14
Ago
2017

Estendere il Jobs ACT anche al pubblico impiego: una buona riforma per la prossima legislatura

Nella sua intervista dell’11 agosto al Mattino, il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia si è rivolto al governo e alle forze politiche, perché non “diano per fatte” le riforme, visto che la ripresa italiana c’è ma è pur sempre inferiore a quella europea ,e soprattutto ha gap molto più gravi da recuperare. E al taglio dei contributi per l’assunzione dei giovani Boccia ha aggiunto una proposta essenziale. Quella di compiere fino in fondo la riforma del Jobs Act, estendendone la piena vigenza al pubblico impiego.

E’ un tema su cui si discusse molto tra il 2014 e il 2015, da allora passato nel dimenticatoio. Ma è un tema sacrosanto. Perché pochi sembrano farci caso, ma il Jobs Act ha cambiato la disciplina dell’articolo 18 – ulteriormente riducendo la reintegra giudiziale, rispetto al primo intervento già avvenuto con il ministro Fornero – ma ovviamente si applica solo ai dipendenti privati assunti dopo la sua entrata in vigore e non ai già occupati che restano con la vecchia tutela; non estende ai lavoratori autonomi i suoi nuovi sostegno al reddito a chi perde l’occupazione (un passo avanti su questo è avvenuto in limine mortis del governo Renzi, grazie a Tommaso Nannicini); e non vale per tutti i dipendenti pubblici.

Siamo stati in pochi, anzi pochissimi, a chiedere pubblicamente sin dall’inizio che non avvenisse questo ulteriore frazionamento del mercato del lavoro, e questa asimmetria di tutele veramente dura da buttar giù. Oltre a sparuti liberisti come chi qui scrive, i professori Pietro Ichino e Luca Ricolfi, e pochissimi altri. Renzi per primo molto ha nicchiato.  Mentre la sua ministra Madia da un certo momento in poi ha iniziato a dire che era ovvio il Jobs Act non valesse per il settore pubblico, e alla fine l’ha avuta vinta lei, interprete della stragrande maggioranza del Pd e dei sindacati tutti.

Non era affatto ovvio, innanzitutto, che il vecchio articolo 18 restasse automaticamente per i dipendenti pubblici. Tanto non era ovvio che la Cassazione, con la sentenza 24157/2015 che fece saltare sulla sedia tutti i sindacati del pubblico impiego, convenne proprio che era vero il contrario. E cioè che le successive riforme dell’articolo 18, tanto quella effettuata sotto la Fornero che quella disposta con il Jobs Act, si estendevano eccome al pubblico impiego. In quel caso si trattava di un dirigente di un consorzio pubblico siciliano licenziato dopo la riforma Fornero.

La Cassazione parlò con chiarezza: «l’inequivocabile tenore dell’articolo 51 del Dlgs 165/2001, cioè del testo unico del pubblico impiego, indica che lo Statuto dei lavoratori, con le sue successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti». Su questo presupposto, per la Cassazione del 2015, «è innegabile che il nuovo testo dell’articolo 18 riguardi anche gli statali, anche a prescindere dalle specifiche iniziative normative di armonizzazione» previste dalla riforma. Dove quell’accenno alle “specifiche iniziative normative di armonizzazione” era un rinvio implicito ai decreti attuativi della riforma Madia della PA, in maniera fosse inequivocabile l’allineamento al lavoro privato. Una preoccupazione, quella dell’armonizzazione, non casuale: perché  numerose sentenze della Corte Costituzionale, che qui non vogliamo annoiarvi elencando (comunque ne parlammo qui e qua), negli anni hanno a maggioranza rifiutato comunque il pieno allineamento del rapporto di lavoro pubblico a quello privato. Tranne “esplicite armonizzazioni normative”, appunto.

Senonché siamo in Italia, e l’anno successivo la Cassazione mutò radicalmente idea, allineandosi all’indirizzo politico maturato nel governo Renzi, che escludeva appunto il Jobs Act valesse per il lavoro pubblico. E venne la sentenza 11868/2016, con la quale la Cassazione si appigliò proprio alla necessità di un esplicito e coerente intervento di armonizzazione, in assenza del quale restava preclaro che il rapporto di lavoro pubblico non era modificato né dalla riforma Fornero né tanto meno dal Jobs Act. La Cassazione 2016 richiamò esplicitamente la sentenza precedente, aprì all’opportunità di una successiva pronunzia delle Sezioni Riunite, ma proprio non se la sentì di convenire che il Jobs Act potesse applicarsi al lavoro pubblico.

Risultato: il governo Renzi non emanò alcuna armonizzazione, prevalse la paura elettorale degli statali, e la Cassazione si allineò. L’effetto è che, malgrado i rapporti di lavoro nel settore pubblico dopo il decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, abbiano conosciuto un’assimilazione giuridica a quelli privati,  di fatto sono solo chiacchiere perché il pubblico resta “diverso”. E, dispiace dirlo, l’aria che ha preso a tirare dopo la botta del 4 dicembre al referendum ha visto il Pd ingranare più volte la retromarcia, per esempio sulla scuola tornando con il ministro Fedeli al principio per cui i messi in ruolo non vanno dove le cattedre sono scoperte almeno all’inizio come prevedeva la “buona scuola”, bensì tornano a esprimere preferenze geografiche che prevalgono sin dall’inizio. Col risultato che in mezza Italia le cattedre restano scoperte, e nell’altra mezza molti vincitori di concorso non hanno cattedra.

A ben vedere, la proposta di Boccia è giusta poi non solo per la difformità della disciplina dell’articolo 18 tra dipendenti privati e pubblici. Come ha giustamente rilevato pochi giorni fa Sabino Cassese, la Pubblica Amministrazione continua nell’obbrobriosa prassi di valersi di centinaia di migliaia di lavoratori precari (che naturalmente non rientrano nella contabilità pubblica del totale del lavoro pubblico, di qui la pretesa della sua “enorme” discesa da 3,6 a 3,2 milioni grazie al blocco del turnover negli anni alle nostre spalle, aggirato spesso proprio grazie a nuovi pecari). I nuovi precari di questi anni della PA avrebbero avuto di che nettamente guadagnare, se a loro fosse stato esteso il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act per i neo assunti del privato.

Come si vede, superare la divisione antistorica tra contratti e diritti pubblici e privati non è affatto una maniera per abbassare a tutti le tutele. Al contrario: serve sia a evitare che il datore di lavoro pubblico sia avvantaggiato rispetto all’impresa privata, sia a garantire ai dipendenti pubblici le nuove tutele che sono di gran lunga meglio dell’illicenziabilità teorica. Chiederlo ai dipendenti delle ex Province, ancora esistenti ma dimagrite e senza soldi, per chi avesse dubbi. Ecco perché sarebbe un’ottima idea per la prossima legislatura, abbattere il muro tra lavoro pubblico e privato. Naturalmente: cercasi partito deciso a intestarsela. Ma questo è un altro paio di maniche

29
Lug
2017

Se l’Italia passa come la terra delle opportunità

A dispetto dei tanti problemi e delle tante criticità che affliggono il sistema economico del nostro Paese, in tema di mobilità intergenerazionale l’Italia non se la caverebbe poi così male. Questo è quanto sostenuto da un paio di paper a cui hanno lavorato alcuni noti economisti Italiani.

Il primo paper (“And Yet, It Moves”: Intergenerational Mobility in Italy) di Paolo Acciari, Alberto Polo e Giovanni Violante, offre evidenza empirica a sostegno della tesi secondo cui i livelli di mobilità sociale intergenerazionale del nostro Paese sarebbero di poco inferiori a quelli dei Paesi del nord Europa ma più alti di quelli degli Stati Uniti, la terra delle opportunità.

Il secondo paper (Intergenerational Mobility And Preferences For Redistribution), di Alberto Alesina, Stefanie Stantcheva e Edoardo Teso, presenta i dati di un questionario, svolto per l’occasione su campioni rappresentativi (in base a qualche variabile osservabile. In generale, è facile credere che chi risponde ai questionari sia molto diverso, per caratteristiche non sempre osservabili facilmente, da chi non lo fa. Ma prendiamo la rappresentatività per buona, tanto non è il punto) della popolazione di diversi Paesi, con cui si sono indagate le percezioni delle persone sulla mobilità intergenerazionale del proprio Paese. I risultati mostrano che gli Europei (tra cui gli Italiani) sono più pessimisti degli Americani sulla mobilità intergenerazionale del proprio Paese e troppo pessimisti in relazione alla mobilità intergenerazionale realmente rilevata. Inoltre, la mobilità intergenerazionale reale in Europa sarebbe più elevata rispetto a quella riscontrata negli Stati Uniti.

Prima di vedere utilizzati i risultati di questi paper per difendere questo o quell’aspetto del nostro sistema economico, tre considerazioni.

La prima riguarda ciò che in accademia anglosassone viene comunemente chiamata Construct Validity. Da questa prospettiva, si ritiene facile studiare il peso o l’altezza delle persone dal momento che facile è misurare peso e altezza delle persone. Più difficile è studiare la mobilità intergenerazionale perché più difficile è misurarla. In questi casi si ricorre a variabili proxy, che pur non misurando esattamente il costrutto sotto indagine né dovrebbero descrivere fedelmente l’andamento. Nel caso di questi due paper, la proxy è data dalle dichiarazioni dei redditi di padri e figli, per l’Italia rispettivamente nell’anno 1998 e 2012. Gli autori del primo paper qui presentato mettono in guardia, in una mezza paginetta, dal fatto che tassi di evasione diversi tra padri e figli potrebbero distorcere le stime. Entrambi si dimenticano di notare, tuttavia, che qualcosa di non irrilevante è successo tra queste due date: gli studi di settore sono stati intensificati. Un contribuente che nel 2012 guadagnava 100 ma dichiarava 30, con il padre che guadagnava 120 ma dichiarava 10 (sono, evidentemente, numeri a caso per rendere l’idea), risulterebbe probabilmente come uno che ha fatto un bel balzello nella scala nazionale dei redditi dichiarati, pur non avendo fatto alcuno scatto nella realtà dei fatti.

La seconda riguarda la distribuzione dei redditi nei diversi Paesi, specialmente in quelli dichiarati. Complice la struttura del nostro sistema fiscale, in Italia anche i ricchi non sono poi tanto ricchi. Circa l’1% dei contribuenti Italiani dichiara più di 100.000 € all’anno. Negli Stati Uniti, circa il 16% dei contribuenti americani dichiara sopra i 100.000 $. Chiaramente euro e dollaro non sono la stessa cosa, ma il dato è sufficientemente netto per chiarire che saltare da un decile a uno più alto nella distribuzione dei redditi (misura della mobilità intergenerazionale) americana non è tanto facile quanto lo è in Italia, dove pochissimi fortunati sono davvero ricchi.

Terzo, un’assunzione implicita alle considerazioni fatte nei due paper riportati consiste nel ritenere che tutti coloro che non si trovano nel decile più alto della distribuzione dei redditi abbiano una stretta preferenza ad arrivarci. Ceteris paribus, sicuramente più soldi è meglio di meno soldi per (quasi) tutti. Ma, per esempio, esistono persone che preferiscono vivere in campagna con meno soldi piuttosto che doversi spostare in città per farne di più. Se si vuole davvero misurare la capacità di un sistema di offrire opportunità, si dovrebbe limitare l’analisi a coloro che, al di là di ogni dubbio, vogliono migliorare la propria condizione in un Paese. Suggerirei, per le analisi future, di restringere il campo agli immigrati. Sarebbe interessante capire, primo, dove scelgono di andare gli immigrati che vogliono migliorare la propria condizione e, secondo, vedere dove è più facile per loro riuscirci. Potremmo accorgerci che i veri ottimisti non sono i cittadini americani, ma gli economisti italiani.

Twitter: @glmannheimer

24
Lug
2017

Un’idea elvetica di libertà—di Giulia Pasquali

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Giulia Pasquali.

«Invece che consegnarsi ad un decisore sovrano, gli svizzeri hanno preferito restare liberi negoziatori», afferma Carlo Lottieri nel suo recente libro Un’idea elvetica di libertà. Nella crisi della modernità europea (Editrice Morcelliana, 2017, pp. 218, € 16,50). La nazione elvetica ha infatti come sua caratteristica di base quella di essere legata al consenso di quanti ne fanno parte e basata su liberi legami. È questo – secondo Lottieri – il modello da seguire in Europa, non quello volto all’integrazione politica europea oggi sposato da gran parte degli intellettuali.
Ma qual è la peculiarità del federalismo elvetico? Uno dei fattori fondamentali del successo svizzero risiede nella centralità della proprietà, indispensabile alla libertà dei singoli, la cui protezione può essere raggiunta solo grazie a poteri locali e quindi in competizione. In altre parole, la Svizzera ha trovato nel pluralismo istituzionale e nella molteplicità dei centri di governo il modo migliore per salvaguardare la protezione delle libertà dei singoli.
È bene notare tuttavia che la dispersione del potere, che a noi oggi appare come tratto peculiarmente svizzero, era piuttosto comune in diverse aree d’Europa nel Medioevo e anche successivamente. L’originalità dei cantoni rivela il permanere di istituzioni, pratiche e relazioni sociali sviluppatesi nel Medioevo e in quell’epoca condivise in Europa, ma che, successivamente, furono spazzate via dall’imporsi di un potere centrale e assoluto. Grazie al carattere impervio delle montagne e alla solidità delle istituzioni locali, la società elvetica è in parte sfuggita alla trasformazione che nell’Europa continentale ha portato all’edificazione dello Stato. Quando ci s’interessa alla Svizzera, bisogna dunque guardare a quei cinque secoli che hanno preceduto l’invasione napoleonica.
Come abbiamo visto, nella Svizzera che ha preceduto la costituzione ottocentesca la proprietà è centrale, perché è quest’ultima a tutelare la persona, la società e il diritto. In particolare, è la proprietà condivisa che ha rappresentato l’intero fondamento della società elvetica. Quelli che oggi, anacronisticamente, chiamiamo i cantoni originari erano in realtà istituzioni all’interno delle quali il legame civico dipendeva dalla comune disponibilità di alcuni beni. La capacità di organizzare forme comuni di difesa, ad esempio, discendeva dalla comunanza nella proprietà e nella gestione di talune risorse. «I beni comuni erano la base di una dimensione civile che partiva dalla gestione delle risorse per poi coinvolgere l’insieme delle regole della convivenza», scrive Lottieri. Da ciò possiamo intuire come il federalismo elvetico originario sia un federalismo di proprietà, estraneo alla logica dello Stato moderno accentratore che, in quegli anni, non aveva ancora preso forma.
È a questo particolare modello di federalismo che il Vecchio Continente dovrebbe aspirare. Si può affermare, in definitiva, che le antiche libertà elvetiche siano la vera alternativa al progetto di unificazione europea. La sfida sarà certo quella di reinventare, in un quadro culturale largamente trasformato, un ordine politico largamente decentrato e capace di accantonare le logiche sovrane proprie dello Stato moderno.
È una sfida, questa, che tuttavia bisogna accettare, perché è soltanto attraverso il pluralismo istituzionale che si può avere una garanzia di libertà. Nella situazione presente, infatti, l’Europa rischia di diventare uno dei luoghi meno ospitali per le libertà dei singoli e una delle aree in cui si fa più difficile ogni tutela della vita sociale. Questo è dovuto al fatto che l’ideale europeista dell’uguaglianza, a cui sono votati quanti vogliono l’integrazione politica europea, non è compatibile con la tutela delle libertà individuali.
La Svizzera odierna, invece, tanto refrattaria a essere assorbita dall’unione e così tenacemente ancorata ai suoi minuscoli villaggi, incarna un’idea migliore e più fedele d’Europa, perché riconosce la complessità della realtà storica e sociale e cerca di proporre istituzioni che siano al servizio di un mondo caratterizzato dalla diversità.