13
Ott
2017

Addio fallimenti, ma non è un successo

Addio fallimenti. È legge la riforma del diritto fallimentare che, appunto, tra le altre cose sostituisce il termine “fallimento” con la più politicamente corretta “liquidazione giudiziale”. Una riforma che è davvero una mezza rivoluzione, e non soltanto lessicale, se non altro perché è la prima volta in settant’anni che si ragiona a 360 gradi sull’insolvenza, intesa non più solo come fenomeno patologico, ma anche come evento fisiologico allo svolgimento di un’attività economica. Proposito, insomma, sacrosanto.

Limitare i vincoli che oggi impediscono a chi ha avuto un insuccesso imprenditoriale di avviare una nuova attività è sicuramente cosa buona e giusta, per l’economia in generale. Funziona così in tutti i Paesi occidentali e c’è un motivo: allo sconforto e allo stigma sociale si accompagna infatti spesso un netto ridimensionamento della propensione all’imprenditorialità, generato proprio dalla paura del fallimento. Non sarà certo cambiare nome all’istituto o prevedere la liberazione dai debiti entro tre anni a far riemergere nella testa degli italiani la voglia di rischiare e di fare impresa, ma è pur sempre un passo in avanti.

Del resto, è stata la stessa Commissione europea a raccomandare caldamente agli Stati membri riforme che dessero “una seconda possibilità” agli imprenditori onesti che falliscono, ormai quattro anni fa. L’altra faccia della medaglia, però, è dietro l’angolo. Perché, se da una parte è un incentivo a rischiare, la cancellazione dei debiti è però anche un incentivo a indebitarsi. E questo, di riflesso, potrebbe generare un effetto uguale e contrario nei creditori, determinando un forte aumento del costo dell’accesso al credito non garantito.

Una delle ragioni per cui tale evenienza è scongiurata nei Paesi europei che prevedono la cancellazione dei debiti dopo un determinato periodo di tempo è che il processo di tutela del credito, in quei Paesi, è molto più rapido ed efficiente che da noi. Per questo, la riforma avrebbe potuto e dovuto incidere in profondità sulla tutela del credito, oltre che del debito. Lo ha fatto? Solo in parte.

Ad esempio, non c’è oggi nessuna garanzia sul fatto che i soggetti chiamati a gestire la composizione assistita della crisi saranno dotati delle necessarie competenze specifiche nella materia aziendale ed in quella giuridica. Si sarebbe potuto ricorrere agli ordini professionali di commercialisti e avvocati, e non alle sole camere di commercio. Ma non solo. Estremamente critica è la parte della norma in cui si prevede che la procedura di composizione della crisi possa avere uno sbocco giudiziale: è chiaro che nel momento in cui si prevede l’intervento del tribunale e la possibilità di rendere nota la crisi ai terzi, si espone l’impresa a conseguenze drammatiche sotto il profilo del buon esito di una procedura alternativa al fallimento e si inducono i terzi che sino a quel momento non erano stati ancora toccati dalla crisi dell’imprenditore ad assumere iniziative individuali che non farebbero altro che far precipitare la situazione, rendendo a quel punto inutile ogni tentativo di supporto.

Lo sforzo di produrre una riforma generale del sistema fallimentare italiano rischia di essere inutile se si perde di vista l’obiettivo fondamentale della tutela del credito, che deve essere inteso non solo come il diritto al pagamento vantato da un singolo creditore, ma piuttosto come una componente fondamentale del ciclo economico. Una non adeguata tutela del credito, che non tiene conto degli effetti devastanti che l’insolvenza di un imprenditore produce sulle imprese terze, non fa che allargare l’enorme divario che già esiste tra chi opera all’interno del circuito produttivo e la disciplina giuridica che quel circuito vorrebbe regolamentare.

Ecco allora che gli interventi semantici previsti (cancelliamo la parola “fallimento” e la sostituiamo con “procedura di liquidazione giudiziale”) riformano il sistema solo in apparenza, se nessun cambiamento veramente incisivo viene apportato in concreto al sistema di liquidazione dell’attivo, che deve essere strutturato in modo da garantire almeno un recupero parziale del credito in tempi brevi. Sotto questo profilo la riforma è carente, perché introduce un sistema che non semplifica in nessun modo le procedure di liquidazione, ma al contrario introduce costruzioni barocche (tra le tante, un ente dovrebbe certificare la ragionevole probabilità di soddisfazione dei crediti insinuati al passivo) che non fanno altro che rendere ancora più burocratica una fase che dovrebbe invece essere snella e flessibile, così da poter ridurre davvero la durata delle procedure fallimentari che in Italia, stando agli ultimi dati disponibili tratti dal Registro delle Imprese, è di circa 7 anni.

Twitter: @glmannheimer

12
Ott
2017

La Catalogna non è Andorra—di Mario Dal Co

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Mario Dal Co

Il Protocollo n.4 sullo Statuto del sistema europeo delle Banche Centrali e della Banca Centrale Europea (Statuto della Banca Centrale Europea) prevede, all’articolo 4, dedicato alle funzioni consultive, che la BCE venga consultata  “dalla autorità nazionali, sui progetti di disposizioni legislative che rientrano nelle sue competenze” e, al comma successivo, che la “BCE può formulare pareri da sottoporre alle istituzioni, agli organi o agli organismi dell’Unione o alle autorità nazionali su questioni che rientrano nelle sue competenze”.

Molti si sono esercitati intorno al silenzio (ovviamente “assordante”) dell’Europa sulla questione catalana (Lello Voce sul Fatto Quotidiano, Maurizio Molinari su Rai News24, Stefano Stefanini su La Stampa, per ricordare gli interventi più equilibrati), spostando l’attenzione lontano dal terreno del contendere e dagli attori che hanno contribuito ad elevare la tensione nel contendere.

Proviamo ad approfondire il ragionamento sul silenzio dell’Europa, con riferimento alle questioni monetarie e finanziarie, tra le più dure della questione catalana, tra le meno frequentate nel dibattito politico precedente al referendum.

Facciamo due ipotesi.

Prima ipotesi: le autorità catalane, sentendosi investite di responsabilità nazionali, potrebbero aver consultato la BCE su aspetti di sua competenza connessi alla indipendenza catalana.  Se lo avessero fatto, probabilmente la risposta della BCE sarebbe stata un rinvio del postulante all’autorità nazionale, ovvero al governo spagnolo, che è titolato a porre quesiti alla BCE nella sua veste di consulente delle autorità nazionali sulle questioni di sua competenza. Di questa richiesta respinta  non potremmo sapere nulla, se non ciò che le autorità catalane avessero deciso di dire.

Seconda ipotesi: la autorità nazionali spagnole (qualche mese fa) potevano consultare la BCE sugli aspetti di sua competenza concernenti l’eventualità di un conflitto politico-istituzionale con la Catalogna, destinato a modificare l’assetto dell’adesione  dell’economia e della finanza sella Spagna al sistema Europeo delle Banche Centrali. La BCE, in base alle previsioni dell’articolo 4, avrebbe dovuto rispondere, evidenziando che la fuoriuscita unilaterale della Catalogna dalla Spagna, non comportava affatto la adesione automatica della Catalogna all’Unione e alle sue istituzioni monetarie, evidenziando gli effetti che ciò avrebe comportato su economia, occupazione, risparmi dei catalani, e di qui degli spagnoli e di lì degli altri cittadini europei. Il governo spagnolo avrebbe avuto tutta la convenienza a comunicare urbi et orbi la risposta della BCE. Se ciò non è avvenuto vuol dire che il quesito alla BCE non è stato posto.

Quindi, sono i governi che non attivano l’Europa anche quando ne avrebbero titolo e quando sarebbe doveroso farlo, per tutelare i loro cittadini da improvvide alzate di ingegno dei politici-demagoghi; per informare i cittadini sui contenuti istituzionali delle scelte vengono loro proposte e sulle conseguenze. Scelte che invece vengono lasciate  agli sbandieratori della demagogia, condite degli insulti  e delle ginnastiche di massa che nelle curve degli stadi tengono in costante esercizio la volontà di prevaricazione delle tifoserie sportive. Dimenticano, i governi che ignorano l’Europa quando dell’Europa c’è bisogno, quanto i regimi totalitari del ‘900 abbiano sempre puntato sulla tifoseria nazionalistica per i loro disegni antlibertari e antidemoratici.

Quando si lamenta la pochezza politica dell’Europa e l’egoismo della sua visione della convivenza europea, si vende merce avariata: sono i governi nazionali e locali che non vogliono riconoscere il ruolo dell’Europa quando l’Europa lo può esercitare. E sono pronti a chiederle di intervenire, come l’allargamento del deficit, quando loro, i governi nazionali e locali, non sono capaci di gestire la loro spesa pubblica e il loro prelievo fiscale.

Se il governo spagnolo avesse per tempo consultato ufficialmente la BCE sulle conseguenze della secessione e sulle mutate condizioni di adesione al sistema della banche centrali, non avremmo sentito i separatisti spacciare in modo grottesco Andorra e S. Marino come esempio di mercati-euro, ma non aderenti al sistema, quasi che la Catalogna fosse uno Stato-cartolina. E la BCE avrebbe sicuramente fornito argomenti di moral suasion assai efficaci e facilmente comprensibili anche dalle orecchie dei più irresponsabili assertori dell’indipendenza.

I referendum delle regioni italiane che domandano maggiore autonomia nascono da diverse questioni, alcune non serie come il dialettalismo o l’antivaccinismo, altre molto serie,  come il federalimo fiscale.

Quest’ultimo, obiettivo totalmente mancato dai governi di destra e di sinistra negli ultimi  30 anni, è la risposta alle spinte autonomistiche, ed è anche la risposta all’allegro deficit spending dei governi locali, impuniti free rider che elargiscono i soldi non dei propri elettori, ma del governo centrale. Quindi: più autonomia, ma insieme più responsabilità: in una parola il modello è l’autonomia di Bolzano e non quella della Sicilia, per rimanere entro le nostre ampie latitudini estreme.

Senza questa responsabilità, che oggi manca completamente a causa dell’accentramento del sistema fiscale anche sulle tasse proprie delle Regioni e degli Enti locali, il processo non porterà da nessuna parte, o peggio, porterà ad allargare il buco nero del debito della Pubblica Amministrazione. Torneremo ad impaniarci sul modello Andorra, sulla doppia moneta, sull’imposta patrimoniale, sul salario di cittadinanza, sul pensionamento anticipato, sui lavori socialmente utili, sull’Europa sorda e sulla Germania matrigna e via dilapidando il bene pubblico per eccelenza: la ragionevolezza.

E così, se avremo smarrito il sentiero della responsabilità di chi elegge e di chi viene eletto, anzi avendolo dileggiato in piazza,  applaudiremo ancor più di oggi la demagogia in scena.

10
Ott
2017

La giustizia amministrativa in Italia—di Matteo Repetti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Repetti.

Giustizia amministrativa. E se avessero ragione gli inglesi (anche sulla Brexit)?

In questi ultimi anni, parlare della giustizia amministrativa, dei giudici amministrativi, dei TAR, è piuttosto difficile (ma cosa non è difficile, ormai, in questo paese?): la discussione è pesantemente condizionata dalla cronaca, il dibattito risulta piuttosto schizofrenico (i TAR annullano i provvedimenti dell’amministrazione, ritardano le procedure di gara, bloccano i cantieri, bisogna ripartire da capo, ecc.; no, non è vero, sono un presidio fondamentale contro l’inefficienza e la corruzione, c’è bisogno di legalità, ecc.).

Per descrivere per quanto sommariamente il funzionamento della giustizia amministrativa in Italia può essere utile prendere come riferimento – a contrario – l’ordinamento britannico, che storicamente neppure riconosce l’esistenza del diritto amministrativo come branca del diritto e che sostanzialmente non conosce l’istituzione di un giudice speciale amministrativo (anche se al tempo della Brexit può risultare un’operazione un po’ fuori moda).

Parlando di pubblici poteri e diritto amministrativo, forse si potrebbe dire che tutto ruota intorno alla discrezionalità amministrativa ed al buono (o cattivo) uso che la pubblica amministrazione ne fa. Che poi è semplicemente un altro modo di trattare della risalentissima questione relativa alla distinzione tra diritti soggettivi pieni ed interessi legittimi.

In ragione della preminenza dell’interesse pubblico – di cui in qualche modo la P.A. è portatrice – nei sistemi di diritto amministrativo continentale è riconosciuta una posizione di supremazia dell’amministrazione rispetto ai soggetti privati ed ai cittadini (in ragione dell’influsso esercitato dall’ordinamento francese e, ancor prima, per i motivi storico-culturali rappresentati dall’esperienza delle monarchie assolute continentali e dalla dottrina dello stato etico).

Se è vero che la pubblica amministrazione è costituzionalmente vincolata al principio di legalità, ai precetti posti dalla legge, è altrettanto vero che è dotata di sue speciali prerogative, direttamente derivanti dalla dottrina della separazione dei poteri costituzionali, legislativo, esecutivo e giudiziario.

Non così succede, invece, nell’ordinamento britannico, dove è fondamentale la cd. rule of law, intesa, nelle sue varie implicazioni, come assoluta prevalenza della legge, del diritto comune, del parlamento, della volontà del corpo elettorale espressa mediante libere elezioni, rispetto ad ogni altro potere costituito (corpo amministrativo e giudiziario). Ciò è tanto vero che da quelle parti, pur essendo avvertita la necessità di contenere e contemperare i pubblici poteri (i famosi checks and balances), la dottrina della necessità costituzionale della separazione dei poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – ritenuta immanente negli ordinamenti continentali, è sostanzialmente sconosciuta.

Per intenderci, in Inghilterra i giudici sono tradizionalmente nominati tra i migliori avvocati del regno, e non esiste qualcosa di comparabile alla classe giudiziaria come la conosciamo ad esempio in Italia (con organi di autogoverno, rappresentanze sindacali, ecc.).

Solo recentemente, per effetto delle pressioni esercitate dall’ordinamento comunitario (a cui sembrava inconcepibile la figura del Lord Cancelliere sostanzialmente a capo del potere giudiziario), nel Regno Unito è stata istituita la Corte Suprema. E non è un caso che il sistema britannico non conosca un sindacato di legittimità costituzionale operato da un organo giudiziario, che rappresenta invece la normalità nell’Europa continentale.

In ogni caso, si è detto, nell’ordinamento inglese, in virtù della forza pervasiva ed assorbente della rule of law, intesa come assoluta prevalenza della legge e del parlamento rispetto al potere amministrativo e giudiziario, da una parte viene contestata la stessa esistenza del diritto amministrativo, dall’altra si è storicamente ritenuto che l’istituzione di un giudice speciale amministrativo costituisse una deroga al generalissimo principio di uguaglianza davanti alla legge (e fosse in definitiva espressione di privilegi, come teorizzato da Dicey più di un secolo fa).

Nei paesi di cd. diritto amministrativo, invece, come il nostro, c’è un giudice speciale a cui sono sostanzialmente devolute le questioni e le vertenze in cui è parte una pubblica amministrazione. Anche in Italia, sulla falsariga del modello francese, è stato istituito il Consiglio di Stato e, nel corso degli anni ’70 del secolo scorso, i TAR (Tribunali Amministrativi Regionali).

Ma, fatta tutta questa premessa, come funziona la giustizia amministrativa in Italia?

Beh, diciamo innanzitutto che, da un punto di vista organizzativo, la giustizia amministrativa ha, mediamente, tempi di definizione del contenzioso accettabili, se parametrati a quelli della giustizia ordinaria, di quella civile si intende; in particolare, tradizionalmente è piuttosto rapida la definizione delle istanze cautelari (da qualche tempo anche nelle forme dei provvedimenti resi inaudita altera parte in caso di particolare urgenza).

Riguardo alle caratteristiche del procedimento, nonostante l’evoluzione degli ultimi anni – recepita anche a livello normativo nel nuovo codice del processo amministrativo – come tratto fondamentale il giudizio rimane sostanzialmente di natura impugnatoria (di annullamento dei provvedimenti amministrativi): in buona sostanza, fondamentalmente il giudice amministrativo annulla gli atti amministrativi ritenuti illegittimi. Ciò, nonostante gli sforzi compiuti riguardo alla necessità di passare dal sindacato sull’atto a quello sul rapporto, ovvero sul procedimento amministrativo da cui poi è scaturito l’atto asseritamente viziato.

A questo proposito, basti pensare che, riguardo all’istruttoria ammessa, non è previsto che siano sentiti testimoni od assunte altre prove orali, tutto essendo basato su carte e documenti; ed al posto della consulenza tecnica d’ufficio, per accertare situazioni di fatto rilevanti ai fini di causa tradizionalmente ci si arrangia con altri strumenti d’indagine (cd. ispezioni e verificazioni), spesso demandati a soggetti che fanno anch’essi parte dell’amministrazione, che tuttavia non garantiscono a sufficienza l’assoluta imparzialità dell’accertamento da compiere e spesso neppure un adeguato approfondimento tecnico.

Ma, d’altra parte, l’intera dogmatica continentale ha sempre avuto come oggetto d’indagine privilegiato i vizi dell’atto amministrativo, in un gesuitico e sfinente sforzo di rielaborazione, che cosa si può pretendere adesso? (Gli inglesi no, per loro il provvedimento amministrativo non esiste quasi come nozione, quello che conta è che il procedimento sia fair, sia equo).

E’ da segnalare, poi, il progressivo aumento delle materie (urbanistica ed edilizia, appalti, servizi pubblici, concessioni, espropri, silenzio dell’amministrazione, ecc.) di cd. giurisdizione esclusiva, ovvero delle situazioni in cui le vertenze sono devolute interamente al giudice amministrativo, non distinguendosi più tra diritti ed interessi legittimi. In particolare, il deficit di tutela per il cittadino si verifica nei casi in cui viene avanzata una domanda di risarcimento danni (che, tradizionalmente, non è mai stato il mestiere del giudice amministrativo).

Qualche considerazione va poi fatta relativamente ai meccanismi di reclutamento dei giudici amministrativi. Nei ruoli della magistratura amministrativa si arriva solo in esito a concorsi di secondo livello, e tendenzialmente si attinge tra la dirigenza degli impiegati pubblici. Se in genere ciò garantisce rispetto al grado di preparazione tecnica dei giudici amministrativi, è innegabile come, non fosse altro che per affinità di carriera ed idem sentire, il sistema si esponga a qualche censura, essendo auspicabile una maggiore terzietà.

Tuttavia, almeno a parere di chi scrive, il principale difetto del sistema della giustizia amministrativa in Italia non è tanto l’omogeneità dei giudici rispetto alla P.A., né la sopra citata natura del giudizio, modellato più sulla falsariga del ricorso amministrativo che su quella di un vero e proprio processo. L’aspetto che maggiormente desta perplessità è la stessa idea della teorizzata necessità che le vertenze in cui è parte una P.A. debbano essere devolute a giudici speciali anziché al cd. giudice naturale. Ma così operando, si assiste alla automatica creazione di un ulteriore contropotere, inevitabilmente al centro di interessi ed intermediazioni (di cui, in un paese dalle mille corporazioni e degli infiniti poteri di veto come il nostro, non si sente davvero la mancanza). Insomma, non esattamente in linea con i principi della rule of law anglosassone di cui si è detto sopra.

Si aggiunga che, da un punto di vista più tecnico-giuridico, la stessa coesistenza di una duplice giurisdizione – ordinaria ed amministrativa – fatalmente determina, pressoché in qualunque vertenza in cui è parte una P.A., la preliminare e sfiancante definizione delle immancabili eccezioni di carenza di giurisdizione del giudice effettivamente adito, a scapito del merito delle questioni: solo in base a questa banale considerazione, sarebbe probabilmente ragionevole riunificare la giurisdizione.

Per concludere, con una provocazione (ma neanche troppo): forse aveva ragione Giannini quando, presentando la versione italiana del manuale di diritto amministrativo inglese di Wade alla fine degli anni ’60, manifestava ammirazione per il bistrattato – dalla tradizione amministrativistica continentale – sistema britannico. D’altronde, ci sarà un motivo se nel mondo si parla inglese (e se avessero ragione gli inglesi anche sulla Brexit?).

6
Ott
2017

L’agenda dell’Istituto Bruno Leoni: il 9 Ottobre si parla di Patrimonio culturale

 

Il patrimonio culturale. Modelli di gestione e finanza pubblica
di Antonio Leo Tarasco
(Editoriale scientifica, 2017)

Insieme all’Autore intervengono:
James Bradburne (Direttore della Pinacoteca di Brera)
Fabrizio Fracchia (Professore ordinario di Diritto amministrativo all’Università Bocconi)
Angelo Miglietta (Professore ordinario di Economia delle aziende all’Università IULM)

Introduce e coordina
Filippo Cavazzoni (Direttore editoriale dell’Istituto Bruno Leoni)

29
Set
2017

Ludwig von Mises e il vero significato di Liberalismo

In occasione della nascita di Ludwig von Mises (29 settembre 1881) pubblichiamo questo articolo di Richard M. Ebeling, originariamente apparso sul sito della Future of Freedom Foundation.

 

Ludwig von Mises e il vero significato di Liberalismo

Il liberalismo è diventato una delle parole più abusate e fraintese nel lessico politico americano. Rappresenta politicamente, secondo alcuni, il “pensiero progressista”, basato sull’obiettivo della “giustizia sociale” attraverso una maggiore “giustizia distributiva” per tutti. Altri ritengono che rappresenti il relativismo morale, il paternalismo politico, l’arbitrio del potere politico e, più semplicemente, un altro modo per dire “socialismo”. In tutto questo è andato perduto ciò che storicamente e tradizionalmente la parola “liberalismo” significava, e continua a significare per qualcuno, cioè libertà individuale, proprietà privata, libertà imprenditoriale e legalità imparziale sotto un governo costituzionalmente limitato.

Una delle voci più grandi negli ultimi cento anni – per questo significato originale di liberalismo come libertà personale e liberi mercati – è l’economista austriaco Ludwig von Mises (1881-1973). Quest’anno ricorre il novantesimo anniversario della pubblicazione del suo conciso, chiaro e convincente studio per questa comprensione della società veramente liberale, ossia, Liberalism: The Classical Tradition.

Quando scritto da Mises Nel 1927, quando Mises scrisse il libro, il primo dopoguerra assistette al trionfo del comunismo in Russia, all’ascesa del fascismo in Italia e alla nascita di un movimento nazionalista e razzista in Germania che sarebbe salito al potere nel 1933 con Adolph Hitler e del suo Partito Nazionalsocialista (o Nazista).

Liberalismo classico vs Socialismo e Nazionalismo

Il comunismo, il fascismo e il nazismo rappresentavano il culmine delle tendenze politiche ed economiche al collettivismo che avevano preso piede nei decenni anteriori alla Prima Guerra Mondiale e che furono sguinzagliate nel mondo nel caos politico e nei cataclismi sociali che hanno inghiottito gran parte d’Europa durante e dopo quella che divenne nota come la “Grande Guerra”.

I decenni intorno alla metà del diciannovesimo secolo furono, in generale, un momento di ascesa e trionfo del liberalismo cosiddetto “classico”, con il passaggio dalle monarchie assolute a regimi costituzionalmente vincolati o con forme di governo repubblicano; con la fine della schiavitù e un crescente movimento per un’uguaglianza dei diritti e il trattamento di tutti di fronte a uno stato di diritto imparziale; con la liberazione dell’attività economica dalla pesante ingerenza di regolamenti estesi e intrusivi, controlli o divieti sulla produzione, commercializzazione e vendita di quasi tutti i beni e servizi, accordando un margine di manovra più ampio alla libertà di impresa e di commercio; e infine a ripetuti tentativi di prevenire o limitare l’inizio delle guerre e a ridurre i danni e la distruzione che esse portavano.

Ma nei decenni a cavallo tra il diciannovesimo secolo e il ventesimo secolo vennero alla ribalta nuove idee politiche ed economiche, sotto forma di socialismo e nazionalismo. I socialisti rifiutavano le libertà “borghesi” del liberalismo classico – libertà di parola, stampa, associazione volontaria, partecipazione privata e partecipazione dei cittadini ai processi democratici elettorali – definendole “false” libertà.

La libertà “reale” richiedeva che i “lavoratori” in quanto “classe sociale” rovesciassero gli sfruttatori “capitalisti”, proprietari dei mezzi di produzione, sostituendoli con la pianificazione centralizzata del governo e con una redistribuzione equa del reddito.

Anche i nazionalisti rifiutavano gli assunti filosofici ed economici del liberalismo. Essi sostenevano che l’importanza centrale attribuita dal liberalismo all’unicità e alla libertà dell’individuo fosse mal riposta. Gli individui esistevano solo come parte di un ente collettivo e la loro identità aveva significato solo nei termini del gruppo etnico o linguistico nazionale, o del gruppo razziale a cui appartenevano.

I socialisti ribadivano che la storia del mondo consisteva in un inevitabile conflitto tra le classi sociali che poteva finire solo con la vittoria dei “lavoratori” sulla proprietà privata posseduta dai capitalisti. I nazionalisti dicevano che “le nazioni” erano gli unici enti reali e che gli individui che costituivano semplicemente elementi transitori. Gli eterni conflitti della vita erano tra stati-nazionali che combattevano per la supremazia politica ed economica nel mondo, per cui l’individuo doveva sacrificare.

Liberalismo come sistema di commercio pacifico e di cooperazione umana

Questo è il contesto storico in cui Mises scrisse la sua difesa del liberalismo classico e la sua enfasi sull’individualismo, sui mercati liberi e sul miglioramento sociale. Al posto delle premesse dei collettivisti circa i conflitti inevitabili tra gli uomini in termini di “classe sociale”, nazionalità e razza, o di interessi di un gruppo ristretto, Mises insisteva che la ragione e l’esperienza dimostravano che tutti gli uomini potessero associarsi pacificamente per il loro reciproco miglioramento materiale e culturale.

L’elemento chiave per raggiungere questa conclusione è stata la comprensione e l’apprezzamento dei vantaggi della divisione del lavoro. Attraverso la specializzazione e il commercio, la razza umana ha la capacità di sollevarsi dalla povertà e dalla guerra. Gli uomini si associano in un comune processo di cooperazione sociale, invece di vedersi come antagonisti dominati dal desiderio di sopraffare e saccheggiare il prossimo. Infatti, tutto ciò che intendiamo per civiltà moderna, i comfort materiali e culturali e le opportunità che essa offre all’uomo, è dovuto ai benefici e ai vantaggi altamente produttivi resi possibili da una divisione del lavoro. Gli uomini hanno imparato a collaborare pacificamente nell’arena dello scambio di un mercato competitivo.

Naturalmente, per guidare gli individui nella pacifica cooperazione competitiva la “ricompensa” dei profitti di mercato guadagnati e la “punizione” delle perdite finanziarie può essere sostituita dalla forza politica collettivista. Tuttavia, come spiega Mises, i costi di questa sostituzione sono estremamente elevati. Per prima cosa, gli uomini sono meno motivati ad applicarsi con intelligenza e zelo quando sono costretti a lavorare sotto la frusta della servitù e della costrizione, e quindi la società perde ciò che i loro liberi sforzi e la loro libera inventiva avrebbero potuto produrre.

Secondo, gli uomini sono costretti a conformarsi ai valori e agli obiettivi di chi sta al comando, e perciò perdono la libertà di perseguire i propri scopi, senza alcuna certezza che  i governanti sappiano meglio di loro ciò che può dare loro felicità e senso nella vita.

E, terzo, la pianificazione centrale socialista e l’intervento politico sul mercato, rispettivamente, aboliscono o distorcono il funzionamento della cooperazione sociale. Un sostenibile ed esteso sistema di specializzazione per il miglioramento reciproco è possibile solo in un unico insieme di istituzioni economiche e sociali.

Il calcolo economico sotto il capitalismo liberale

Senza la proprietà privata dei mezzi di produzione, la coordinazione di molteplici attività individuali nella divisione del lavoro sarebbe impossibile. Infatti, l’analisi di Mises sull’impossibilità di un ordine socialista in grado di coincidere con l’efficienza e la produttività di un’economia di libero mercato costituiva la base della sua statura e reputazione internazionale come uno degli economisti più originali del suo tempo, ed era il cuore del suo precedente Socialismo (1922).

In Liberalism, Mises ha ancora una volta chiaramente e persuasivamente spiegato che la proprietà privata e lo scambio di mercato in regime di concorrenza consentono la formazione dei prezzi sia per i beni di consumo che per i fattori di produzione, espressi nel comune denominatore di un mezzo di scambio – il denaro. Sulla base di questi prezzi monetari, gli imprenditori possono impegnarsi in calcoli economici per determinare i costi relativi e la redditività delle linee alternative di produzione.

Senza questi prezzi generati dal mercato, non esisterebbe un modo razionale per assegnare risorse tra i loro diversi possibili usi al fine di garantire che quelle merci maggiormente apprezzate dal pubblico acquirente siano state prodotte nel modo meno costoso e quindi più economico. Il calcolo economico, ha dimostrato Mises, garantisce che i limitati mezzi disponibili servano al meglio i membri della società.

Tale razionalità nell’utilizzo di mezzi per soddisfare i fini è impossibile in un sistema completo di pianificazione centrale socialista. In quale modo, chiese Mises, i pianificatori socialisti possono sapere quale sia l’uso migliore al quale destinare i fattori di produzione sotto il loro controllo centrale ,senza l’esistenza di prezzi generati dal mercato? Senza la proprietà privata dei mezzi di produzione non ci sarebbe nulla (legalmente) da acquistare e vendere. Senza la possibilità di acquistare e vendere, non ci saranno aste e offerte, e quindi non potrebbe esservi alcuna contrattazione sui termini di scambio tra acquirenti e venditori concorrenti.

Senza la contrattazione della concorrenza di mercato, naturalmente, non esisterebbero termini di scambio concordati. Senza termini di scambio concordati, non ci sono prezzi di mercato. E senza prezzi di mercato, come faranno i pianificatori centrali a conoscere l’adeguatezza dei costi e quindi gli usi più richiesti per cui queste risorse potrebbero o dovrebbero essere applicate? Con l’abolizione della proprietà privata, e quindi dello scambio di mercato e dei prezzi, i pianificatori centrali mancherebbero degli strumenti istituzionali e informativi necessari per determinare cosa produrre e in che modo, al fine di ridurre al minimo sprechi e inefficienza.

L’interventismo governativo non sostituisce il capitalismo competitivo

Allo stesso tempo, Mises ha dimostrato le incoerenze connaturate a qualsiasi sistema di intervento politico nell’economia di mercato. I controlli sui prezzi e le restrizioni alla produzione sul processo decisionale imprenditoriale provocano distorsioni e squilibri nei rapporti di offerta e domanda, tanto quanto i vincoli per l’utilizzo più efficiente delle risorse al servizio dei consumatori.

‘Al decisore politico rimane la sola scelta di introdurre nuovi controlli e regolamenti nel tentativo di compensare le distorsioni e gli squilibri che gli interventi precedenti hanno causato, oppure abrogare i controlli interventistici e le regolamentazioni già in atto e consentire nuovamente al mercato di essere libero e competitivo. Il percorso di una serie di interventi parziali che si susseguono gli uni agli altri comporterebbe una logica della crescita dell’intrusione del governo nel mercato che alla fine porterebbe l’intera economia sotto la direzione dello Stato. Quindi l’interventismo applicato in modo coerente potrebbe portare al socialismo un passo alla volta.

Sia il socialismo sia l’interventismo sono sostituti del capitalismo rispettivamente irrealizzabili o instabili. Il liberale classico difende la proprietà privata e l’economia di libero mercato, insiste Mises, proprio perché è l’unico sistema di cooperazione sociale che offre una grande libertà d’azione per la libertà e la scelta personale a tutti i membri della società, generando i mezzi istituzionali per coordinare le azioni di miliardi di persone nel modo più economicamente razionale.

Liberalismo classico, libertà e democrazia

La difesa di Mises del liberalismo classico contro queste varie forme di collettivismo, comunque, non era limitata “solo” ai benefici economici della proprietà privata. La proprietà fornisce inoltre all’uomo il bene più prezioso e caro – la libertà personale. La proprietà dà all’individuo un campo di autonomia in cui può coltivare e vivere la propria concezione di una vita buona e  piena di significato.

Lo protegge anche dalla dipendenza dello Stato per la sua esistenza; attraverso i propri sforzi e lo scambio volontario con altri uomini liberi, non è vincolato ad alcuna autorità politica assoluta che detti le condizioni della sua vita. Se vogliamo garantire libertà e proprietàè necessaria luna società pacifica. La violenza e le frodi devono essere bandite affinché ciascuna possa trarre pieno vantaggio da ciò che, sulla base dei propri interessi e talenti, ritiene i percorsi più proficui per raggiungere i suoi obiettivi nell’associazione consensuale con gli altri.

Mises, inoltre, spiega come l’ideale classico-liberale dia grande importanza all’uguaglianza davanti alla legge. Solo quando il privilegio politico e il favoritismo vengono eliminati, ciascuno può avere la libertà di utilizzare le proprie conoscenze e i propri talenti in modi che gli danno beneficio e anche, attraverso le transazioni volontarie del mercato, al miglioramento della società nel suo complesso.

Ciò significa, allo stesso tempo, che una società liberale è quella che accetta che la diseguaglianza del reddito e della ricchezza sia inseparabile dalla libertà individuale. Giacché le capacità, naturali e acquisite,  e le inclinazioni di ciascuno di noi sono diverse, i premi ottenuti dalle persone sul mercato saranno inevitabilmente diversificati. Né può essere altrimenti se non vogliamo diminuire o addirittura soffocare gli incentivi che spingono gli uomini ad applicarsi in maniera creativa e produttiva.

Il ruolo del governo, quindi, nella società classica-liberale è quello di rispettare e proteggere il diritto di ogni individuo alla vita, alla libertà e alla proprietà. Il significato della democrazia, a giudizio di Mises, non è che le maggioranze siano sempre giuste o che non debbano esservi limiti a quel che possono fare alle minoranze attraverso l’uso del potere politico. Il governo eletto e rappresentativo è un mezzo per cambiare chi detiene le cariche politiche senza ricorrere alla rivoluzione o alla guerra civile. È un dispositivo istituzionale per mantenere la pace sociale.

Era chiaro a Mises dall’esperienza del comunismo e del fascismo, così come dalle tante tirannie dell’epoca passata, che senza democrazia la questione di chi debba governare, per quanto tempo e per quale scopo si ridurrebbe alla forza bruta e al potere dittatoriale. La ragione e la persuasione dovrebbero essere i metodi che gli uomini utilizzano nei loro rapporti reciproci – sia nel mercato che il campo sociale e politico – e non il proiettile e la baionetta.

Nel suo libro sul liberalismo classico, Mises si rammaricava del fatto che le persone sono troppo disposte a ricorrere al potere statale per imporre le proprie opinioni sul comportamento e sulla moralità personali ogni volta che i loro simili si allontanano dalla propria concezione del “bene”, del “virtuoso” e del “giusto”. Disperava,

La propensione dei nostri contemporanei a chiedere il divieto autoritario non appena qualcosa non li soddisfa… mostra come profondamente radicato lo spirito della servilità rimane ancora in loro… Un uomo libero deve essere in grado di sopportare quando i suoi compagni agiscono e vivono diversamente da quello che lui ritiene opportuno. Deve liberarsi dall’abitudine, appena qualcosa non lo soddisfa, di chiamare la polizia.

Cosa, quindi, dovrebbe guidare la politica sociale nel determinare i limiti dell’azione del governo? Mises era un utilitarista e sosteneva che le leggi e le istituzioni dovrebbero essere giudicate in base a quanto esse favoriscano l’obiettivo della cooperazione sociale pacifica. La società è il mezzo più importante attraverso il quale gli uomini sono in grado di perseguire gli scopi che danno significato alla loro vita.

Così la sua difesa della democrazia e dei limiti costituzionali sui poteri del governo si basava sul ragionato giudizio secondo il quale la storia ha dimostrato troppe volte che il ricorso a mezzi non-democratici ed “extra-costituzionali” aveva portato alla violenza, alla repressione, all’abrogazione dei diritti civili e delle libertà economiche e a una violazione del rispetto della legge e dell’ordinamento giuridico, che distrugge la stabilità a lungo termine della società.

I vantaggi e i benefici apparenti da parte di “uomini forti” e di “misure di emergenza” in tempi di crisi sembrano aver sempre generato costi e perdite di libertà e di prosperità nel lungo periodo che superano di più la presunta “stabilità a breve termine”, l’ordine, e la sicurezza promessa da tali metodi.

Liberalismo classico e pace internazionale

I vantaggi derivanti dalla cooperazione sociale attraverso la divisione del lavoro basata sul mercato, ha affermato Mises, non sono limitati ai confini di un paese. I guadagni derivanti dal commercio attraverso la specializzazione si estendono a tutti gli angoli del globo. Quindi l’ideale classico-liberale è in sé cosmopolita.

Il nazionalismo aggressivo, a giudizio di Mises, non solo minaccia di portare morte e distruzione attraverso la guerra e la conquista, ma nega anche a tutti gli uomini l’opportunità di beneficiare di rapporti produttivi imponendo barriere commerciali e varie altre restrizioni alla libera circolazione di beni, capitale e persone da un paese all’altro. La prosperità e il progresso sono artificialmente vincolati all’interno dei confini nazionali.

Questo può creare le condizioni per la guerra e la conquista se alcune nazioni sostengono che l’unico modo per ottenere i beni e le risorse disponibili in un altro paese sia l’invasione e la violenza. Eliminate tutte le barriere commerciali e le restrizioni alla libera circolazione delle merci, del capitale e degli uomini e vincolate i governi a garantire la vita, la libertà e la proprietà di ciascun individuo, e la maggior parte delle motivazioni e tensioni che possono portare alla guerra saranno state rimosse.

Mises ha anche ipotizzato che molte delle cause per le guerre civili e la violenza etnica sarebbero rimosse se il diritto di autodeterminazione venisse riconosciuto nel determinare i confini tra i paesi. In questo caso Mises  si affrettava ad aggiungere che per “autodeterminazione” non intendeva che tutti coloro che appartenessero a un particolare gruppo razziale, etnico, linguistico o religioso dovessero essere forzati a stare nello stesso Stato nazione. Dichiarò esplicitamente che egli concepiva il diritto di autodeterminazione individuale attraverso il plebiscito. Cioè, se gli individui di una città o di una regione o di un distretto votano per unirsi ad un’altra nazione o vogliono formare un proprio paese indipendente, dovrebbero avere la libertà di farlo.

Ovviamente potrebbero esistere minoranze all’interno di queste città, regioni o distretti, che avrebbero preferito rimanere parte del paese a cui originariamente appartenevano o avrebbero preferito unirsi a un paese diverso. Ma sebbene si tratti di un’autodeterminazione imperfetta, almeno potenzialmente potrebbe ridurre una buona quantità di tensioni etniche, religiose o linguistiche. L’unica soluzione duratura, ha detto Mises, consiste nel ridurre le attività dei poteri pubblici a quelle limitate funzioni classiche-liberali, per cui lo Stato non può essere usato per imporre danni o svantaggi su qualsiasi individuo o gruppo nella società a vantaggio degli altri.

Il liberalismo classico e il bene sociale

Infine, Mises ha anche preso in considerazione la domanda: a vantaggio di chi il liberale classico parla nella società? A differenza di praticamente tutti gli altri movimenti politici e ideologici, il liberalismo è una filosofia sociale del bene comune. Tanto nel momento in cui Mises scrisse Liberalism quanto al giorno d’oggi, i movimenti politici e i partiti spesso ricorrono alla retorica del bene comune e del benessere generale, ma in realtà i loro obiettivi sono quello di usare il potere del governo per trarre vantaggio da alcuni gruppi a scapito di altri.

Le regole governative, i programmi redistributivi di welfare, le restrizioni commerciali e le sovvenzioni, le politiche fiscali e la manipolazione monetaria vengono impiegati per concedere privilegi di profitto e occupazione a gruppi di interesse speciale che desiderano posizioni in società che non sono in grado di raggiungere sul mercato libero e competitivo. Naturalmente seguono la corruzione, l’ipocrisia e il mancato rispetto della legge, tanto quanto le restrizioni alla libertà degli altri.

Quello che il liberalismo offre come ideale e come obiettivo della politica pubblica, ha dichiarato Mises, è un’uguaglianza dei diritti individuali per tutti sotto lo stato di diritto, con privilegi e favori per nessuno. Parla e difende la libertà di ogni individuo e quindi è la voce della libertà per tutti. Vuole che ogni persona sia libera di applicarsi nel perseguimento dei suoi propri obiettivi e propositi, in modo che lui e gli altri possano trarre vantaggio dai suoi talenti e dalle sue abilità attraverso transazioni di mercato pacifiche. Il liberalismo classico vuole l’eliminazione dell’intervento del governo negli affari umani in modo che il potere politico non venga abusivamente applicato a scapito di chiunque nella società.

Mises non era ignaro del potere delle politiche di particolari gruppi d’interesse e della difficoltà di opporsi all’influenza concentrata di tali gruppi nelle sale del potere politico. Ma insistette che il potere ultimo nella società risiede nel potere delle idee. Sono le idee che spingono gli uomini all’azione, che li inducono a salire sulle barricate o che li incoraggiano ad opporsi alle politiche sbagliate e a resistere anche al più forte degli interessi costituiti. Sono le idee che hanno conseguito tutte le vittorie ottenute dalla libertà nel corso dei secoli.

Né l’inganno politico né il compromesso ideologico possono conquistare la libertà. Solo il potere delle idee, chiaramente dichiarato e presentato esplicitamente, può farlo. Questo è ciò che si evince dalle pagine del libro di Mises sul liberalismo e lo rende una delle voci più autorevoli e durature nella difesa della libertà.

Il valore permanente del Liberalism di Mises

Nel 1927, quando Mises pubblicò Liberalism, comunismo eil fascismo sembravano, agli occhi di molti, delle forze inarrestabili nel mondo. Da allora, il loro fuoco ideologico è stato estinto dalla realtà di ciò che hanno creato e dal fatto che decine di milioni di persone si sono rifiutate di vivere sotto il loro giogo. Tuttavia, molte delle loro critiche al libero mercato continuano a giustificare le intrusioni del welfare state interventista in ogni angolo della società. E molte delle tesi contemporanee contro la libertà individuale e la libera impresa oggi assomigliano alle critiche contro i mercati liberi e il libero scambio formulate dai nazionalisti e dai socialisti europei in quegli anni tra le due guerre mondiali.

Gli argomenti di Mises per la libertà individuale e l’economia di mercato esposti novanta anni fa in Liberalism, così come nei suoi numerosi altri scritti, tra cui Socialism (1922), Critique of Interventionism (1929), Human Action (1949), Planning for Freedom (1952), e dozzine di suoi altri articoli e saggi sul tema della libertà politica ed economica, continuano a suonare vere e rimangono pertinenti ai nostri tempi, nel ventunesimo secolo.  Questo è ciò che rende un classico il suo brillante libro sul liberalismo, importante adesso tanto quanto  è stato pubblicato nove decenni fa.