24
Ott
2017

Referendum autonomia Lombardia: un ottimo risultato

Dopo oltre due decenni di discussione politica, domenica 22 ottobre i cittadini lombardi e veneti hanno finalmente avuto l’opportunità di esprimere la propria opinione sull’autonomia delle loro regioni. Risultato finale: 5.1 milioni di cittadini si sono espressi a favore del quesito. Si può tranquillamente parlare di risultato importante, che conferma la necessità di cambiamento. Il rapporto di potere tra stato e regioni è da sempre il vero problema del nostro paese. Non è quindi un caso che l’attuale status quo venga percepito da moltissimi cittadini italiani (non solo “settentrionali”) come ingiusto ed iniquo. Di conseguenza, il convincente risultato di domenica evidenza un forte stato di malessere, lontano dall’essere risolto.

Effettuando una simpatica e semplice simulazione di voto, se alle prossime elezioni l’affluenza si attesterà al 75% (la stessa del 2013), 5.1 milioni di voti equivarrebbero ad un partito del 15%. Stando agli ultimi sondaggi EGM Acqua per il TG La7, un partito di queste proporzioni sarebbe il terzo partito più grande d’Italia. Giusto poi ricordare come il 55% degli elettori che hanno votato a favore dell’autonomia (quasi 2,9 milioni di cittadini) siano lombardi.

Se da un lato Luca Zaia ha però ottenuto una vittoria convincente sotto tutti i punti di vista (complimenti!), dall’altro lato Roberto Maroni è stato accusato di aver “fallito”, o comunque di aver ottenuto un risultato “appena sufficiente”.

Nonostante, in linea di principio, tutte le maggiori forze politiche (dalla Lega al PD; da Forza Italia al MoVimento 5 Stelle) fossero da tempo favorevoli al referendum per l’autonomia della Lombardia, la realtà era – ed è – molto più complessa. Giuseppe Sala, sindaco di Milano, pur augurandosi di vedere le urne affollate, non ha votato. La segreteria lombarda del PD ha mantenuto toni neutrali ma critici, spiegando come la consultazione fosse inutile e dispendiosa. In Via del Nazareno sono invece rimasti contrari al referendum. Forza Italia ha mantenuto un profilo moderato (tra meno di due settimane si terranno le elezioni regionali in Sicilia e stando agli ultimi sondaggi il candidato del centro-destra, Nello Musumeci, è in vantaggio). Il MoVimento 5 Stelle si è espresso a favore del referendum in modo soft. Non è una notizia ricordare che Di Maio & Co. non godono di ampia fiducia in Lombardia.

La maggior parte dei media si sono poi schierati contro il referendum. L’idea che il “ricco” Nord volesse – e voglia – rubare soldi al “povero” Sud è stata la più gettonata. Dopo il voto, invece, i media hanno subito evocato il “modello catalano”. In altre parole, fino ad oggi, la strategia adottata dalla maggior parte dei giornalisti, degli accademici e degli addetti ai lavori è stata quella di impaurire i cittadini. Un altro cavallo di battaglia post-referendario riguarda infine il dato dell’affluenza. Molti, infatti, cercano di spiegare come in Lombardia l’affluenza sia stata bassa. Il referendum è dunque da considerarsi un insuccesso.

Ma è veramente così? Assolutamente no. Analizzando i dati di tutte le consultazioni referendarie dal 1997 ad oggi, si può notare l’esatto opposto. L’affluenza lombarda è stata – tutto sommato – alta. Un risultato soddisfacente. Facendo la media delle 12 consultazioni referendarie tenutesi negli ultimi 20 anni (con un totale di 33 quesiti posti ai cittadini) il risultato di domenica è positivo.

Ma c’è di più. L’affluenza di domenica è stata superiore di oltre 1 punto percentuale alla media di tutti i 33 quesiti controllati. Inoltre, è interessante notare come solo 7 quesiti abbiano richiamato alle urne una percentuale di lombardi più elevata. Nel corso di questi ultimi 2 decenni l’affluenza più alta la si è riscontrata lo scorso 4 dicembre, quando il 74,23% dei lombardi ha espresso parere sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi. In Lombardia, la media dei 33 quesiti analizzati è pari a 37,02%. Sommando l’affluenza di tutti i quesiti precedenti al referendum di domenica (escludendo quest’ultimo), la media si attesta al 36,98%.

Oltre all’elevato numero di “Si” (2.875.438 persone), il 38,25% di domenica si conferma un ottimo risultato per la regione Lombardia, regione che – è importante ripeterlo – nel 2015 aveva raggiunto un residuo fiscale di 54 miliardi di euro.

Tabella 1: dati affluenza Lombardia di tutte le consultazioni referendarie (abrogative, costituzionali, consultive) nel periodo 1997-2017.

20
Ott
2017

Lamento di un liberale problematico smarrito a Barcellona

In queste settimane ispide, i liberali risolti si sono paracadutati su Barcellona con i trolley pieni di certezze: i più moderati, con spirito ottocentesco, per difendere l’estado de derecho; i più audaci, con furore futurista, per testimoniare l’atteso declino dello stato nazionale. Poi c’è il liberale problematico, paralizzato sulle ramblas con la cartina in mano, incapace di battezzare una direzione. Quando ha visto due milioni di catalani farsi strada tra i manganelli di Madrid per dire sì all’autonomia, il liberale problematico – o almeno questo liberale problematico – ha tentato, con una certa pervicacia, di appassionarsi alla causa; ma quando lo stesso liberale problematico ha visto un altro milione di catalani – 350 mila según la policía; anzi: segons la policia – scendere in piazza per l’unità nazionale, gli si sono incrociate le pupille. È riaffiorata, nel liberale problematico, la familiare sensazione che la seggiola della Realpolitik fosse eccessivamente angusta per il suo pensoso deretano e che, nel derby ideologico tra il governo e la Generalitat, l’opzione più ragionevole fosse quella terzista: né con Rajoy, né con Puigdemont.

Eppure il liberale problematico è perfettamente a proprio agio con la teoria delle piccole patrie: unità politiche di dimensioni più contenute riducono la distanza tra governanti e governati, rendendo più efficace il controllo di quest’ultimi sull’operato dei primi; favoriscono il voto coi piedi, cioè la defezione (difficile smentire che migrare da Barcellona a Valencia sia, tutto sommato, meno oneroso che abbandonare Mosca per Vienna); circoscrivono i costi dell’azione collettiva senza pagare dazio – pun intended – in termini di accesso ai mercati globali; favoriscono la sperimentazione istituzionale e, dunque, l’evoluzione di meccanismi sociali più funzionali e robusti; e chissà mai che, di secessione in secessione, non riescano pure a precipitare l’indipendenza dell’unica minoranza che il liberale problematico abbia veramente a cuore: l’individuo.

Se, poi, l’effetto sistemico di una simile ondata particolaristica fosse quello di disgregare l’idea di sovranità nazionale, a dolersene non sarebbe certo il liberale problematico – che, quando non vuole eliminare lo stato, vuole almeno rimpicciolirlo abbastanza da poterlo affogare in una vasca da bagno, per rievocare l’arrapante allegoria coniata da Grover Norquist. L’equivoco, però, risiede esattamente in questo, nell’equazione tra stato minimo e stato minuscolo: il liberale problematico non mira a fare a fette il potere, bensì a polverizzarlo. E proprio il caso di Barcellona solleva perplessità tutt’altro che banali da questo punto di vista: una Catalogna autonoma sarebbe giocoforza una Catalogna più libera? E, soprattutto, lo sarebbe tanto per i catalani indipendentisti quanto per quelli unionisti? Alcuni indici fanno temere il contrario.

In primo luogo, la campagna per la secessione della Generalitat è colorata da una marcata componente identitaria, sicché, più che al tentativo di scardinare l’identità spagnola, assistiamo alla sfida tra due opposti nazionalismi. Del resto, uno straordinario indagatore del pluralismo istituzionale come Gianfranco Miglio insegnava, trent’anni fa, che «le grandi Nazioni non esistono» e che il vero nazionalismo è il «micro-nazionalismo», cioè quello di «aggregati tenuti insieme non da grandi principî, da grandi ideali, ma da un minuto reticolo di molteplici affinità, da radicate abitudini quotidiane»; il che, beninteso, non era una controindicazione agli occhi dello studioso comasco, che anzi faceva perno su questa constatazione per smascherare la natura mimetica del «macro-nazionalismo»; e, tuttavia, ogni pretesa d’omogeneità etnica e culturale dovrebbe preoccupare il liberale problematico, necessariamente cosmopolita.

Quest’elemento, per inciso, distingue la vicenda catalana da quella – ad essa sovente e impropriamente accostata – delle regioni italiane del Nord, il cui anelito di autonomia (peraltro assai più blando) ha un contenuto essenzialmente utilitaristico, come confermano indirettamente i numeri: il residuo fiscale della Catalogna è di meno di 10 miliardi di euri l’anno: circa la metà di quello veneto e un quinto di quello lombardo. Ecco, dunque, un secondo motivo di scetticismo: indipendenza sì, ma per farci cosa? La maggioranza autonomista di Barcellona è un’accozzaglia che tiene insieme democristiani paludati e comunisti da operetta: una volta risolto l’annoso problema dell’insegnamento del catalano nelle scuole, quali prospettive per il futuro della regione potranno unire quest’improbabili alleati? Una Catalogna indipendente diventerebbe la Hong Kong d’Europa o un angolo di Bolivia affacciato sul Mediterraneo?

Terzo profilo critico: siamo proprio sicuri che la causa della secessione sia plebiscitaria nella società catalana? Al referendum del primo ottobre ha partecipato poco più del 40 per cento degli aventi diritto: certo, i custodi della democrazia in assetto da sommossa all’ingresso dei seggi non sono un grosso incentivo alla partecipazione, ma gli sviluppi successivi hanno evidenziato la presenza – e la consistenza relativa – delle istanze unioniste. Come conciliare l’esistenza di queste due anime attraverso un processo maggioritario che necessariamente esclude ogni possibilità di contemperamento? Si fa presto a parlare di autodeterminazione dei popoli, ma occorre una certa dose di sospensione dell’incredulità.

Anticipo le obiezioni dei liberali risolti: il liberalismo è una dottrina di principî (“il rispetto della legalità!”, sbraitano gli ottocenteschi; “la libertà di scelta!”, ribattono i futuristi) e io mi sto trastullando con le loro conseguenze concrete. Piano: la legalità non può essere una camicia di forza; e la libertà di scelta compete alle persone, non al popolo – qualunque cosa sia. Per parte mia, credo – con i futuristi – che un liberalismo coerente non possa prescindere dal diritto di secessione: ma anche che questo diritto vada esercitato con la massima cautela a tutela degli individui: perché è vero che, da gabbie più piccole, può essere più agevole scappare, ma – in attesa della fuga – la permanenza rischia di essere ben più dolorosa.

@masstrovato

20
Ott
2017

Decreto fiscale: una spinta gentile verso il baratro

Uno degli insegnamenti di Richard Thaler, fresco di premio Nobel per l’economia, è che le politiche pubbliche dovrebbero basarsi sulla valutazione empirica delle loro conseguenze, e non invece sulle loro buone intenzioni. Non sembra averlo compreso il governo italiano, a giudicare dal decreto fiscale collegato alla legge di bilancio 2018, approvato nei giorni scorsi dal Consiglio dei Ministri. Le “spinte gentili”, nel decreto, sono solo quelle che conducono – con gentilezza! – verso l’ulteriore peggioramento del contesto economico del Paese. C’è tutto il peggio cui siamo abituati: emergenzialismo e demagogia, nuove tax expenditures, sussidi, finte liberalizzazioni, condoni. Nessuna visione di sistema, nessun tentativo di semplificare la vita a cittadini e imprese, nessun intervento per ridurre tasse e burocrazia.

Il pezzo forte, alla voce nudge de’ noantri (copyright Vitalba Azzollini), è la rottamazione delle cartelle esattoriali, che non solo replica quanto previsto dall’omologo provvedimento dell’anno scorso, ma a sua volta sana le violazioni commesse per adempiere a quest’ultimo, cancellando sanzioni e interessi di mora sul pagamento dei carichi fiscali e contributivi del 2016, oltre che del 2017. In altre parole, pur di reperire qualche soldo da cittadini e imprese ormai spolpate dal Dracula fiscale, il governo premia i disonesti, invece che gli onesti. Una spinta gentile, ma neanche tanto gentile, a non pagare le tasse, perché tanto ci sarà sempre una nuova sanatoria. E ogni nuova sanatoria, a sua volta, riduce la propensione a pagare da parte dei cittadini, facendo aumentare l’esigenza di nuove sanatorie. E così via.

Il decreto prevede la parziale sterilizzazione delle clausole di salvaguardia, per 840 milioni nel 2018 e per 340 milioni nel 2019, con una diminuzione dell’aumento dell’Iva agevolata dall’11,50 all’11,14% nel 2018 (non fatevi ingannare dal gioco di parole: le tasse salgono, anche se in misura leggermente minore di quanto sin qui previsto). Una prassi, quella della ‘sterilizzazione’ delle clausole di salvaguardia, la cui gravità è ignorata troppo spesso. Originariamente, tali clausole furono introdotte nel nostro ordinamento per evitare che obiettive difficoltà di relativa certezza nelle previsioni di spesa si traducessero in una sorta di “deficit occulto” delle casse pubbliche (e quindi di nuovo debito). Nell’esperienza di governo degli ultimi anni, invece, le clausole hanno invece assunto la funzione opposta, cioè quella di coprire la difficoltà, da parte del legislatore, di assumere decisioni di finanza pubblica politicamente “sensibili”. Una prassi, quella di rinviare a un tempo futuro e indeterminato l’adozione di scelte concrete, che indebolisce non solo la prevedibilità delle decisioni di finanza pubblica, ma perfino lo stesso, già flebile, legame democratico dato dalla responsabilità politica di coprire le spese del proprio governo.

C’è poi, immancabile, il capitolo dei ‘fondi’ da rifinanziare: dal “Fondo sociale per occupazione e formazione” al “Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese”, dal “Fondo imprese” al “Fondo crescita sostenibile”. Briciole, si dirà. Sarà, ma briciole capaci di spostare con un tratto di penna più di due miliardi di euro dalle tasse degli italiani a imprese inefficienti, che per sopravvivere hanno ancora bisogno di mungere le mammelle di Stato. Altro ottimo esempio di spinta gentile, quello degli onnipresenti sussidi alle imprese in difficoltà: una spinta dritta verso il burrone dell’inefficienza gestionale e dell’irresponsabilità finanziaria. E non si può parlare di sussidi alle imprese senza citare Alitalia, la cui carcassa giace per l’appunto a valle del burrone menzionato poc’anzi. Ricordate? Il governo aveva chiarito, durante l’ultima crisi, che la priorità era quella di non spendere ulteriori soldi pubblici. E invece il prestito concesso solo pochi mesi fa viene prorogato di un anno e alimentato da ulteriori 300 milioni.

Per non farsi mancare un po’ di sano patriottismo finanziario, il decreto fiscale introduce la cosiddetta norma ‘anti-scalate’, richiesta a più riprese negli ultimi mesi dal ministro dello sviluppo economico, Carlo Calenda. Il senso è impedire scalate ostili a società quotate: una volta superata una determinata soglia azionaria, l’investitore dovrà pertanto inviare una lettera di intenti in cui chiarisce gli obiettivi delle sue azioni, così da evitare scalate ‘opache’. Restano molti dubbi su una norma che, limitando la contendibilità delle imprese quotate, finisce per limitarne l’efficienza gestionale e la possibilità, per gli azionisti diffusi, di godere del controllo dell’azienda grazie all’OPA obbligatoria. In altre parole: è una norma molto utile ai soci di controllo attuali, molto meno ai piccoli soci e agli investitori stranieri. Investitori che, pertanto, ricevono anch’essi la loro spinta gentile, ad andarsene dall’Italia, con i loro capitali in questo caso: proprio quello di cui avevamo bisogno.

Last but not least, la finta liberalizzazione dell’intermediazione dei diritti d’autore. I trionfalismi del governo sulla fine imminente del monopolio SIAE, purtroppo, si sono scontrati con un provvedimento-beffa, che liberalizza sì la raccolta dei diritti d’autore – come richiesto per anni dall’Unione europea – ma solo per “enti senza fine di lucro e a base associativa”. Indovinate chi rientra in questa definizione, in tutta l’Ue? Esatto: solo la SIAE e le società omologhe di altri Paesi, con le quali SIAE ha già accordi per intermediare i diritti d’autore loro spettanti in Italia. In altre parole: se anche un artista decidesse di affidarsi a soggetti diversi dalla SIAE, sarebbe sempre quest’ultima, seppur in veste di delegata, a intermediare i suoi diritti d’autore in Italia. Un’altra spinta, neanche tanto gentile, verso chi volesse provare a mettere in discussione il monopolio di SIAE, un’eredità del fascismo che – questa sì, altro che le statue – sarebbe bene demolire una volta per tutte.

Twitter: @glmannheimer

19
Ott
2017

Initial Coin Offering: quando l’innovazione colpisce la finanza

L’avvento delle criptovalute ha portato con sé nuove modalità di finanziamento per le start-up. Si tratta delle cosiddette ICO (initial coin offering). Come le IPO (offerte pubbliche iniziali) servono alle grandi aziende esistenti a fare il loro ingresso in borsa alla ricerca di nuovo capitale, così le ICO servono a finanziare aziende che si trovano ai loro stadi iniziali di sviluppo.

In verità, le prime parrebbero essere sempre più rare: in Italia, tra il 2013 e il 2016, sono state lanciate solo sette IPO; anche negli Stati Uniti si osserva una tendenziale diminuzione di IPO nel corso degli ultimi anni (vedi qui). Il contrario di quanto accade per le ICO, che a livello globale stanno crescendo in fretta e nei primi sette mesi del 2017 erano già state 92 e avevano raccolto in totale 1,25 miliardi di dollari. Nel mese di giugno 2017, i fondi raccolti per le start-up nel mondo attraverso le ICO superavano per la prima volta, e di gran lunga, quelli finanziati da business angel e venture capitalist: 550 milioni di dollari delle prime contro neanche 300 milioni dei secondi. A luglio del 2017 si confermavano in testa le ICO che avevano raccolto 300 milioni di dollari contro i 200 milioni dei “vecchi” investitori tradizionali.

Al pari del crowdfunding, le ICO rappresentano un sistema innovativo che facilita l’incontro tra persone che vogliono realizzare nuove idee d’impresa e altre persone che queste idee vogliono finanziarle. Come spesso accade nel crowdfunding, il quale può assumere anche forme di partecipazione diverse dal capitale di rischio, le ICO consentono a tutti i potenziali consumatori di un prodotto non ancora nato di comprare un titolo di partecipazione allo sviluppo dell’idea. Questo titolo prende la forma di “token” o criptovaluta, l’equivalente di un’azione in un’azienda (anche se a trattare le novità con le vecchie categorie si corre il rischio di perdere per strada molte delle sfumature che rendono tale una novità).

Se in passato la raccolta di capitale da parte di imprenditori era possibile solo convincendo a investire qualcuno particolarmente abbiente o, al limite, una banca, queste piattaforme innovative hanno facilitato l’incontro tra domanda e offerta di investimenti, con gli imprenditori da un lato e i risparmiatori, piccoli o grandi che siano, dall’altro. È il solito vantaggio a cui ci ha abituato il mondo di internet: quasi totale assenza di barriere all’entrata e costi di transazione, anche tra aree geografiche lontanissime tra loro, pressoché nulli.

L’utilizzo della criptovaluta (del token) come titolo è forse l’innovazione tecnologica più rilevante. Si tratta di valute il cui valore viene determinato da domanda e offerta. A differenza delle monete tradizionali, a gestione centralizzata, la maggior parte delle criptovalute adotta la “blockchain”, un sistema che registra la proprietà della valuta in circolazione, transazione dopo transazione, distribuendo le informazioni su tutta la rete, cosiddetta peer-to-peer.

Come tutte le novità, che essendo tali in principio non si conoscono, un sistema di questo tipo deve essere studiato e deve essere compreso. Ci troviamo su un campo in cui è facile perdere l’orientamento, soprattutto per chi non ha competenze informatiche. Ci vorrà tempo per distinguere che cosa funziona bene e che cosa meno bene, gli eventuali successi nonché i fallimenti e le possibilità di miglioramento.

I governi di molti Paesi nel mondo non sembrano intenzionati a lasciare che questo processo di apprendimento si realizzi. Al contrario, alcuni si sono già scomodati per provare a frenarne lo sviluppo. In Cina è stato recentemente approvato il divieto di eseguire e partecipare alle ICO, considerate dalle autorità cinesi “una minaccia per l’ordine economico e finanziario”. Poco dopo lo stesso è accaduto in Corea del Sud.

Le ragioni a sostegno dell’intervento dei governi contro le ICO parrebbero essere molteplici. Ci sono innanzitutto le buone intenzioni di chi vorrebbe proteggere gli ignari risparmiatori da eventuali truffe. Il rischio è che si crei una sorta di bolla alimentata soprattutto da tutte quelle persone che magari hanno guadagnato scommettendo presto su Bitcoin e simili e che forse ora hanno l’impressione che sia difficile mobilitare quella ricchezza nel mondo fisico. Ma se le truffe dovessero prevalere non sarà necessario l’intervento del governo per fermare la diffusione di questa tecnologia. Crollerà da sola per manifesta incapacità di selezionare i progetti sani e di successo, come fino ad ora si è rivelato essere, per esempio, Ethereum, da quelli truffaldini, come già se ne sono visti in gran numero.

C’è chi vede il pericolo di dare una mano, attraverso l’anonimato del sistema, a criminali di vario genere. Ma frenare lo sviluppo tecnologico per non dare nuovi strumenti a chi vuol commettere crimini sembra una strategia storicamente poco assennata. Alla maggior parte di noi oggi sembrerebbe assurdo vietare l’utilizzo dei cellulari perché questi facilitano le comunicazioni tra criminali.

L’unica ragione che sembra fondata è quella di chi non vuol perdere i benefici derivanti dalla chiusura del sistema finanziario. La concorrenza è sempre osteggiata da chi se la vede arrivare addosso. Ma come sempre, per i consumatori, a ostacolarla c’è tanto da perdere e poco da guadagnare.

@paolobelardinel

19
Ott
2017

Enav: l’ennesima finta privatizzazione (e presa in giro)

Martedì 17 ottobre, in occasione dell’approvazione del ddl di bilancio 2018, il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan ha spiegato che il governo andrà avanti con il programma di privatizzazioni. In particolare, come è stato riportato da fonti vicine all’esecutivo, una delle ipotesi allo studio sarebbe quella di vendere la quota del Tesoro in Enav a Cassa Depositi e Prestiti (d’ora in avanti, CdP), la terza istituzione bancaria italiana più grande dopo Unicredit e Intesa Sanpaolo.

Enav è la società per azioni (S.p.A.) che gestisce il traffico aereo civile in Italia. Con oltre 4,200 dipendenti, Enav ha debuttato in borsa il 26 luglio 2016. Ad oggi, il 53,37% del capitale sociale della società è detenuto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF). Attraverso la vendita di questa quota, il Governo punterebbe a ricavare 1.1 miliardi di euro, ovvero circa un terzo del target che il Tesoro dovrebbe reperire dalle cosiddette “privatizzazioni”, entro fine anno.

Inutile dire che si tratti di una finta privatizzazione. Esiste, infatti, un legame molto stretto, se non quasi simbiotico, tra Tesoro e CdP. Come si può tranquillamente apprendere dal sito, la CdP è una S.p.A. a controllo pubblico di cui il MEF è azionista di maggioranza. Stando alle informazioni più recenti, di inizio 2017, il Ministero controlla l’82,77% del capitale della CdP, il 15,93% è detenuto da una folta schiera di fondazioni bancarie mentre l’1,3% è controllato dalla CdP stessa, attraverso Azioni proprie.

Creata nel 1850 a supporto dell’economia dell’allora Regno di Sardegna, la CdP ha visto il suo ruolo cambiare nel tempo, assumendo, nell’ultimo decennio, una funzione centrale nelle politiche industriali italiane. Ad esempio, a seguito dell’approvazione dell’ultimo piano industriale 2016-2020, la CdP investirà 160 miliardi di euro per «stimolare le principali aree di crescita del Paese».

La finta privatizzazione di Enav che avverrebbe ancora una volta, semplicemente, per fare cassa, senza un più ampio e specifico piano di risparmi, sarebbe l’ultima di una lunga serie. Fino ad oggi la CdP è servita principalmente al Tesoro per effettuare vere e proprie partite di giro. In passato, la vendita di controllate come Ansaldo Energia, Eni, Fincantieri, Poste Italiane, Saipem e Terna è stata effettuata in modo ambiguo e senza un preciso obiettivo economico. La storia sembra ripetersi un’altra volta e, se il piano del governo andrà in porto, la vendita della quota del Tesoro in Enav non avverrà tramite il ricorso diretto al mercato.

In linea con la pubblicazione, ad aprile, del Documento di Economia e Finanza (DEF) 2017 e con la sua Nota di Aggiornamento di settembre, nel recente ddl di bilancio, il Governo ha deciso di rimanere il più vago possibile su qualsiasi processo di privatizzazione. In altre parole, il “magheggio contabile” del MEF è sempre più evidente.

L’IPO di Ferrovie dello Stato (FS), così come le operazioni riguardanti una seconda tranche di privatizzazione di Poste Italiane, è stato rinviato a data da destinarsi. Visto l’avvicinarsi delle elezioni, molto probabilmente toccherà al prossimo esecutivo occuparsi dell’approdo di FS a Piazza Affari e del collocamento sul mercato di un altro 30% del capitale di Poste Italiane, attualmente nelle mani del Tesoro.

Nel frattempo, dopo un già misero 2016 (in cui il MEF è riuscito a raccogliere solo lo 0,1% del PIL dalle “privatizzazioni”), il Governo ha previsto per l’anno in corso una riduzione del target delle privatizzazioni che passa dallo 0,3% del PIL (circa 5 miliardi) allo 0,2% (circa 3 miliardi e mezzo). Insomma, si parla del nulla. Siamo lontanissimi dallo 0,5% di proventi derivanti dalle privatizzazioni descritto nel DEF 2016 per gli anni 2016; 2017; 2018. Ma c’è di più: il governo non ha alcuna intenzione di fare ricorso ai privati. Urge forse ripasso di cosa significhi il termine privatizzazione? Nel frattempo, la ripresa rimane debole, il debito pubblico non cala ed l’obiettivo del pareggio di bilancio continua a slittare di DEF in DEF.

Di conseguenza, per cercare di recuperare qualche introito entro la fine del 2017, il Governo punta tutto sulla CdP. Confermando il recente, pericoloso, trend di finte privatizzazioni, il MEF sembra quindi pronto a simulare la falsa vendita di Enav a soggetti privati, cedendo invece alla CdP il gestore del traffico aereo.

Il governo è in confusione totale. La CdP, invece, è tornata prepotentemente al centro della politica industriale italiana per cercare di mascherare una presenza dello Stato sempre più massiccia. Dopo aver assorbito pezzi crescenti d’industria, tra cui la rete dei metanodotti di Snam, la rete elettrica di Terna, i cantieri navali di Fincantieri, la compagnia petrolifera Eni, il gigante in crisi delle trivellazioni Saipem e le turbine di Ansaldo Energia, il colosso in mano al Tesoro è pronto a comprare anche le quote del Tesoro in Enav. Nemmeno l’IRI dei tempi d’oro era così potente.

18
Ott
2017

Per l’Europa Emmanuel Macron propone gli ingredienti del fallimento economico francese

L’Europa non ha bisogno di più dirigismo, ma di più libertà.

L’ ”Enarque” (ex allievo dell’ENA) è tornato. Il suo solenne discorso sull’Europa assomiglia perfettamente ad un’esposizione orale di un esame della Scuola di Amministrazione Nazionale. Vi si trovano dentro tutti gli ingredienti: interventismo, protezionismo, dirigismo, armonizzazione e tassazione.

Indice

  • Il cinema “europeo” dura da 15 anni;
  • L’armonizzazione per maggiori tasse;
  • Bisognerebbe innanzitutto riformare la Francia; in seguito … dare più libertà ai popoli europei;

Il cinema “europeo” dura da 15 anni

Nicolas Sarkozy si era lanciato in alcune grandi manovre europee e, ignorando il referendum, aveva architettato una “costituzione” essenziale alla sopravvivenza dell’Unione Europea … Tale “costituzione” era così forte che François Hollande, da poco eletto, propose – per necessità – una sua grande visione dell’Unione che sarebbe dovuta diventare nuovamente dinamica attraverso gli “eurobond”. Hollande si era fortunatamente imbattuto nella rigorosa visione tedesca del budget, l’unico aspetto che conta per Berlino. Durante la recente campagna, tutti i candidati alla Presidenza Francese hanno affermato che avrebbero avviato negoziazioni con Bruxelles per cambiare l’Unione secondo le proprie visioni, per salvare la Francia. Ecco il leitmotiv dei politici francesi, che sembra essere uno sfogo della loro incapacità nel far uscire la Francia dall’impasse nel quale si trova. Demagogia e megalomania riunite. Per rilanciarla dove? Verso che cosa? L’Unione Europea non manca di mezzi, il suo handicap consiste nel voler fare più di quel che deve.

Macron auspica di “rifondare” l’Europa ma in una prospettiva … francese. Certamente, vuole una maggiore convergenza con la Germania perché sa molto bene che senza questo paese, non può essere fatto nulla a livello europeo. Ma è difficile credere che la Germania applicherà “le stesse regole alle sue imprese” dopo tutte le riforme che questo paese ha effettuato negli anni 2000. Il presidente francese desidera anche un budget europeo e un Ministro delle Finanze. Dal momento che sono noti i dibattiti burrascosi in seno alla Commissione sui budget e la violazione dei criteri degli stessi, è difficile immaginare i 27 stati membri riuniti attorno ad un unico Ministro delle Finanze europeo. Bisogna essere molto sfacciati per fare una proposta del genere visto che la Francia non ha mai avuto un budget in equilibrio dal … 1974.

 

L’armonizzazione per maggiori tasse

Questo “grande ministero” imporrebbe una tassa sulle transazioni finanziarie (decisamente, tutti i politici francesi sono ossessionati da questa tassa), una nuova tassa sul carbonio ai confini dell’Europa (è difficile immaginare come il carbonio potrà essere bloccato ai confini …) e, come attesa, un’armonizzazione (nel vocabolario francese, per “armonizzazione” bisogna intendere “aumento”) della fiscalità e soprattutto dell’imposta sugli utili delle società. Tutto questo sicuramente non è per avere un tasso al 12,5% come in Irlanda! Peraltro, augura anche un’ “armonizzazione sociale” alla francese con gli stessi diritti sociali e un salario minimo europeo. Ma le proposte di Emmanuel Macron sono proprio tutti gli ingredienti del fallimento economico francese.

L’IREF (Institute for Economic and Fiscal Research) ha dimostrato in uno Studio sull’armonizzazione fiscale che tutti i paesi europei verrebbero danneggiati da questa proposta, la quale potrebbe disincentivare le imprese ad investire. L’armonizzazione ridurrebbe il flusso di capitali dall’estero verso i paesi europei. Infine, sapendo che l’imposta sugli utili delle società non è mai, in definitiva, pagata dall’impresa, occorre osservare che tale imposta pesa la maggior principalmente sui salari, che sopportano dal 45% al 75% degli aumenti di questa imposta.

Sarebbe dunque meglio conservare la concorrenza fiscale tra i paesi europei. Questa concorrenza spinge alla riduzione delle imposte, il che è favorevole per le imprese/gruppi aziendali e quindi, in definitiva, ai paesi stessi. Gli stati membri che hanno ridotto le imposte sugli utili delle società hanno ottenuto un aumento del prodotto rispetto all’imposta.

Allo stesso modo, è una buona idea proporre una riforma della PAC (Politiche Agricole Comuni), ma senza proteggersi dai mercati mondiali. Piuttosto, al contrario, bisognerebbe stimolare la concorrenza, diminuendo i sussidi, le regolamentazioni e la burocrazia.

 

Bisognerebbe innanzitutto riformare la Francia; in seguito … dare più libertà ai cittadini europei

In conclusione, dietro a questo discorso che mette avanti la grandezza dell’idea europea troviamo delle misure economiche che puntano ad eliminare i vantaggi che altri paesi hanno legittimamente acquisito. Le tasse su internet? È l’Irlanda che è presa di mira. Il presunto dumping sociale? Si punta ai paesi dell’Est. Il budget europeo? La Germania deve pagare i nostri errori.

Smettiamola di proiettare le nostre illusioni sull’Unione Europea. Quello che si può fare in Francia – uno Stato onnipotente e protezionista – non lo si farà più tramite l’UE. Consideriamola così com’è: un’alleanza economica attorno ad una base culturale comune, un’armonia di popoli. E possiamo cessare di dire che questa Unione è moribonda o in difficoltà perché non si trasforma nel Leviatano a cui alcuni aspirano. Al contrario, lasciamole il dinamismo di un’alleanza economica intelligente: è così che essa contribuirà al nostro benessere, sicuramente non conformandosi ai folli sogni dei nostri politici che soffrono del “mal di potere”.

Emmanuel Macron non sembra aver compreso il significato della Brexit e dei risultati elettorali in Germania. I popoli europei hanno paura dell’immigrazione e ritengono che sia necessario proteggere le proprie nazioni. Lo sviluppo dei partiti estremisti lo dimostra, così come i sondaggi realizzati nei paesi dell’est Europa, dove non ci sono molti immigrati. Questa paura – giustificata o meno –incoraggia la chiusura in se stessi e la diffidenza nei confronti dell’Europa considerata come un colabrodo. Quello che occorrerebbe in realtà è meno burocrazia e più libertà agli stati. Ci vorrebbero alcune regole comuni, ma in un contesto di concorrenza sana. I paesi membri non vogliono un’Europa alla francese (bisogna già fare riforme in Francia). Altrimenti, la Brexit farà sicuramente ancora più proseliti.

 

L’articolo è comparso originariamente su Institut de Recherches Économiques et Fiscales il 3 ottobre 2017 col titolo “Pour l’Europe, Emmanuel Macron propose les ingrédients de l’échec économique français. L’Europe n’a pas besoin de plus de dirigisme mais de plus de libertés”.
Traduzione 
dal francese di Lucia Caraccia.