Lamento di un liberale problematico smarrito a Barcellona
In queste settimane ispide, i liberali risolti si sono paracadutati su Barcellona con i trolley pieni di certezze: i più moderati, con spirito ottocentesco, per difendere l’estado de derecho; i più audaci, con furore futurista, per testimoniare l’atteso declino dello stato nazionale. Poi c’è il liberale problematico, paralizzato sulle ramblas con la cartina in mano, incapace di battezzare una direzione. Quando ha visto due milioni di catalani farsi strada tra i manganelli di Madrid per dire sì all’autonomia, il liberale problematico – o almeno questo liberale problematico – ha tentato, con una certa pervicacia, di appassionarsi alla causa; ma quando lo stesso liberale problematico ha visto un altro milione di catalani – 350 mila según la policía; anzi: segons la policia – scendere in piazza per l’unità nazionale, gli si sono incrociate le pupille. È riaffiorata, nel liberale problematico, la familiare sensazione che la seggiola della Realpolitik fosse eccessivamente angusta per il suo pensoso deretano e che, nel derby ideologico tra il governo e la Generalitat, l’opzione più ragionevole fosse quella terzista: né con Rajoy, né con Puigdemont.
Eppure il liberale problematico è perfettamente a proprio agio con la teoria delle piccole patrie: unità politiche di dimensioni più contenute riducono la distanza tra governanti e governati, rendendo più efficace il controllo di quest’ultimi sull’operato dei primi; favoriscono il voto coi piedi, cioè la defezione (difficile smentire che migrare da Barcellona a Valencia sia, tutto sommato, meno oneroso che abbandonare Mosca per Vienna); circoscrivono i costi dell’azione collettiva senza pagare dazio – pun intended – in termini di accesso ai mercati globali; favoriscono la sperimentazione istituzionale e, dunque, l’evoluzione di meccanismi sociali più funzionali e robusti; e chissà mai che, di secessione in secessione, non riescano pure a precipitare l’indipendenza dell’unica minoranza che il liberale problematico abbia veramente a cuore: l’individuo.
Se, poi, l’effetto sistemico di una simile ondata particolaristica fosse quello di disgregare l’idea di sovranità nazionale, a dolersene non sarebbe certo il liberale problematico – che, quando non vuole eliminare lo stato, vuole almeno rimpicciolirlo abbastanza da poterlo affogare in una vasca da bagno, per rievocare l’arrapante allegoria coniata da Grover Norquist. L’equivoco, però, risiede esattamente in questo, nell’equazione tra stato minimo e stato minuscolo: il liberale problematico non mira a fare a fette il potere, bensì a polverizzarlo. E proprio il caso di Barcellona solleva perplessità tutt’altro che banali da questo punto di vista: una Catalogna autonoma sarebbe giocoforza una Catalogna più libera? E, soprattutto, lo sarebbe tanto per i catalani indipendentisti quanto per quelli unionisti? Alcuni indici fanno temere il contrario.
In primo luogo, la campagna per la secessione della Generalitat è colorata da una marcata componente identitaria, sicché, più che al tentativo di scardinare l’identità spagnola, assistiamo alla sfida tra due opposti nazionalismi. Del resto, uno straordinario indagatore del pluralismo istituzionale come Gianfranco Miglio insegnava, trent’anni fa, che «le grandi Nazioni non esistono» e che il vero nazionalismo è il «micro-nazionalismo», cioè quello di «aggregati tenuti insieme non da grandi principî, da grandi ideali, ma da un minuto reticolo di molteplici affinità, da radicate abitudini quotidiane»; il che, beninteso, non era una controindicazione agli occhi dello studioso comasco, che anzi faceva perno su questa constatazione per smascherare la natura mimetica del «macro-nazionalismo»; e, tuttavia, ogni pretesa d’omogeneità etnica e culturale dovrebbe preoccupare il liberale problematico, necessariamente cosmopolita.
Quest’elemento, per inciso, distingue la vicenda catalana da quella – ad essa sovente e impropriamente accostata – delle regioni italiane del Nord, il cui anelito di autonomia (peraltro assai più blando) ha un contenuto essenzialmente utilitaristico, come confermano indirettamente i numeri: il residuo fiscale della Catalogna è di meno di 10 miliardi di euri l’anno: circa la metà di quello veneto e un quinto di quello lombardo. Ecco, dunque, un secondo motivo di scetticismo: indipendenza sì, ma per farci cosa? La maggioranza autonomista di Barcellona è un’accozzaglia che tiene insieme democristiani paludati e comunisti da operetta: una volta risolto l’annoso problema dell’insegnamento del catalano nelle scuole, quali prospettive per il futuro della regione potranno unire quest’improbabili alleati? Una Catalogna indipendente diventerebbe la Hong Kong d’Europa o un angolo di Bolivia affacciato sul Mediterraneo?
Terzo profilo critico: siamo proprio sicuri che la causa della secessione sia plebiscitaria nella società catalana? Al referendum del primo ottobre ha partecipato poco più del 40 per cento degli aventi diritto: certo, i custodi della democrazia in assetto da sommossa all’ingresso dei seggi non sono un grosso incentivo alla partecipazione, ma gli sviluppi successivi hanno evidenziato la presenza – e la consistenza relativa – delle istanze unioniste. Come conciliare l’esistenza di queste due anime attraverso un processo maggioritario che necessariamente esclude ogni possibilità di contemperamento? Si fa presto a parlare di autodeterminazione dei popoli, ma occorre una certa dose di sospensione dell’incredulità.
Anticipo le obiezioni dei liberali risolti: il liberalismo è una dottrina di principî (“il rispetto della legalità!”, sbraitano gli ottocenteschi; “la libertà di scelta!”, ribattono i futuristi) e io mi sto trastullando con le loro conseguenze concrete. Piano: la legalità non può essere una camicia di forza; e la libertà di scelta compete alle persone, non al popolo – qualunque cosa sia. Per parte mia, credo – con i futuristi – che un liberalismo coerente non possa prescindere dal diritto di secessione: ma anche che questo diritto vada esercitato con la massima cautela a tutela degli individui: perché è vero che, da gabbie più piccole, può essere più agevole scappare, ma – in attesa della fuga – la permanenza rischia di essere ben più dolorosa.