13
Apr
2017

La concorrenza in autoanalisi

Mala tempora currunt, per la concorrenza nel nostro Paese, e non è una novità. Dal tentativo di estromissione di Flixbus dal mercato del trasporto interregionale su gomma al ddl concorrenza impantanato al Senato da due anni (nonostante la legge imponga teoricamente l’adozione di un provvedimento a favore della concorrenza ogni anno), dai limiti a Uber e ad Airbnb alla proroga dell’abolizione della maggior tutela nel mercato dell’energia elettrica, non c’è giorno che passi senza nuovi freni, nuovi limiti, nuovi tentativi di fermare il mercato e l’innovazione.

Il problema è che la concorrenza, cioè la libertà economica, necessita innanzitutto di una predisposizione culturale. E la mancanza di quest’ultima non si manifesta nei casi eclatanti, come quello di Uber, ma nelle pieghe sonnecchianti di vicende più ‘piccole’, forse, ma perfino più emblematiche. È il caso della recente sentenza n. 66/2017 della Corte Costituzionale.

La vicenda, in sintesi, è la seguente. Un anno fa, la regione Piemonte approvava una legge di riforma dei servizi farmaceutici regionali, che – fra le altre cose – ribadiva la possibilità, per le farmacie della regione, di offrire servizi di autoanalisi del sangue ai propri pazienti. Tali servizi, di fatto, consistono nella possibilità di utilizzare semplici strumenti diagnostici per controllare – in pochi minuti, senza code o prenotazioni – i principali parametri ematici, così da favorire la prevenzione e individuazione di eventuali patologie, oltre che il monitoraggio delle eventuali terapie in corso. La legge regionale, inoltre, estendeva questa possibilità alle parafarmacie, ma solo per il rilevamento di trigliceridi, glicemia e colesterolo. Una formalità, si direbbe. E invece no.

Qualche settimana dopo l’approvazione della legge, il Consiglio dei Ministri ricorre alla Corte Costituzionale, sottolineando la presunta incostituzionalità dell’estensione alle parafarmacie della possibilità di offrire servizi di autoanalisi ai propri pazienti. Per chi ha mai fatto uso di tali servizi, una cosa del genere potrebbe apparire bizzarra, per usare un eufemismo: l’autoanalisi, infatti, viene normalmente effettuata da milioni di pazienti ogni giorno in autonomia, anche in casa propria. Non si tratta, cioè, di un’operazione per la quale è necessaria l’assistenza di un farmacista e tantomeno di un medico. E, in ogni caso, anche qualora lo fosse, nelle parafarmacie lavorano farmacisti abilitati tanto quanto quelli che lavorano nelle farmacie. Stesso percorso di studi, stessa abilitazione, stesse competenze.

La Corte Costituzionale, tuttavia, non giudica secondo il buon senso, bensì secondo le norme. E le norme sono chiare: la legislazione statale vigente consente che nelle parafarmacie e nei punti vendita nei GDO possano vendersi alcuni medicinali non soggetti a prescrizione medica, ma nulla dice a proposito dell’erogazione di “servizi”, come è l’autoanalisi, la cui possibilità di effettuazione è stata estesa dal d. lgs. n. 153/2009 alle sole farmacie. Oltretutto, sostiene la Corte, la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che i criteri stabiliti dalla legislazione statale relativi all’organizzazione dei servizi delle farmacie costituiscano «principi fondamentali» in materia di tutela della salute, in quanto finalizzati a garantire che sia mantenuto un elevato e uniforme livello di qualità dei servizi in tutto il territorio, a tutela di un bene, quale la salute della persona, «che per sua natura non si presterebbe a essere protetto diversamente alla stregua di valutazioni differenziate, rimesse alla discrezionalità dei legislatori regionali» (sentenza n. 255/2013).

Di conseguenza, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge della regione Piemonte, riservando l’autoanalisi alle sole farmacie. E, lo dico con amarezza, ha fatto bene. Come ho scritto per altri casi simili, non credo sia opportuno o lungimirante attribuire alla discrezionalità della magistratura il potere di decidere come le cose dovrebbero essere, invece che limitarlo al giudizio asettico su come sono: il rischio è che per ogni decisione che rispecchi la nostra visione delle cose ve ne siano due, cinque o dieci che non lo fanno. Il bersaglio della nostra insoddisfazione verso assurdità del genere, invece, dovrebbe essere un altro: la politica, incapace di prendere decisioni e assumersi responsabilità.

Nel caso di specie, l’unico modo per evitare il ripetersi di vicende simili è la liberalizzazione del mercato delle farmacie, sostituendo il numero massimo di farmacie sul territorio con un numero minimo e attribuendo a chiunque possegga l’abilitazione come farmacista di poter aprire ed esercitare la propria attività. Sino ad allora, il nostro ordinamento resterà un campo minato, in cui norme sorte molto prima di oggi, e palesemente anacronistiche, continueranno ad essere agitate come un feticcio da chi mantiene la propria rendita di posizione in nome dei diritti più vari.

Twitter: @glmannheimer

11
Apr
2017

L’ordinanza “anti-Uber” e il dado del legislatore

È la fine di Uber in Italia? A leggere della decisione del Tribunale di Roma, parrebbe proprio di sì. È stato infatti ordinato il blocco, entro 10 giorni, dei servizi “Uber Black” offerti dal gruppo Uber in Italia. Si tratta dell’epilogo più drastico possibile, che segna l’espulsione, per via giudiziaria, dell’ultimo servizio di Uber ancora consentito nel nostro Paese. Nell’ordinanza si legge che gli autisti delle “berline nere” Uber sarebbero soggetti attivi di una condotta di «concorrenza sleale», ai sensi dell’art. 2598 comma 3 del nostro Codice Civile. In un primo momento, si è avuta l’impressione che questa slealtà derivasse dalla possibilità che Uber ha di “fare prezzi più competitivi” rispetto ai tassisti, dal momento in cui i suoi autisti non sono tenuti a tariffe amministrativamente predeterminate.

Ma, in realtà, ci si è resi conto che questo punto è solo “secondario”: il Tribunale ha, infatti, fondato su ben altre (e ben più “gravi”) basi la propria decisione. La ritenuta condotta di concorrenza “sleale” non è stata individuata tanto nella possibilità di praticare prezzi “più competitivi”, quanto nel funzionamento stesso dell’app di Uber. È proprio il servizio di intermediazione offerto da Uber a essere stato ritenuto illegale: per il Tribunale di Roma la legge quadro consente la prenotazione del servizio NCC esclusivamente presso la rimessa di quest’ultimo, mentre l’app di Uber consentirebbe il sorgere del rapporto tra autista e cliente anche fuori dalla rimessa, accedendo quindi al segmento di clientela “indifferenziata” che sarebbe, per legge, riservato al servizio taxi. Ma questo non è vero.

La possibilità esclusiva di prenotazione in rimessa potrebbe derivare solo dall’obbligo, per gli NCC, di rientro e stazionamento al termine di ogni corsa: possibilità che, attenzione!, non è prevista dalla legge quadro del ’92, ma dalla modifica operata dal legislatore nel 2008, la cui efficacia è, però, come noto, da allora sospesa (da ultimo, la proroga è stata ribadita dal contestato emendamento Lanzillotta). La legge quadro del ’92, infatti, quando stabilisce che «l’utenza specifica […] avanza, presso la sede del vettore, apposita richiesta», non si occupa né della posizione dell’auto al momento della prenotazione (l’importante è dove si riceve la prenotazione), né impone che tale prenotazione debba necessariamente avvenire presso la rimessa (non è detto che “sede del vettore” e “rimessa” coincidano). Si tratta quindi di una interpretazione della legislazione vigente che lascia, dietro di sé, molti dubbi (e conseguenze che vanno ben oltre Uber, applicandosi essa, indistintamente, a tutti gli autisti NCC).

Quel che è certo che è una decisione così “ardita” è stata favorita anche dall’incertezza e dell’insostenibilità dell’attuale quadro regolatorio. Da più parti (Commissione Europea, Autorità Antitrust, Corte Costituzionale) si è messa in luce la necessità di rivedere una normativa ormai obsoleta: come scritto altrove, «ormai non si tratta più solo di garantire maggiore concorrenza all’interno del tradizionale servizio di trasporto pubblico non di linea, ma di riconoscere che i suoi stessi confini e i player in esso agenti sono nuovi e diversi». Un intervento legislativo non è più rinviabile: persistendo in questa situazione, si è arrivati al punto paradossale di voler adattare l’innovazione al superato quadro legislativo, anziché adeguare quest’ultimo al cambiamento della realtà. Ma come si può pensare che basti una legge o una sentenza per fermare il tempo? Il dado è quindi nelle mani del legislatore: finché non sarà lui a trarlo, decisioni come quelle dei Tribunali di Milano e Torino (contro UberPop) e ora di Roma (contro il servizio di Uber tout-court) non faranno che moltiplicarsi.

@GiuseppePortos

11
Apr
2017

Dipendente o autonomo: è questo il problema?

Come nelle migliori tragedie shakespeariano il mondo del lavoro italiano è  sconvolto dall’ennesimo dilemma che travolge le sue granitiche certezze:  come inquadrare le nuove masse operaie senza tute blu, ma con  tshirt rosa, iphone e bicicletta? Dipendenti, autonomi, collaboratori? Che CCNL applicare?Ciclisti di tutto il mondo unitevi! Sono sbarcati in Italia Foodora e Deliveroo. Tanto semplice quanto brillante idea: servire a domicilio, attraverso fattorini in bicicletta, il pasto della trattoria che preferisci, la pizza della pizzeria che più ti piace, una vasta scelta di ristoranti della città che ti recapitano i loro pranzetti o cenette direttamente sul posto di lavoro o sul divano di casa. Pochissimi ristoranti riescono ad organizzare in autonomia questo comodissimo servizio di delivery e così nascono società che ci hanno pensato progettando e sviluppando efficienti piattaforme informatiche. Come avvengono i reclutamenti? Leggete l’application form sui siti, è facile facile :vogliono conoscere i tuoi dati generali, se hai una bici, uno scooter, un cellulare, quante ore di pedalate settimanali metti a disposizione e in che giorni della settimana.  Insomma, è chiaro come la luce del sole: un metodo per arrotondare andando in bicicletta, nessuna falsa promessa, si chiarisce infatti “ Sei alla ricerca di un lavoro flessibile che ti possa aiutare a integrare le tue entrate ?” Vi ricordate di quando si tirava su qualche lira affrancando buste o impacchettando collanine spedite a domicilio? Ma naturalmente qualcuno ha travisato: i bikers rivoltosi avevano già sospeso il servizio, bloccato i pedali, incrociato i manubri e chiamato i sindacati. “Pagati poco e nessuna garanzia” si lamentano. Soprattutto non hanno digerito il passaggio da una retribuzione iniziale di € 5,40 all’ora a quella di € 2,70 a consegna. Ma è davvero peggio?O meglio? O cambia poco? E via gli sproloqui sul neotaylorismo cibernetico ed il neoschiavismo degli algoritmi. Se si leggono le interviste, “gli scioperanti” sono dottorandi in giurisprudenza, ricercatori in lettere antiche, fuori corso in medicina, tutti, come dire, “ bianchi ed istruiti”. E’ chiaro che nessuno di questi ragazzi si sarà mai sognato di fare il ciclista dipendente di Foodora e simili a vita.  C’è molta  ipocrisia nelle recriminazioni avanzate, non tanto e non solo da alcuni bikers, quanto dalla ben più vasta platea dei loro paladini, quelli che fanno la morale con le storie e le vite degli altri, pratica, purtroppo, molto di moda. Peccato che nessuno abbia il minimo rispetto per chi, invece, ha esattamente capito cosa sta facendo e ne accetta le condizioni ed arrotonda davvero le proprie entrate; così come non c’è nessuna attenzione per gli esercenti che incrementano i loro fatturati, soddisfano la clientela, ed al volano positivo che questo servizio crea per il mondo della ristorazione. E’ molto lontano il tempo delle polemiche sul fenomeno dei “ ragazzi del pony express”- che ispirò il noto cult movie del miglior Calà anni “80- e di quando la CGIL tuonava contro l’apertura dei McDonald’s e le sue regole. Ma la politica di oggi? E’ già agguerritissima la corrazzata degli interventisti che   gridano  “C’è un  vuoto normativo”: peccato che il vuoto non c’era, finché non si è deciso di eliminare i voucher e tornare indietro, anziché guardare al futuro. La politica è ancora ferma lì, al palo, 30 anni dopo, e colpisce il vuoto, quello sì, pneumatico, di chi non vuole capire che oggi i rigidi schemi del passato in tema di legislazione sul lavoro non fanno altro che bloccare lo sviluppo di nuove idee per offrire nuovi servizi e permettere nuove occupazioni, anche piccole, ma non necessariamente solo quelle: il problema non è Deliveroo, Foodora, la sharing economy o la gig economy, il problema è che non si riescono a creare anche nuovi posti di lavoro e nuovi lavori che siano buoni, interessanti e ben pagati, proprio a causa della stessa, identica e solita mentalità ed approccio di chi sa solo limitare, ostacolare, vietare, proibire.

7
Apr
2017

Aiuto! Il Parlamento vuole limitare gli sconti sui libri

È stata presentata una proposta di legge che punta a fissare al 5% massimo lo sconto praticabile sulla vendita dei libri, aggravando così i limiti della legge Levi (che attualmente contingenta nel 15% il massimo sconto praticabile). Poiché la beffa s’accompagna sempre al danno, la norma in questione è inserita in una proposta intitolata «Disposizioni per la promozione della lettura, il sostegno delle librerie di qualità, dei traduttori nonché delle piccole e medie imprese editoriali». Com’è noto, quando il nostro Parlamento decide di approvare una legge per “promuovere” e “sostenere”, c’è sempre all’orizzonte un costo per i contribuenti o per i consumatori: questo caso ne è l’ennesima, indesiderata, conferma.

Più che da buone intenzioni, la strada che dal Parlamento italiano porta all’inferno è lastricata da ipocrisie e non detti. Infatti, anche se nessuno lo ammette apertamente, questa – come la legge Levi – è una norma anti-concorrenziale e protezionistica, pensata per sostenere piccole e grandi rendite di posizione contro il modello rappresentato da Amazon e dagli altri venditori on-line (anche italiani: si pensi ad Ibs.it). Pur con qualche sfumatura, quasi tutta l’industria libraria italiana si è infatti schierata a favore della sua approvazione: com’è costume italiano, quando non si riesce più a competere sul mercato, si invoca l’aiuto e la protezione dello Stato. Ma chi potrebbe mai pensare di promuovere la lettura, mentre si rendono più costosi i libri? Chi potrebbe mai pensare che un consumatore, che non compra oggi un libro, lo farà domani perché gli sconti non potranno superare il 5% del prezzo di copertina?

Inoltre, come notato da Filippo Guglielmone, direttore commerciale di Mondadori: «in Italia ci sono circa 21 milioni di lettori, quasi 18 dei quali comprano almeno un libro all’anno. Ma oltre 13 milioni vivono in comuni sotto i 10 mila abitanti dove non esiste nemmeno una libreria». Per questa fascia di clientela, l’unica possibilità di comprare un libro è rappresentata dalla Grande Distribuzione Organizzata o da Internet. La legge avrà come risultato quello di rendere ancora più difficoltoso e limitato l’accesso alla cultura per questi 13 milioni di italiani.

I promotori della legge fanno poi un ragionamento curioso. Si legge, nel testo della proposta, che «dall’approvazione della cosiddetta legge Levi (…) il prezzo medio è sceso (dati Nielsen), in linea del resto con quanto avviene negli altri grandi paesi europei che hanno adottato politiche più restrittive sullo sconto del prezzo dei libri (Germania, Francia, Spagna)». In realtà, come ha rilevato il Post, i dati del 2016 dicono che nell’ultimo anno il mercato ha tenuto essenzialmente grazie all’innalzamento dei prezzi di copertina. E una legge che limita la praticabilità degli sconti quale risultato potrebbe mai sortire? Quello di far diminuire, ancora di più, il numero di libri venduti e letti. Altro che promozione della lettura!

Come quella dei tassisti contro Uber e dei servizi di trasporto “tradizionali” contro Flixbus, anche questa è una battaglia di retroguardia di cui faranno le spese i consumatori. L’importante è che sia chiaro: in Parlamento c’è chi ci vuole tutti più poveri. Sia economicamente che culturalmente.

@GiuseppePortos

4
Apr
2017

Innovazione e servizi: tre esperienze a confronto—di Luca Bazzana

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Luca Bazzana.

Da anni si parla di come lo sviluppo tecnologico sia un elemento di svolta in diversi campi di applicazione. Per quanto riguarda il mondo imprenditoriale, la tecnologia ha reso disponibili numerosi strumenti che possono essere sfruttati per poter creare nuove modalità di fruizione di servizi e prodotti. Tuttavia è chiaro come l’innovazione ponga diversi interrogativi. Alcuni settori sono stati del tutto rivoluzionati grazie alla nascita di nuove imprese capaci di sfruttare le opportunità dettate dalla tecnologia e dalla graduale liberalizzazione dei mercati (nonostante negli ultimi anni sembrano svilupparsi ondate di protezionismo). L’intervento pubblico è di conseguenza diventato un ostacolo proprio perché spesso incapace di adattare la regolazione al nuovo contesto. Per discutere di queste tematiche, lunedì 27 Marzo si è svolto nella sede milanese dell’Istituto Bruno Leoni l’incontro “Innovazione e servizi: tre esperienze a confronto”. L’obiettivo era quello di poter dialogare con alcune realtà imprenditoriali legate tra loro dal filo conduttore dell’innovazione tecnologica. Moderati da Serena Sileoni, Andrea Incondi (Country Manager di FlixBus IT), Marco Piana (Presidente di Soundreef) e Alessandro Renna (Amministratore Delegato di 4cLegal) hanno potuto raccontare il loro modo di fare business nonché le difficoltà che in molti casi si incontrano nello svolgere attività imprenditoriale in Italia.

Ma di cosa si occupano le tre imprese? 4cLegal, in un contesto culturalmente restio all’apertura del mercato e all’innovazione dove, secondo Renna, spesso sono gli stessi professionisti a richiedere (e a ottenere) protezione sia all’Ordine che allo Stato, ha creato una piattaforma capace di aumentare la concorrenza tra i professionisti dell’area legale. Attraverso una gara (denominata beauty contest) un cliente che necessita di una consulenza legale o tributaria può stabilire in modo semplice quale Studio offra il servizio a lui più vantaggioso (sia in termini economici che qualitativi). Un’attività per ora unica in Europa. FlixBus, società nata nel 2011 in Germania, offre un servizio di trasporto sfruttando flotte di autobus di aziende terze che vogliono inserirsi in questo tipo di mercato. È FlixBus a definire i parametri che vanno dalla frequenza della percorrenza delle tratte, al marketing e individua quelli che possono essere i potenziali partner. Incondi spiega come, nonostante una regolazione particolarmente complicata, l’azienda decise di puntare sul nostro Paese già dal 2014, sfruttando la fine del periodo di transizione iniziata nel 2005, fatto che poneva l’Italia all’avanguardia su questo fronte. Adeguandosi alla normativa, FlixBus ottiene le autorizzazioni dal Ministero dei Trasporti e non incontra ostacoli fino alla ormai tristemente famosa “norma anti FlixBus”. Su questo punto, ci dice Incondi, l’azienda è convinta che il Governo rispetterà l’impegno preso nel voler cancellare l’emendamento. Infine Soundreef è una società fondata nel 2011 a Londra da Davide D’Atri, la quale opera in un settore molto particolare, quello dei diritti d’autore, un mercato molto sostanzioso dal punto di vista economico ma di fatto preda di monopoli più o meno legali nati anche oltre un secolo fa. Sfruttando una tecnologia disponibile da qualche anno in grado di poter monitorare in automatico quali opere vengono effettivamente fruite sui diversi canali, Soundreef, unica società privata nel settore in UE, inizia ad operare puntando sia su artisti italiani che internazionali. Concentrandosi sul caso italiano, Piana segnala come la SIAE goda di una tutela legale parziale basata su una legge del 1941 e proprio su questa base essa abbia costruito il suo monopolio di fatto. Fortunatamente però, sia a livello statale che comunitario esistono leggi che permettono a Soundreef di operare, tuttavia in un clima non particolarmente conciliante.

Ad accomunare le tre realtà sono purtroppo la poca trasparenza, un contesto culturale che spesso spinge per tutelare le rendite di posizione e una grande incertezza nella regolazione. Tuttavia, nonostante queste difficoltà, grazie a tecnologie all’avanguardia sono riusciti in pochi anni a sviluppare nuovi modelli di business capaci di intercettare una domanda spesso del tutto sopita in settori che possono definirsi tradizionali. In generale, nonostante la capacità di rispondere ai diversi tipi di domanda, pesa la poca chiarezza della regolazione. È Renna a denunciare la difficoltà di predisporre un progetto imprenditoriale di lungo termine in un contesto dove la normativa cambia in modo frequente e spesso senza seguire un filo logico. Anche Incondi sostiene che una regolazione poco chiara ha molteplici ricadute sui potenziali investimenti (italiani ed esteri):

innovazione, tecnologia e libero mercato sono qualcosa che si può provare a bloccare, ma sono come una cascata impossibile da fermare proprio perché fanno parte di un’esigenza richiesta dalla gente.

Sono quindi emblematiche le parole di Piana che interrogato sul Piano Industria 4.0 conclude chiedendo che vengano in primis rispettati alcuni strumenti di Industria 1.0:

rispetto delle leggi (anche da parte del Governo), una normativa che abbia come base l’interesse pubblico e uno Stato che non crei ostacoli normativi perché un ostacolo rimosso vale più di mille incentivi. Le persone sono in grado di fare impresa senza l’aiuto dello Stato.

4
Apr
2017

Cari sovranisti, combattete il debito

Tu chiamalo, se vuoi, sovranismo. È il trend politico del momento e accomuna leader e movimenti politici in tutto l’Occidente, da Nigel Farage a Donald Trump, da Matteo Salvini a Geert Wilders, da Norbert Hofer a Marine Le Pen. E non è certo un caso se il sovranismo viene spesso accostato al populismo, nei programmi dei movimenti politici che rappresentano queste istanze così come nella percezione dell’opinione pubblica. La domanda politica populista chiede di rimettere nelle mani della scelta collettiva (cioè della democrazia) ciò che rule of law, capitalismo, e globalizzazione hanno rimesso alla scelta individuale, ribaltando l’accezione negativa della dittatura della maggioranza e trasformandola in virtù, se non addirittura in un diritto da restituire ai cittadini.

In campo economico, il sovranismo aggiunge a questo principio il frutto di un’ideologia che si proclama rivoluzionaria e liberatrice, ma che – scartata la confezione – si rivela in realtà la metamorfosi più recente dello statalismo vecchia maniera. Cambia il nome, non la sostanza: i sovranisti semplicemente disprezzano il mercato e la libertà, promuovendo il ritorno al controllo dello Stato su ogni aspetto dell’economia, dalla politica monetaria all’importazione delle arance.

Nel campo della finanza pubblica, di conseguenza, il sovranismo osteggia qualunque limite al potere ‘democratico’ dei governi di spendere e tassare se, come e quando desiderano. Non a caso, uno dei bersagli classici dei leader sovranisti di destra e di sinistra è il sistema finanziario, reo, a loro detta, di esercitare un forte potere di ricatto sui governi, influenzandone le scelte.

Vi confesso una cosa: penso che i sovranisti, su questo punto, abbiano una parte di ragione. Spesso le politiche ‘suggerite’ dagli operatori nei mercati finanziari, dai loro rappresentanti istituzionali e dai loro influencers sono, a mio avviso, complessivamente preferibili a quelle che metterebbero in atto i governi in loro assenza. Non per tutti, però, il fine giustifica i mezzi. E, se si antepone il metodo al merito, l’influenza dei mercati sui governi costituisce innegabilmente un serio argine al potere di questi ultimi. Argine che, lo ribadisco, è a mio avviso cosa buona e giusta. Ma che per molti, legittimamente o meno, non lo è.

Ciò che fatico a comprendere della posizione sovranista sulla finanza pubblica, dunque, non è la posizione in sé, ma i nemici che si sceglie. La ragione per cui i governi subiscono il ricatto dei mercati finanziari non sta in qualche oscuro complotto ai nostri danni o nella naturale inclinazione di chi governa a prostrarsi al volere di qualche potente colletto bianco. No: la ragione per cui i governi subiscono il ricatto dei mercati finanziari è che questi posseggono un credito verso l’Italia molto superiore alla ricchezza che il nostro Paese è in grado di produrre in un anno. In altre parole, negli scorsi decenni ci siamo indebitati verso ‘i mercati’ di una cifra tale che non basterebbe un anno di lavoro di tutti gli italiani per ripagarla: duemilaquattrocento miliardi di Euro, cioè quasi 40mila Euro di debiti che pendono sulla testa di ciascun cittadino del nostro Paese, neonati compresi.

Tutto ciò è stato reso possibile dal fatto che in 150 anni di storia, l’Italia ha chiuso il proprio bilancio in pareggio solo due volte (nel 1875 e nel 1925). 148 volte su 150, i governi hanno chiuso l’anno spendendo più di quanto avessero a disposizione. E sapete dove ha trovato i soldi necessari a coprire la differenza? Chiedendoli in prestito ai mercati finanziari. Chi concederebbe mai un prestito a una famiglia o a un’azienda che ogni anno accumula debiti, spendendo più soldi di quelli che possiede? Facile: nessuno. A meno che i tassi d’interesse sul prestito siano particolarmente vantaggiosi. Per ciascuna lira e per ciascun Euro che ha chiesto in prestito ai mercati per poter spendere più di quanto disponesse, lo Stato italiano ne ha promessi in cambio due, tre, talvolta addirittura cinque o sei.

Ogni anno, l’Italia spende oltre 70 miliardi di Euro per ripagare gli interessi sul debito – e sarebbero molti di più, per inciso, se invece dell’Euro utilizzassimo una moneta nazionale. Con quei soldi potremmo permetterci redditi di cittadinanza, aumenti delle pensioni e chissà quali e quante altre misure care ai sovranisti e ai populisti del nostro Paese. Non solo: sono proprio i tassi d’interesse sul debito a generare l’arma del ricatto dei creditori del nostro Paese, che minacciano di non prestarci più soldi se non adottiamo le scelte politiche che essi stessi ci suggeriscono. Ecco perché non dovrebbe essere né l’Euro né i vincoli di Maastricht il vero nemico di chi vorrebbe che l’Italia tornasse ‘sovrana’, padrona del proprio destino e della propria economia: è il debito pubblico il primo e più importante limite alla nostra sovranità, ed è contro di esso che si dovrebbero concentrare gli sforzi di chi non vuole cedere al ricatto dei mercati e della finanza. Se siete davvero tali, cari sovranisti, combattete il debito.

Twitter: @glmannheimer

31
Mar
2017

Se Trump davvero scatena guerre commerciali, USA rischiano per primi. E chi plaude in Italia è fesso

Non una vera dichiarazione di guerra commerciale. Ma un segnale. Un segnale di guerra, comunque. L’indiscrezione lanciata ieri dal Wall Street Journal rivela un documento che il Dipartimento del Commercio USA avrebbe preparato, su indicazione della Casa Bianca. Oggetto: una di un cntinaio di prodotti “iconici” di alcuni grandi Paesi europei, da sottoporre a un dazio assassino del 100% del loro valore per consentirne l’ingresso negli Stati Uniti. Prodotti nessuno dei quali supera la soglia dei 100 milioni di import sul mercato Usa: come la Vespa della Piaggio, l’acqua minerale San Pellegrino, l’acqua Perrier della Nestlè, o il formaggio Roquefort. Lo scopo? Sbloccare una vecchia controversia che risale agli anni Novanta, relativa alle restrizioni europee sull’importazioni di carni bovine americane. L’Organizzazione Mondiale per il Commercio patrocinò un negoziato. Obama lo chiuse con l’Europa, e la restrizione restò per le sole carni trattate con ormoni. Ma gli allevatori americani hanno continuato ad accusare la Ue di inadempienza. Di fatto, basta approfondire un minimo la cosa per capire che nel merito hanno più ragione che torto, ed è un merito di Oscar Farinetti stamane riconoscerlo, nella sua intervista a Repubblica.  In ogni caso, Trump vuole rispondere al grido di dolore degli alllevatori americani, e lanciarci un avvertimento più generale.
Stiamo parlando di una voce di import europeo che pesa poco, 6 miliardi di dollari circa. Se la paragoniamo al surplus commerciale che la Ue vanta verso gli Usa, 157 miliardi di dollari nel 2015, davvero poca cosa. Ma è un segnale pessimo. Se Trump davvero intraprende la via delle guerre commerciali, come per altro ha ampiamente promesso in campagna elettorale, allora dimentica la lezione della storia. Che è purtroppo assolutamente univoca. Lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930 voluto dal presidente Hoover fu un disastro totale. Ed è sempre così. Chi alza i dazi con la scusa di proteggere i propri settori produttivi, promettendo così la difesa e l’aumento di posti di lavoro nazionali, scatena inevitabilmente reazioni a catena di segno analogo. Alla fine, nel medio periodo successivo, la storia moderna ha sempre dimostrato che le conseguenze sono tre. I settori protetti e sussidiati praticano prezzi più elevati, e diminuisce il potere d’acquisto dei consumatori, sia verso i prodotti domestici sia verso quelli importati a maggior prezzo . Viene colpito l’export verso gli altri paesi, che a propria volta alzano dazi e tariffe, e dunque si perdono occupati e imprese. E, terzo, la discesa del commercio mondiale abbatte la crescita globale per tutti, Paesi avanzati e meno, accresce invece di diminuire lo squilibrio nella bilancia dei pagamenti, accelera crisi valutarie, spesso sfocia in veri e propri conflitti armati.

Trump più volte ha fatto capire che entro una certa misura è disposto a correre il rischio. Calcolando cioè che nel breve, di fronte a scrolloni energici come il segnale lanciato ieri all’Europa, i Paesi in avanzo commerciale verso gli Usa capiscano che devono rassegnarsi a ridurlo. A cominciare dalla Cina, 367 miliardi di dollari di surplus 2015 verso gli Usa, la Ue con 157 come detto, il Giappone con 70 miliardi, il Messico con 67,5, e poi Vietnam, Corea del Sud, Canada e Taiwan. Trump ritiene che gli Usa se lo possono permettere, tanto i mercati delle commodities restano denominati in dollari e gli Usa sono unica potenza globale. E’ un calcolo che piace a tutti i protezionisti e sovranisti che in questi anni gonfiano di consensi il loro sostegno nei sondaggi di molti Paesi, Italia compresa. Ma è un calcolo miope. Il passato parla chiaro. Ed è pronto a punire chi lo sfida. Se davvero Trump lanciasse il guanto di sfida alla Cina, che detiene oltre 2mila miliardi di dollari di debito USA ed è presente con propri solidi interessi in vaste aree del mondo, il rischio del conflitto è un vero riorientamento del mondo verso Pechino (e Mosca, in Europa).

Quanto all’Italia, il nostro surplus commerciale verso gli Usa è stata una delle più potenti molle per realizzare la sia pur asfittica nostra crescita degli ultimi anni. Quel mercato è il primo extraeuropeo per sbocco dei nostri prodotti, dopo Germania e Francia, e dal 6% del nostro export nel 2010 è salito a oltre il 10% nel 2016, con un surplus commerciale complessivo di oltre 28 miliardi nel 2015. Più della Corea del Sud, dell’India, del Canada e della Francia. L’auto con la Fiat, la componentistica, la meccanica e i macchinari, la moda, gli alimentari e i farmaci sono nell’ordine i settori in cui andiamo forte. Visti questi successi, il ministro Calenda ha lanciato e finanziato un piano ad hoc per estendere la presenza in Usa di beni di consumo e marchi italiani. I dazi attuali praticati ai prodotti italiani negli States variano da oltre l’8% in media nel tessile (ma fino al 18% per abiti confezionati), al 6% nella ceramica, a poco più del 2% per autoveicoli, motocicli e alimentare. Chiunque può comprendere che innalzare dal 2% al 100% di dazio per Vespa e acqua san Pellegrino significa espellerli dal mercato statunitense.
Certo, la WTO esiste ancora. E a quel punto spetterebbe a lei dirimere la controversia. Ma Trump pensa a un mondo di intese bilaterali, per questo ha inabissato il TTIP multilaterale transatlantico. E lo stesso vuol fare con il Nafta che disciplina il commercio USA con Messico e Canada. Speriamo dunque che la squadra intorno a Trump lo faccia ragionare. In caso contrario, ricordiamoci che attualmente, nelle 6600 combinazioni di prodotto/mercati più diffusi nel commercio mondiale, in 900 casi Italia e Usa sono tra i primi cinque competitor. Dunque saremmo in condizione di “soffiare” ragionevolmente agli Usa a nostro vantaggio quote di valore e volumi di export in quelle specializzazioni, in molti Paesi nel mondo.
Ma senza dimenticare una cosa. Un mondo in cui gli Usa accendessero la spirale della guerra commerciale e valutaria diventa un mondo molto più instabile. E dopo 15 anni di logoramento in Medio Oriente, gli Usa non sono oggi la superpotenza unica di un tempo.

Infine: chi inneggia ai dazi in Italia è ancor più fesso che altrove. Siamo un paese trasformatore, quel poco di crescita asfittica dj questi ultimi anni si deve al miracolo dell’export, realizzato da poco più di 200 mila imprese italiane malgrado tutte le difficoltà buro-fiscal-amministrative. Tifare dall’Italia per chi alza i dazi ai nostri prodotti significa solo essere masochisti. Poi potranno pure dirsi sovranisti quanto vogliono, ma fessi e masochisti restano.

29
Mar
2017

Magistrati e docenti contro le sentenze: i NO TAP e i cattivi maestri

Sempre più paradossale: questo è il livello raggiunto in Italia dalla creazione e manipolazione politica dei movimenti avversi alle opere pubbliche. Ormai persino di fonte alle sentenze favorevoli alle opere, si fa finta di niente. E, così facendo, si altera e distrugge in maniera irreversibile l’idea stessa della legalità, cioè il fondamento di ogni libero consorzio civile. E’ quello che sta avvenendo in Puglia, ad opera dei politici che animano come capataz l’opposizione locale al gasdotto TAP. Il rapporto annuale su costi del non fare letteralmente rimbalza su partiti e politica nazionale. L’ultima versione, quella 2016, stima in oltre 600 miliardi di qui al 2030 i costi dei ritardi e delle opere infrastrutturali bloccate. Di questi, 59 miliardi riguardano opere di trasporto stradale e portuale, 55 miliardi le reti e infrastrutture energetiche. Servono infatti energia pari a una produzione di 33.900 MegaWatt per 43,7 miliardi, e reti di trasmissione per 12 miliardi. Ecco perché è strategico per l’Italia il gasdotto che arriva dal Mar Caspio, il TAP che attraverso Azerbaigian, Georgia, Turchia, Grecia e mare Adriatico approda in Italia in località santa Foca, comune di Melendugno, provincia di Lecce. Ha una portata di 10 miliardi di metri cubi di gas, estensibile a 20 miliardi. Il suo studio di fattibilità data al 2013 e l’avvio dei lavori a 4 anni fa. Inutile dire che siamo in ritardo, rispetto all’arrivo del primo gas previsto al 2020. E che l’energia serve per creare lavoro e impresa, oltre che alle famiglie. E che il gas è la fonte fossile più “pulita”…

La Regione Puglia si è opposta davanti al TAR proponendo per il gasdotto un diverso sbocco verso Brindisi, insieme al Comune di Melendugno. Ma il TAR ha respinto l’opposizione. I ricorrenti hanno adito il Consiglio di Stato. E anche il supremo organo della giustizia amministrativa ha dato loro torto. Ha chiarito in maniera secca che non era vero non fossero state esaminate alternative, ripetendo che al termine dell’esame rispetto a ben 11 diverse soluzioni proposte (più 2 sottosoluzioni, per un totale di 14) quella prescelta è la migliore, secondo la corretta valutazione d’impatto ambientale, eseguita come prevede la legge. Ha respinto l’eccezione basata sul fatto che si dovesse applicare la direttiva Seveso sui possibili disastri, perché le variazioni di pressione e temperatura del gas, a meno di manipolazioni dolose, non giustificano affatto tale direttiva. E il Consiglio di Stato ha riconosciuto che nell’intero iter di esame dell’opera è stato rispettato e attuato il prescritto principio della piena e leale collaborazione tra Stato centrale e Autonomie, stante il testo costituzionale rimasto vigente dopo il referendum del 4 dicembre in materia di competenze delle Regioni. L’espianto di due centinaia di ulivi, per scavare la trincea di un metro di profondità nella quale posare il tubo fino all’allacciamento della rete di distribuzione nazionale, è stato nuovamente e debitamente autorizzato dal ministero dell’Ambiente. E gli ulivi non vengono distrutti, ma solo temporaneamente piantumati altrove. Per poi essere ripiantati dov’erano.

Eppure, in questo paese molti credono che le sentenze vadano osservate solo se danno loro ragione. Ergo il presidente della Puglia ha accusato a testa bassa il governo di essere incapace di ascolto. Il movimento 5 Stelle si è unito alle accuse ma ha anche attaccato Emiliano, reo di condurre un’opposizione non abbastanza dura. Si è unito il sindaco di Napoli de Magistris, e persino il movimento “Noi con Salvini”. Di conseguenza, ecco ieri il sit in dei NO TAP per impedire i lavori e l’espianto. Con le consuete scene già viste in val di Susa, e le forze dell’ordine costrette a intervenire per il rispetto della legalità, e per consentire il passaggio dei mezzi necessari alla ripresa dei lavori. Oggi, puntualmente ci risiamo. Si sentono eroi gandhiani contro l’Impero britannico.

Diciamola tutta. Siamo un paese che si è munito di tanti e tali gradi di controllo giurisdizionale, pienamente autonomo e indipendente, che proprio è impossibile a chiunque gridare che la giustizia sia al servizio di un indirizzo politico, infrastrutturale, energetico, deciso a tavolino da un governo. L’Italia è semmai il Paese dove con l’impugnativa amministrativa le opere si fermano per tempi pluridecennali, non si affrettano di certo. Ergo a chi restasse convinto dell’infondatezza del giudizio del Consiglio di Stato dopo quello del TAR, resta una sola strada, se lo ritiene: lavorare a ciò che serve per un’eventuale impugnativa davanti alla Corte Costituzionale. Mentre l’unica cosa inaccettabile è continuare in comportamenti atti a impedire fattualmente ciò che due gradi di giudizio amministrativo hanno pienamente confermato.

Ma ci sono anche almeno due osservazioni aggiuntive. Al sit in di ieri, inadempiente agli inviti allo sgombero legittimamente venuti dalle forze dell’ordine, si è letto che abbiano partecipato insegnanti e studenti liceali. Possiamo chiedere a che titolo, gli insegnanti avessero deciso e ottenuto i permessi necessari per accompagnare in orario di lezione i propri studenti a manifestare, sotto la loro responsabilità personale e dell’istituzione scolastica? In Italia per le gite scolastiche ci si interroga con fior di circolari sulle responsabilità che assumono insegnanti e dirigenti scolastici, e in quattro e quattr’otto invece professori e studenti vanno a manifestare contro il Consiglio di Stato?

Quanto poi al presidente della Puglia, Michele Emiliano è un magistrato, prima che un politico alla testa di una Regione.  Da magistrato, dovrebbe inchinarsi al Tar e al Consiglio di Stato, non dare per primo un pessimo esempio ai politici, che troppo spesso della legalità se ne infischiano. Se neanche vale l’assenso del duplice vaglio giurisdizionale a un’opera energetica sostenibile, che cosa diavolo bisogna immaginare che sia necessario in Italia, per evitare di bloccare tutto e restare seduti sui nostri talloni a contemplare il declino? Chi vuole il potere ai soviet locali, verdi rossi o gialli non fa differenza, faccia il favore di cambiare la Costituzione e tutte le leggi ambientali, prima di gridare al saccheggio del territorio, e a chissà quali cospirazioni globaliste. E cerchi anche di non dare un pessimo esempio a quegli studenti, i cui docenti al sit in ieri erano liberissimi di partecipare da cittadini prendendosi un giorno di ferie: ma se invece hanno partecipato decidendolo coi loro studenti meritano automaticamente l’amaro titolo di cattivi maestri.

 

28
Mar
2017

Un apologo: le pecore inglesi e Marchionne—di Matteo Repetti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Repetti.

Nel XIII secolo, l’Inghilterra era, a tutti gli effetti, un’immensa fattoria di pecore che riforniva l’industria laniera continentale, sia nelle Fiandre che in Italia.

Per contro, le esportazioni di prodotto finito, di panno inglese, erano del tutto irrilevanti.

Nell’arco di appena qualche decennio, gli inglesi riuscirono a dominare completamente il mercato mondiale della lana: gli europei ricchi compravano solamente panni inglesi, fra i quali il migliore era spesso tinto di scarlatto, molto apprezzato dalle case reali.

Cosa era successo nel frattempo?

Come ha sottolineato il sociologo americano Rodney Stark (The Victory of Reason, 2005), nel 1271, Enrico III d’Inghilterra decretò che “tutti i lavoratori addetti alla fabbricazione di panni di lana, maschi e femmine, delle Fiandre come di altri paesi, possono tranquillamente venire nel nostro regno, per fabbricarvi panni”, e accordò loro l’esenzione dalle tasse per cinque anni.

Nel 1337, Edoardo III estese ulteriormente questi privilegi ai fabbricanti di panno fiamminghi e inviò persino dei reclutatori.

Ma non giunsero solo tessitori, follatori e tintori. Diversi imprenditori portarono con sé in Inghilterra intere imprese, compresi i lavoratori e tutto il resto. Non si trattava semplicemente di persone propense ad andarsene dalle Fiandre, ma di gente attirata in Inghilterra da maggiori libertà, rispetto degli accordi, stabilità politica, costi più bassi e materie prime più pregiate. Soprattutto, poi, queste persone furono attratte da salari e profitti molto più alti dovuti a una tecnologia migliore.

In Italia, invece, per sostenere le varie corporazioni commerciali e artigianali, i costi della manodopera erano sempre molto alti e si bloccava ogni sforzo verso l’innovazione: quando gli inglesi scoprirono la tecnica della tintura scarlatta dalle cocciniglie per i tessuti, con la quale tagliarono di due terzi i costi di tale processo, fu addirittura proibito alle imprese veneziane di adottarla.

Ebbero così fine le glorie dell’Italia medievale (incluse quelle dei miei antenati genovesi, che per primi avevano avuto l’idea stessa della banca e dei titoli di credito).

A distanza di quasi un millennio, viviamo in un mondo in cui non per caso si parla inglese e non italiano.

Ma la storia dà sempre una seconda possibilità.

Un esempio: Marchionne ha preso la Fiat sull’orlo del fallimento e, a distanza di appena qualche anno, si è comprato la Chrysler, ed ha riportato la nuova FCA ad essere uno tra i principali protagonisti del mercato mondiale dell’auto.

Com’è stato possibile?

Beh, è stato sufficiente tornare a lavorare, rischiare, sfidare la globalizzazione e gli altri competitori, e non fare invece affidamento sui contributi statali, inclusi quelli per la rottamazione.

Per essere competitivi, è necessario pretendere dai lavoratori e pagarli di più, senza cedere invece alle consorterie sindacali, interessate ad altre faccende anziché allo sviluppo dell’azienda, alla qualità del prodotto, alla retribuzione degli operai ed alle loro condizioni di lavoro.

Da noi è nato il diritto ed è stata concepita l’idea di stato (gli antichi romani erano gli americani dell’epoca); la nostra storia è il rinascimento, il melodramma, la cucina e la moda: ma adesso anche la Jeep è italiana.