11
Lug
2017

“Anche sulla casa, la flat tax è un passo avanti” – di Nicola Rossi

Non può non far piacere il generale apprezzamento espresso dal presidente di ConfediliziaGiorgio Spaziani Testa (Tempi, 11 luglio 2017 ) circa i contenuti della recente proposta IBL di riforma del sistema fiscale italiano. L’idea che sia ormai passato il tempo dei ritocchi sembra ormai acquisita. Non è poca cosa e se la proposta vi ha contribuito non possiamo che esserne lieti.
Il presidente Spaziani Testa esprime alcune riserve circa il trattamento fiscale degli immobili implicito nella proposta con particolare riferimento alla tassazione degli immobili non locati ed al ruolo dei Comuni nella determinazione delle rendite catastali. Sono riserve di cui tenere conto nel lavoro di affinamento della proposta. Qui è appena il caso di segnalare due aspetti. Primo, la proposta implica un favor significativo per gli investimenti immobiliari rispetto agli investimenti a carattere finanziario. Se le rendite di questi ultimi sono infatti tassate con l’aliquota unica al 25%, le rendite catastali (rientrando all’interno dell’imponibile Irpef) sono tassate in base all’aliquota media effettiva che tocca il 25% solo per imponibili particolarmente elevati. La differenza non è da poco ed è particolarmente significativa per i contribuenti con imponibile basso o medio. Secondo, ai Comuni la proposta riserva più che la determinazione delle rendite catastali un ruolo attivo nella individuazione degli abusi catastali, e con esso un ruolo attivo nella determinazione del gettito relativo allo specifico Comune.

Ciò premesso, è importante che il dibattito sulla proposta IBL si allarghi, come sta facendo, anche alle organizzazioni di rappresentanza. Possono emergerne, come in questo caso, spunti e suggerimenti preziosi per affinarla.

 

7
Lug
2017

La riforma della confisca: un “vulnus” per il diritto e la libertà economica

Il Senato ha approvato una nuova versione del codice antimafia. La riforma, che comprende varie misure, ha fatto discutere soprattutto per l’inserimento, nel suo testo, di un ampliamento del perimetro di applicazione della cosiddetta “confisca allargata”. A beneficio del lettore non specialistico, si rende necessaria una breve parentesi tecnica: la confisca è una misura di prevenzione patrimoniale particolarmente incisiva, fino ad oggi riservata ai soggetti di reati quale l’associazione per delinquere di stampo mafioso, con gravi indizi di colpevolezza a proprio carico. Con la riforma del codice, l’ambito di applicazione della confisca viene allargato agli indiziati di reati contro la Pubblica Amministrazione, tra cui corruzione e peculato. Si tratta di una novità che nessuno, tra i tecnici del diritto, ha salutato con favore: giuristi tra i più autorevoli, commentatori vari e perfino Raffaele Cantone hanno messo in luce come l’indebita estensione della confisca finisca per snaturare la funzione propria dell’istituto e rappresenti un grave passo falso del Parlamento. La norma, infatti, crea un vulnus diretto al cuore dei principi dello Stato di diritto, del rispetto degli obblighi internazionali e della libertà economica. Ma procediamo con ordine.

Giovanni Fiandaca, in un suo editoriale per il Mattino di Napoli, ha ricordato che la confisca è basata su un presupposto criminologico avvalorato da diverse risultanze empiriche: il mafioso accumula le proprie ricchezze sulla base delle proprie attività criminali, ripetute e protratte nel tempo; ciò giustifica la presunzione legale che il suo patrimonio – salvo prova contraria – sia frutto di queste condotte criminose. Lo stesso ragionamento non può farsi per l’indiziato di reati contro la Pubblica Amministrazione: è irragionevole ritenere che questi sia un soggetto che abbia integralmente costruito il proprio patrimonio sulla reiterazione di fenomeni corruttivi. Tra l’altro, come lo stesso Fiandaca ha fatto notare, la confisca allargata può già essere disposta, sulla base del diritto vigente, potenzialmente anche nei confronti di un indagato per reati contro la P.A., purché, però, sia «abitualmente dedito» all’attività criminosa contestatagli. È il requisito dell’abituale dedizione a giustificare una misura così gravemente incisiva sui diritti di proprietà dell’indagato: la riforma approvata dal Senato, invece, non menziona questa misura di garanzia e, per superare la forzatura logica dell’equiparazione tra delitti “mafiosi” e “corruttivi”, lega l’applicazione della confisca alla partecipazione del soggetto a un’associazione per delinquere. Ma così facendo si aggiunge altra illogicità alla fattispecie: la confisca allargata si giustifica, per l’appunto, per la continuità dell’attività illecita, a nulla importando che il soggetto sia associato o meno a un sodalizio criminale. A riprova del fatto che l’allargamento in esame rischia di snaturare la funzione stessa dell’istituto, si ricordi anche che la Corte Costituzionale lo ha finora considerato legittimo per via della sua “eccezionalità” (essendo limitato a pochi, gravissimi reati): l’estensione ad altri, non altrettanto gravi, reati potrebbe condurre a una declaratoria di incostituzionalità.

Come anticipato, c’è poi un problema rilevante di rispetto degli obblighi internazionali e convenzionali del nostro Paese. Lo scorso febbraio, la Grande Camera della Corte EDU ha condannato l’Italia (cd. sentenza De Tommaso) per l’eccessiva vaghezza delle norme interne che disciplinano le misure di prevenzione, rilevando come all’indefinitezza del testo normativo corrisponda, nei fatti, una indebita discrezionalità del giudice. Ciò porta a una grave lesione della posizione del destinatario delle misure, il quale non può, con sufficiente precisione, “prevedere” le conseguenze delle sue condotte. Il legislatore avrebbe dovuto fare tesoro delle indicazioni provenienti dalla Corte EDU e procedere così a un riordino complessivo del sistema della prevenzione personale e patrimoniale. Peccato che invece di agire in questo senso, abbia preferito aggiungere altra vaghezza e indeterminazione, aggravando un quadro complessivamente già censurato dalla più alta Corte europea (che già, nella nota sentenza Raimondo c. Italia, aveva messo in rilievo l’eccezionalità delle misure di prevenzione, sottolineando la loro necessaria proporzionalità rispetto al fine generale perseguito).

C’è, infine, un profilo a noi particolarmente caro: quello della tutela della libertà economica. La libertà di impresa e la proprietà privata sono diritti fondamentali e costituzionalmente riconosciuti: la loro lesione dovrebbe perciò essere quanto più limitata possibile. La confisca, invece, rischia spesso di tradursi in una distruzione di patrimonio e di ricchezza, a danno di soggetti solo indiziati, neanche condannati: come denunciato dal presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, si tratta di una «giustizia del sospetto che fa danni all’economia». Del resto, già in tema di misure patrimoniali “antimafia” è stato da più parti fatto rilevare che la disciplina presenta gravi profili di contrasto con il principio penalistico della personalità della responsabilità (ex art. 27 co. 1 Cost.) e con quello più generale di riconoscimento della proprietà privata, spesso “espropriata” senza titolo. La riforma non fa che aggravare questi profili, mettendo così a rischio qualsiasi attività produttiva in Italia e rendendo sempre meno attrattivo il nostro Paese per investimenti esteri.

L’Istituto Bruno Leoni ha criticato, in un suo editoriale, lo stato del diritto penale italiano, sempre più vittima di novità affrettate e controproducenti, figlie del tentativo ottuso e cieco di inseguire il consenso elettorale sul terreno della paura sociale. Sempre Giovanni Fiandaca ha definito questo atteggiamento come “populismo penale”: e mai definizione fu più calzante. Lo Stato di diritto presuppone un ricorso limitato allo strumento penalistico e un’attenzione particolare alle garanzie dell’individuo: nulla di tutto questo sembra essere preoccupazione del legislatore di questa riforma, più impegnato a varare una norma “elettorale” che a risolvere i nodi del sistema giustizia. Non tutto, forse, è però perduto: la riforma del codice antimafia deve essere ancora definitivamente approvata dalla Camera. È inutile sperare in un sussulto di ragionevolezza e dignità da parte del Parlamento?

@GiuseppePortos

28
Giu
2017

A Roma, un’iniziativa “radicale” per la concorrenza

Se c’è una cosa che il calvario del ddl concorrenza ci ha insegnato, è che è inutile aspettarsi dal Parlamento italiano un passo in avanti – anche il più “cauto” possibile – verso una maggiore apertura dei mercati. Il processo di formazione delle leggi risente in maniera decisiva del peso delle lobbies e degli interessi organizzati: e i consumatori non sembrano godere di alcuna attenzione da parte di chi li governa. Ma se è inutile attendersi dal Parlamento un cambio di rotta, cosa resta da fare? Un suggerimento importante arriva da Roma, dove i Radicali hanno organizzato una raccolta firme per l’organizzazione di un referendum allo scopo di rompere il monopolio ATAC e mettere a gara il servizio di trasporto locale. Il trasporto di superficie e su rotaia a Roma è la plastica rappresentazione dei guasti dell’assenza di concorrenza: l’ATAC è, infatti, più che un’azienda “fallita”: è un completo disastro (rimandiamo a un utilissimo studio di Rosamaria Bitetti e Nicole Genovese [2016], che ne ha messo in luce tutti i numeri).

Le cause del disastro romano hanno molti padri (equamente distribuiti tra le varie amministrazioni comunali), ma un unico principio ispiratore: usare i soldi dei contribuenti per fare dell’ATAC un bacino clientelare per ottenere voti. Ciò spiega – come evidenziano sempre Bitetti e Genovese – il peso esorbitante e la scarsa produttività del personale dell’azienda. L’impatto di quest’ultimo sul totale dei costi, infatti, è a Roma pari al 47%, circa il doppio che a Londra (25%), con soltanto un terzo circa dell’offerta. Guardando il livello delle retribuzioni, l’ATAC paga stipendi medi superiori di circa 4000 euro rispetto a quelli della sua equivalente parigina, nonostante il PIL regionale sia notevolmente più alto nella seconda città. È scontato concludere, allora, che l’ATAC esiste principalmente per garantire posti di lavoro e, solo incidentalmente, per offrire un servizio (scarso) alla collettività. Il “bene comune” che i politici vogliono tutelare è la propria leva d’influenza, non il trasporto pubblico.

Con il referendum proposto dai Radicali e la messa a gara del servizio le cose potrebbero davvero cambiare. E non lo diciamo facendo della pura speculazione. Nel 2014, Ugo Arrigo e Andrea Giuricin realizzarono, per l’Istituto Bruno Leoni, un confronto tra i costi e l’efficacia dei servizi resi da ATAC e da TPL, un consorzio che gestisce, sempre nella città di Roma, servizi residuali (notturni e periferici): il costo medio per dipendente di ATAC risultò del 24 per cento superiore a quello di Roma TPL; mentre una vettura chilometro di ATAC risultò costare 7,33 euro a fronte dei 4,54 euro di Roma TPL. Come mai queste rilevanti differenze? Presto detto: al contrario di ATAC, TPL ha ottenuto la concessione del servizio solo a seguito di una gara a evidenza pubblica. Basta davvero poco – un’iniezione di concorrenza nel sistema – perché il consumatore, anche quello romano, possa godere di un servizio efficace ed efficiente.

Ci sia però consentito un piccolo e conclusivo appunto. Nel presentare i quesiti referendari, i Radicali Roma hanno sostenuto che «tra privatizzazione e liberalizzazione c’è una grande differenza» e che l’urgenza è liberalizzare, non privatizzare. Chi scrive è dell’avviso che quella tra “liberalizzazioni” e “privatizzazioni” sia, in realtà, una falsa dicotomia, atteso che la libera concorrenza può esistere davvero solo tra soggetti privati tutti uguali di fronte alla legge (e al potere pubblico) e che, pertanto, non si può liberalizzare senza prima aver privatizzato. Ma poco importa: in un momento storico come quello attuale, in cui qualsiasi nuova iniziativa economica in grado di beneficiare i consumatori viene prontamente bloccata a colpi di emendamenti “a sorpresa” o di discutibili sentenze, un’iniziativa “radicale” a favore della concorrenza è una bellissima notizia. Se si riuscissero ad aprire alla concorrenza i servizi del comune di Roma, tra i più chiusi e oppressi del Paese, si conseguirebbe una vittoria “effettiva” per i cittadini romani e “simbolica” per tutti gli altri italiani. Ecco perché il referendum “Mobilitiamo Roma” va sostenuto con tutte le energie e gli sforzi possibili.

 

@GiuseppePortos

16
Giu
2017

Manovrina: se questa è la sinistra che abbassa le tasse

“Abbassare le tasse in Italia non è né di sinistra né di destra, ma è semplicemente giusto, perché si è arrivati ad un livello pazzesco”, disse Matteo Renzi, in versione Dr Jekyll, un paio di anni fa. A interpretare la parte di Mr Hyde, nel tragicomico spettacolo della finanza pubblica italiana, ci pensa oggi Paolo Gentiloni con la cosiddetta manovrina di primavera, chiesta dalla Ue per riequilibrare di 3.4 miliardi i nostri conti pubblici. Andiamo subito al sodo:

  • Aumenta l’aliquota IVA ordinaria, dal 22% al 25% nel 2018, per poi passare al 25.4% nel 2019, al 24.9% nel 2020, e tornare al 25% nel 2021.
  • Aumenta l’aliquota IVA agevolata, dal 10% all’11.5%.
  • Aumenta, sia pure nel 2019 e non già dall’anno prossimo, l’aliquota dell’accisa sulla benzina, di un valore tale da generare maggiori entrate nette per 350 milioni di Euro all’anno.
  • Viene confermata la cedolare secca al 21% sugli affitti brevi (compresi quelli effettuati con Airbnb), imponendo agli intermediari di agire come sostituti d’imposta.
  • Viene introdotta la tassa di soggiorno anche per gli affitti brevi
  • Raddoppia al 12% la tassa sulla fortuna.
  • Sale dal 6% all’8% il prelievo sulle vincite al Lotto.
  • Il prelievo erariale unico aumenta al 19% sulle slot machines e al 6% sulle videolotterie.
  • Aumenta l’accisa sul tabacco, così da garantire entrate nette per almeno 83 milioni di Euro per l’anno in corso, e per almeno 125 milioni dal 2018 in poi.

Se questa è la sinistra che abbassa le tasse, forse era meglio quella che le alzava: almeno era coerente tra quello che faceva e quello che diceva di voler fare.

Twitter: @glmannheimer

6
Giu
2017

Diritto alla salute: il banco di prova della mobilità sanitaria

Il 12 maggio scorso, la Lombardia ha fissato un tetto al rimborso delle prestazioni a bassa complessità erogate dalle strutture private per i pazienti fuori regione. Per motivi di revisione della spesa in materia sanitaria, avallati dalla legislazione nazionale, si è deciso in sostanza di compensare i costi derivanti dalla mobilità sanitaria per prestazioni di alta specialità con una riduzione di quelli per prestazioni di bassa complessità.

Una scelta, in teoria, comprensibile per diminuire la spesa sanitaria. Ma, nella realtà, paradossale.

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1
Giu
2017

Se Trump recede da COP21: non è l’apocalisse temuta, ma politicamente per l’Europa è un’occasione

Si attende ormai entro poche ore la decisione finale di Trump sulla COP21. Il presidente USA potrebbe decidere il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’intesa sul contenimento delle emissioni firmata da 195 paesi a Parigi, nel dicembre di 2 anni fa. Non è una sorpresa, anzi è il bis di ciò che Bush figlio fece rispetto al protocollo di Kyoto sottoscritto nel 1997 da Clinton. Trump in campagna elettorale ha più volte definito la COP21 come “una piattaforma guidata da Paesi ostili agli interessi dell’industria americana”. E già al G7 dell’energia coordinato dall’Italia, lo scorso 10 aprile, gli USA avevano impedito ogni riferimento nel documento finale al mantenimento degli obiettivi COP21. L’amministrazione USA è divisa. Mentre gli ideologi trumpiani, come Steve Bannon che sta tornano in auge, son sempre stati favorevoli al ritiro, il segretario di Stato Rex Tillerson (un petroliere, tra l’altro) e Ivanka Trump hanno tentato di frenare il neopresidente, per le ovvie conseguenze internazionali. Ma al contempo ha destinato scalpore che il generale James Mattis, segretario alla Difesa, qualche settimana fa alla Commissione Forze Armate del Senato non abbia esitato a definire gli obiettivi di COP21 “una potenziale seria minaccia agli interessi americani, per le conseguenze che essi esercitano in vaste e strategiche aree del mondo in cui operiamo, e che vanno assunte come una sfida seria da valutare complessivamente per la nostra strategia”, chiaramente riferendosi a Medio Oriente e Africa subsahariana. Come Mattis e anzi ancor più duramente contro COP21 la pensa il neo capo dell’EPA, l’agenzia federale americana sull’ambiente, cioè l’ex attorney general dell’Oklahoma Scott Pruitt che da magistrato ne impugnò sistematicamente le decisioni sotto la presidenza Obama

La partita è dunque politica. Trump ha bisogno di distogliere l’agenda americana dagli sviluppi del Russiagate. Di apparire coerente agli impegni elettorali. Di smontare la cornice di grandi accordi multilaterali di cui anche COP21 fa parte, come quelli sul commercio. Di abbattere un simbolo delle politiche di Obama, visto che COP21 nacque e fu un successo grazie all’impegno speso da Obama dopo il fallimento della Conferenza di Copenaghen del 2009. E di esercitare un ruolo diretto anche sugli obiettivi ambientali che seguirà la Cina, visto che i due Paesi sono i maggiori inquinatori al mondo. Una cosa è certa: l’intera struttura delle commissioni speciali che prevedevano l’operato congiunto dei ministeri e delle agenzie federali americane per attuare la COP21, creati da Obama, dall’elezione di Trump è stata subito del tutto congelata.

Premessa personale, per quello che vale. Nel seguito mi limiterò a un’analisi da osservatore. Metterò cioè deliberatamente da parte le mie convinzioni, poiché sono un “ambientalista scettico”, per usare l’arcinota definizione che di sé diede nel 2001 in un famoso libro Bjørn Lomborg, secondo il quale moltissime delle assunzioni sul contributo umano agli andamenti climatici sono forzate e scientificamente non comprovate. E in più dall’altra parte penso che l’accelerazione europea abbia comportato, per gli oneri di sistema a carico dei consumatori degli incentivi da rinnovabili, un aumento troppo considerevole del prezzo del kilowattora residenziale che ci spiazza nei confronti internazionali; che le imprese americane hanno comunque accelerato molto sul fronte del contenimento delle emissioni, anche se Kyoto era stato disconosciuto e anche perché la competenza del più delle politiche ambientali in USA è statale e non federale; e che infine dall’altra parte gli obiettivi di Parigi per Cina e India sono larghissimamente volontari e non vincolanti: tutti fattori che ci dovrebbero indurre a un giudizio più equilibrato dell’eventuale marcia indietro americana (per una sintesi a mio umilissimo giudizio efficace, vedi qui).

Ma se la partita è politica, si può considerare il ritiro americano anche da un altro punto di vista. Cioè come una grande occasione per l’Europa, se seguendo l’impulso di Macron su questi temi decidesse essa di diventare il grande interlocutore di Cina e India. Nessuno può oggi prevedere come reagirebbero i due giganti asiatici al ritiro americano, visti i piani e costi enormi di contenimento delle emissioni e di decarbonificazione in teoria loro richiesti, ma che comunque moduleranno unilateralmente

Dipende anche da come avverrà il recesso statunitense. Secondo le norme COP21, ci si può ritirare solo dopo 3 anni a partire dal novembre 2016: in quel caso l’Europa avrebbe tutto il tempo per definire (sul tema ha anch’essa i suoi problemini, soprattutto con i membri est-europei) e varare un’iniziativa vera, da offrire a Cina e India per continuare insieme anche oltre l’orizzonte del 2030 stabilito nel 2015. Se al contrario Trump agisce per le vie brevi, facendo bocciare COP21 dal Senato che non l’ha mai ratificato, allora per l’Europa sarebbe necessario uno scatto di reni immediato. Sarebbe però un’ottima cosa: perché trascinerebbe con sé grandi accordi di cooperazione tecnologica e commerciale, energetica e anche di sicurezza comune.

Al di là della grande occasione internazionale, per l’Europa e per l’Italia si può ragionevolmente dire che allo stato attuale il ritiro americano non dovrebbe invece cambiare nulla. Gli obiettivi europei infatti sono stati solidamente incardinati in una direttiva che ci vincola alla riduzione entro il 2030 almeno del 40% delle emissioni di gas a effetto serra rispetto ai livelli del 1990, a una quota almeno del 27% di energia rinnovabile, a un miglioramento almeno del 27% dell’efficienza energetica.

E a questi obiettivi è coerente la Strategia Energetica Nazionale che il governo ha in via di elaborazione, e che il ministro Carlo Calenda ha illustrato in Senato lo scorso 10 maggio dopo un’ampia consultazione con istituti di ricerca e associazioni di categoria, e che dovrebbe essere pubblicata entro fine giugno. Nella scansione degli obiettivi intanto conseguiti, siamo abbastanza avanti. Procediamo dal 2014 con un ritmo annuo di risparmi energetici ottenuti da politiche attive intorno all’1,4%, rispetto all’obiettivo dell’1,5%. Abbiamo realizzato una diminuzione delle emissioni del 17% di gas serra per i settori non energivori rispetto ai livelli del 2005, più  dell 13% che dovevamo conseguire al 2020, e con un buon passo verso il 33% che è obiettivo per il 2030. Siamo già oggi a una penetrazione pari al 17% di energie rinnovabili sui consumi energetici lordi, rispetto al 17% da conseguire in teoria al 2020, e al 27% che è obiettivo 2030.

Dall’altra parte abbiamo però tre montagne da scalare. L’efficienza termica, energetica e ambientale del nostro vetusto patrimonio immobiliare residenziale richiede incentivi più cospicui e strutturali di quelli attuali, per proprietari e venditori. E’ oggi troppo lento il tasso di sostituzione degli autoveicoli circolanti di classe da Euro0 a Euro3, che sono ben il 45% dei 37 milioni complessivi oggi in Italia. Infine, uno scenario di totale uscita da 8GW attuali di capacità di produzione elettrica a carbone al 2030 implicherebbe 23-24 miliardi di investimenti, rispetto ai 17-19 miliardi se ci limitassimo ad eliminarne 2GW. Non voglio fare l’antiambientalista, ma le tre voci implicano costi nell’ordine di 4-5 punti di PIL, che come contribuente mi preoccupano non poco sia pour in un orizzonte di 12 anni.

L’attuale scenario delude i movimenti ambientalisti anche italiani, che verrebbero passare da un impegno  a contenere l’aumento della temperatura entro i 2 gradi ad uno più vincolante, di 1 grado e mezzo. Il che significherebbe innalzare dal 40% al 50-55% la riduzione di gas serra al 2030, rispetto ai livelli del 1990, con investimenti e incentivi nell’ordine di ulteriori decine di miliardi in più. E’ un’idea non troppo utile negli effetti complessivi e molto onerosa se adottata unilateralmente. Ma è al contempo invece una piattaforma interessante, se l’Europa assumesse la decisione di rilanciarla a Cina e India per un grande negoziato comune, basato su strumenti di cooperazione e sostegno, per fare della sostenibilità ambientale in quei giganti mondiali una grande sfida comune tra Europa e Asia.

Sarebbe la maniera più intelligente per rispondere a un’America che non crede affatto all’esistenza di un’Europa capace di farsi protagonista internazionale. ma sarebbe una scommessa interessante dal punto di vista geopolitico, se non vogliamo rassegnarci al ruolo di vasi di coccio tra vasi di ferro.