dall’impossibilità di fare affidamento su un network di competenze (4%). Come nota Bitetti nel saggio introduttivo del volume, la carenza di attitudine personale è giustificata in maniera preponderante da un’avversione al rischio: il 9,3% degli intervistati preferirebbe svolgere un lavoro dipendente; l’8,3% si dice preoccupato di poter perdere tutto; il 7,3% non vuole fare debiti. Il problema è quindi di natura “culturale”: non si è pronti ad assumere i rischi che costituiscono elemento ineliminabile dell’attività imprenditoriale e si preferisce una prospettiva di vita più “assicurata”, come può essere un lavoro dipendente. Utilizzando la celebre definizione di Frank H. Knight, il campione intervistato non sembra attrezzato opportunamente per affrontare l’“incertezza” in cui opera tipicamente l’imprenditore (e forse, non sembra neanche comprenderla appieno). L’attitudine culturale dei disoccupati italiani è quindi aggravata da una mancanza di strumenti basilari per l’intrapresa personale: e ciò sembra confermato anche dalle risposte sulla materia dell’accesso al credito. Posti di fronte alla difficoltà del reperimento delle risorse, i disoccupati intervistati pensano immediatamente ai propri risparmi personali (e, di fatti, la loro scarsità li dissuade dall’impegnarsi in un’attività economica autonoma), mostrando notevole diffidenza rispetto alla possibilità di farsi finanziare da un creditore (e così la debole conoscenza del funzionamento del mercato del credito diventa un ostacolo evidente alla diffusione di progetti imprenditoriali).

La poca consapevolezza che il campione mostra di avere delle coordinate fondamentali dell’imprenditorialità risulta evidente anche alla luce delle altre risposte fornite: è sorprendente la sottovalutazione che esso compie della rilevanza di adeguate competenze tecnico-manageriali e dell’impatto (proibitivo, ma non percepito) dei costi di regolazione. Ed è preoccupante poi la preferenza dichiarata per un sostegno da parte delle istituzioni o di reti amicali rispetto allo sviluppo di un network di conoscenze (per comprendere come le preferenze personali siano influenzate anche dal contesto istituzionale in cui esse si esprimono, si consiglia la lettura del saggio di Fallocco che si trova nel volume). Che fare, dunque? La soluzione passa per quella che De Mucci, nel testo, definisce come una vera e propria “rivoluzione culturale”: «piuttosto che “cercare lavoro”, le nuove generazioni devono assumere la prospettiva di “crearsi un lavoro”». Come emerge dal sondaggio, infatti, sono gli under 35 i più propensi ad avere una cultura imprenditoriale ed è quindi su di loro che si può (deve) puntare con più convinzione. Ai giovani si deve quindi indicare l’imprenditore, unico vero produttore di ricchezza, come modello sociale positivo, come prospettiva di vita desiderabile.

Ovviamente – ed è proprio De Mucci a ricordarlo – l’efficacia di qualsiasi investimento di tipo “culturale” non può prescindere dalla creazione di un ecosistema istituzionale favorevole all’impresa libera e privata: non è, dunque, spuria la correlazione che lega la 48° posizione dell’Italia – la più bassa tra i Paesi OCSE, se si esclude il Messico – nel Global Enterpreneurship Index (che misura la diffusione dell’indice di imprenditorialità) al nostro 50° posto nella classifica Doing Business della Banca Mondiale, che è basata sulla “facilità” di fare impresa (peggio di noi, nell’UE, fanno solo Grecia e Malta).

Finché “intraprendere” significherà scontrarsi con mostruosi costi di regolazione, coriacee barriere all’ingresso, burocrazia, legislazione e giustizia “nemiche”, è difficile assistere a una rinascita della diffusione della cultura d’impresa. E come ci mostra, però, l’analisi in esame, è vero anche il contrario. Al diminuire dell’interesse verso l’attività di impresa, infatti, corrisponde un aumento della diffusione dell’ignoranza del peso economico di questi ostacoli. Ed è per questo improbabile che essi diminuiranno, fintantoché sempre meno persone saranno costrette ad affrontarli. Del resto, come ci insegnò Mises, i governi diventano liberali solo quando sono costretti ad esserlo dai loro cittadini.

@GiuseppePortos

28
Feb
2017

Disuguaglianza, un problema relativo o assoluto?—di Alessandro D’Amico

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Alessandro D’Amico.

La diseguaglianza è un argomento centrale nel dibattito contemporaneo. Il rapporto Oxfam del mese scorso è l’esempio più recente.
Dopo la sua pubblicazione, in molti si sono chiesti se sia giusto, o normale, che le otto persone più ricche del mondo posseggano tanta ricchezza quanto i tre miliardi e mezzo di persone più indigenti.
Questo dato, al netto dei dubbi su come sia stato calcolato, ha contribuito a mettere in discussione il modello capitalista delle economie sviluppate, fornendo ulteriore materiale ai suoi critici, dopo nove anni di crisi globale.

Il rapporto di Oxfam fa leva sugli istinti primitivi di tutti noi. In natura, gli animali si sono evoluti per riconoscere l’ingiustizia intrinseca nell’allocazione impari delle risorse. Questo comportamento è visibile già nei bambini e negli scimpanzé.
Non c’è dubbio, quindi, che una simile rappresentazione della distribuzione della ricchezza possa scandalizzare e far riflettere sulla salute del nostro sistema produttivo.
Tuttavia, il mondo è assai diverso da quello che abbiamo conosciuto quando eravamo cacciatori e raccoglitori. Si è trasformato (lo abbiamo trasformato…) troppo in fretta perchè noi ci potessimo adattare secondo i ritmi lenti dell’evoluzione.
Per questo motivo, informazioni che ci appaiono istintivamente rilevanti, scandalose e sintomo di un problema devono essere analizzate razionalmente, alla luce delle conoscenze teoriche ed empiriche che possediamo circa i sistemi economici.

Quando si parla di “extreme income inequality” è importante distinguere tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo.
Infatti, le considerazioni circa la diseguaglianza del reddito nei due casi raggiungono risultati quasi del tutto opposti.
Alla base della mia tesi ci sono due concetti teorici molto datati e strettamente correlati tra loro: la piramide dei bisogni di Maslow e l’utilità marginale decrescente del denaro.
La piramide di Maslow stabilisce una gerarchia dei bisogni umani: i bisogni fisiologici e più impellenti stanno alla base e vanno soddisfatti per primi.
Gli altri bisogni, cioè stima, sicurezza, senso di appartenenza, autorealizzazione vengono soddisfatti solo in seguito.
L’utilità marginale decrescente del denaro fa da corollario all’argomentazione empirica della piramide di Maslow, mostrando che il denaro perde d’importanza per chi lo possiede man mano che si accumula.
Chi riceve lo stipendio al 27 del mese prima paga l’affitto e le bollette, poi fa la spesa, la benzina e poi paga l’abbonamento alla pay tv, va al cinema e al ristorante e mette via quel che resta per le vacanze.

Insomma, con ogni euro guadagnato si sale verso l’apice della piramide di Maslow e si soddisfano bisogni sempre meno impellenti. Come diceva Paperino in una delle storie di Carl Barks: cinque dollari non sono niente per chi li ha, sono tutto per chi non li ha.

Per i motivi esposti sopra, la diseguaglianza del reddito è un tema che assume due portate radicalmente opposte a seconda dei redditi delle persone coinvolte.
Questo resta vero anche se consideriamo, relativamente, lo stesso livello di ineguaglianza in tutto il mondo.
Immaginiamo un’economia con tre individui: un povero, un benestante e un immensamente ricco. Il benestante è 100 volte più ricco del povero e il ricco è 10000 volte più ricco del benestante. Il povero è alla base della piramide di Maslow, il benestante è già in cima, anche se ha qualche sfizio da togliersi, mentre il ricco è sazio e annoiato e non sa nemmeno cosa significhi la parola “bisogno”.

Sarebbe semplice sia per il benestante che per il ricco corrompere il povero e indurlo a infrangere la legge o ad abusare del suo potere istituzionale, qualora lo avesse, facendo leva sui suoi bisogni primari. Per esempio potremmo pensare a un poliziotto di un paese emergente che viene convinto da un ricco turista a chiudere un occhio su una multa. Questo atteggiamento lederebbe gli abitanti di quel paese, venendo trattati diversamente dalle proprie istituzioni, che discriminerebbero tra ricchi e poveri. Ovviamente il ricco potrebbe corrompere il poliziotto con più facilità. Invece, sarebbe assai più difficile per il ricco corrompere il poliziotto se lui fosse benestante, essendo già perlopiù sazio, al vertice della propria piramide. Probabilmente il benestante si lascerebbe corrompere comunque, ma per il ricco, o i ricchi, sarebbe difficile corrompere i benestanti se questi fossero svariati miliardi e non più uno solo.

Per i motivi citati sopra ciò che conta realmente, quando si parla di diseguaglianza, non è tanto la dimensione relativa nella disparità di ricchezza, quanto la ricchezza assoluta della parte più debole. Maggiore è la ricchezza della parte debole e minore sarà il potere del ricco su di essa.
Se osserviamo il fenomeno da questo punto di vista, il sistema capitalista gioca un doppio ruolo.
Da una parte esso è il presunto colpevole della disparità nella distribuzione della ricchezza, ma dall’altro lato è quasi certamente il responsabile del più grande incremento della ricchezza umana mai registrato.

Quindi, finché la capacità del capitalismo di generare nuova ricchezza non è compromessa e questo è capace di sollevare dal loro stato di povertà sempre più persone, la diseguaglianza è un fenomeno scarsamente rilevante, destinato a diventarlo ancora meno nel tempo.

La diseguaglianza minaccia il capitalismo là dove le istituzioni sono più deboli.
Noi abitanti delle regioni sviluppate del mondo dovremmo, perciò, impegnarci per tutelare la democrazia e il libero mercato dei paesi in via di sviluppo, per garantire che anche lì le persone diventino abbastanza ricche da essere libere e serene in cima alla loro piramide.