19
Ott
2017

Enav: l’ennesima finta privatizzazione (e presa in giro)

Martedì 17 ottobre, in occasione dell’approvazione del ddl di bilancio 2018, il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan ha spiegato che il governo andrà avanti con il programma di privatizzazioni. In particolare, come è stato riportato da fonti vicine all’esecutivo, una delle ipotesi allo studio sarebbe quella di vendere la quota del Tesoro in Enav a Cassa Depositi e Prestiti (d’ora in avanti, CdP), la terza istituzione bancaria italiana più grande dopo Unicredit e Intesa Sanpaolo.

Enav è la società per azioni (S.p.A.) che gestisce il traffico aereo civile in Italia. Con oltre 4,200 dipendenti, Enav ha debuttato in borsa il 26 luglio 2016. Ad oggi, il 53,37% del capitale sociale della società è detenuto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF). Attraverso la vendita di questa quota, il Governo punterebbe a ricavare 1.1 miliardi di euro, ovvero circa un terzo del target che il Tesoro dovrebbe reperire dalle cosiddette “privatizzazioni”, entro fine anno.

Inutile dire che si tratti di una finta privatizzazione. Esiste, infatti, un legame molto stretto, se non quasi simbiotico, tra Tesoro e CdP. Come si può tranquillamente apprendere dal sito, la CdP è una S.p.A. a controllo pubblico di cui il MEF è azionista di maggioranza. Stando alle informazioni più recenti, di inizio 2017, il Ministero controlla l’82,77% del capitale della CdP, il 15,93% è detenuto da una folta schiera di fondazioni bancarie mentre l’1,3% è controllato dalla CdP stessa, attraverso Azioni proprie.

Creata nel 1850 a supporto dell’economia dell’allora Regno di Sardegna, la CdP ha visto il suo ruolo cambiare nel tempo, assumendo, nell’ultimo decennio, una funzione centrale nelle politiche industriali italiane. Ad esempio, a seguito dell’approvazione dell’ultimo piano industriale 2016-2020, la CdP investirà 160 miliardi di euro per «stimolare le principali aree di crescita del Paese».

La finta privatizzazione di Enav che avverrebbe ancora una volta, semplicemente, per fare cassa, senza un più ampio e specifico piano di risparmi, sarebbe l’ultima di una lunga serie. Fino ad oggi la CdP è servita principalmente al Tesoro per effettuare vere e proprie partite di giro. In passato, la vendita di controllate come Ansaldo Energia, Eni, Fincantieri, Poste Italiane, Saipem e Terna è stata effettuata in modo ambiguo e senza un preciso obiettivo economico. La storia sembra ripetersi un’altra volta e, se il piano del governo andrà in porto, la vendita della quota del Tesoro in Enav non avverrà tramite il ricorso diretto al mercato.

In linea con la pubblicazione, ad aprile, del Documento di Economia e Finanza (DEF) 2017 e con la sua Nota di Aggiornamento di settembre, nel recente ddl di bilancio, il Governo ha deciso di rimanere il più vago possibile su qualsiasi processo di privatizzazione. In altre parole, il “magheggio contabile” del MEF è sempre più evidente.

L’IPO di Ferrovie dello Stato (FS), così come le operazioni riguardanti una seconda tranche di privatizzazione di Poste Italiane, è stato rinviato a data da destinarsi. Visto l’avvicinarsi delle elezioni, molto probabilmente toccherà al prossimo esecutivo occuparsi dell’approdo di FS a Piazza Affari e del collocamento sul mercato di un altro 30% del capitale di Poste Italiane, attualmente nelle mani del Tesoro.

Nel frattempo, dopo un già misero 2016 (in cui il MEF è riuscito a raccogliere solo lo 0,1% del PIL dalle “privatizzazioni”), il Governo ha previsto per l’anno in corso una riduzione del target delle privatizzazioni che passa dallo 0,3% del PIL (circa 5 miliardi) allo 0,2% (circa 3 miliardi e mezzo). Insomma, si parla del nulla. Siamo lontanissimi dallo 0,5% di proventi derivanti dalle privatizzazioni descritto nel DEF 2016 per gli anni 2016; 2017; 2018. Ma c’è di più: il governo non ha alcuna intenzione di fare ricorso ai privati. Urge forse ripasso di cosa significhi il termine privatizzazione? Nel frattempo, la ripresa rimane debole, il debito pubblico non cala ed l’obiettivo del pareggio di bilancio continua a slittare di DEF in DEF.

Di conseguenza, per cercare di recuperare qualche introito entro la fine del 2017, il Governo punta tutto sulla CdP. Confermando il recente, pericoloso, trend di finte privatizzazioni, il MEF sembra quindi pronto a simulare la falsa vendita di Enav a soggetti privati, cedendo invece alla CdP il gestore del traffico aereo.

Il governo è in confusione totale. La CdP, invece, è tornata prepotentemente al centro della politica industriale italiana per cercare di mascherare una presenza dello Stato sempre più massiccia. Dopo aver assorbito pezzi crescenti d’industria, tra cui la rete dei metanodotti di Snam, la rete elettrica di Terna, i cantieri navali di Fincantieri, la compagnia petrolifera Eni, il gigante in crisi delle trivellazioni Saipem e le turbine di Ansaldo Energia, il colosso in mano al Tesoro è pronto a comprare anche le quote del Tesoro in Enav. Nemmeno l’IRI dei tempi d’oro era così potente.

18
Ott
2017

Per l’Europa Emmanuel Macron propone gli ingredienti del fallimento economico francese

L’Europa non ha bisogno di più dirigismo, ma di più libertà.

L’ ”Enarque” (ex allievo dell’ENA) è tornato. Il suo solenne discorso sull’Europa assomiglia perfettamente ad un’esposizione orale di un esame della Scuola di Amministrazione Nazionale. Vi si trovano dentro tutti gli ingredienti: interventismo, protezionismo, dirigismo, armonizzazione e tassazione.

Indice

  • Il cinema “europeo” dura da 15 anni;
  • L’armonizzazione per maggiori tasse;
  • Bisognerebbe innanzitutto riformare la Francia; in seguito … dare più libertà ai popoli europei;

Il cinema “europeo” dura da 15 anni

Nicolas Sarkozy si era lanciato in alcune grandi manovre europee e, ignorando il referendum, aveva architettato una “costituzione” essenziale alla sopravvivenza dell’Unione Europea … Tale “costituzione” era così forte che François Hollande, da poco eletto, propose – per necessità – una sua grande visione dell’Unione che sarebbe dovuta diventare nuovamente dinamica attraverso gli “eurobond”. Hollande si era fortunatamente imbattuto nella rigorosa visione tedesca del budget, l’unico aspetto che conta per Berlino. Durante la recente campagna, tutti i candidati alla Presidenza Francese hanno affermato che avrebbero avviato negoziazioni con Bruxelles per cambiare l’Unione secondo le proprie visioni, per salvare la Francia. Ecco il leitmotiv dei politici francesi, che sembra essere uno sfogo della loro incapacità nel far uscire la Francia dall’impasse nel quale si trova. Demagogia e megalomania riunite. Per rilanciarla dove? Verso che cosa? L’Unione Europea non manca di mezzi, il suo handicap consiste nel voler fare più di quel che deve.

Macron auspica di “rifondare” l’Europa ma in una prospettiva … francese. Certamente, vuole una maggiore convergenza con la Germania perché sa molto bene che senza questo paese, non può essere fatto nulla a livello europeo. Ma è difficile credere che la Germania applicherà “le stesse regole alle sue imprese” dopo tutte le riforme che questo paese ha effettuato negli anni 2000. Il presidente francese desidera anche un budget europeo e un Ministro delle Finanze. Dal momento che sono noti i dibattiti burrascosi in seno alla Commissione sui budget e la violazione dei criteri degli stessi, è difficile immaginare i 27 stati membri riuniti attorno ad un unico Ministro delle Finanze europeo. Bisogna essere molto sfacciati per fare una proposta del genere visto che la Francia non ha mai avuto un budget in equilibrio dal … 1974.

 

L’armonizzazione per maggiori tasse

Questo “grande ministero” imporrebbe una tassa sulle transazioni finanziarie (decisamente, tutti i politici francesi sono ossessionati da questa tassa), una nuova tassa sul carbonio ai confini dell’Europa (è difficile immaginare come il carbonio potrà essere bloccato ai confini …) e, come attesa, un’armonizzazione (nel vocabolario francese, per “armonizzazione” bisogna intendere “aumento”) della fiscalità e soprattutto dell’imposta sugli utili delle società. Tutto questo sicuramente non è per avere un tasso al 12,5% come in Irlanda! Peraltro, augura anche un’ “armonizzazione sociale” alla francese con gli stessi diritti sociali e un salario minimo europeo. Ma le proposte di Emmanuel Macron sono proprio tutti gli ingredienti del fallimento economico francese.

L’IREF (Institute for Economic and Fiscal Research) ha dimostrato in uno Studio sull’armonizzazione fiscale che tutti i paesi europei verrebbero danneggiati da questa proposta, la quale potrebbe disincentivare le imprese ad investire. L’armonizzazione ridurrebbe il flusso di capitali dall’estero verso i paesi europei. Infine, sapendo che l’imposta sugli utili delle società non è mai, in definitiva, pagata dall’impresa, occorre osservare che tale imposta pesa la maggior principalmente sui salari, che sopportano dal 45% al 75% degli aumenti di questa imposta.

Sarebbe dunque meglio conservare la concorrenza fiscale tra i paesi europei. Questa concorrenza spinge alla riduzione delle imposte, il che è favorevole per le imprese/gruppi aziendali e quindi, in definitiva, ai paesi stessi. Gli stati membri che hanno ridotto le imposte sugli utili delle società hanno ottenuto un aumento del prodotto rispetto all’imposta.

Allo stesso modo, è una buona idea proporre una riforma della PAC (Politiche Agricole Comuni), ma senza proteggersi dai mercati mondiali. Piuttosto, al contrario, bisognerebbe stimolare la concorrenza, diminuendo i sussidi, le regolamentazioni e la burocrazia.

 

Bisognerebbe innanzitutto riformare la Francia; in seguito … dare più libertà ai cittadini europei

In conclusione, dietro a questo discorso che mette avanti la grandezza dell’idea europea troviamo delle misure economiche che puntano ad eliminare i vantaggi che altri paesi hanno legittimamente acquisito. Le tasse su internet? È l’Irlanda che è presa di mira. Il presunto dumping sociale? Si punta ai paesi dell’Est. Il budget europeo? La Germania deve pagare i nostri errori.

Smettiamola di proiettare le nostre illusioni sull’Unione Europea. Quello che si può fare in Francia – uno Stato onnipotente e protezionista – non lo si farà più tramite l’UE. Consideriamola così com’è: un’alleanza economica attorno ad una base culturale comune, un’armonia di popoli. E possiamo cessare di dire che questa Unione è moribonda o in difficoltà perché non si trasforma nel Leviatano a cui alcuni aspirano. Al contrario, lasciamole il dinamismo di un’alleanza economica intelligente: è così che essa contribuirà al nostro benessere, sicuramente non conformandosi ai folli sogni dei nostri politici che soffrono del “mal di potere”.

Emmanuel Macron non sembra aver compreso il significato della Brexit e dei risultati elettorali in Germania. I popoli europei hanno paura dell’immigrazione e ritengono che sia necessario proteggere le proprie nazioni. Lo sviluppo dei partiti estremisti lo dimostra, così come i sondaggi realizzati nei paesi dell’est Europa, dove non ci sono molti immigrati. Questa paura – giustificata o meno –incoraggia la chiusura in se stessi e la diffidenza nei confronti dell’Europa considerata come un colabrodo. Quello che occorrerebbe in realtà è meno burocrazia e più libertà agli stati. Ci vorrebbero alcune regole comuni, ma in un contesto di concorrenza sana. I paesi membri non vogliono un’Europa alla francese (bisogna già fare riforme in Francia). Altrimenti, la Brexit farà sicuramente ancora più proseliti.

 

L’articolo è comparso originariamente su Institut de Recherches Économiques et Fiscales il 3 ottobre 2017 col titolo “Pour l’Europe, Emmanuel Macron propose les ingrédients de l’échec économique français. L’Europe n’a pas besoin de plus de dirigisme mais de plus de libertés”.
Traduzione 
dal francese di Lucia Caraccia.

17
Ott
2017

Bike Sharing a flusso libero: un problema di fiducia condivisa?

Da mercoledì 30 agosto, i milanesi hanno a disposizione un nuovo mezzo di trasporto: il bike sharing a flusso libero (free-floating bike sharing). Secondo quanto riporta il Comune di Milano, nel corso dei prossimi mesi verranno messe a disposizione dei cittadini 12mila biciclette. A gestire questo servizio sono due aziende private cinesi, Mobike e Ofo. A seguito del bando di giugno, Mobike avrà una flotta di 8 mila mezzi, mentre Ofo sarà presente in città con 4 mila biciclette. Oltre a Milano, Firenze è l’altro comune che ha deciso di aprire al bike sharing a flusso libero.

Conosciute ai più con il soprannome di “Uber for Bikes”, Mobike e Ofo sono due tra i più grandi operatori al mondo che offrono un servizio di bike sharing senza l’uso di stalli per il parcheggio. Ad oggi la sola Mobike ha oltre 100 milioni di utenti registrati, mentre Ofo supera i 20 milioni di fruitori. Entrambe fondate a Pechino, queste due start up hanno da poco avviato una rapidissima fase di espansione. Nel corso degli ultimi mesi, ad esempio, Mobike è diventata disponibile in città come Singapore, Manchester, Fukuoka (Giappone), Londra, Milano, Firenze, Sapporo (Giappone), Bangkok, Saha Alam (Malesia), Washington D.C, Newcastle e Cyberjaya (Malesia). Ad inizio 2017 Mobike era presente in 160 città cinesi. A giugno, invece, ha raccolto 600 milioni di dollari in fondi di Serie E – finanziati principalmente da Tencent – e ha una valutazione di 3 miliardi di dollari. Ofo ha invece una valutazione pari a 1 miliardo di dollari. Le due aziende hanno anche il sostegno dei due più grandi gruppi internet cinesi, Alibaba e Tencent, e stanno sviluppando diversi tipi di partnership con Google, Huawei, Citibank e McKinsey.

Il bike sharing a flusso libero si definisce tale perché non prevede postazioni fisse, né per il ritiro né per la riconsegna delle biciclette. Esattamente come Uber, le bici “free floating” possono essere prelevate grazie ad una app dedicata, facilmente scaricabile sul proprio smartphone, e posteggiate lungo i bordi delle strade laddove non ci sia sosta riservata o divieto, ed in tutte le aree di sosta per velocipedi (stalli o rastrelliere) presenti nelle città. In attesa di conoscere i prezzi di Ofo, che fino al 31 ottobre farà pedalare i proprio utenti gratuitamente, Mobike costa 30 centesimi di euro per la prima mezz’ora di utilizzo (50 centesimi a partire dalla seconda mezz’ora in poi). Mobike, inoltre, richiede una cauzione iniziale di 1 euro (50 euro quando il servizio sarà a pieno regime) ed un sistema di crediti a scalare in caso di infrazioni (se frequenti, gli utenti meno corretti vengono penalizzati fino alla cancellazione totale dell’abbonamento).

Nonostante Mobike ed Ofo abbiano ideato biciclette molto innovative, progettate anche per scoraggiare i furti, i problemi sono sempre dietro l’angolo. Nel corso di questi ultimi giorni diversi media italiani (Il Corriere della Sera, Il Post, MilanoToday) hanno riportato la notizia di una decina di biciclette Mobike e Ofo gettate nel Naviglio Grande, in zona Lorenteggio. Questi comportamenti vandalici non sono i primi e – purtroppo – non saranno gli ultimi. L’inciviltà, infatti, non riguarda solo Milano. Anche ad Amsterdam, Melbourne, Singapore e Shanghai si assiste ad atti di maleducazione: biciclette abbandonate in giro, gettate in corsi d’acqua, appese ad alberi o sequestrate nei cortili interni di alcune abitazioni.

Come ricorda anche il Secondo Rapporto sull’Innovazione Sociale realizzato dal CERIIS ad inizio 2016, il successo dei processi di innovazione sociale (come il free-floating bike sharing) sono determinati, in primis, dalla cosiddetta fiducia condivisa. Il ruolo che gioca la fiducia diventa così fondamentale all’interno della sharing economy. Come spiega bene Michael Munger, professore di economia presso la Duke University, i vantaggi introdotti dall’economia della condivisione sono numerosi. In particolare, la sharing economy riduce i costi di transazione, aumentando il numero di scambi all’interno dell’economia, attraverso:

  • la ricerca di informazioni sui prezzi e sulle opzioni di scelta a nostra disposizione in modo immediato;
  • una maggiore trasparenza e qualità dei servizi;
  • il pagamento sicuro ed elettronico di tutte le transazioni.

Al tempo stesso, la sharing economy può funzionare al meglio solo se le parti in gioco riescono ad instaurare un rapporto di fiducia reciproca. Ed è infatti quello che sta avvenendo. Esattamente come a Milano, anche in altre città si è assistito a simili atti vandalici. Pur essendo azioni gravi, che vanno condannate e che richiedono una giusta risposta (il Comune di Milano ha subito replicato alle critiche spiegando che metterà a punto un manuale delle “buone pratiche”), questi gesti di inciviltà non sono la normalità. Basti pensare ad Airbnb, Uber o addirittura Tinder. Nonostante le difficoltà iniziali – simili a quelle che oggi colpiscono Mobike e Ofo – tutte queste nuove tecnologie si sono affermate e stanno rafforzando la fiducia tra le persone. Ciò ha permesso loro di espandersi rapidamente. Oggi Uber è presente in circa 650 città del mondo, ha effettuato 2 miliardi di corse nel solo 2016 ed ha superato i 40 milioni di utenti. Tinder è stato scaricato oltre 100 milioni di volte con più di 1,6 miliardi di “swipe” al giorno. Airbnb si può trovare in 191 paesi e secondo le previsioni, entro il 2020, il servizio raggiungerà un bacino di utenza di oltre 24 milioni persone nella sola Europa.

Come racconta Rachel Botsman, una delle vere innovazioni della sharing economy è il mutamento dei rapporti di fiducia all’interno della società odierna. Grazie a questi cambiamenti, oggi, non abbiamo paura di utilizzare l’auto di uno sconosciuto come mezzo di trasporto cittadino. Nessuno si preoccupa di invitare un estraneo a bere un caffè dopo averci parlato solo su Tinder. Addirittura ci fidiamo di far dormire qualcuno a casa nostra utilizzando un servizio chiamato Airbnb.

I vantaggi del bike sharing a flusso libero – e più in generale della sharing economy – sono sotto gli occhi di tutti. Se da un lato è importante condannare gli atti vandalici di pochi giorni fa, dall’altro è essenziale spiegare al cittadino che questi nuovi tipi di servizi hanno il potenziale di trasformare radicalmente la nostra società, rendendola più trasparente, inclusiva ed efficiente.

13
Ott
2017

Sir John Cowperthwaite ed il successo economico di Hong Kong

Pochi mesi fa, Neil Monnery, ex direttore del Boston Consulting Group, ha pubblicato il suo nuovo libro intitolato “Architect of Prosperity”. Ufficialmente disponibile online a partire dal 30 giugno 2017 (data certamente non casuale vista la storia recente di Hong Kong), il libro ripercorre la vita e le fatiche di Sir John Cowperthwaite, celebre funzionario del governo britannico, nonché storico segretario finanziario di Hong Kong tra il 1961 ed il 1971.

Come scrive Diane Coyle, professoressa di economia presso la University of Manchester: «Ci sono figure nella storia che meritano di essere meglio conosciute e Sir John Cowperthwaite è certamente uno di questi personaggi. Il resoconto di Neil Monnery […] diventa ancora più affascinante se si osserva con attenzione l’attuale dibattito sullo sviluppo economico delle nazioni. I politici di oggi possono imparare molto dalla volontà di ignorare le credenze del tempo [anni 60 ndr] dimostrata da Cowperthwaite e dai suoi colleghi».

Cowperthwaite è stato un gigante della politica britannica e mondiale. Nato nella gloriosa Edimburgo nel 1915, portò a termine gli studi classici presso le prestigiosissime università di St. Andrews e Cambridge (Christ’s College). Grandissimo appassionato di Adam Smith, del liberalismo e dell’illuminismo, Cowperthwaite fu il vero ideatore delle politiche non interventiste che in breve tempo portarono Hong Kong a sperimentare un periodo di crescita e prosperità mai conosciuto prima.

Il libro, di 320 pagine, è un racconto straordinario delle azioni, ma soprattutto delle convinzioni intellettuali, di Cowperthwaite. Nonostante i continui richiami da parte del governo britannico ad aumentare la tassazione, nonostante le forti pressioni da parte dei cittadini locali a spendere più soldi in programmi sociali ed il forte consenso economico Keynesiano del dopoguerra, Cowperthwaite si oppose a qualsiasi intervento statale che potesse «togliere soldi dalle tasche dei cittadini». Questo approccio, conosciuto ai più come “non-interventismo positivo”, fu successivamente considerato da Milton Friedman come uno degli esempi più efficaci di laissez-faire. Grazie ad un forte rettitudine fiscale, all’abbandono di politiche industriali verticali, ad una bassa tassazione, a servizi di governo minimi e al libero scambio, nel corso degli anni ‘60, Cowperthwaite pose le fondamenta per il miracolo economico di Hong Kong.

Cowperthwaite è rimasto, purtroppo, uno dei personaggi politici meno conosciuti del ‘900. Arrivato ad Hong Kong nel 1945, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, Cowperthwaite trovò una città distrutta dalla guerra. Famosa ai più per essere considerata un’ “isola sterile”, priva di risorse naturali, Hong Kong è uno dei centri finanziari più importanti e competitivi del mondo. Dal 1995 ad oggi, inoltre, la ricca città asiatica è sempre stata considerata la nazione economicamente più libera del globo.

Con un prodotto interno lordo pro capite (in termini di potere d’acquisto) di oltre 58 mila dollari statunitensi, Hong Kong è una delle nazioni più ricche al mondo. Ad oggi, la sua popolazione si avvicina ai 7,5 milioni di abitanti. Al tempo stesso, la città vanta un’economia molto innovativa, infrastrutture ultra moderne, un aeroporto capace di gestire 60 milioni di passeggeri l’anno, un reddito pro capite altissimo, un indice di sviluppo umano altrettanto alto ed uno stato di diritto tra i più efficienti e meno corrotti al mondo.

Dopo aver consegnato le chiavi della città al suo successore nel 1971, Cowperthwaite divenne consigliere internazionale per Jardine Fleming, una banca di investimento con sede ad Hong Kong che nel 2000 fu acquistata da JP Morgan Chase. Nonostante la decisione di diventare consulente finanziario, i suoi insegnamenti sono sempre rimasti al centro della vita politica della piccola ma potente città: «a lungo termine, l’insieme delle decisioni dei singoli, esercitando un giudizio individuale all’interno di un’economia libera, anche se spesso sbagliate, tendono a recare molto meno danno che le decisioni burocratiche di un qualsiasi governo centralizzato».

In un periodo storico in cui nazionalismo e populismo sembrano ottenere sempre più consenso, Neil Monnery ci ricorda in modo superlativo come i principi economici del liberalismo classico siano la ricetta migliore per favorire la crescita, enfatizzare l’ottimismo e rispondere all’ansia della gente. L’incredibile storia di Cowperthwaite ci può insegnare molto.

13
Ott
2017

Addio fallimenti, ma non è un successo

Addio fallimenti. È legge la riforma del diritto fallimentare che, appunto, tra le altre cose sostituisce il termine “fallimento” con la più politicamente corretta “liquidazione giudiziale”. Una riforma che è davvero una mezza rivoluzione, e non soltanto lessicale, se non altro perché è la prima volta in settant’anni che si ragiona a 360 gradi sull’insolvenza, intesa non più solo come fenomeno patologico, ma anche come evento fisiologico allo svolgimento di un’attività economica. Proposito, insomma, sacrosanto.

Limitare i vincoli che oggi impediscono a chi ha avuto un insuccesso imprenditoriale di avviare una nuova attività è sicuramente cosa buona e giusta, per l’economia in generale. Funziona così in tutti i Paesi occidentali e c’è un motivo: allo sconforto e allo stigma sociale si accompagna infatti spesso un netto ridimensionamento della propensione all’imprenditorialità, generato proprio dalla paura del fallimento. Non sarà certo cambiare nome all’istituto o prevedere la liberazione dai debiti entro tre anni a far riemergere nella testa degli italiani la voglia di rischiare e di fare impresa, ma è pur sempre un passo in avanti.

Del resto, è stata la stessa Commissione europea a raccomandare caldamente agli Stati membri riforme che dessero “una seconda possibilità” agli imprenditori onesti che falliscono, ormai quattro anni fa. L’altra faccia della medaglia, però, è dietro l’angolo. Perché, se da una parte è un incentivo a rischiare, la cancellazione dei debiti è però anche un incentivo a indebitarsi. E questo, di riflesso, potrebbe generare un effetto uguale e contrario nei creditori, determinando un forte aumento del costo dell’accesso al credito non garantito.

Una delle ragioni per cui tale evenienza è scongiurata nei Paesi europei che prevedono la cancellazione dei debiti dopo un determinato periodo di tempo è che il processo di tutela del credito, in quei Paesi, è molto più rapido ed efficiente che da noi. Per questo, la riforma avrebbe potuto e dovuto incidere in profondità sulla tutela del credito, oltre che del debito. Lo ha fatto? Solo in parte.

Ad esempio, non c’è oggi nessuna garanzia sul fatto che i soggetti chiamati a gestire la composizione assistita della crisi saranno dotati delle necessarie competenze specifiche nella materia aziendale ed in quella giuridica. Si sarebbe potuto ricorrere agli ordini professionali di commercialisti e avvocati, e non alle sole camere di commercio. Ma non solo. Estremamente critica è la parte della norma in cui si prevede che la procedura di composizione della crisi possa avere uno sbocco giudiziale: è chiaro che nel momento in cui si prevede l’intervento del tribunale e la possibilità di rendere nota la crisi ai terzi, si espone l’impresa a conseguenze drammatiche sotto il profilo del buon esito di una procedura alternativa al fallimento e si inducono i terzi che sino a quel momento non erano stati ancora toccati dalla crisi dell’imprenditore ad assumere iniziative individuali che non farebbero altro che far precipitare la situazione, rendendo a quel punto inutile ogni tentativo di supporto.

Lo sforzo di produrre una riforma generale del sistema fallimentare italiano rischia di essere inutile se si perde di vista l’obiettivo fondamentale della tutela del credito, che deve essere inteso non solo come il diritto al pagamento vantato da un singolo creditore, ma piuttosto come una componente fondamentale del ciclo economico. Una non adeguata tutela del credito, che non tiene conto degli effetti devastanti che l’insolvenza di un imprenditore produce sulle imprese terze, non fa che allargare l’enorme divario che già esiste tra chi opera all’interno del circuito produttivo e la disciplina giuridica che quel circuito vorrebbe regolamentare.

Ecco allora che gli interventi semantici previsti (cancelliamo la parola “fallimento” e la sostituiamo con “procedura di liquidazione giudiziale”) riformano il sistema solo in apparenza, se nessun cambiamento veramente incisivo viene apportato in concreto al sistema di liquidazione dell’attivo, che deve essere strutturato in modo da garantire almeno un recupero parziale del credito in tempi brevi. Sotto questo profilo la riforma è carente, perché introduce un sistema che non semplifica in nessun modo le procedure di liquidazione, ma al contrario introduce costruzioni barocche (tra le tante, un ente dovrebbe certificare la ragionevole probabilità di soddisfazione dei crediti insinuati al passivo) che non fanno altro che rendere ancora più burocratica una fase che dovrebbe invece essere snella e flessibile, così da poter ridurre davvero la durata delle procedure fallimentari che in Italia, stando agli ultimi dati disponibili tratti dal Registro delle Imprese, è di circa 7 anni.

Twitter: @glmannheimer

12
Ott
2017

La Catalogna non è Andorra—di Mario Dal Co

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Mario Dal Co

Il Protocollo n.4 sullo Statuto del sistema europeo delle Banche Centrali e della Banca Centrale Europea (Statuto della Banca Centrale Europea) prevede, all’articolo 4, dedicato alle funzioni consultive, che la BCE venga consultata  “dalla autorità nazionali, sui progetti di disposizioni legislative che rientrano nelle sue competenze” e, al comma successivo, che la “BCE può formulare pareri da sottoporre alle istituzioni, agli organi o agli organismi dell’Unione o alle autorità nazionali su questioni che rientrano nelle sue competenze”.

Molti si sono esercitati intorno al silenzio (ovviamente “assordante”) dell’Europa sulla questione catalana (Lello Voce sul Fatto Quotidiano, Maurizio Molinari su Rai News24, Stefano Stefanini su La Stampa, per ricordare gli interventi più equilibrati), spostando l’attenzione lontano dal terreno del contendere e dagli attori che hanno contribuito ad elevare la tensione nel contendere.

Proviamo ad approfondire il ragionamento sul silenzio dell’Europa, con riferimento alle questioni monetarie e finanziarie, tra le più dure della questione catalana, tra le meno frequentate nel dibattito politico precedente al referendum.

Facciamo due ipotesi.

Prima ipotesi: le autorità catalane, sentendosi investite di responsabilità nazionali, potrebbero aver consultato la BCE su aspetti di sua competenza connessi alla indipendenza catalana.  Se lo avessero fatto, probabilmente la risposta della BCE sarebbe stata un rinvio del postulante all’autorità nazionale, ovvero al governo spagnolo, che è titolato a porre quesiti alla BCE nella sua veste di consulente delle autorità nazionali sulle questioni di sua competenza. Di questa richiesta respinta  non potremmo sapere nulla, se non ciò che le autorità catalane avessero deciso di dire.

Seconda ipotesi: la autorità nazionali spagnole (qualche mese fa) potevano consultare la BCE sugli aspetti di sua competenza concernenti l’eventualità di un conflitto politico-istituzionale con la Catalogna, destinato a modificare l’assetto dell’adesione  dell’economia e della finanza sella Spagna al sistema Europeo delle Banche Centrali. La BCE, in base alle previsioni dell’articolo 4, avrebbe dovuto rispondere, evidenziando che la fuoriuscita unilaterale della Catalogna dalla Spagna, non comportava affatto la adesione automatica della Catalogna all’Unione e alle sue istituzioni monetarie, evidenziando gli effetti che ciò avrebe comportato su economia, occupazione, risparmi dei catalani, e di qui degli spagnoli e di lì degli altri cittadini europei. Il governo spagnolo avrebbe avuto tutta la convenienza a comunicare urbi et orbi la risposta della BCE. Se ciò non è avvenuto vuol dire che il quesito alla BCE non è stato posto.

Quindi, sono i governi che non attivano l’Europa anche quando ne avrebbero titolo e quando sarebbe doveroso farlo, per tutelare i loro cittadini da improvvide alzate di ingegno dei politici-demagoghi; per informare i cittadini sui contenuti istituzionali delle scelte vengono loro proposte e sulle conseguenze. Scelte che invece vengono lasciate  agli sbandieratori della demagogia, condite degli insulti  e delle ginnastiche di massa che nelle curve degli stadi tengono in costante esercizio la volontà di prevaricazione delle tifoserie sportive. Dimenticano, i governi che ignorano l’Europa quando dell’Europa c’è bisogno, quanto i regimi totalitari del ‘900 abbiano sempre puntato sulla tifoseria nazionalistica per i loro disegni antlibertari e antidemoratici.

Quando si lamenta la pochezza politica dell’Europa e l’egoismo della sua visione della convivenza europea, si vende merce avariata: sono i governi nazionali e locali che non vogliono riconoscere il ruolo dell’Europa quando l’Europa lo può esercitare. E sono pronti a chiederle di intervenire, come l’allargamento del deficit, quando loro, i governi nazionali e locali, non sono capaci di gestire la loro spesa pubblica e il loro prelievo fiscale.

Se il governo spagnolo avesse per tempo consultato ufficialmente la BCE sulle conseguenze della secessione e sulle mutate condizioni di adesione al sistema della banche centrali, non avremmo sentito i separatisti spacciare in modo grottesco Andorra e S. Marino come esempio di mercati-euro, ma non aderenti al sistema, quasi che la Catalogna fosse uno Stato-cartolina. E la BCE avrebbe sicuramente fornito argomenti di moral suasion assai efficaci e facilmente comprensibili anche dalle orecchie dei più irresponsabili assertori dell’indipendenza.

I referendum delle regioni italiane che domandano maggiore autonomia nascono da diverse questioni, alcune non serie come il dialettalismo o l’antivaccinismo, altre molto serie,  come il federalimo fiscale.

Quest’ultimo, obiettivo totalmente mancato dai governi di destra e di sinistra negli ultimi  30 anni, è la risposta alle spinte autonomistiche, ed è anche la risposta all’allegro deficit spending dei governi locali, impuniti free rider che elargiscono i soldi non dei propri elettori, ma del governo centrale. Quindi: più autonomia, ma insieme più responsabilità: in una parola il modello è l’autonomia di Bolzano e non quella della Sicilia, per rimanere entro le nostre ampie latitudini estreme.

Senza questa responsabilità, che oggi manca completamente a causa dell’accentramento del sistema fiscale anche sulle tasse proprie delle Regioni e degli Enti locali, il processo non porterà da nessuna parte, o peggio, porterà ad allargare il buco nero del debito della Pubblica Amministrazione. Torneremo ad impaniarci sul modello Andorra, sulla doppia moneta, sull’imposta patrimoniale, sul salario di cittadinanza, sul pensionamento anticipato, sui lavori socialmente utili, sull’Europa sorda e sulla Germania matrigna e via dilapidando il bene pubblico per eccelenza: la ragionevolezza.

E così, se avremo smarrito il sentiero della responsabilità di chi elegge e di chi viene eletto, anzi avendolo dileggiato in piazza,  applaudiremo ancor più di oggi la demagogia in scena.

10
Ott
2017

La giustizia amministrativa in Italia—di Matteo Repetti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Repetti.

Giustizia amministrativa. E se avessero ragione gli inglesi (anche sulla Brexit)?

In questi ultimi anni, parlare della giustizia amministrativa, dei giudici amministrativi, dei TAR, è piuttosto difficile (ma cosa non è difficile, ormai, in questo paese?): la discussione è pesantemente condizionata dalla cronaca, il dibattito risulta piuttosto schizofrenico (i TAR annullano i provvedimenti dell’amministrazione, ritardano le procedure di gara, bloccano i cantieri, bisogna ripartire da capo, ecc.; no, non è vero, sono un presidio fondamentale contro l’inefficienza e la corruzione, c’è bisogno di legalità, ecc.).

Per descrivere per quanto sommariamente il funzionamento della giustizia amministrativa in Italia può essere utile prendere come riferimento – a contrario – l’ordinamento britannico, che storicamente neppure riconosce l’esistenza del diritto amministrativo come branca del diritto e che sostanzialmente non conosce l’istituzione di un giudice speciale amministrativo (anche se al tempo della Brexit può risultare un’operazione un po’ fuori moda).

Parlando di pubblici poteri e diritto amministrativo, forse si potrebbe dire che tutto ruota intorno alla discrezionalità amministrativa ed al buono (o cattivo) uso che la pubblica amministrazione ne fa. Che poi è semplicemente un altro modo di trattare della risalentissima questione relativa alla distinzione tra diritti soggettivi pieni ed interessi legittimi.

In ragione della preminenza dell’interesse pubblico – di cui in qualche modo la P.A. è portatrice – nei sistemi di diritto amministrativo continentale è riconosciuta una posizione di supremazia dell’amministrazione rispetto ai soggetti privati ed ai cittadini (in ragione dell’influsso esercitato dall’ordinamento francese e, ancor prima, per i motivi storico-culturali rappresentati dall’esperienza delle monarchie assolute continentali e dalla dottrina dello stato etico).

Se è vero che la pubblica amministrazione è costituzionalmente vincolata al principio di legalità, ai precetti posti dalla legge, è altrettanto vero che è dotata di sue speciali prerogative, direttamente derivanti dalla dottrina della separazione dei poteri costituzionali, legislativo, esecutivo e giudiziario.

Non così succede, invece, nell’ordinamento britannico, dove è fondamentale la cd. rule of law, intesa, nelle sue varie implicazioni, come assoluta prevalenza della legge, del diritto comune, del parlamento, della volontà del corpo elettorale espressa mediante libere elezioni, rispetto ad ogni altro potere costituito (corpo amministrativo e giudiziario). Ciò è tanto vero che da quelle parti, pur essendo avvertita la necessità di contenere e contemperare i pubblici poteri (i famosi checks and balances), la dottrina della necessità costituzionale della separazione dei poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – ritenuta immanente negli ordinamenti continentali, è sostanzialmente sconosciuta.

Per intenderci, in Inghilterra i giudici sono tradizionalmente nominati tra i migliori avvocati del regno, e non esiste qualcosa di comparabile alla classe giudiziaria come la conosciamo ad esempio in Italia (con organi di autogoverno, rappresentanze sindacali, ecc.).

Solo recentemente, per effetto delle pressioni esercitate dall’ordinamento comunitario (a cui sembrava inconcepibile la figura del Lord Cancelliere sostanzialmente a capo del potere giudiziario), nel Regno Unito è stata istituita la Corte Suprema. E non è un caso che il sistema britannico non conosca un sindacato di legittimità costituzionale operato da un organo giudiziario, che rappresenta invece la normalità nell’Europa continentale.

In ogni caso, si è detto, nell’ordinamento inglese, in virtù della forza pervasiva ed assorbente della rule of law, intesa come assoluta prevalenza della legge e del parlamento rispetto al potere amministrativo e giudiziario, da una parte viene contestata la stessa esistenza del diritto amministrativo, dall’altra si è storicamente ritenuto che l’istituzione di un giudice speciale amministrativo costituisse una deroga al generalissimo principio di uguaglianza davanti alla legge (e fosse in definitiva espressione di privilegi, come teorizzato da Dicey più di un secolo fa).

Nei paesi di cd. diritto amministrativo, invece, come il nostro, c’è un giudice speciale a cui sono sostanzialmente devolute le questioni e le vertenze in cui è parte una pubblica amministrazione. Anche in Italia, sulla falsariga del modello francese, è stato istituito il Consiglio di Stato e, nel corso degli anni ’70 del secolo scorso, i TAR (Tribunali Amministrativi Regionali).

Ma, fatta tutta questa premessa, come funziona la giustizia amministrativa in Italia?

Beh, diciamo innanzitutto che, da un punto di vista organizzativo, la giustizia amministrativa ha, mediamente, tempi di definizione del contenzioso accettabili, se parametrati a quelli della giustizia ordinaria, di quella civile si intende; in particolare, tradizionalmente è piuttosto rapida la definizione delle istanze cautelari (da qualche tempo anche nelle forme dei provvedimenti resi inaudita altera parte in caso di particolare urgenza).

Riguardo alle caratteristiche del procedimento, nonostante l’evoluzione degli ultimi anni – recepita anche a livello normativo nel nuovo codice del processo amministrativo – come tratto fondamentale il giudizio rimane sostanzialmente di natura impugnatoria (di annullamento dei provvedimenti amministrativi): in buona sostanza, fondamentalmente il giudice amministrativo annulla gli atti amministrativi ritenuti illegittimi. Ciò, nonostante gli sforzi compiuti riguardo alla necessità di passare dal sindacato sull’atto a quello sul rapporto, ovvero sul procedimento amministrativo da cui poi è scaturito l’atto asseritamente viziato.

A questo proposito, basti pensare che, riguardo all’istruttoria ammessa, non è previsto che siano sentiti testimoni od assunte altre prove orali, tutto essendo basato su carte e documenti; ed al posto della consulenza tecnica d’ufficio, per accertare situazioni di fatto rilevanti ai fini di causa tradizionalmente ci si arrangia con altri strumenti d’indagine (cd. ispezioni e verificazioni), spesso demandati a soggetti che fanno anch’essi parte dell’amministrazione, che tuttavia non garantiscono a sufficienza l’assoluta imparzialità dell’accertamento da compiere e spesso neppure un adeguato approfondimento tecnico.

Ma, d’altra parte, l’intera dogmatica continentale ha sempre avuto come oggetto d’indagine privilegiato i vizi dell’atto amministrativo, in un gesuitico e sfinente sforzo di rielaborazione, che cosa si può pretendere adesso? (Gli inglesi no, per loro il provvedimento amministrativo non esiste quasi come nozione, quello che conta è che il procedimento sia fair, sia equo).

E’ da segnalare, poi, il progressivo aumento delle materie (urbanistica ed edilizia, appalti, servizi pubblici, concessioni, espropri, silenzio dell’amministrazione, ecc.) di cd. giurisdizione esclusiva, ovvero delle situazioni in cui le vertenze sono devolute interamente al giudice amministrativo, non distinguendosi più tra diritti ed interessi legittimi. In particolare, il deficit di tutela per il cittadino si verifica nei casi in cui viene avanzata una domanda di risarcimento danni (che, tradizionalmente, non è mai stato il mestiere del giudice amministrativo).

Qualche considerazione va poi fatta relativamente ai meccanismi di reclutamento dei giudici amministrativi. Nei ruoli della magistratura amministrativa si arriva solo in esito a concorsi di secondo livello, e tendenzialmente si attinge tra la dirigenza degli impiegati pubblici. Se in genere ciò garantisce rispetto al grado di preparazione tecnica dei giudici amministrativi, è innegabile come, non fosse altro che per affinità di carriera ed idem sentire, il sistema si esponga a qualche censura, essendo auspicabile una maggiore terzietà.

Tuttavia, almeno a parere di chi scrive, il principale difetto del sistema della giustizia amministrativa in Italia non è tanto l’omogeneità dei giudici rispetto alla P.A., né la sopra citata natura del giudizio, modellato più sulla falsariga del ricorso amministrativo che su quella di un vero e proprio processo. L’aspetto che maggiormente desta perplessità è la stessa idea della teorizzata necessità che le vertenze in cui è parte una P.A. debbano essere devolute a giudici speciali anziché al cd. giudice naturale. Ma così operando, si assiste alla automatica creazione di un ulteriore contropotere, inevitabilmente al centro di interessi ed intermediazioni (di cui, in un paese dalle mille corporazioni e degli infiniti poteri di veto come il nostro, non si sente davvero la mancanza). Insomma, non esattamente in linea con i principi della rule of law anglosassone di cui si è detto sopra.

Si aggiunga che, da un punto di vista più tecnico-giuridico, la stessa coesistenza di una duplice giurisdizione – ordinaria ed amministrativa – fatalmente determina, pressoché in qualunque vertenza in cui è parte una P.A., la preliminare e sfiancante definizione delle immancabili eccezioni di carenza di giurisdizione del giudice effettivamente adito, a scapito del merito delle questioni: solo in base a questa banale considerazione, sarebbe probabilmente ragionevole riunificare la giurisdizione.

Per concludere, con una provocazione (ma neanche troppo): forse aveva ragione Giannini quando, presentando la versione italiana del manuale di diritto amministrativo inglese di Wade alla fine degli anni ’60, manifestava ammirazione per il bistrattato – dalla tradizione amministrativistica continentale – sistema britannico. D’altronde, ci sarà un motivo se nel mondo si parla inglese (e se avessero ragione gli inglesi anche sulla Brexit?).