16
Giu
2017

Manovrina: se questa è la sinistra che abbassa le tasse

“Abbassare le tasse in Italia non è né di sinistra né di destra, ma è semplicemente giusto, perché si è arrivati ad un livello pazzesco”, disse Matteo Renzi, in versione Dr Jekyll, un paio di anni fa. A interpretare la parte di Mr Hyde, nel tragicomico spettacolo della finanza pubblica italiana, ci pensa oggi Paolo Gentiloni con la cosiddetta manovrina di primavera, chiesta dalla Ue per riequilibrare di 3.4 miliardi i nostri conti pubblici. Andiamo subito al sodo:

  • Aumenta l’aliquota IVA ordinaria, dal 22% al 25% nel 2018, per poi passare al 25.4% nel 2019, al 24.9% nel 2020, e tornare al 25% nel 2021.
  • Aumenta l’aliquota IVA agevolata, dal 10% all’11.5%.
  • Aumenta, sia pure nel 2019 e non già dall’anno prossimo, l’aliquota dell’accisa sulla benzina, di un valore tale da generare maggiori entrate nette per 350 milioni di Euro all’anno.
  • Viene confermata la cedolare secca al 21% sugli affitti brevi (compresi quelli effettuati con Airbnb), imponendo agli intermediari di agire come sostituti d’imposta.
  • Viene introdotta la tassa di soggiorno anche per gli affitti brevi
  • Raddoppia al 12% la tassa sulla fortuna.
  • Sale dal 6% all’8% il prelievo sulle vincite al Lotto.
  • Il prelievo erariale unico aumenta al 19% sulle slot machines e al 6% sulle videolotterie.
  • Aumenta l’accisa sul tabacco, così da garantire entrate nette per almeno 83 milioni di Euro per l’anno in corso, e per almeno 125 milioni dal 2018 in poi.

Se questa è la sinistra che abbassa le tasse, forse era meglio quella che le alzava: almeno era coerente tra quello che faceva e quello che diceva di voler fare.

Twitter: @glmannheimer

6
Giu
2017

Diritto alla salute: il banco di prova della mobilità sanitaria

Il 12 maggio scorso, la Lombardia ha fissato un tetto al rimborso delle prestazioni a bassa complessità erogate dalle strutture private per i pazienti fuori regione. Per motivi di revisione della spesa in materia sanitaria, avallati dalla legislazione nazionale, si è deciso in sostanza di compensare i costi derivanti dalla mobilità sanitaria per prestazioni di alta specialità con una riduzione di quelli per prestazioni di bassa complessità.

Una scelta, in teoria, comprensibile per diminuire la spesa sanitaria. Ma, nella realtà, paradossale.

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1
Giu
2017

Se Trump recede da COP21: non è l’apocalisse temuta, ma politicamente per l’Europa è un’occasione

Si attende ormai entro poche ore la decisione finale di Trump sulla COP21. Il presidente USA potrebbe decidere il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’intesa sul contenimento delle emissioni firmata da 195 paesi a Parigi, nel dicembre di 2 anni fa. Non è una sorpresa, anzi è il bis di ciò che Bush figlio fece rispetto al protocollo di Kyoto sottoscritto nel 1997 da Clinton. Trump in campagna elettorale ha più volte definito la COP21 come “una piattaforma guidata da Paesi ostili agli interessi dell’industria americana”. E già al G7 dell’energia coordinato dall’Italia, lo scorso 10 aprile, gli USA avevano impedito ogni riferimento nel documento finale al mantenimento degli obiettivi COP21. L’amministrazione USA è divisa. Mentre gli ideologi trumpiani, come Steve Bannon che sta tornano in auge, son sempre stati favorevoli al ritiro, il segretario di Stato Rex Tillerson (un petroliere, tra l’altro) e Ivanka Trump hanno tentato di frenare il neopresidente, per le ovvie conseguenze internazionali. Ma al contempo ha destinato scalpore che il generale James Mattis, segretario alla Difesa, qualche settimana fa alla Commissione Forze Armate del Senato non abbia esitato a definire gli obiettivi di COP21 “una potenziale seria minaccia agli interessi americani, per le conseguenze che essi esercitano in vaste e strategiche aree del mondo in cui operiamo, e che vanno assunte come una sfida seria da valutare complessivamente per la nostra strategia”, chiaramente riferendosi a Medio Oriente e Africa subsahariana. Come Mattis e anzi ancor più duramente contro COP21 la pensa il neo capo dell’EPA, l’agenzia federale americana sull’ambiente, cioè l’ex attorney general dell’Oklahoma Scott Pruitt che da magistrato ne impugnò sistematicamente le decisioni sotto la presidenza Obama

La partita è dunque politica. Trump ha bisogno di distogliere l’agenda americana dagli sviluppi del Russiagate. Di apparire coerente agli impegni elettorali. Di smontare la cornice di grandi accordi multilaterali di cui anche COP21 fa parte, come quelli sul commercio. Di abbattere un simbolo delle politiche di Obama, visto che COP21 nacque e fu un successo grazie all’impegno speso da Obama dopo il fallimento della Conferenza di Copenaghen del 2009. E di esercitare un ruolo diretto anche sugli obiettivi ambientali che seguirà la Cina, visto che i due Paesi sono i maggiori inquinatori al mondo. Una cosa è certa: l’intera struttura delle commissioni speciali che prevedevano l’operato congiunto dei ministeri e delle agenzie federali americane per attuare la COP21, creati da Obama, dall’elezione di Trump è stata subito del tutto congelata.

Premessa personale, per quello che vale. Nel seguito mi limiterò a un’analisi da osservatore. Metterò cioè deliberatamente da parte le mie convinzioni, poiché sono un “ambientalista scettico”, per usare l’arcinota definizione che di sé diede nel 2001 in un famoso libro Bjørn Lomborg, secondo il quale moltissime delle assunzioni sul contributo umano agli andamenti climatici sono forzate e scientificamente non comprovate. E in più dall’altra parte penso che l’accelerazione europea abbia comportato, per gli oneri di sistema a carico dei consumatori degli incentivi da rinnovabili, un aumento troppo considerevole del prezzo del kilowattora residenziale che ci spiazza nei confronti internazionali; che le imprese americane hanno comunque accelerato molto sul fronte del contenimento delle emissioni, anche se Kyoto era stato disconosciuto e anche perché la competenza del più delle politiche ambientali in USA è statale e non federale; e che infine dall’altra parte gli obiettivi di Parigi per Cina e India sono larghissimamente volontari e non vincolanti: tutti fattori che ci dovrebbero indurre a un giudizio più equilibrato dell’eventuale marcia indietro americana (per una sintesi a mio umilissimo giudizio efficace, vedi qui).

Ma se la partita è politica, si può considerare il ritiro americano anche da un altro punto di vista. Cioè come una grande occasione per l’Europa, se seguendo l’impulso di Macron su questi temi decidesse essa di diventare il grande interlocutore di Cina e India. Nessuno può oggi prevedere come reagirebbero i due giganti asiatici al ritiro americano, visti i piani e costi enormi di contenimento delle emissioni e di decarbonificazione in teoria loro richiesti, ma che comunque moduleranno unilateralmente

Dipende anche da come avverrà il recesso statunitense. Secondo le norme COP21, ci si può ritirare solo dopo 3 anni a partire dal novembre 2016: in quel caso l’Europa avrebbe tutto il tempo per definire (sul tema ha anch’essa i suoi problemini, soprattutto con i membri est-europei) e varare un’iniziativa vera, da offrire a Cina e India per continuare insieme anche oltre l’orizzonte del 2030 stabilito nel 2015. Se al contrario Trump agisce per le vie brevi, facendo bocciare COP21 dal Senato che non l’ha mai ratificato, allora per l’Europa sarebbe necessario uno scatto di reni immediato. Sarebbe però un’ottima cosa: perché trascinerebbe con sé grandi accordi di cooperazione tecnologica e commerciale, energetica e anche di sicurezza comune.

Al di là della grande occasione internazionale, per l’Europa e per l’Italia si può ragionevolmente dire che allo stato attuale il ritiro americano non dovrebbe invece cambiare nulla. Gli obiettivi europei infatti sono stati solidamente incardinati in una direttiva che ci vincola alla riduzione entro il 2030 almeno del 40% delle emissioni di gas a effetto serra rispetto ai livelli del 1990, a una quota almeno del 27% di energia rinnovabile, a un miglioramento almeno del 27% dell’efficienza energetica.

E a questi obiettivi è coerente la Strategia Energetica Nazionale che il governo ha in via di elaborazione, e che il ministro Carlo Calenda ha illustrato in Senato lo scorso 10 maggio dopo un’ampia consultazione con istituti di ricerca e associazioni di categoria, e che dovrebbe essere pubblicata entro fine giugno. Nella scansione degli obiettivi intanto conseguiti, siamo abbastanza avanti. Procediamo dal 2014 con un ritmo annuo di risparmi energetici ottenuti da politiche attive intorno all’1,4%, rispetto all’obiettivo dell’1,5%. Abbiamo realizzato una diminuzione delle emissioni del 17% di gas serra per i settori non energivori rispetto ai livelli del 2005, più  dell 13% che dovevamo conseguire al 2020, e con un buon passo verso il 33% che è obiettivo per il 2030. Siamo già oggi a una penetrazione pari al 17% di energie rinnovabili sui consumi energetici lordi, rispetto al 17% da conseguire in teoria al 2020, e al 27% che è obiettivo 2030.

Dall’altra parte abbiamo però tre montagne da scalare. L’efficienza termica, energetica e ambientale del nostro vetusto patrimonio immobiliare residenziale richiede incentivi più cospicui e strutturali di quelli attuali, per proprietari e venditori. E’ oggi troppo lento il tasso di sostituzione degli autoveicoli circolanti di classe da Euro0 a Euro3, che sono ben il 45% dei 37 milioni complessivi oggi in Italia. Infine, uno scenario di totale uscita da 8GW attuali di capacità di produzione elettrica a carbone al 2030 implicherebbe 23-24 miliardi di investimenti, rispetto ai 17-19 miliardi se ci limitassimo ad eliminarne 2GW. Non voglio fare l’antiambientalista, ma le tre voci implicano costi nell’ordine di 4-5 punti di PIL, che come contribuente mi preoccupano non poco sia pour in un orizzonte di 12 anni.

L’attuale scenario delude i movimenti ambientalisti anche italiani, che verrebbero passare da un impegno  a contenere l’aumento della temperatura entro i 2 gradi ad uno più vincolante, di 1 grado e mezzo. Il che significherebbe innalzare dal 40% al 50-55% la riduzione di gas serra al 2030, rispetto ai livelli del 1990, con investimenti e incentivi nell’ordine di ulteriori decine di miliardi in più. E’ un’idea non troppo utile negli effetti complessivi e molto onerosa se adottata unilateralmente. Ma è al contempo invece una piattaforma interessante, se l’Europa assumesse la decisione di rilanciarla a Cina e India per un grande negoziato comune, basato su strumenti di cooperazione e sostegno, per fare della sostenibilità ambientale in quei giganti mondiali una grande sfida comune tra Europa e Asia.

Sarebbe la maniera più intelligente per rispondere a un’America che non crede affatto all’esistenza di un’Europa capace di farsi protagonista internazionale. ma sarebbe una scommessa interessante dal punto di vista geopolitico, se non vogliamo rassegnarci al ruolo di vasi di coccio tra vasi di ferro.

 

 

1
Giu
2017

Low cost a lungo raggio: l’ultimo rischio per Alitalia

Norwegian offrirà ai consumatori italiani nuovi voli intercontinentali low cost: non è il caso di sorprendersi.

La decisione della compagnia norvegese era nell’aria e i continui investimenti del vettore per l’ampliamento della flotta a lungo raggio preannunciavano questa strategia. Prezzi dei biglietti sotto i 100 euro tra Europa e Stati Uniti potranno diventare ben presto qualcosa di normale nel settore aereo.

Norwegian è uno dei nuovi operatori che sono cresciuti nell’epoca delle liberalizzazioni. Sono proprio queste compagnie che stanno rivoluzionando il mercato aereo.

Fino a 20 anni fa esso era completamente bloccato. Poi è stato aperto con grandi benefici per i consumatori.

Se Norwegian continua ad innovare il proprio modello di business, col low cost a lungo raggio, Ryanair è invece ormai leader del mercato europeo. La compagnia irlandese trasportava nel 1997 solo 5 milioni di passeggeri: nello scorso anno ne ha trasportati 120.

Tutto questo mentre Alitalia annaspa con continue perdite (circa tre miliardi di euro dal 2009 ad oggi) e si ritrova con quote di mercato sempre più basse (solo il 17 per cento del mercato italiano nel 2016).

Ormai da anni le low cost non si limitano più al consumatore leisure, ma hanno sempre più capacità di raggiungere una clientela più ricca come quella dei businessman, anche grazie all’incremento della frequenza di voli.

I vettori tradizionali hanno dovuto migliorare nettamente la loro efficienza per poter resistere. Tagli di personale, razionalizzazione delle rotte e fusioni sono state le principali azioni attuate da quelli europei per competere con le compagnie low cost nel corto-medio raggio e con i vettori medio-orientali nel lungo raggio.

La rivoluzione del low cost a lungo raggio?

Questo è il presente del trasporto aereo,  ma  ci sono nuovi sviluppi interessanti.

L’arrivo degli ultimi aerei di “plastica” (perché costruiti in maggior parte in materiali compositi) sta portando a una nuova rivoluzione.

Questi aeromobili a lungo raggio – il Dreamliner 787 di Boeing e l’A350 di Airbus – hanno prestazioni migliori, con un risparmio del carburante di oltre il 15 per cento, rispetto agli aerei tradizionali. Inoltre, hanno una capacità inferiore, permettendo quindi di servire con voli a lungo raggio città più piccole (dove la domanda è inferiore). Oltre a questi aeromobili, nei prossimi anni arriverà in flotta anche l’A321 di nuova generazione a lungo raggio che permetterà di effettuare voli di quasi 7500 chilometri – come un New York-Milano- con un aereo a corridoio unico, e con prestazioni molto elevate (in termini di costo).[1]

Molte compagnie hanno acquistato anche il 737 Max che permetterà di fare alcune tratte transatlantiche tra Europa e Stati Uniti a prezzi inferiori a 100 euro, mentre altre compagnie low cost a lungo raggio sono nate proprio dopo il varo del Dreamliner.

In Europa, leader di questo segmento di mercato è la low cost Norwegian, mentre in Asia è Scoot che sta cercando di consolidarsi. Entrambe le compagnie hanno chiuso con bilanci in attivo e Norwegian sta espandendo velocemente la propria flotta di B-787.

Dal grafico precedente è chiaro che la flotta di Norwegian si sta rinforzando molto nel settore a lungo raggio (B788 e B789), intuendo le potenzialità di questo mercato.

Se nel 2013 aveva solo tre aeromobili di questa tipologia (Dreamliner) nel 2018 ne avrà 28, vale a dire una flotta a lungo raggio superiore a quella di Alitalia. Nel frattempo, entro il 2018 avrà anche in flotta ben 12 Boeing 737 Max, con i quali coprirà delle rotte tra l’Irlanda e la costa Est degli Stati Uniti.

I rischi per Alitalia e per il contribuente italiano

Il contribuente ha appena messo 600 milioni di euro nel vettore italiano e l’arrivo di una maggiore concorrenza accresce la probabilità di non rivedere mai più quei quattrini.

Non c’è solo la concorrenza di Norwegian. Ryanair ha appena annunciato l’avvio di un hub proprio nello scalo romano, permettendo di comprare un biglietto unico con i voli in connessione su Roma.

Evidentemente le compagnie vedono la debolezza di Alitalia e stanno attrezzandosi per conquistare quote di mercato.

È bene fare un piccolo raffronto tra Alitalia e Norwegian per capire gli sviluppi futuri del mercato.

Da un punto di vista di offerta (ASK), i due vettori sono comparabili. Andando invece ad analizzare la domanda (RPK), Norwegian è circa il 17 per cento più grande di Alitalia.

Come è possibile questo? Come ripetiamo spesso, Alitalia è debole da un punto di vista di ricavi e il load factor del vettore italiano è 10 punti percentuali inferiore a quello di Norwegian.

Alitalia ha dei ricavi non dissimili da quelli di una compagnia low cost, pur non avendone i costi.

Norwegian, pur essendo una compagnia svedese con spese presumibilmente a livello dei Paesi scandinavi, ha costi ben inferiori a quelli di Alitalia. Il costo per posto chilometro offerto (CASK) è infatti di 5 centesimi di euro, contro i 6,2 centesimi di Alitalia.

Il mercato creativo, il pubblico distruttivo

Ecco perché Norwegian chiude in utile a fine anno, mentre Alitalia continua a bruciare centinaia di milioni di euro.

Le low cost a lungo raggio rappresentano un ulteriore pericolo per la compagnia aerea italiana, soprattutto se continuerà a ricorrere all’aiuto del contribuente anziché provare ad innovare.

Note

  1. Le tratte a lungo raggio sono attualmente servite da aeromobili a doppio corridoio. I nuovi modelli di aerei a corridoio singolo permettono di effettuare delle tratte più lunghe, fino a servire anche delle tratte tra Europa e la Costa Est degli Stati Uniti.
30
Mag
2017

Flixbus e l’omertà anti-concorrenziale

Ve la ricordate la norma ‘anti-Flixbus’? Qualche mese fa, alcuni parlamentari presentarono un emendamento al decreto Milleproroghe per limitare il servizio di trasporto pubblico interregionale su gomma (compresi gli autobus ‘di linea’) alle sole società che svolgano quel servizio come “attività principale”. Una norma dal significato oscuro, che nascondeva un intento sin troppo chiaro: estromettere dal mercato Flixbus, un’azienda tedesca che, in meno di due anni, ha rivoluzionato il settore degli autobus di linea, un po’ come accaduto con Uber per il settore del trasporto pubblico urbano.

Non a caso, il modello di Flixbus ricalca, per certi versi, quello di Uber: non possiede autobus e non ha autisti alle proprie dipendenze, ma si ‘limita’ a offrire una biglietteria online unificata a un sempre più vasto network di aziende di trasporto locali, le quali investono nell’acquisto degli autobus in cambio della pianificazione delle linee, dei servizi di marketing, della visibilità e del servizio di vendita garantiti dall’azienda madre. Tutti gli autobus di Flixbus hanno livrea verde, Wi-Fi a bordo, aria condizionata, toilette e sedili più comodi dei normali autobus; il tutto a prezzi ultra competitivi, anche di un euro a tratta o poco più. io svolgimento del trasporto di passeggeri su strada.

La pressione mediatica ricevuta dalla vicenda qualche mese fa spinse la maggioranza e lo stesso gruppo parlamentare che presentò l’emendamento a estrometterlo dal decreto Milleproroghe, salvando Flixbus. Ebbene: sono passati solo pochi mesi ed ecco che la norma, uscita dalla porta, rientra dalla finestra. Sabato scorso, infatti, la commissione Bilancio della Camera ha approvato un emendamento alla manovrina che ricalca esattamente quello espunto dal decreto Milleproroghe, limitando il servizio di trasporto interregionale su gomma alle aziende che lo esercitino direttamente, ed escludendo gli intermediari come Flixbus.

Nel merito della vicenda, vale quello che scrivemmo allora. Il nostro Parlamento, quasi senza eccezioni, non esita a rendere qualunque opera di liberalizzazione una tela di Penelope sempre a rischio di ritrovarsi disfatta. Per giustificare la difesa della libertà del mercato di trasporto interregionale su gomma basterebbe rilevare lo straordinario apprezzamento da parte dei consumatori per i servizi offerti da aziende come Flixbus in tutta Europa negli ultimi anni. A ben vedere, gli unici soggetti che sembrerebbero avere bisogno di “tutele”, nel mercato in questione, sono gli incumbent, abituati a operare in un mercato sostanzialmente immobile, in cui “concorrenza” significava semplicemente concordare prezzi e ripartizione geografica delle tratte con altre società, omologhe nel servizio e nei costi. E del resto le liberalizzazioni servono proprio a questo: a eliminare gli ostacoli – spesso superflui – allo scambio di beni e servizi che minano la libertà individuale, frenano la crescita economica e mantengono in vita rendite e privilegi.

La vicenda è resa ancora più torbida dal ‘giallo’ venutosi a creare negli ultimi giorni, in cui né Liliana Ventricelli, autrice di una prima versione dell’emendamento, né Mauro Guerra, relatore della manovrina, hanno fornito una spiegazione chiara di come e da chi sia stato partorito l’emendamento. Un’omissione collettiva che racconta bene gli imbarazzi sopiti dentro il PD quando c’è da promuovere concretamente la concorrenza rispetto alla tutela delle rendite di posizione. Nelle ultime ore il presidente della commissione Bilancio, Francesco Boccia, ha finalmente svelato il mistero: la riformulazione sarebbe opera di Guerra, sostenuto dal parere favorevole del governo attraverso il viceministro Morando. Boccia ha aggiunto che “non è un emendamento anti-Flixbus”, ma il settore sarebbe “troppo deregolamentato”.

Renzi è impegnato da qualche anno a raccontarci del PD come dell’unico motore del Paese a favore dell’innovazione, ma la realtà ci dice altro: UberPop è bloccato da due anni, Airbnb minacciato in continuazione da nuove tasse e normative, e oggi il PD blocca anche Flixbus. Quello della concorrenza, ahinoi, è ancora il partito che – almeno in Parlamento – non c’è. E quanto ce ne sarebbe bisogno…

Twitter: @glmannheimer

24
Mag
2017

Libri e cinema: i numeri non tornano e il modello industriale resta antico

Libri e cinema, due settori fondamentali dell’industria culturale italiana. Anche se in realtà hanno un valore molto contenuto sul totale delle attività che vi si comprende. Per capirci, il mercato italiano del libro 2016 resta poco sotto 1,3 miliardi di euro, mentre il totale degli incassi cinematografici 2016 si è fermato a 661 milioni, rispetto ai 47,9 miliardi stimati da Ernst&Young per il complesso dell’industria culturale e creativa italiana (tv, audiovisivo, eventi, pubblicità, musica, teatro, produttori di contenuti, videogiochi, piattaforme digitali e via continuando). Libri e cinema, due settori spesso affetti da una tendenza pericolosa perché fuorviante: il trionfalismo narcisistico. Che comporta un grande rischio. Quello di appagare i suoi protagonisti, ma di far perdere di vista la realtà. Strappiamo allora il velo, guardiamo le cifre vere.

Per il mercato del libro, siamo reduci da mesi di lotta mediatica combattuta senza esclusione di colpi tra il nuovo Salone del Libro di Milano-Rho, e quello tradizionale di Torino che ha appena chiuso i battenti. E’ stata una lotta tra case editrici, grandi contro piccole, mass market contro élite. A giudicare dalla copertura mediatica, toni ed epos da I sette contro Tebe di Eschilo. Torino ha appena trionfato sull’esordio di Milano, con oltre 160mila visitatori. Tonnellate di dichiarazioni di autori e capi di ogni casa editrice, il ministro Franceschini mobilitato nel tentativo, fallito, di una tregua tra i contendenti. Una cinquantina di milioni di euro d’indotto, è la stima degli organizzatori torinesi. Mah.

E allora uno va a vedere le cifre di vendita, immaginando profluvi di copie. Ma scopre che il libro più venduto ha totalizzato 700 copie, 258 il secondo, 200 il terzo, 150 il quarto. Con tutto il rispetto, provocatoriamente vien da chiedersi se simili pingui fatturati valessero il prezzo dello stand.  E i numeri della stessa Associazione Italiana Editori del resto parlano chiaro: anche nel 2016 i lettori sono scesi, da 24 milioni del 2015 a 23,3. Gli unici a registrare un aumento sono gli over 60enni che segnano +9% sul 2010, mentre la quota tra i 25 e i 44 anni è disastrosamente calata del 25,4%. Cresce gradualmente la lettura tramite dispositivi digitali, ma non certo tanto da sanare la perdita sulle copie cartacee.

Eppure gli editori continuano a sfornare sempre nuovi titoli in stampa, la bellezza di 66.505 a cui si sono aggiunti l’anno scorso 74.020 titoli in formato e book.

Nel 1980 i titoli stampati erano 18mila. Ha senso un aumento tanto vertiginosi a fronte di un mercato in contrazione? Economicamente, no di certo. Eppure gli editori persistono. E a 3mila copie vendute si rischia di entrare nelle classifiche. Forse bisognerebbe favorire la virata verso la lettura su device digitali, e i canali di distribuzione tramite piattaforma. Invece anni fa si è limitato al 15% lo sconto sul prezzo di copertina proprio per evitare una migrazione troppo forte sull’on line, e sono pendenti progetti di legge per abbassare ulteriormente il tetto allo sconto al 5%. A parole, per difendere i piccoli librai indipendenti. Nella sostanza, nel tentativo di fermare col dirigismo sui prezzi una trasformazione epocale del prodotto editoriale e dei canali distribuitivi. Ma un mondo che vede Amazon come il nemico è condannato a perdere ancora più lettori.

E il cinema? Con il ministro Franceschini, la dotazione annuale del fondo pubblico di sostegno alla cinematografia italiana è salita a 400 milioni. Prima di lui, taglio dopo taglio una simile cifra aveva finito per rappresentare l’intero sostegno pubblico a teatri e fondazioni liriche oltre al cinema. L’Italia finalmente come la Francia, è stato il coro, a difesa dell’eccezionalità del cinema tricolore, che tanto ha contribuito all’immagine dell’Italia nel mondo. E sempre più attraverso il credito d’imposta, e meno con le discutibili valutazioni discrezionali delle commissioni ministeriali.

Eppure, guardiamo i dati. Che cosa ci dicono?   Prendiamo quelli dell’ultimo fine settimana. Non era mai successo quest’anno che un film arrivasse primo come incasso nel week end fermandosi a 542 mila euro (si tratta di Alien Covenant). Nessun titolo sopra i 1500 euro per copia, solo 6 superano la soglia dei mille euro. Rispetto allo stesso week end del 2016, il calo è di un più che significativo -35,7%. Gli incassi delle sale a maggio sinora sono a 22,4 milioni, erano 30,3 milioni negli stessi giorni del 2016.  Di che cosa altro c’è bisogno, per parlare di un trend sconfortante? La pellicola Fortunata di Castellitto è uscita sabato scorso, e nel fine settimana è risultata quarta a 1123 euro di media a copia, per poi salire nei giorni successivi. Ma il precedente film di Castellitto, Nessuno si salva da solo, aveva esordito nel primo fine settimana con 1,3 milioni.  Dato che quel titolo incasso alla fine 3,4 milioni, non è scontato che Fortunata arrivi a due milioni complessivi. Se scendiamo ai titoli con minor incasso, attenti ai segnali sui “film di qualità”. Sicilian Ghost Story, pellicola italiana passata a Cannes, incassa nel fine settimana solo 41.087 euro, con una media di 721 euro a copia.

Eppure anche nel settore cinematografico la tendenza dell’offerta è quella a non commisurarsi alla domanda. I titoli usciti nel 2016 sono aumentati considerevolmente: 554 rispetto a 480 dell’anno precedente; con produzioni italiane dirette o in coproduzione salite da 189 a 208. La quota dei film italiani e coprodotti sul totale delle presenze nelle sale è salita, dal 21% del 2015 al 28% del 2016. Ma che senso ha parlare di quote percentuali in crescita, se il totale reale poi di presenze e incassi registra i cali da brivido che abbiamo ricordato prima? E se l’unica modalità per arginare il calo è il biglietto nelle sale a 2 euro i secondo mercoledì del mese?

Ecco cosa dicono i numeri. L’industria culturale italiana è un patrimonio. Ma mettiamoci in testa una cosa. O editori e produttori commisurano la propria offerta alla nuova domanda che emerge dal mercato. non solo di prodotti quanto di canali distributivi, oppure è una battaglia di retroguardia che si risolve in un falò di risorse e in un enorme spreco di talenti. Non abbiamo bisogno di polemiche contro Amazon e Netflix, ma di prodotti italiani su quelle piattaforme, e di piattaforme italiane ed europee che accettino la sfida di quelle americane e transnazionali.