4
Apr
2017

Cari sovranisti, combattete il debito

Tu chiamalo, se vuoi, sovranismo. È il trend politico del momento e accomuna leader e movimenti politici in tutto l’Occidente, da Nigel Farage a Donald Trump, da Matteo Salvini a Geert Wilders, da Norbert Hofer a Marine Le Pen. E non è certo un caso se il sovranismo viene spesso accostato al populismo, nei programmi dei movimenti politici che rappresentano queste istanze così come nella percezione dell’opinione pubblica. La domanda politica populista chiede di rimettere nelle mani della scelta collettiva (cioè della democrazia) ciò che rule of law, capitalismo, e globalizzazione hanno rimesso alla scelta individuale, ribaltando l’accezione negativa della dittatura della maggioranza e trasformandola in virtù, se non addirittura in un diritto da restituire ai cittadini.

In campo economico, il sovranismo aggiunge a questo principio il frutto di un’ideologia che si proclama rivoluzionaria e liberatrice, ma che – scartata la confezione – si rivela in realtà la metamorfosi più recente dello statalismo vecchia maniera. Cambia il nome, non la sostanza: i sovranisti semplicemente disprezzano il mercato e la libertà, promuovendo il ritorno al controllo dello Stato su ogni aspetto dell’economia, dalla politica monetaria all’importazione delle arance.

Nel campo della finanza pubblica, di conseguenza, il sovranismo osteggia qualunque limite al potere ‘democratico’ dei governi di spendere e tassare se, come e quando desiderano. Non a caso, uno dei bersagli classici dei leader sovranisti di destra e di sinistra è il sistema finanziario, reo, a loro detta, di esercitare un forte potere di ricatto sui governi, influenzandone le scelte.

Vi confesso una cosa: penso che i sovranisti, su questo punto, abbiano una parte di ragione. Spesso le politiche ‘suggerite’ dagli operatori nei mercati finanziari, dai loro rappresentanti istituzionali e dai loro influencers sono, a mio avviso, complessivamente preferibili a quelle che metterebbero in atto i governi in loro assenza. Non per tutti, però, il fine giustifica i mezzi. E, se si antepone il metodo al merito, l’influenza dei mercati sui governi costituisce innegabilmente un serio argine al potere di questi ultimi. Argine che, lo ribadisco, è a mio avviso cosa buona e giusta. Ma che per molti, legittimamente o meno, non lo è.

Ciò che fatico a comprendere della posizione sovranista sulla finanza pubblica, dunque, non è la posizione in sé, ma i nemici che si sceglie. La ragione per cui i governi subiscono il ricatto dei mercati finanziari non sta in qualche oscuro complotto ai nostri danni o nella naturale inclinazione di chi governa a prostrarsi al volere di qualche potente colletto bianco. No: la ragione per cui i governi subiscono il ricatto dei mercati finanziari è che questi posseggono un credito verso l’Italia molto superiore alla ricchezza che il nostro Paese è in grado di produrre in un anno. In altre parole, negli scorsi decenni ci siamo indebitati verso ‘i mercati’ di una cifra tale che non basterebbe un anno di lavoro di tutti gli italiani per ripagarla: duemilaquattrocento miliardi di Euro, cioè quasi 40mila Euro di debiti che pendono sulla testa di ciascun cittadino del nostro Paese, neonati compresi.

Tutto ciò è stato reso possibile dal fatto che in 150 anni di storia, l’Italia ha chiuso il proprio bilancio in pareggio solo due volte (nel 1875 e nel 1925). 148 volte su 150, i governi hanno chiuso l’anno spendendo più di quanto avessero a disposizione. E sapete dove ha trovato i soldi necessari a coprire la differenza? Chiedendoli in prestito ai mercati finanziari. Chi concederebbe mai un prestito a una famiglia o a un’azienda che ogni anno accumula debiti, spendendo più soldi di quelli che possiede? Facile: nessuno. A meno che i tassi d’interesse sul prestito siano particolarmente vantaggiosi. Per ciascuna lira e per ciascun Euro che ha chiesto in prestito ai mercati per poter spendere più di quanto disponesse, lo Stato italiano ne ha promessi in cambio due, tre, talvolta addirittura cinque o sei.

Ogni anno, l’Italia spende oltre 70 miliardi di Euro per ripagare gli interessi sul debito – e sarebbero molti di più, per inciso, se invece dell’Euro utilizzassimo una moneta nazionale. Con quei soldi potremmo permetterci redditi di cittadinanza, aumenti delle pensioni e chissà quali e quante altre misure care ai sovranisti e ai populisti del nostro Paese. Non solo: sono proprio i tassi d’interesse sul debito a generare l’arma del ricatto dei creditori del nostro Paese, che minacciano di non prestarci più soldi se non adottiamo le scelte politiche che essi stessi ci suggeriscono. Ecco perché non dovrebbe essere né l’Euro né i vincoli di Maastricht il vero nemico di chi vorrebbe che l’Italia tornasse ‘sovrana’, padrona del proprio destino e della propria economia: è il debito pubblico il primo e più importante limite alla nostra sovranità, ed è contro di esso che si dovrebbero concentrare gli sforzi di chi non vuole cedere al ricatto dei mercati e della finanza. Se siete davvero tali, cari sovranisti, combattete il debito.

Twitter: @glmannheimer

31
Mar
2017

Se Trump davvero scatena guerre commerciali, USA rischiano per primi. E chi plaude in Italia è fesso

Non una vera dichiarazione di guerra commerciale. Ma un segnale. Un segnale di guerra, comunque. L’indiscrezione lanciata ieri dal Wall Street Journal rivela un documento che il Dipartimento del Commercio USA avrebbe preparato, su indicazione della Casa Bianca. Oggetto: una di un cntinaio di prodotti “iconici” di alcuni grandi Paesi europei, da sottoporre a un dazio assassino del 100% del loro valore per consentirne l’ingresso negli Stati Uniti. Prodotti nessuno dei quali supera la soglia dei 100 milioni di import sul mercato Usa: come la Vespa della Piaggio, l’acqua minerale San Pellegrino, l’acqua Perrier della Nestlè, o il formaggio Roquefort. Lo scopo? Sbloccare una vecchia controversia che risale agli anni Novanta, relativa alle restrizioni europee sull’importazioni di carni bovine americane. L’Organizzazione Mondiale per il Commercio patrocinò un negoziato. Obama lo chiuse con l’Europa, e la restrizione restò per le sole carni trattate con ormoni. Ma gli allevatori americani hanno continuato ad accusare la Ue di inadempienza. Di fatto, basta approfondire un minimo la cosa per capire che nel merito hanno più ragione che torto, ed è un merito di Oscar Farinetti stamane riconoscerlo, nella sua intervista a Repubblica.  In ogni caso, Trump vuole rispondere al grido di dolore degli alllevatori americani, e lanciarci un avvertimento più generale.
Stiamo parlando di una voce di import europeo che pesa poco, 6 miliardi di dollari circa. Se la paragoniamo al surplus commerciale che la Ue vanta verso gli Usa, 157 miliardi di dollari nel 2015, davvero poca cosa. Ma è un segnale pessimo. Se Trump davvero intraprende la via delle guerre commerciali, come per altro ha ampiamente promesso in campagna elettorale, allora dimentica la lezione della storia. Che è purtroppo assolutamente univoca. Lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930 voluto dal presidente Hoover fu un disastro totale. Ed è sempre così. Chi alza i dazi con la scusa di proteggere i propri settori produttivi, promettendo così la difesa e l’aumento di posti di lavoro nazionali, scatena inevitabilmente reazioni a catena di segno analogo. Alla fine, nel medio periodo successivo, la storia moderna ha sempre dimostrato che le conseguenze sono tre. I settori protetti e sussidiati praticano prezzi più elevati, e diminuisce il potere d’acquisto dei consumatori, sia verso i prodotti domestici sia verso quelli importati a maggior prezzo . Viene colpito l’export verso gli altri paesi, che a propria volta alzano dazi e tariffe, e dunque si perdono occupati e imprese. E, terzo, la discesa del commercio mondiale abbatte la crescita globale per tutti, Paesi avanzati e meno, accresce invece di diminuire lo squilibrio nella bilancia dei pagamenti, accelera crisi valutarie, spesso sfocia in veri e propri conflitti armati.

Trump più volte ha fatto capire che entro una certa misura è disposto a correre il rischio. Calcolando cioè che nel breve, di fronte a scrolloni energici come il segnale lanciato ieri all’Europa, i Paesi in avanzo commerciale verso gli Usa capiscano che devono rassegnarsi a ridurlo. A cominciare dalla Cina, 367 miliardi di dollari di surplus 2015 verso gli Usa, la Ue con 157 come detto, il Giappone con 70 miliardi, il Messico con 67,5, e poi Vietnam, Corea del Sud, Canada e Taiwan. Trump ritiene che gli Usa se lo possono permettere, tanto i mercati delle commodities restano denominati in dollari e gli Usa sono unica potenza globale. E’ un calcolo che piace a tutti i protezionisti e sovranisti che in questi anni gonfiano di consensi il loro sostegno nei sondaggi di molti Paesi, Italia compresa. Ma è un calcolo miope. Il passato parla chiaro. Ed è pronto a punire chi lo sfida. Se davvero Trump lanciasse il guanto di sfida alla Cina, che detiene oltre 2mila miliardi di dollari di debito USA ed è presente con propri solidi interessi in vaste aree del mondo, il rischio del conflitto è un vero riorientamento del mondo verso Pechino (e Mosca, in Europa).

Quanto all’Italia, il nostro surplus commerciale verso gli Usa è stata una delle più potenti molle per realizzare la sia pur asfittica nostra crescita degli ultimi anni. Quel mercato è il primo extraeuropeo per sbocco dei nostri prodotti, dopo Germania e Francia, e dal 6% del nostro export nel 2010 è salito a oltre il 10% nel 2016, con un surplus commerciale complessivo di oltre 28 miliardi nel 2015. Più della Corea del Sud, dell’India, del Canada e della Francia. L’auto con la Fiat, la componentistica, la meccanica e i macchinari, la moda, gli alimentari e i farmaci sono nell’ordine i settori in cui andiamo forte. Visti questi successi, il ministro Calenda ha lanciato e finanziato un piano ad hoc per estendere la presenza in Usa di beni di consumo e marchi italiani. I dazi attuali praticati ai prodotti italiani negli States variano da oltre l’8% in media nel tessile (ma fino al 18% per abiti confezionati), al 6% nella ceramica, a poco più del 2% per autoveicoli, motocicli e alimentare. Chiunque può comprendere che innalzare dal 2% al 100% di dazio per Vespa e acqua san Pellegrino significa espellerli dal mercato statunitense.
Certo, la WTO esiste ancora. E a quel punto spetterebbe a lei dirimere la controversia. Ma Trump pensa a un mondo di intese bilaterali, per questo ha inabissato il TTIP multilaterale transatlantico. E lo stesso vuol fare con il Nafta che disciplina il commercio USA con Messico e Canada. Speriamo dunque che la squadra intorno a Trump lo faccia ragionare. In caso contrario, ricordiamoci che attualmente, nelle 6600 combinazioni di prodotto/mercati più diffusi nel commercio mondiale, in 900 casi Italia e Usa sono tra i primi cinque competitor. Dunque saremmo in condizione di “soffiare” ragionevolmente agli Usa a nostro vantaggio quote di valore e volumi di export in quelle specializzazioni, in molti Paesi nel mondo.
Ma senza dimenticare una cosa. Un mondo in cui gli Usa accendessero la spirale della guerra commerciale e valutaria diventa un mondo molto più instabile. E dopo 15 anni di logoramento in Medio Oriente, gli Usa non sono oggi la superpotenza unica di un tempo.

Infine: chi inneggia ai dazi in Italia è ancor più fesso che altrove. Siamo un paese trasformatore, quel poco di crescita asfittica dj questi ultimi anni si deve al miracolo dell’export, realizzato da poco più di 200 mila imprese italiane malgrado tutte le difficoltà buro-fiscal-amministrative. Tifare dall’Italia per chi alza i dazi ai nostri prodotti significa solo essere masochisti. Poi potranno pure dirsi sovranisti quanto vogliono, ma fessi e masochisti restano.

29
Mar
2017

Magistrati e docenti contro le sentenze: i NO TAP e i cattivi maestri

Sempre più paradossale: questo è il livello raggiunto in Italia dalla creazione e manipolazione politica dei movimenti avversi alle opere pubbliche. Ormai persino di fonte alle sentenze favorevoli alle opere, si fa finta di niente. E, così facendo, si altera e distrugge in maniera irreversibile l’idea stessa della legalità, cioè il fondamento di ogni libero consorzio civile. E’ quello che sta avvenendo in Puglia, ad opera dei politici che animano come capataz l’opposizione locale al gasdotto TAP. Il rapporto annuale su costi del non fare letteralmente rimbalza su partiti e politica nazionale. L’ultima versione, quella 2016, stima in oltre 600 miliardi di qui al 2030 i costi dei ritardi e delle opere infrastrutturali bloccate. Di questi, 59 miliardi riguardano opere di trasporto stradale e portuale, 55 miliardi le reti e infrastrutture energetiche. Servono infatti energia pari a una produzione di 33.900 MegaWatt per 43,7 miliardi, e reti di trasmissione per 12 miliardi. Ecco perché è strategico per l’Italia il gasdotto che arriva dal Mar Caspio, il TAP che attraverso Azerbaigian, Georgia, Turchia, Grecia e mare Adriatico approda in Italia in località santa Foca, comune di Melendugno, provincia di Lecce. Ha una portata di 10 miliardi di metri cubi di gas, estensibile a 20 miliardi. Il suo studio di fattibilità data al 2013 e l’avvio dei lavori a 4 anni fa. Inutile dire che siamo in ritardo, rispetto all’arrivo del primo gas previsto al 2020. E che l’energia serve per creare lavoro e impresa, oltre che alle famiglie. E che il gas è la fonte fossile più “pulita”…

La Regione Puglia si è opposta davanti al TAR proponendo per il gasdotto un diverso sbocco verso Brindisi, insieme al Comune di Melendugno. Ma il TAR ha respinto l’opposizione. I ricorrenti hanno adito il Consiglio di Stato. E anche il supremo organo della giustizia amministrativa ha dato loro torto. Ha chiarito in maniera secca che non era vero non fossero state esaminate alternative, ripetendo che al termine dell’esame rispetto a ben 11 diverse soluzioni proposte (più 2 sottosoluzioni, per un totale di 14) quella prescelta è la migliore, secondo la corretta valutazione d’impatto ambientale, eseguita come prevede la legge. Ha respinto l’eccezione basata sul fatto che si dovesse applicare la direttiva Seveso sui possibili disastri, perché le variazioni di pressione e temperatura del gas, a meno di manipolazioni dolose, non giustificano affatto tale direttiva. E il Consiglio di Stato ha riconosciuto che nell’intero iter di esame dell’opera è stato rispettato e attuato il prescritto principio della piena e leale collaborazione tra Stato centrale e Autonomie, stante il testo costituzionale rimasto vigente dopo il referendum del 4 dicembre in materia di competenze delle Regioni. L’espianto di due centinaia di ulivi, per scavare la trincea di un metro di profondità nella quale posare il tubo fino all’allacciamento della rete di distribuzione nazionale, è stato nuovamente e debitamente autorizzato dal ministero dell’Ambiente. E gli ulivi non vengono distrutti, ma solo temporaneamente piantumati altrove. Per poi essere ripiantati dov’erano.

Eppure, in questo paese molti credono che le sentenze vadano osservate solo se danno loro ragione. Ergo il presidente della Puglia ha accusato a testa bassa il governo di essere incapace di ascolto. Il movimento 5 Stelle si è unito alle accuse ma ha anche attaccato Emiliano, reo di condurre un’opposizione non abbastanza dura. Si è unito il sindaco di Napoli de Magistris, e persino il movimento “Noi con Salvini”. Di conseguenza, ecco ieri il sit in dei NO TAP per impedire i lavori e l’espianto. Con le consuete scene già viste in val di Susa, e le forze dell’ordine costrette a intervenire per il rispetto della legalità, e per consentire il passaggio dei mezzi necessari alla ripresa dei lavori. Oggi, puntualmente ci risiamo. Si sentono eroi gandhiani contro l’Impero britannico.

Diciamola tutta. Siamo un paese che si è munito di tanti e tali gradi di controllo giurisdizionale, pienamente autonomo e indipendente, che proprio è impossibile a chiunque gridare che la giustizia sia al servizio di un indirizzo politico, infrastrutturale, energetico, deciso a tavolino da un governo. L’Italia è semmai il Paese dove con l’impugnativa amministrativa le opere si fermano per tempi pluridecennali, non si affrettano di certo. Ergo a chi restasse convinto dell’infondatezza del giudizio del Consiglio di Stato dopo quello del TAR, resta una sola strada, se lo ritiene: lavorare a ciò che serve per un’eventuale impugnativa davanti alla Corte Costituzionale. Mentre l’unica cosa inaccettabile è continuare in comportamenti atti a impedire fattualmente ciò che due gradi di giudizio amministrativo hanno pienamente confermato.

Ma ci sono anche almeno due osservazioni aggiuntive. Al sit in di ieri, inadempiente agli inviti allo sgombero legittimamente venuti dalle forze dell’ordine, si è letto che abbiano partecipato insegnanti e studenti liceali. Possiamo chiedere a che titolo, gli insegnanti avessero deciso e ottenuto i permessi necessari per accompagnare in orario di lezione i propri studenti a manifestare, sotto la loro responsabilità personale e dell’istituzione scolastica? In Italia per le gite scolastiche ci si interroga con fior di circolari sulle responsabilità che assumono insegnanti e dirigenti scolastici, e in quattro e quattr’otto invece professori e studenti vanno a manifestare contro il Consiglio di Stato?

Quanto poi al presidente della Puglia, Michele Emiliano è un magistrato, prima che un politico alla testa di una Regione.  Da magistrato, dovrebbe inchinarsi al Tar e al Consiglio di Stato, non dare per primo un pessimo esempio ai politici, che troppo spesso della legalità se ne infischiano. Se neanche vale l’assenso del duplice vaglio giurisdizionale a un’opera energetica sostenibile, che cosa diavolo bisogna immaginare che sia necessario in Italia, per evitare di bloccare tutto e restare seduti sui nostri talloni a contemplare il declino? Chi vuole il potere ai soviet locali, verdi rossi o gialli non fa differenza, faccia il favore di cambiare la Costituzione e tutte le leggi ambientali, prima di gridare al saccheggio del territorio, e a chissà quali cospirazioni globaliste. E cerchi anche di non dare un pessimo esempio a quegli studenti, i cui docenti al sit in ieri erano liberissimi di partecipare da cittadini prendendosi un giorno di ferie: ma se invece hanno partecipato decidendolo coi loro studenti meritano automaticamente l’amaro titolo di cattivi maestri.

 

28
Mar
2017

Un apologo: le pecore inglesi e Marchionne—di Matteo Repetti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Repetti.

Nel XIII secolo, l’Inghilterra era, a tutti gli effetti, un’immensa fattoria di pecore che riforniva l’industria laniera continentale, sia nelle Fiandre che in Italia.

Per contro, le esportazioni di prodotto finito, di panno inglese, erano del tutto irrilevanti.

Nell’arco di appena qualche decennio, gli inglesi riuscirono a dominare completamente il mercato mondiale della lana: gli europei ricchi compravano solamente panni inglesi, fra i quali il migliore era spesso tinto di scarlatto, molto apprezzato dalle case reali.

Cosa era successo nel frattempo?

Come ha sottolineato il sociologo americano Rodney Stark (The Victory of Reason, 2005), nel 1271, Enrico III d’Inghilterra decretò che “tutti i lavoratori addetti alla fabbricazione di panni di lana, maschi e femmine, delle Fiandre come di altri paesi, possono tranquillamente venire nel nostro regno, per fabbricarvi panni”, e accordò loro l’esenzione dalle tasse per cinque anni.

Nel 1337, Edoardo III estese ulteriormente questi privilegi ai fabbricanti di panno fiamminghi e inviò persino dei reclutatori.

Ma non giunsero solo tessitori, follatori e tintori. Diversi imprenditori portarono con sé in Inghilterra intere imprese, compresi i lavoratori e tutto il resto. Non si trattava semplicemente di persone propense ad andarsene dalle Fiandre, ma di gente attirata in Inghilterra da maggiori libertà, rispetto degli accordi, stabilità politica, costi più bassi e materie prime più pregiate. Soprattutto, poi, queste persone furono attratte da salari e profitti molto più alti dovuti a una tecnologia migliore.

In Italia, invece, per sostenere le varie corporazioni commerciali e artigianali, i costi della manodopera erano sempre molto alti e si bloccava ogni sforzo verso l’innovazione: quando gli inglesi scoprirono la tecnica della tintura scarlatta dalle cocciniglie per i tessuti, con la quale tagliarono di due terzi i costi di tale processo, fu addirittura proibito alle imprese veneziane di adottarla.

Ebbero così fine le glorie dell’Italia medievale (incluse quelle dei miei antenati genovesi, che per primi avevano avuto l’idea stessa della banca e dei titoli di credito).

A distanza di quasi un millennio, viviamo in un mondo in cui non per caso si parla inglese e non italiano.

Ma la storia dà sempre una seconda possibilità.

Un esempio: Marchionne ha preso la Fiat sull’orlo del fallimento e, a distanza di appena qualche anno, si è comprato la Chrysler, ed ha riportato la nuova FCA ad essere uno tra i principali protagonisti del mercato mondiale dell’auto.

Com’è stato possibile?

Beh, è stato sufficiente tornare a lavorare, rischiare, sfidare la globalizzazione e gli altri competitori, e non fare invece affidamento sui contributi statali, inclusi quelli per la rottamazione.

Per essere competitivi, è necessario pretendere dai lavoratori e pagarli di più, senza cedere invece alle consorterie sindacali, interessate ad altre faccende anziché allo sviluppo dell’azienda, alla qualità del prodotto, alla retribuzione degli operai ed alle loro condizioni di lavoro.

Da noi è nato il diritto ed è stata concepita l’idea di stato (gli antichi romani erano gli americani dell’epoca); la nostra storia è il rinascimento, il melodramma, la cucina e la moda: ma adesso anche la Jeep è italiana.

27
Mar
2017

I 60 anni della Ue: ok l’entusiasmo, ma per l’Italia ecco i guai che restano

Andiamoci piano con il tripudio. Ieri la stampa italiana, molto più di quella europea, ha salutato il documento firmato a Roma in occasione del 60° del Trattato di Roma come se fosse la resurrezione di Lazzaro dalla tomba. L’Unione Europea c’è, tutti i 27 hanno firmato, la Brexit ormai è alle spalle, l’antieuropeismo e il nazionalismo spezza-Europa e spezza-euro sono alle spalle, questo in molti hanno detto. Dopo 24 ore, forse è il caso di riporre trombette e tamburi. Non è il caso di sostituire l’Europa al turno di serie A mancante ieri, con gli stessi atteggiamenti che le curve dei tifosi riservano ai propri colori.

È ovvio il sollievo al fatto che Polonia e Grecia alla fine abbiano firmato il documento senza porre veti, che minacciavano sia pur per motivi assai diversi. Benissimo, che l’atmosfera della cerimonia sia sembrata quella di un festoso pranzo di matrimonio. Ma l’analisi da fare non è «chi ha vinto e chi ha perso». Bensì quella, più concreta, «che cosa possiamo aspettarci»? Cercando di essere realisti, il documento è un buon testo per una ragione fondamentale, almeno per chi crede nell’Europa: ribadisce in faccia a Brexit che l’Unione è «indivisa e indivisibile». Non è per niente poco, visto che a firmarla sono governi conservatori e socialisti e di convergenza nazionale, ma anche fortemente identitar-nazionalisti come quello polacco e soprattutto ungherese. È anche molto apprezzabile il passaggio liberoscambista sul commercio internazionale, chiaramente un monito verso Trump, e un ponte verso la Cina. Ma, detto questo, per essere unitario e per comprendere quella buona frase essenziale, il testo è comunque pieno di compromessi. E nella loro interpretazione ognuno si appellerà a quel che più lo convince e gli interessa, che però non è affatto il minimo comun denominatore europeo.

I membri est-europei si riconoscono nella posizione polacca, che è riuscita a impedire che la cooperazione più stretta tra chi vuole diventasse uno sviluppo «ovunque possibile». Nel testo c’è scritto che essa sarà percorsa «se necessario», e con l’impegno di non lasciare «nessuno indietro». Facciamo due esempi per capire. Sulla difesa e sicurezza, uscito il Regno Unito i 3 maggiori paesi membri storici dell’Unione credono in una sfera di cooperazione ristretta «aggiuntiva» rispetto alla Nato. I Paesi est-europei a cominciare dalla Polonia sono risolutamente contrari: nessuna iniziativa europea deve essere immaginata per indebolire la Nato. Ai loro occhi, sono gli americani che li difendono da Putin, non certo italiani e francesi. Mettetevi nei loro panni. Hanno proprio torto? Oggettivamente: no.

Sul problema dei profughi e migranti, su cui è esplosa l’Europa dopo che la Merkel nell’estate 2015 spalancò le porte senza mettere in conto che per arrivare in Germania avrebbero dovuto percorrere il corridoio centroeuropeo e quello mediterraneo, il testo parla di una politica «efficace, responsabile, sostenibile, rispettosa delle norme internazionali», e altro bla bla. Di fatto, dunque, non solo il problema sollevato dai Paesi esteuropei sulla difesa resta in pieno. Anche sui profughi, bisognerà vedere come il corridoio mediterraneo, cioè l’Italia, riuscirà a ottenere più cooperazione europea per l’esercizio di filtri più efficaci. Ma è un percorso tutto da costruire.

Quanto agli sviluppi sull’economia, obiettivamente il documento è un gelato multigusto, che accontenta tutti i palati ma non indica priorità decisive. Dire che si vuole la crescita sostenibile, la coesione, la convergenza ma tenuto conto della diversità dei sistemi nazionali, la lotta contro la disoccupazione e la discriminazione e l’esclusione sociale beh non è proprio una chiara scelta di priorità che valga a turare le due falle economiche su cui l’Europa si è arenata. E cioè il mancato prosieguo nell’unificazione vera, per quanto a tappe, dei mercati del lavoro, dei beni e dei servici, anche per chi solo si accontenta del mercato unico. E, per i Paesi che invece hanno scelto l’euro, passi avanti concreti non solo nell’unificazione dei mercati ma soprattutto verso maggiori comuni di strumenti finanziari, di bilancio e di sostegno al reddito.

Idem dicasi per l’altro difetto «storico» della Ue funzionalista, cioè il deficit democratico. È particolarmente infelice la frase del documento che recita «ci impegniamo a dare ascolto alle preoccupazioni espresse dai nostri cittadini». Non si capisce come non sia venuto in mente agli estensori che essa rievoca testualmente le espressioni che usavano i monarchi di inizio Ottocento, allorché benignamente «concedevano» le prime Costituzioni dopo aver paternalisticamente porto il loro sollecito orecchio alle proteste del popolo

Quindi la conclusione del vertice di Roma è certo positiva, ma ora va riempita di contenuti. Servono leader davvero capaci di elaborare proposte concrete e in grado di ottenere il consenso ampio, per non rendere il documento firmato a Roma l’ennesima vana intenzione europea. E serve avere un chiaro senso delle priorità. Per un Paese come l’Italia, a bassa crescita, bassa produttività, bassa occupazione e alto debito, la prima sfida è costruire una proposta e una rete di alleanze a proposito della decisione che bisognerà assumere tra fine anno e inizio 2018 sul Fiscal Compact, che è extra Trattati e sul quale occorre decidere che futuro riservargli, e come modificarlo. Agli occhi degli anti euro il Fiscal Compact è come il ricatto che Brenno pose a Roma, chiedendone l’oro e gridando guai ai vinti. Al contrario, se esistono politici italiani davvero desiderosi di una cooperazione economica e sociale europea più stretta, il Fiscal Compact va aggiornato ma la convergenza delle finanze pubbliche va sposata: magari ricalibrata, ma non certo ripudiata. Non se ne vedono, sulla scena politica italiana, almeno tra i cosiddetti “leader”.

24
Mar
2017

In recessione, meglio tagliare le spese o aumentare le tasse?

Messi davanti alla necessità di un aggiustamento fiscale (fiscal adjustment), i governi hanno una classica alternativa: tagliare le spese o aumentare le tasse. Viene spesso ripetuto che questa scelta non è “neutra”, visto che è condizionata dalla contingenza economica di riferimento: in uno stato di recessione, si aggiunge, agire sul lato delle uscite anziché su quello delle entrate finirebbe per aggravare la situazione. Ma è davvero così? A guardare i Paesi che meglio di altri sono “usciti” dalla crisi economica post-2008, sembrerebbe di no: a livello europeo, il Regno Unito è forse l’esempio più immediato (il deficit è passato dal 10,2% del 2010 al 4,9% del 2015; l’incidenza della spesa sul PIL è scesa di 5 punti dal 2009 al 2014), ma anche la Spagna non scherza (deficit dal 11% del 2009 al 4,3% del 2015; l’incidenza della spesa sul PIL è scesa dell’1,3%) (dati). E la storia, spesso ripetuta come un mantra, degli Stati Uniti che crescono grazie agli aumenti di spesa non corrisponde al vero.

Ma allora conta di più il “quando” o il “come” nella realizzazione di questi aggiustamenti fiscali? Se lo sono chiesti, in uno studio per il National Bureau of Economic Research, i professori Alesina, Giavazzi, Azzalini, Favero e Miano. I risultati dello studio sono stati poi sintetizzati in un research brief per il Cato Institute. Chiariamo innanzitutto i termini di riferimento: per “quando” si intende il momento in cui l’aggiustamento viene realizzato (in un momento di recessione o di crescita economica); per “come” il contenuto di questo aggiustamento (se esso è basato maggiormente sull’aumento delle tasse o sul taglio delle spese). Ebbene, i risultati dello studio (che analizza le scelte di politica economica di 16 Paesi OCSE dal 1981 al 2014) mostrano (sorprendentemente?) che il “come” conta molto più del “quando” nel generare gli effetti di un aggiustamento fiscale. Quelli basati sul taglio delle spese sono, infatti, molto meno “costosi” in termini di perdite di output nel breve periodo (short-run output losses), su una media tendente a zero, rispetto, invece, a quelli basati sull’aumento di tasse, che vengono associati a più profonde e durature fasi di recessione (a prescindere – e questo è un punto interessante – dal fatto che essi vengano realizzati o meno durante una fase di recessione). Meglio tagliare le spese che aumentare le tasse, si potrebbe allora concludere: anche se ci si trova in recessione.

Forse, però, i risultati di questo studio non sono così sorprendenti per noi italiani: a vedere come i nostri governi hanno scelto di reagire alla crisi economica, si ha la conferma empirica del fatto che il “come” negli aggiustamenti fiscali conta moltissimo. Aumentare le tasse e tagliare (poco e male) le spese ha avuto come unico risultato quello di prolungare oltremisura lo stato di crisi, facendoci mancare la possibilità di agganciare il treno della ripresa.

@GiuseppePortos

17
Mar
2017

I voucher non servono a niente

Il ricorso ai voucher è il classico caso di ‘spia’ dei mali che affliggono il ricorso al lavoro regolare, sommerso dal peso insostenibile di tasse e contributi che depredano ciascun lavoratore del settore privato di metà del proprio stipendio e di una burocrazia asfissiante. Ma, come spesso accade quando si accende una spia che segnala l’esistenza di un problema, la politica oscura la spia e ignora il problema. È quello che è successo ieri, con l’abolizione dei voucher voluta dal governo per scongiurare il referendum proposto dalla CGIL per il prossimo maggio.

Grazie ai voucher era emersa parte dell’enorme iceberg del lavoro nero italiano, composto di rapporti di lavoro per cui mai e poi mai si stipulerebbe un contratto. Realisticamente, tornare indietro significa semplicemente riportare quei rapporti di lavoro nell’illegalità. L’alternativa non è tra i voucher e i contratti a tempo indeterminato: è tra i voucher e il lavoro nero. E se ci sono stati abusi nel loro utilizzo, la risposta di una politica lungimirante e responsabile dovrebbe essere una drastica semplificazione e defiscalizzazione degli altri schemi contrattuali. Ma, appunto, tra la spia del problema e il problema, anche stavolta si è deciso di agire sulla spia: eliminare i voucher, per combattere il precariato. Che è un po’ come eliminare la beneficienza per combattere la povertà: non solo non risolve il problema, lo nasconde. E quindi lo peggiora.

Ma il nodo di questa vicenda non si limita al fatto che l’abolizione dei voucher sia un enorme passo indietro per il nostro mercato del lavoro, o al fatto che il governo si mostri completamente subalterno alle minacce e ai ricatti della CGIL. Perché la vicenda dei voucher è solo l’ennesimo indizio dell’incapacità della politica di adattare le proprie scelte ai cambiamenti della società, invece di ostinarsi a volerne raddrizzare autoritariamente i legni storti, inseguendo un modello di società che le persone non sentono adattarsi alle proprie inclinazioni e necessità.

Non sarà l’abolizione dei voucher a risolvere il problema di un mondo del lavoro sempre più mutevole e incostante. Viviamo in un’epoca di trasformazioni rapide, imponenti e imprevedibili, che richiedono strumenti normativi semplici, economici, flessibili e universali, che si adattino facilmente ai mutevoli bisogni della società. Come sono, appunto, i voucher. E proprio questo è il punto: il ‘fine’ dei voucher lo decide chi lo usa, di volta in volta. I voucher non servono a niente in particolare, perché possono adattarsi a esigenze diverse a seconda delle necessità. Questa è la loro forza e il tipo di strumenti di cui la società ha bisogno: strumenti che le persone, e non la politica, possano stabilire se utilizzare, quando e perché.

Twitter: @glmannheimer

15
Mar
2017

Se abrogano i voucher non veniteci a parlare di cultura riformista

Si diffonde la notizia secondo la quale governo e maggioranza intenderebbero assecondare la CGIL, e abrogare del tutto i voucher. Chissà come mai non ne sono sorpreso. E’ l’ennesima conferma di una politica ridotta a pura incapacità di tenere la barra, tutta pancia e niente testa. Assolutamente indifferente al merito delle questioni e ai dati numerici, solo prigioniera delle lotte di leadership esplose dopo il no al referendum costituzionale del 4 dicembre.  Se si guardano i dati e i fatti, i voucher sono da correggere, non da abrogare. Ma poiché il governo ha scelto la data del 28 maggio per i due referendum residui sul lavoro proposti dalla Cgil, dopo che la Corte Costituzionale ha cassato quello sull’articolo 18 di maggior presa popolare, ecco che Pd e governo, pur di non rischiare una rischiosa modifica in tempi ristretti, preferiscono capitolare. Pessima scelta.

Diciamolo: i due quesiti residui rappresentano l’ennesima riproposizione di un errore troppe volte compiuto.  Sono cioè un nuovo esempio di richiesta abrogativa di norme le cui caratteristiche tecniche specifiche sono nettamente al di fuori di quelle scelte generali e di principio alle quali andrebbe riservato l’istituto del referendum. Ricordiamo un dato, relativo ai mancati raggiungimenti del quorum previsto per la validità della consultazione, il superamento alle urne del 50% dell’elettorato. Se i due referendum si tenessero il 28 maggio, sarebbero il 68° e 69° quesito abrogativo nella storia della Repubblica. Ma dal 1997 a oggi, consecutivamente in 20 anni ben 25 quesiti abrogativi non hanno registrato il quorum, l’unica eccezione è stata rappresentata dalle 4 proposte sottoposte alle urne nel 2011 (sul servizio idrico). La serie storica dovrebbe pur dire qualcosa, a chi propone referendum. Non è il caso della CGIL, che contava sul referendum anti Jobs Act per ottenere il quorum, ribaltare l’eredità su questo punto del governo Renzi, incidere profondamente nella lotta apertasi nel Pd. Eppure, malgrado la CGIL sia stata disarmata sull’articolo 18, pare proprio che vinca comunque.

E allora bisogna dirlo chiaro. La volontà abrogatrice dei voucher espressa dalla Cgil comunque rappresenta un passo indietro secco per il mondo del lavoro italiano. Ignora il fatto che i numeri sin qui rilevati dell’applicazione dei voucher mostrano che tale strumento ha effettivamente intaccato la montagna del lavoro nero italiano. Rifiuta l’evidenza che per la stragrande maggioranza di quei lavori mai e poi mai si stipulerà un contratto. Respinge l’idea stessa che il lavoro – la sua cultura e la sua dignità – sia espressione di una società flessibile e in continua trasformazione, non immobilizzata in antiche forme ideologiche.

L’abrogazione del voucher è richiesta in nome del fatto che, nato per il lavoro accessorio, sarebbe invece la catena intorno al collo del nuovo precariato.  Senonché lo studio INPS relativo ai dati 2015 effettuato da Bruno Anastasia e Pietro Garibaldi mostra come i percettori dei voucher siano quasi al 10% pensionati, mentre il 55% si divide tra chi ha un altro lavoro e percettori di ammortizzatori sociali. Sommando queste tipologie si direbbe dunque che il più dei percettori utilizzano il voucher davvero per attività accessorie, e per tipi di mansioni in cui prima il nero imperava. Comunque stiamo parlando di una platea pari all’8% del totale degli occupati nel 2015. E se le stime di Garibaldi e Anastasia sono corrette, significa che quasi 900mila del milione e seicentomila di percettori di voucher stimati nel 2016 sono stati strappati al nero in cui prima erano confinati, senza avere diritto a un euro di contributi versati. E’ così disprezzabile, in un’Italia in cui restano 3 milioni di disoccupati?

Certo, i dati dicono anche che alcuni correttivi – non certo l’abrogazione – sono magari utili. E’ del tutto fisiologico, non patologico, che i settori in cui il voucher è esteso siano turismo, commercio, giardinaggio e manutenzione edilizia, servizi alla persona. Un punto interrogativo riguarda l’uso in edilizia e agricoltura. Ma molti di coloro che si sono messi al lavoro in questi mesi per modificare il voucher non tendevano affatto a revisioni limitate e mirate. Volevano e vogliono di fatto neutralizzarlo. Cesare Damiano voleva alzarne la parte contributiva parificandola a quella del lavoro dipendente. Lo stesso ministro Poletti ha parlato di ridurne l’uso il più possibile alle sole famiglie. C’è chi ha proposto di limitarne i percettori a studenti, pensionati, disoccupati, disabili ed extracomunitari solo se regolarmente disoccupati da almeno sei mesi. C’è chi ha pensato di abbassarne drasticamente il tetto massimo attuale annuo sia per il soggetto pagatore, sia per il percettore, anche se la stragrande maggioranza dei percettori non arriva ai 5mila euro annui rispetto al tetto dei 7mila esistente. Tutti sembrano di colpo indifferenti di fronte al fatto che le nuove norme sulla tracciabilità, introdotte dal governo Renzi, hanno già negli ultimi mesi frenato la crescita dei voucher, e consentito di identificare e sanzionare centinaia di  usi impropri. E naturalmente tutti hanno dimenticato che la stessa CGIL che ha proposto il referendum usa i voucher per pagare in Emilia Romagna gli attivisti della sua federazione di maggior peso, quella dei pensionati.

Ecco perché, di fronte a tutte queste nuove divisioni nel Pd, il governo preferirebbe a questo punto azzerare i voucher e non se parli più. Non parlate per favore a vanvera di cultura riformista. Nell’attacco a testa bassa sui voucher si ripropone una vecchia strategia: ideologizzare una questione assolutamente non centrale in un paese a bassa occupazione e bassa produttività, per farne il vessillo di un ritorno al passato.

8
Mar
2017

L’esca fiscale per stranieri ricchi è mal pensata: serve una flat tax per tutti gli italiani

Piano, prima di celebrare la nuova trovata per attirare ricchi stranieri in Italia come fosse un bel segno, la prova che finalmente anche l’Italia ad altissimo prelievo fiscale si mette al passo con i paesi leader del mondo, capaci di attirare cervelli e capitali con tasse più basse. Ad un primo esame, infatti, non sembra proprio.

La norma è prevista nella legge di bilancio per il 2017, e oggi l’Agenzia delle Entrate ha comunicato che sono pronte le procedure attuative. Per chi è residente fuori Italia da almeno 9 anni nei precedenti 10 diventa possibile spostare la residenza qui da noi, versando una somma fissa di regolarizzazione annuale dei redditi che continua a realizzare all’estero: 100mila euro l’anno, più 25 mila per ogni componente del nucleo familiare se titolare di altri redditi, propri o in regime di splitting. La somma è dovuta per ogni anno di residenza in Italia fino a 15 a venire, l’ammissione al beneficio si può richiedere anche telematicamente, rispondendo poi a una serie di domande sul o sui paesi in cui si è risieduto e si continuerà a produrre il reddito. L’Agenzia delle Entrate si riserva un’istruttoria per la risposta affermativa. L’obiettivo è chiaro: attirare ricchi contribuenti, che realizzino all’estero redditi molto importanti da cespiti mobiliari o immobiliari, oltre che da lavoro. Finalmente faremo concorrenza a regimi simili adottati per esempio nel Regno Unito, si dice.

Attenzione, non è una flat tax, come erroneamente la definiscono molti. La flat tax – ci torneremo più avanti – è un’aliquota di tassazione dei redditi piatta, cioè proporzionale invece che progressiva. Qui non c’è aliquota e non conta nulla l’imponibile a cui applicarla. Non è neanche un condono, come altri scorrettamente dicono. Il condono si può applicare – spesso è avvenuto, purtroppo, in Italia – all’emersione di redditi di pertinenza del fisco italiano ma sottratti indebitamente alla sua imposizione: qui si tratta di redditi realizzati altrove, da soggetti che non erano tenuti ad alcun dovere fiscale verso la nostra Repubblica. In gergo tecnico è una lump sum: una somma forfettaria dovuta fuori dalle regole ordinarie del prelievo (ci sarebbe da fare un discorsetto sulla sua efficienza paretiana, caratteristica che deve avere per essere davvero una lump sum, ma è cosa per addetti ai lavori).

Definito bene ciò di cui si parla, e prendendo atto dell’apprezzabile volontà di diventare più attrattivi verso coloro che possano venire a spendere parecchio anche in Italia, dove sono i problemi? Ce ne sono eccome.

Cominciamo da quelli che riguardano i soggetti a cui la misura si rivolge, i ricchi stranieri. Per prima cosa, se diventano residenti in Italia e realizzano un reddito anche qui, ad esso si applicheranno le nostre attuali aliquote, quindi pagheranno tantissimo. Ma soprattutto, ora che possono prendere in considerazione l’offerta concreta italiana, non è affatto detto che possano contare sul fatto che essa vada bene al Paese in cui il reddito lo producono. L’Italia, come tutti i Paesi avanzati, è sottoposta al rispetto di una pila alta così di intese bilaterali in materia sottoscritte con tutti gli altri paesi OCSE, i cosiddetti “trattati sulla doppia imposizione”. Essi disciplinano proprio la regolazione dei rapporti fiscali sovrani sui soggetti d’imposta che stiano, per residenza o attività, “a cavallo” dell’ottemperanza tributaria in ognuno dei due Paesi.

C’è chi applica detrazioni anche cospicue o ritenute basse ai propri espatriati, che continuano però a percepire redditi realizzati nel Paese-fonte. C’è chi applica benefici invece minori, e chi anche non ne applica quasi per nulla: perché se li vuole tenere stretti, i propri contribuenti. Ma una cosa è sicura: qualcuno o molti paesi OCSE potrebbe benissimo considerare questa improvvisa “trovata” italiana come un tentativo improprio di sottrarre loro pingui entrate. E magari allora impugneranno le intese bilaterali con l’Italia. E qualcuno potrebbe anche denunciare Roma davanti alla Commissione Europea per trattamento fiscale anti-concorrenziale, cioè tale da procurare un indebito vantaggio fiscale a chi per esempio continuasse a ricavare redditi da capitale o impresa nel Paese-fonte, rispetto a tutti coloro che invece vi sono residenti e continuano a pagarvi le tasse dovute in quell’ordinamento.  Difficile immaginare dunque un esodo di massa di grandi ricchi dai paesi avanzati in Italia, finché non siano chiariti a livello bilaterale con molti grandi Paesi gli aspetti tecnici della nuova norma italiana.

Fin qui i problemi per gli eventuali beneficiari. Ma ora veniamo a quelli nostrani. Che sono ben più importanti. Come fanno a pensare al MEF che questo tributo capitario extra ordinamentale possa reggere a eventuali – ma diamole per scontate – impugnative davanti alla Corte costituzionale, derivanti da eccezioni sollevate con giudizio incidentale davanti a un giudice italiano? Perché la prima cosa che vien da pensare è che i 100mila euro annui a prescindere dall’imponibile siano una misura in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, cioè del principio di eguaglianza (in questo caso eguaglianza di trattamento fiscale rispetto ai contribuenti italiani), e dell’articolo 53, che informa il nostro sistema tributario a principi di progressività del prelievo.

MEF e AgEntrate possono in effetti pensare che nel nostro ordinamento in realtà le aliquote ordinarie sul reddito convivono già con una miriade di cedolari secche, cioè di prelievi proporzionali. Infatti purtroppo è vero: è la proliferazione di queste cedolari che ha stravolto il nostro sistema fiscale, ormai solo fittiziamente progressivo. Cioè progressivo, troppo progressivo, ma solo sul lavoro. E con effetti di drastica accelerazione del prelievo sopra i 28mila euro di reddito, come di enorme differenza dell’aliquota reale al di sotto, ulteriormente aggravati dall’effetto-soglia esercitato dal bonus 80 euro. Ricordate poi che a seconda del contratto di affitto che avete acceso da proprietari sul vostro immobile pagate un’aliquota diversa, proporzionale o progressiva. A seconda di quale sia il vostro cespite di reddito da capitale potete pagare un’aliquota proporzionale del 12,5% (naturalmente solo per i titoli di Stato..), del 20% o del 26%. Quanto al reddito d’impresa, a seconda della sua dimensione e anzianità si può pagare un’aliquota del 5%, del 15% o da quest’anno il 24%, rispetto al 27,5% dovuto l’anno scorso come aliquota legale IRES.

Rispetto a questa casacca di Arlecchino a cui è ridotto il prelievo sul reddito in Italia, che differenza potrà mai fare alla Corte costituzionale la lump sum dei 100mila euro a forfait riservata ai ricchi “impatriati”? Può invece farla, eccome. Perché le cedolari secche che abbiamo elencato prima hanno a che fare comunque con particolari cespiti e sono comunque proporzionali al reddito (talora anche a un mix redditual-patrimoniale, in Italia le follie fiscali non ci fanno mancare nulla). Mentre i 100mila euro riservati ai ricchi stranieri non distinguono cespiti ma li raggruppano tutti, e comunque prescindono dai redditi reali, né sono ad essi in proporzione. Ergo la Corte costituzionale potrebbe eccepire benissimo, su questa imposta sostitutiva extra ordinem. Perché su questa base resta difficilmente comprensibile come un italiano debba pagare sul reddito di immobili all’estero la sua disperante aliquota alta, mentre un neoresidente no. Per non parlare del rischio che qualche criminale italiano approfitti della generosa offerta dei 100mila euro per regolarizzare redditi da patrimoni detenuti all’estero (su questo, prendiamone atto, AgEntrate promette che vigilerà attentamente)

Conclusione. Per come appare, è una misura dalle buone intenzioni ma gravata da enormi possibili e seri problemi. Atra cosa sarebbe proporla in contemporanea a una generale riforma dell’IRPEF, volta a mettere ordine nella pluralità di tassazioni cedolari e razionalizzando l’attuale progressività impropria, per disegnare invece per tutti gli italiani un’aliquota unica di convergenza a cui sottoporre la tassazione di tutti i redditi, senza eccezione. Un’aliquota unica – quella sì allora definibile come flat tax – resa costituzionalmente compatibile con gli articoli 3 e 53 della Carta perché di effetto progressivo, attraverso un disegno appunto progressivo delle detrazioni e deduzioni. Tale da coprire per gettito la spesa necessaria per un welfare efficiente. E capace di assicurare a chi sta sotto la povertà assoluta il minimo vitale, attraverso un’imposta negativa. Ne parleremo un’altra volta. Ma in quel quadro sì, che i 100mila euro agli stranieri sarebbero meno problematici. Perché renderemmo il fisco uno strumento finalmente favorevole e non ostile alla crescita. Ma alla crescita di tutti gli italiani, non di pochissimi agiati neoresidenti in Italia.