18
Set
2017

La grande occasione del maxi-concorsone

La notizia è che, nei prossimi quattro anni, quasi 500mila dipendenti pubblici andranno in pensione. “Un’occasione straordinaria”, ha commentato il sottosegretario al ministero della pubblica amministrazione. Per snellire finalmente il nostro mastodontico apparato pubblico? Per redistribuire risorse umane e funzioni in modo più efficiente? Per investire nella formazione del personale? Nella digitalizzazione della pubblica amministrazione?

Nulla di tutto ciò. L’occasione, secondo il governo, è ghiotta per effettuare una massiccia sostituzione di personale. Fuori 500mila pensionandi, dentro – tramite maxi-concorsone d’ordinanza – truppe di giovani selezionati secondo un grande “piano dei fabbisogni” effettuato su tutte le pubbliche amministrazioni del Paese. Un’analisi dei fabbisogni effettuata non più secondo la logica del turnover, che li quantifica secondo il personale a disposizione negli anni passati, bensì secondo la “sostenibilità finanziaria di lungo periodo”.

Cos’è la “sostenibilità finanziaria di lungo periodo”? In apparenza solo un criterio piuttosto vago, se non addirittura insensato, non essendo relazionato ad alcun obiettivo o indicatore di performance. In realtà un senso ce l’ha, se si considerano i dipendenti pubblici come i mitici scavatori di buche di Keynes. Prepensionare 500mila dipendenti pubblici e assumerne di più giovani in numero variabile secondo la “sostenibilità finanziaria di lungo periodo”, infatti, significa chiedersi una cosa sola: “quanti ce ne possiamo permettere?”.

Inutile dire che fa sorridere il tempismo con cui, proprio a pochi mesi dalle elezioni politiche, il governo s’inventa questa – non certo inedita – strategia. Ma l’aspetto peggiore della vicenda arriverà quando essa verrà dipinta come uno strumento di lotta alla disoccupazione giovanile, in scia a una logica – quella dei prepensionamenti e della sostituzione ‘uno a uno’, nel pubblico come nel privato – purtroppo largamente condivisa. Chissà se qualcuno, nel conteggio sui benefici dei “posti di lavoro creati”, inserirà mai il surplus di spesa pubblica generato tra prepensionamenti e nuovi stipendi.

Peraltro, sono proprio azioni come queste a scostare il velo sulla bassissima considerazione in cui chi ci governa tiene i dipendenti pubblici. Considerare il prepensionamento di 500mila unità come “una grande occasione” è un prosaico eufemismo per non dire di considerarle un inutile peso. Non è di prepensionamenti e maxi-concorsi che ha bisogno la pubblica amministrazione; bensì, più di ogni altra cosa, di percorsi di formazione e di strumenti per il riconoscimento del merito (e del demerito). L’ultima riforma Madia, su questi fronti, ha fatto poco o nulla, se non riconoscere per l’ennesima volta principi generali già noti e inapplicati da tempo. Il giorno in cui chi ci governa tornerà a considerare lo Stato come un mezzo per i suoi cittadini, e non come un fine per i suoi stipendiati, sarà un grande giorno.

Twitter: @glmannheimer

4
Set
2017

L’esercito dei guerrieri dei pezzi di carta

 

Nelle lontane e dorate estati degli anni ‘60 i giovani erano “l’esercito del surf”, mentre i giovani di questa estate 2017 si dividono tra “esercito del selfie” ed “esercito dei guerrieri dei pezzi di carta”. Questi ultimi hanno recentemente vinto la loro battaglia contro il numero chiuso nelle facoltà umanistiche dell’Università degli studi di Milano. A stabilirlo è stato il Tar del Lazio che ha accolto il ricorso dell’associazione degli studenti Udu (Unione degli studenti).

Gli studenti associati parlano di vittoria storica contro tutti i test di accesso e contro quegli atenei che hanno introdotto programmazioni dell’accesso, ora giudicate illecite. Gli studenti ricordano di aver denunciato come la delibera adottata violasse la normativa nazionale, in particolare la legge 264/99 che garantisce il diritto allo studio.  “Avevamo denunciato come la sordità dimostrata da chi doveva rappresentare tutta la comunità accademica aveva segnato un pericoloso precedente, oltre che un danno per il diritto allo studio di migliaia di studenti che volevano scegliere liberamente il corso del loro futuro”.

Ma si tratta veramente di questo? Di una limitazione alla libertà di decidere del proprio futuro e del diritto allo studio sancito nella carta costituzionale? Gli studenti preannunciano altre battaglie dello stesso tenore e sarà un autunno ( tanto per cambiare) caldo di manifestazioni, cortei, atenei occupati insomma il solito copione di chi vorrebbe studiare ma è molto impegnato a gridare che vuole farlo.

Sulla questione del numero chiuso nelle università si contrappongono ideologie, sostenitori e detrattori della costituzione, insomma, il consueto marasma che confonde non poco le idee. E soprattutto, dato che per gli studenti uniti l’università è un bene comune, ne deriva una pletora di luoghi comuni. Come quello secondo il quale la Costituzione garantirebbe il diritto allo studio e l’accesso all’università a chiunque, per cui i test d’ingresso e, comunque, i sistemi di verifiche anteriori all’iscrizione alle università, sarebbero del tutto incostituzionali. L’art. 34 della nostra costituzione distingue l’istruzione aperta a tutti, da quelli che sono i “gradi più alti degli studi”. La scuola aperta a tutti è l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, obbligatoria e gratuita. È chiara ed inequivocabile la distinzione tra scuole ed università o comunque altri “istituti di alta cultura” e le accademie.

L’art. 33 della costituzione al quinto comma sancisce che “E’ prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale”. Tutti questi esami sono finalizzati ad accertare se lo studente abbia  acquisito ciò che gli è stato insegnato fino a quel punto. I cosiddetti test di ingresso universitari, invece, mirano ad accertare se lo studente sia idoneo e portato per il corso di studi successivo, cosa che è considerata ragionevole e naturale in moltissimi Paesi.

Il terzo comma dell’art. 34 della costituzione contiene un principio importantissimo: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Questa precisazione è fondamentale perché chiarisce che “i gradi più alti degli studi”, appunto, non sono aperti a tutti, ma aperti a tutti quei “capaci e meritevoli” che, anche se senza mezzi, avranno il diritto di dimostrare, e proprio con strumenti di accertamento come, per esempio, i test, la loro idoneità allo specifico corso di studi superiori. Il richiamo costituzionale a capacità e merito è dirimente rispetto a qualsiasi incomprensione sul tema. Quindi l’accesso per tutti all’università non è un diritto, ma tutti hanno diritto di dimostrare le proprie capacità e meriti tali da comprovare l’idoneità ai corsi superiori di studi, indipendentemente dalle condizioni economiche.

L’idea che facoltà universitarie pubbliche incondizionatamente accessibili a tutti siano un bene è, poi, nei fatti, smentita dalle stesse classifiche : le migliori università mondiali, europee ed anche italiane adottano tutte il numero chiuso.

A ben vedere il problema e la polemica sollevata dai test di ammissione, lambisce una questione ben più profonda e cioè perché gli studenti confondano, in realtà, il diritto allo studio con il diritto alla laurea universitaria. Nessuno di loro protesta mai, né scende in piazza, per la libertà di programmi nella scuola dell’obbligo, di insegnamenti, per un’offerta formativa più libera, più ricca e variegata, e non compressa nelle morse assai strette dell’istruzione di stato, ma reclamano tutti la possibilità di ottenere il famigerato pezzo di carta, fosse anche la pergamena di una laurea in filosofia tibetana all’università di Nonsodove, e solo ed esclusivamente per il conseguimento di un diploma di scuola superiore.

I soldati dell’esercito dei sostenitori del “più lauree per tutti” sono oggi le vittime predestinate di quanto aveva sempre stigmatizzato, del tutto inascoltato, Luigi Einaudi, anche in sede di assemblea costituente, nel dibatto sulla stesura dell’art. 33 della carta costituzionale:

Dichiaro che voterò contro questo emendamento perché ritengo che questo articolo consacri non la libertà della scuola, ma la sua schiavitù. (…) Se la lingua italiana vuol dire qualche cosa, questo vuol dire che lo Stato o qualche organo pubblico stabilirà quali siano i programmi, quali siano gli insegnamenti che devono essere impartiti, programmi ed insegnamenti a cui tutti gli ordini di scuole pubbliche e private si devono uniformare. L’articolo significa letteralmente, per quello che dice, che si consacra ancora una volta il valore legale di quello che è il pericolo, la peste maggiore delle nostre università, il valore giuridico dei diplomi, dei titoli di dottorato e di licenza, che si rilasciano coi vari ordini di scuole. Mi si consenta di fare appello alla mia quasi cinquantennale esperienza di insegnante: ciò che turba massimamente le università è il fatto che gli insegnamenti, invece di essere indirizzati alla pura e semplice esposizione della verità scientifica, sono indirizzati al conseguimento di diplomi di nessun valore, né morale né legale. Poiché questo articolo consacra ancora una volta il valore legale a tutti questi pezzi di carta, io voterò contro”.

14
Ago
2017

Estendere il Jobs ACT anche al pubblico impiego: una buona riforma per la prossima legislatura

Nella sua intervista dell’11 agosto al Mattino, il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia si è rivolto al governo e alle forze politiche, perché non “diano per fatte” le riforme, visto che la ripresa italiana c’è ma è pur sempre inferiore a quella europea ,e soprattutto ha gap molto più gravi da recuperare. E al taglio dei contributi per l’assunzione dei giovani Boccia ha aggiunto una proposta essenziale. Quella di compiere fino in fondo la riforma del Jobs Act, estendendone la piena vigenza al pubblico impiego.

E’ un tema su cui si discusse molto tra il 2014 e il 2015, da allora passato nel dimenticatoio. Ma è un tema sacrosanto. Perché pochi sembrano farci caso, ma il Jobs Act ha cambiato la disciplina dell’articolo 18 – ulteriormente riducendo la reintegra giudiziale, rispetto al primo intervento già avvenuto con il ministro Fornero – ma ovviamente si applica solo ai dipendenti privati assunti dopo la sua entrata in vigore e non ai già occupati che restano con la vecchia tutela; non estende ai lavoratori autonomi i suoi nuovi sostegno al reddito a chi perde l’occupazione (un passo avanti su questo è avvenuto in limine mortis del governo Renzi, grazie a Tommaso Nannicini); e non vale per tutti i dipendenti pubblici.

Siamo stati in pochi, anzi pochissimi, a chiedere pubblicamente sin dall’inizio che non avvenisse questo ulteriore frazionamento del mercato del lavoro, e questa asimmetria di tutele veramente dura da buttar giù. Oltre a sparuti liberisti come chi qui scrive, i professori Pietro Ichino e Luca Ricolfi, e pochissimi altri. Renzi per primo molto ha nicchiato.  Mentre la sua ministra Madia da un certo momento in poi ha iniziato a dire che era ovvio il Jobs Act non valesse per il settore pubblico, e alla fine l’ha avuta vinta lei, interprete della stragrande maggioranza del Pd e dei sindacati tutti.

Non era affatto ovvio, innanzitutto, che il vecchio articolo 18 restasse automaticamente per i dipendenti pubblici. Tanto non era ovvio che la Cassazione, con la sentenza 24157/2015 che fece saltare sulla sedia tutti i sindacati del pubblico impiego, convenne proprio che era vero il contrario. E cioè che le successive riforme dell’articolo 18, tanto quella effettuata sotto la Fornero che quella disposta con il Jobs Act, si estendevano eccome al pubblico impiego. In quel caso si trattava di un dirigente di un consorzio pubblico siciliano licenziato dopo la riforma Fornero.

La Cassazione parlò con chiarezza: «l’inequivocabile tenore dell’articolo 51 del Dlgs 165/2001, cioè del testo unico del pubblico impiego, indica che lo Statuto dei lavoratori, con le sue successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti». Su questo presupposto, per la Cassazione del 2015, «è innegabile che il nuovo testo dell’articolo 18 riguardi anche gli statali, anche a prescindere dalle specifiche iniziative normative di armonizzazione» previste dalla riforma. Dove quell’accenno alle “specifiche iniziative normative di armonizzazione” era un rinvio implicito ai decreti attuativi della riforma Madia della PA, in maniera fosse inequivocabile l’allineamento al lavoro privato. Una preoccupazione, quella dell’armonizzazione, non casuale: perché  numerose sentenze della Corte Costituzionale, che qui non vogliamo annoiarvi elencando (comunque ne parlammo qui e qua), negli anni hanno a maggioranza rifiutato comunque il pieno allineamento del rapporto di lavoro pubblico a quello privato. Tranne “esplicite armonizzazioni normative”, appunto.

Senonché siamo in Italia, e l’anno successivo la Cassazione mutò radicalmente idea, allineandosi all’indirizzo politico maturato nel governo Renzi, che escludeva appunto il Jobs Act valesse per il lavoro pubblico. E venne la sentenza 11868/2016, con la quale la Cassazione si appigliò proprio alla necessità di un esplicito e coerente intervento di armonizzazione, in assenza del quale restava preclaro che il rapporto di lavoro pubblico non era modificato né dalla riforma Fornero né tanto meno dal Jobs Act. La Cassazione 2016 richiamò esplicitamente la sentenza precedente, aprì all’opportunità di una successiva pronunzia delle Sezioni Riunite, ma proprio non se la sentì di convenire che il Jobs Act potesse applicarsi al lavoro pubblico.

Risultato: il governo Renzi non emanò alcuna armonizzazione, prevalse la paura elettorale degli statali, e la Cassazione si allineò. L’effetto è che, malgrado i rapporti di lavoro nel settore pubblico dopo il decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, abbiano conosciuto un’assimilazione giuridica a quelli privati,  di fatto sono solo chiacchiere perché il pubblico resta “diverso”. E, dispiace dirlo, l’aria che ha preso a tirare dopo la botta del 4 dicembre al referendum ha visto il Pd ingranare più volte la retromarcia, per esempio sulla scuola tornando con il ministro Fedeli al principio per cui i messi in ruolo non vanno dove le cattedre sono scoperte almeno all’inizio come prevedeva la “buona scuola”, bensì tornano a esprimere preferenze geografiche che prevalgono sin dall’inizio. Col risultato che in mezza Italia le cattedre restano scoperte, e nell’altra mezza molti vincitori di concorso non hanno cattedra.

A ben vedere, la proposta di Boccia è giusta poi non solo per la difformità della disciplina dell’articolo 18 tra dipendenti privati e pubblici. Come ha giustamente rilevato pochi giorni fa Sabino Cassese, la Pubblica Amministrazione continua nell’obbrobriosa prassi di valersi di centinaia di migliaia di lavoratori precari (che naturalmente non rientrano nella contabilità pubblica del totale del lavoro pubblico, di qui la pretesa della sua “enorme” discesa da 3,6 a 3,2 milioni grazie al blocco del turnover negli anni alle nostre spalle, aggirato spesso proprio grazie a nuovi pecari). I nuovi precari di questi anni della PA avrebbero avuto di che nettamente guadagnare, se a loro fosse stato esteso il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act per i neo assunti del privato.

Come si vede, superare la divisione antistorica tra contratti e diritti pubblici e privati non è affatto una maniera per abbassare a tutti le tutele. Al contrario: serve sia a evitare che il datore di lavoro pubblico sia avvantaggiato rispetto all’impresa privata, sia a garantire ai dipendenti pubblici le nuove tutele che sono di gran lunga meglio dell’illicenziabilità teorica. Chiederlo ai dipendenti delle ex Province, ancora esistenti ma dimagrite e senza soldi, per chi avesse dubbi. Ecco perché sarebbe un’ottima idea per la prossima legislatura, abbattere il muro tra lavoro pubblico e privato. Naturalmente: cercasi partito deciso a intestarsela. Ma questo è un altro paio di maniche