29
Set
2017

Ludwig von Mises e il vero significato di Liberalismo

In occasione della nascita di Ludwig von Mises (29 settembre 1881) pubblichiamo questo articolo di Richard M. Ebeling, originariamente apparso sul sito della Future of Freedom Foundation.

 

Ludwig von Mises e il vero significato di Liberalismo

Il liberalismo è diventato una delle parole più abusate e fraintese nel lessico politico americano. Rappresenta politicamente, secondo alcuni, il “pensiero progressista”, basato sull’obiettivo della “giustizia sociale” attraverso una maggiore “giustizia distributiva” per tutti. Altri ritengono che rappresenti il relativismo morale, il paternalismo politico, l’arbitrio del potere politico e, più semplicemente, un altro modo per dire “socialismo”. In tutto questo è andato perduto ciò che storicamente e tradizionalmente la parola “liberalismo” significava, e continua a significare per qualcuno, cioè libertà individuale, proprietà privata, libertà imprenditoriale e legalità imparziale sotto un governo costituzionalmente limitato.

Una delle voci più grandi negli ultimi cento anni – per questo significato originale di liberalismo come libertà personale e liberi mercati – è l’economista austriaco Ludwig von Mises (1881-1973). Quest’anno ricorre il novantesimo anniversario della pubblicazione del suo conciso, chiaro e convincente studio per questa comprensione della società veramente liberale, ossia, Liberalism: The Classical Tradition.

Quando scritto da Mises Nel 1927, quando Mises scrisse il libro, il primo dopoguerra assistette al trionfo del comunismo in Russia, all’ascesa del fascismo in Italia e alla nascita di un movimento nazionalista e razzista in Germania che sarebbe salito al potere nel 1933 con Adolph Hitler e del suo Partito Nazionalsocialista (o Nazista).

Liberalismo classico vs Socialismo e Nazionalismo

Il comunismo, il fascismo e il nazismo rappresentavano il culmine delle tendenze politiche ed economiche al collettivismo che avevano preso piede nei decenni anteriori alla Prima Guerra Mondiale e che furono sguinzagliate nel mondo nel caos politico e nei cataclismi sociali che hanno inghiottito gran parte d’Europa durante e dopo quella che divenne nota come la “Grande Guerra”.

I decenni intorno alla metà del diciannovesimo secolo furono, in generale, un momento di ascesa e trionfo del liberalismo cosiddetto “classico”, con il passaggio dalle monarchie assolute a regimi costituzionalmente vincolati o con forme di governo repubblicano; con la fine della schiavitù e un crescente movimento per un’uguaglianza dei diritti e il trattamento di tutti di fronte a uno stato di diritto imparziale; con la liberazione dell’attività economica dalla pesante ingerenza di regolamenti estesi e intrusivi, controlli o divieti sulla produzione, commercializzazione e vendita di quasi tutti i beni e servizi, accordando un margine di manovra più ampio alla libertà di impresa e di commercio; e infine a ripetuti tentativi di prevenire o limitare l’inizio delle guerre e a ridurre i danni e la distruzione che esse portavano.

Ma nei decenni a cavallo tra il diciannovesimo secolo e il ventesimo secolo vennero alla ribalta nuove idee politiche ed economiche, sotto forma di socialismo e nazionalismo. I socialisti rifiutavano le libertà “borghesi” del liberalismo classico – libertà di parola, stampa, associazione volontaria, partecipazione privata e partecipazione dei cittadini ai processi democratici elettorali – definendole “false” libertà.

La libertà “reale” richiedeva che i “lavoratori” in quanto “classe sociale” rovesciassero gli sfruttatori “capitalisti”, proprietari dei mezzi di produzione, sostituendoli con la pianificazione centralizzata del governo e con una redistribuzione equa del reddito.

Anche i nazionalisti rifiutavano gli assunti filosofici ed economici del liberalismo. Essi sostenevano che l’importanza centrale attribuita dal liberalismo all’unicità e alla libertà dell’individuo fosse mal riposta. Gli individui esistevano solo come parte di un ente collettivo e la loro identità aveva significato solo nei termini del gruppo etnico o linguistico nazionale, o del gruppo razziale a cui appartenevano.

I socialisti ribadivano che la storia del mondo consisteva in un inevitabile conflitto tra le classi sociali che poteva finire solo con la vittoria dei “lavoratori” sulla proprietà privata posseduta dai capitalisti. I nazionalisti dicevano che “le nazioni” erano gli unici enti reali e che gli individui che costituivano semplicemente elementi transitori. Gli eterni conflitti della vita erano tra stati-nazionali che combattevano per la supremazia politica ed economica nel mondo, per cui l’individuo doveva sacrificare.

Liberalismo come sistema di commercio pacifico e di cooperazione umana

Questo è il contesto storico in cui Mises scrisse la sua difesa del liberalismo classico e la sua enfasi sull’individualismo, sui mercati liberi e sul miglioramento sociale. Al posto delle premesse dei collettivisti circa i conflitti inevitabili tra gli uomini in termini di “classe sociale”, nazionalità e razza, o di interessi di un gruppo ristretto, Mises insisteva che la ragione e l’esperienza dimostravano che tutti gli uomini potessero associarsi pacificamente per il loro reciproco miglioramento materiale e culturale.

L’elemento chiave per raggiungere questa conclusione è stata la comprensione e l’apprezzamento dei vantaggi della divisione del lavoro. Attraverso la specializzazione e il commercio, la razza umana ha la capacità di sollevarsi dalla povertà e dalla guerra. Gli uomini si associano in un comune processo di cooperazione sociale, invece di vedersi come antagonisti dominati dal desiderio di sopraffare e saccheggiare il prossimo. Infatti, tutto ciò che intendiamo per civiltà moderna, i comfort materiali e culturali e le opportunità che essa offre all’uomo, è dovuto ai benefici e ai vantaggi altamente produttivi resi possibili da una divisione del lavoro. Gli uomini hanno imparato a collaborare pacificamente nell’arena dello scambio di un mercato competitivo.

Naturalmente, per guidare gli individui nella pacifica cooperazione competitiva la “ricompensa” dei profitti di mercato guadagnati e la “punizione” delle perdite finanziarie può essere sostituita dalla forza politica collettivista. Tuttavia, come spiega Mises, i costi di questa sostituzione sono estremamente elevati. Per prima cosa, gli uomini sono meno motivati ad applicarsi con intelligenza e zelo quando sono costretti a lavorare sotto la frusta della servitù e della costrizione, e quindi la società perde ciò che i loro liberi sforzi e la loro libera inventiva avrebbero potuto produrre.

Secondo, gli uomini sono costretti a conformarsi ai valori e agli obiettivi di chi sta al comando, e perciò perdono la libertà di perseguire i propri scopi, senza alcuna certezza che  i governanti sappiano meglio di loro ciò che può dare loro felicità e senso nella vita.

E, terzo, la pianificazione centrale socialista e l’intervento politico sul mercato, rispettivamente, aboliscono o distorcono il funzionamento della cooperazione sociale. Un sostenibile ed esteso sistema di specializzazione per il miglioramento reciproco è possibile solo in un unico insieme di istituzioni economiche e sociali.

Il calcolo economico sotto il capitalismo liberale

Senza la proprietà privata dei mezzi di produzione, la coordinazione di molteplici attività individuali nella divisione del lavoro sarebbe impossibile. Infatti, l’analisi di Mises sull’impossibilità di un ordine socialista in grado di coincidere con l’efficienza e la produttività di un’economia di libero mercato costituiva la base della sua statura e reputazione internazionale come uno degli economisti più originali del suo tempo, ed era il cuore del suo precedente Socialismo (1922).

In Liberalism, Mises ha ancora una volta chiaramente e persuasivamente spiegato che la proprietà privata e lo scambio di mercato in regime di concorrenza consentono la formazione dei prezzi sia per i beni di consumo che per i fattori di produzione, espressi nel comune denominatore di un mezzo di scambio – il denaro. Sulla base di questi prezzi monetari, gli imprenditori possono impegnarsi in calcoli economici per determinare i costi relativi e la redditività delle linee alternative di produzione.

Senza questi prezzi generati dal mercato, non esisterebbe un modo razionale per assegnare risorse tra i loro diversi possibili usi al fine di garantire che quelle merci maggiormente apprezzate dal pubblico acquirente siano state prodotte nel modo meno costoso e quindi più economico. Il calcolo economico, ha dimostrato Mises, garantisce che i limitati mezzi disponibili servano al meglio i membri della società.

Tale razionalità nell’utilizzo di mezzi per soddisfare i fini è impossibile in un sistema completo di pianificazione centrale socialista. In quale modo, chiese Mises, i pianificatori socialisti possono sapere quale sia l’uso migliore al quale destinare i fattori di produzione sotto il loro controllo centrale ,senza l’esistenza di prezzi generati dal mercato? Senza la proprietà privata dei mezzi di produzione non ci sarebbe nulla (legalmente) da acquistare e vendere. Senza la possibilità di acquistare e vendere, non ci saranno aste e offerte, e quindi non potrebbe esservi alcuna contrattazione sui termini di scambio tra acquirenti e venditori concorrenti.

Senza la contrattazione della concorrenza di mercato, naturalmente, non esisterebbero termini di scambio concordati. Senza termini di scambio concordati, non ci sono prezzi di mercato. E senza prezzi di mercato, come faranno i pianificatori centrali a conoscere l’adeguatezza dei costi e quindi gli usi più richiesti per cui queste risorse potrebbero o dovrebbero essere applicate? Con l’abolizione della proprietà privata, e quindi dello scambio di mercato e dei prezzi, i pianificatori centrali mancherebbero degli strumenti istituzionali e informativi necessari per determinare cosa produrre e in che modo, al fine di ridurre al minimo sprechi e inefficienza.

L’interventismo governativo non sostituisce il capitalismo competitivo

Allo stesso tempo, Mises ha dimostrato le incoerenze connaturate a qualsiasi sistema di intervento politico nell’economia di mercato. I controlli sui prezzi e le restrizioni alla produzione sul processo decisionale imprenditoriale provocano distorsioni e squilibri nei rapporti di offerta e domanda, tanto quanto i vincoli per l’utilizzo più efficiente delle risorse al servizio dei consumatori.

‘Al decisore politico rimane la sola scelta di introdurre nuovi controlli e regolamenti nel tentativo di compensare le distorsioni e gli squilibri che gli interventi precedenti hanno causato, oppure abrogare i controlli interventistici e le regolamentazioni già in atto e consentire nuovamente al mercato di essere libero e competitivo. Il percorso di una serie di interventi parziali che si susseguono gli uni agli altri comporterebbe una logica della crescita dell’intrusione del governo nel mercato che alla fine porterebbe l’intera economia sotto la direzione dello Stato. Quindi l’interventismo applicato in modo coerente potrebbe portare al socialismo un passo alla volta.

Sia il socialismo sia l’interventismo sono sostituti del capitalismo rispettivamente irrealizzabili o instabili. Il liberale classico difende la proprietà privata e l’economia di libero mercato, insiste Mises, proprio perché è l’unico sistema di cooperazione sociale che offre una grande libertà d’azione per la libertà e la scelta personale a tutti i membri della società, generando i mezzi istituzionali per coordinare le azioni di miliardi di persone nel modo più economicamente razionale.

Liberalismo classico, libertà e democrazia

La difesa di Mises del liberalismo classico contro queste varie forme di collettivismo, comunque, non era limitata “solo” ai benefici economici della proprietà privata. La proprietà fornisce inoltre all’uomo il bene più prezioso e caro – la libertà personale. La proprietà dà all’individuo un campo di autonomia in cui può coltivare e vivere la propria concezione di una vita buona e  piena di significato.

Lo protegge anche dalla dipendenza dello Stato per la sua esistenza; attraverso i propri sforzi e lo scambio volontario con altri uomini liberi, non è vincolato ad alcuna autorità politica assoluta che detti le condizioni della sua vita. Se vogliamo garantire libertà e proprietàè necessaria luna società pacifica. La violenza e le frodi devono essere bandite affinché ciascuna possa trarre pieno vantaggio da ciò che, sulla base dei propri interessi e talenti, ritiene i percorsi più proficui per raggiungere i suoi obiettivi nell’associazione consensuale con gli altri.

Mises, inoltre, spiega come l’ideale classico-liberale dia grande importanza all’uguaglianza davanti alla legge. Solo quando il privilegio politico e il favoritismo vengono eliminati, ciascuno può avere la libertà di utilizzare le proprie conoscenze e i propri talenti in modi che gli danno beneficio e anche, attraverso le transazioni volontarie del mercato, al miglioramento della società nel suo complesso.

Ciò significa, allo stesso tempo, che una società liberale è quella che accetta che la diseguaglianza del reddito e della ricchezza sia inseparabile dalla libertà individuale. Giacché le capacità, naturali e acquisite,  e le inclinazioni di ciascuno di noi sono diverse, i premi ottenuti dalle persone sul mercato saranno inevitabilmente diversificati. Né può essere altrimenti se non vogliamo diminuire o addirittura soffocare gli incentivi che spingono gli uomini ad applicarsi in maniera creativa e produttiva.

Il ruolo del governo, quindi, nella società classica-liberale è quello di rispettare e proteggere il diritto di ogni individuo alla vita, alla libertà e alla proprietà. Il significato della democrazia, a giudizio di Mises, non è che le maggioranze siano sempre giuste o che non debbano esservi limiti a quel che possono fare alle minoranze attraverso l’uso del potere politico. Il governo eletto e rappresentativo è un mezzo per cambiare chi detiene le cariche politiche senza ricorrere alla rivoluzione o alla guerra civile. È un dispositivo istituzionale per mantenere la pace sociale.

Era chiaro a Mises dall’esperienza del comunismo e del fascismo, così come dalle tante tirannie dell’epoca passata, che senza democrazia la questione di chi debba governare, per quanto tempo e per quale scopo si ridurrebbe alla forza bruta e al potere dittatoriale. La ragione e la persuasione dovrebbero essere i metodi che gli uomini utilizzano nei loro rapporti reciproci – sia nel mercato che il campo sociale e politico – e non il proiettile e la baionetta.

Nel suo libro sul liberalismo classico, Mises si rammaricava del fatto che le persone sono troppo disposte a ricorrere al potere statale per imporre le proprie opinioni sul comportamento e sulla moralità personali ogni volta che i loro simili si allontanano dalla propria concezione del “bene”, del “virtuoso” e del “giusto”. Disperava,

La propensione dei nostri contemporanei a chiedere il divieto autoritario non appena qualcosa non li soddisfa… mostra come profondamente radicato lo spirito della servilità rimane ancora in loro… Un uomo libero deve essere in grado di sopportare quando i suoi compagni agiscono e vivono diversamente da quello che lui ritiene opportuno. Deve liberarsi dall’abitudine, appena qualcosa non lo soddisfa, di chiamare la polizia.

Cosa, quindi, dovrebbe guidare la politica sociale nel determinare i limiti dell’azione del governo? Mises era un utilitarista e sosteneva che le leggi e le istituzioni dovrebbero essere giudicate in base a quanto esse favoriscano l’obiettivo della cooperazione sociale pacifica. La società è il mezzo più importante attraverso il quale gli uomini sono in grado di perseguire gli scopi che danno significato alla loro vita.

Così la sua difesa della democrazia e dei limiti costituzionali sui poteri del governo si basava sul ragionato giudizio secondo il quale la storia ha dimostrato troppe volte che il ricorso a mezzi non-democratici ed “extra-costituzionali” aveva portato alla violenza, alla repressione, all’abrogazione dei diritti civili e delle libertà economiche e a una violazione del rispetto della legge e dell’ordinamento giuridico, che distrugge la stabilità a lungo termine della società.

I vantaggi e i benefici apparenti da parte di “uomini forti” e di “misure di emergenza” in tempi di crisi sembrano aver sempre generato costi e perdite di libertà e di prosperità nel lungo periodo che superano di più la presunta “stabilità a breve termine”, l’ordine, e la sicurezza promessa da tali metodi.

Liberalismo classico e pace internazionale

I vantaggi derivanti dalla cooperazione sociale attraverso la divisione del lavoro basata sul mercato, ha affermato Mises, non sono limitati ai confini di un paese. I guadagni derivanti dal commercio attraverso la specializzazione si estendono a tutti gli angoli del globo. Quindi l’ideale classico-liberale è in sé cosmopolita.

Il nazionalismo aggressivo, a giudizio di Mises, non solo minaccia di portare morte e distruzione attraverso la guerra e la conquista, ma nega anche a tutti gli uomini l’opportunità di beneficiare di rapporti produttivi imponendo barriere commerciali e varie altre restrizioni alla libera circolazione di beni, capitale e persone da un paese all’altro. La prosperità e il progresso sono artificialmente vincolati all’interno dei confini nazionali.

Questo può creare le condizioni per la guerra e la conquista se alcune nazioni sostengono che l’unico modo per ottenere i beni e le risorse disponibili in un altro paese sia l’invasione e la violenza. Eliminate tutte le barriere commerciali e le restrizioni alla libera circolazione delle merci, del capitale e degli uomini e vincolate i governi a garantire la vita, la libertà e la proprietà di ciascun individuo, e la maggior parte delle motivazioni e tensioni che possono portare alla guerra saranno state rimosse.

Mises ha anche ipotizzato che molte delle cause per le guerre civili e la violenza etnica sarebbero rimosse se il diritto di autodeterminazione venisse riconosciuto nel determinare i confini tra i paesi. In questo caso Mises  si affrettava ad aggiungere che per “autodeterminazione” non intendeva che tutti coloro che appartenessero a un particolare gruppo razziale, etnico, linguistico o religioso dovessero essere forzati a stare nello stesso Stato nazione. Dichiarò esplicitamente che egli concepiva il diritto di autodeterminazione individuale attraverso il plebiscito. Cioè, se gli individui di una città o di una regione o di un distretto votano per unirsi ad un’altra nazione o vogliono formare un proprio paese indipendente, dovrebbero avere la libertà di farlo.

Ovviamente potrebbero esistere minoranze all’interno di queste città, regioni o distretti, che avrebbero preferito rimanere parte del paese a cui originariamente appartenevano o avrebbero preferito unirsi a un paese diverso. Ma sebbene si tratti di un’autodeterminazione imperfetta, almeno potenzialmente potrebbe ridurre una buona quantità di tensioni etniche, religiose o linguistiche. L’unica soluzione duratura, ha detto Mises, consiste nel ridurre le attività dei poteri pubblici a quelle limitate funzioni classiche-liberali, per cui lo Stato non può essere usato per imporre danni o svantaggi su qualsiasi individuo o gruppo nella società a vantaggio degli altri.

Il liberalismo classico e il bene sociale

Infine, Mises ha anche preso in considerazione la domanda: a vantaggio di chi il liberale classico parla nella società? A differenza di praticamente tutti gli altri movimenti politici e ideologici, il liberalismo è una filosofia sociale del bene comune. Tanto nel momento in cui Mises scrisse Liberalism quanto al giorno d’oggi, i movimenti politici e i partiti spesso ricorrono alla retorica del bene comune e del benessere generale, ma in realtà i loro obiettivi sono quello di usare il potere del governo per trarre vantaggio da alcuni gruppi a scapito di altri.

Le regole governative, i programmi redistributivi di welfare, le restrizioni commerciali e le sovvenzioni, le politiche fiscali e la manipolazione monetaria vengono impiegati per concedere privilegi di profitto e occupazione a gruppi di interesse speciale che desiderano posizioni in società che non sono in grado di raggiungere sul mercato libero e competitivo. Naturalmente seguono la corruzione, l’ipocrisia e il mancato rispetto della legge, tanto quanto le restrizioni alla libertà degli altri.

Quello che il liberalismo offre come ideale e come obiettivo della politica pubblica, ha dichiarato Mises, è un’uguaglianza dei diritti individuali per tutti sotto lo stato di diritto, con privilegi e favori per nessuno. Parla e difende la libertà di ogni individuo e quindi è la voce della libertà per tutti. Vuole che ogni persona sia libera di applicarsi nel perseguimento dei suoi propri obiettivi e propositi, in modo che lui e gli altri possano trarre vantaggio dai suoi talenti e dalle sue abilità attraverso transazioni di mercato pacifiche. Il liberalismo classico vuole l’eliminazione dell’intervento del governo negli affari umani in modo che il potere politico non venga abusivamente applicato a scapito di chiunque nella società.

Mises non era ignaro del potere delle politiche di particolari gruppi d’interesse e della difficoltà di opporsi all’influenza concentrata di tali gruppi nelle sale del potere politico. Ma insistette che il potere ultimo nella società risiede nel potere delle idee. Sono le idee che spingono gli uomini all’azione, che li inducono a salire sulle barricate o che li incoraggiano ad opporsi alle politiche sbagliate e a resistere anche al più forte degli interessi costituiti. Sono le idee che hanno conseguito tutte le vittorie ottenute dalla libertà nel corso dei secoli.

Né l’inganno politico né il compromesso ideologico possono conquistare la libertà. Solo il potere delle idee, chiaramente dichiarato e presentato esplicitamente, può farlo. Questo è ciò che si evince dalle pagine del libro di Mises sul liberalismo e lo rende una delle voci più autorevoli e durature nella difesa della libertà.

Il valore permanente del Liberalism di Mises

Nel 1927, quando Mises pubblicò Liberalism, comunismo eil fascismo sembravano, agli occhi di molti, delle forze inarrestabili nel mondo. Da allora, il loro fuoco ideologico è stato estinto dalla realtà di ciò che hanno creato e dal fatto che decine di milioni di persone si sono rifiutate di vivere sotto il loro giogo. Tuttavia, molte delle loro critiche al libero mercato continuano a giustificare le intrusioni del welfare state interventista in ogni angolo della società. E molte delle tesi contemporanee contro la libertà individuale e la libera impresa oggi assomigliano alle critiche contro i mercati liberi e il libero scambio formulate dai nazionalisti e dai socialisti europei in quegli anni tra le due guerre mondiali.

Gli argomenti di Mises per la libertà individuale e l’economia di mercato esposti novanta anni fa in Liberalism, così come nei suoi numerosi altri scritti, tra cui Socialism (1922), Critique of Interventionism (1929), Human Action (1949), Planning for Freedom (1952), e dozzine di suoi altri articoli e saggi sul tema della libertà politica ed economica, continuano a suonare vere e rimangono pertinenti ai nostri tempi, nel ventunesimo secolo.  Questo è ciò che rende un classico il suo brillante libro sul liberalismo, importante adesso tanto quanto  è stato pubblicato nove decenni fa.

18
Set
2017

La grande occasione del maxi-concorsone

La notizia è che, nei prossimi quattro anni, quasi 500mila dipendenti pubblici andranno in pensione. “Un’occasione straordinaria”, ha commentato il sottosegretario al ministero della pubblica amministrazione. Per snellire finalmente il nostro mastodontico apparato pubblico? Per redistribuire risorse umane e funzioni in modo più efficiente? Per investire nella formazione del personale? Nella digitalizzazione della pubblica amministrazione?

Nulla di tutto ciò. L’occasione, secondo il governo, è ghiotta per effettuare una massiccia sostituzione di personale. Fuori 500mila pensionandi, dentro – tramite maxi-concorsone d’ordinanza – truppe di giovani selezionati secondo un grande “piano dei fabbisogni” effettuato su tutte le pubbliche amministrazioni del Paese. Un’analisi dei fabbisogni effettuata non più secondo la logica del turnover, che li quantifica secondo il personale a disposizione negli anni passati, bensì secondo la “sostenibilità finanziaria di lungo periodo”.

Cos’è la “sostenibilità finanziaria di lungo periodo”? In apparenza solo un criterio piuttosto vago, se non addirittura insensato, non essendo relazionato ad alcun obiettivo o indicatore di performance. In realtà un senso ce l’ha, se si considerano i dipendenti pubblici come i mitici scavatori di buche di Keynes. Prepensionare 500mila dipendenti pubblici e assumerne di più giovani in numero variabile secondo la “sostenibilità finanziaria di lungo periodo”, infatti, significa chiedersi una cosa sola: “quanti ce ne possiamo permettere?”.

Inutile dire che fa sorridere il tempismo con cui, proprio a pochi mesi dalle elezioni politiche, il governo s’inventa questa – non certo inedita – strategia. Ma l’aspetto peggiore della vicenda arriverà quando essa verrà dipinta come uno strumento di lotta alla disoccupazione giovanile, in scia a una logica – quella dei prepensionamenti e della sostituzione ‘uno a uno’, nel pubblico come nel privato – purtroppo largamente condivisa. Chissà se qualcuno, nel conteggio sui benefici dei “posti di lavoro creati”, inserirà mai il surplus di spesa pubblica generato tra prepensionamenti e nuovi stipendi.

Peraltro, sono proprio azioni come queste a scostare il velo sulla bassissima considerazione in cui chi ci governa tiene i dipendenti pubblici. Considerare il prepensionamento di 500mila unità come “una grande occasione” è un prosaico eufemismo per non dire di considerarle un inutile peso. Non è di prepensionamenti e maxi-concorsi che ha bisogno la pubblica amministrazione; bensì, più di ogni altra cosa, di percorsi di formazione e di strumenti per il riconoscimento del merito (e del demerito). L’ultima riforma Madia, su questi fronti, ha fatto poco o nulla, se non riconoscere per l’ennesima volta principi generali già noti e inapplicati da tempo. Il giorno in cui chi ci governa tornerà a considerare lo Stato come un mezzo per i suoi cittadini, e non come un fine per i suoi stipendiati, sarà un grande giorno.

Twitter: @glmannheimer

4
Set
2017

L’esercito dei guerrieri dei pezzi di carta

 

Nelle lontane e dorate estati degli anni ‘60 i giovani erano “l’esercito del surf”, mentre i giovani di questa estate 2017 si dividono tra “esercito del selfie” ed “esercito dei guerrieri dei pezzi di carta”. Questi ultimi hanno recentemente vinto la loro battaglia contro il numero chiuso nelle facoltà umanistiche dell’Università degli studi di Milano. A stabilirlo è stato il Tar del Lazio che ha accolto il ricorso dell’associazione degli studenti Udu (Unione degli studenti).

Gli studenti associati parlano di vittoria storica contro tutti i test di accesso e contro quegli atenei che hanno introdotto programmazioni dell’accesso, ora giudicate illecite. Gli studenti ricordano di aver denunciato come la delibera adottata violasse la normativa nazionale, in particolare la legge 264/99 che garantisce il diritto allo studio.  “Avevamo denunciato come la sordità dimostrata da chi doveva rappresentare tutta la comunità accademica aveva segnato un pericoloso precedente, oltre che un danno per il diritto allo studio di migliaia di studenti che volevano scegliere liberamente il corso del loro futuro”.

Ma si tratta veramente di questo? Di una limitazione alla libertà di decidere del proprio futuro e del diritto allo studio sancito nella carta costituzionale? Gli studenti preannunciano altre battaglie dello stesso tenore e sarà un autunno ( tanto per cambiare) caldo di manifestazioni, cortei, atenei occupati insomma il solito copione di chi vorrebbe studiare ma è molto impegnato a gridare che vuole farlo.

Sulla questione del numero chiuso nelle università si contrappongono ideologie, sostenitori e detrattori della costituzione, insomma, il consueto marasma che confonde non poco le idee. E soprattutto, dato che per gli studenti uniti l’università è un bene comune, ne deriva una pletora di luoghi comuni. Come quello secondo il quale la Costituzione garantirebbe il diritto allo studio e l’accesso all’università a chiunque, per cui i test d’ingresso e, comunque, i sistemi di verifiche anteriori all’iscrizione alle università, sarebbero del tutto incostituzionali. L’art. 34 della nostra costituzione distingue l’istruzione aperta a tutti, da quelli che sono i “gradi più alti degli studi”. La scuola aperta a tutti è l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, obbligatoria e gratuita. È chiara ed inequivocabile la distinzione tra scuole ed università o comunque altri “istituti di alta cultura” e le accademie.

L’art. 33 della costituzione al quinto comma sancisce che “E’ prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale”. Tutti questi esami sono finalizzati ad accertare se lo studente abbia  acquisito ciò che gli è stato insegnato fino a quel punto. I cosiddetti test di ingresso universitari, invece, mirano ad accertare se lo studente sia idoneo e portato per il corso di studi successivo, cosa che è considerata ragionevole e naturale in moltissimi Paesi.

Il terzo comma dell’art. 34 della costituzione contiene un principio importantissimo: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Questa precisazione è fondamentale perché chiarisce che “i gradi più alti degli studi”, appunto, non sono aperti a tutti, ma aperti a tutti quei “capaci e meritevoli” che, anche se senza mezzi, avranno il diritto di dimostrare, e proprio con strumenti di accertamento come, per esempio, i test, la loro idoneità allo specifico corso di studi superiori. Il richiamo costituzionale a capacità e merito è dirimente rispetto a qualsiasi incomprensione sul tema. Quindi l’accesso per tutti all’università non è un diritto, ma tutti hanno diritto di dimostrare le proprie capacità e meriti tali da comprovare l’idoneità ai corsi superiori di studi, indipendentemente dalle condizioni economiche.

L’idea che facoltà universitarie pubbliche incondizionatamente accessibili a tutti siano un bene è, poi, nei fatti, smentita dalle stesse classifiche : le migliori università mondiali, europee ed anche italiane adottano tutte il numero chiuso.

A ben vedere il problema e la polemica sollevata dai test di ammissione, lambisce una questione ben più profonda e cioè perché gli studenti confondano, in realtà, il diritto allo studio con il diritto alla laurea universitaria. Nessuno di loro protesta mai, né scende in piazza, per la libertà di programmi nella scuola dell’obbligo, di insegnamenti, per un’offerta formativa più libera, più ricca e variegata, e non compressa nelle morse assai strette dell’istruzione di stato, ma reclamano tutti la possibilità di ottenere il famigerato pezzo di carta, fosse anche la pergamena di una laurea in filosofia tibetana all’università di Nonsodove, e solo ed esclusivamente per il conseguimento di un diploma di scuola superiore.

I soldati dell’esercito dei sostenitori del “più lauree per tutti” sono oggi le vittime predestinate di quanto aveva sempre stigmatizzato, del tutto inascoltato, Luigi Einaudi, anche in sede di assemblea costituente, nel dibatto sulla stesura dell’art. 33 della carta costituzionale:

Dichiaro che voterò contro questo emendamento perché ritengo che questo articolo consacri non la libertà della scuola, ma la sua schiavitù. (…) Se la lingua italiana vuol dire qualche cosa, questo vuol dire che lo Stato o qualche organo pubblico stabilirà quali siano i programmi, quali siano gli insegnamenti che devono essere impartiti, programmi ed insegnamenti a cui tutti gli ordini di scuole pubbliche e private si devono uniformare. L’articolo significa letteralmente, per quello che dice, che si consacra ancora una volta il valore legale di quello che è il pericolo, la peste maggiore delle nostre università, il valore giuridico dei diplomi, dei titoli di dottorato e di licenza, che si rilasciano coi vari ordini di scuole. Mi si consenta di fare appello alla mia quasi cinquantennale esperienza di insegnante: ciò che turba massimamente le università è il fatto che gli insegnamenti, invece di essere indirizzati alla pura e semplice esposizione della verità scientifica, sono indirizzati al conseguimento di diplomi di nessun valore, né morale né legale. Poiché questo articolo consacra ancora una volta il valore legale a tutti questi pezzi di carta, io voterò contro”.