Home sharing: la tassa è servita—di Luca Minola
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Luca Minola.
Con il D.L. del 24 aprile n. 50, recentemente approvato dal Consiglio dei Ministri, viene introdotta una nuova regolamentazione (da molti ribattezzata “norma anti Airbnb”) che prevede una serie di misure più stringenti a carico delle piattaforme di home sharing e di chi affitta un’unità immobiliare per brevi periodi di tempo – non superiori a 30 giorni.
In base a quanto previsto dal decreto, dal 1 giugno 2017, sarà introdotta una cedolare secca al 21% (opzionale) da versare allo Stato per le locazioni sotto i 30 giorni. La norma prevede che siano le stesse piattaforme di home sharing e le agenzie di intermediazione a versare le tasse dovute da chi affitta al fisco, agendo da sostituti d’imposta. Inoltre, esse hanno anche l’obbligo di registrare i contratti stipulati all’Agenzia delle Entrate. In caso di mancata dichiarazione o mancato versamento, è prevista una multa compresa tra i 250 e i 2000 euro.
È chiaro che l’intento del decreto appena adottato dal Consiglio dei Ministri sia soltanto uno: assicurare maggiori entrate pubbliche, nella presunzione che chi oggi affitta un’unità immobiliare per brevi periodi sia, in realtà, un evasore, come è d’abitudine per il nostro Stato affamato di tasse.
Difatti, già oggi i proprietari di un immobile che viene dato in affitto per brevi periodi, magari anche solo per una notte, sono obbligati a pagarci le imposte: o assoggettando gli affitti percepiti all’Irpef o optando per la cedolare secca del 21%. Già oggi, quindi, la cedolare secca è applicabile agli affitti tipici dell’home sharing ed è facoltativa rispetto alla scelta di far confluire il reddito nell’imponibile Irpef (situazione più favorevole per chi ha redditi molto bassi e detrazioni molto alte).
A guadagnarci, quindi, sarà lo Stato, piuttosto che le categorie finora combattive contro l’home sharing. In particolare, perché imponendo a queste piattaforme ed agenzie di intermediazione di diventare sostituti d’imposta, li obbliga di fatto ad aprire una sede in Italia, catturandoli come soggetti di imposta.
La mano del legislatore sull’home sharing dimostra, qualora ce ne fosse bisogno, che l’unico interesse che esso ha è quello di approfittare di un settore economicamente in crescita per ricavarne soldi. Nulla a che vedere con norme di sicurezza e igiene, decoro urbano, quiete pubblica e le altre giustificazioni che vengono di norma addotte quando si dice di dover regolare il settore.
Se queste fossero le ragioni, la regolamentazione sarebbe diversa e finalizzata non a tassare, come prima cosa, ma, al più, a distinguere in maniera differente l’attività di home sharing da quella professionale di ricettività turistica, lasciando che i proprietari di immobili possano utilizzare il loro diritto di proprietà nelle forme già consentite dal codice civile.