13
Nov
2017

Impiego pubblico percepito-di Matteo Repetti

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Matteo Repetti.

 

Nei giorni scorsi è comparso sul Corriere della Sera un articolo “Eurostat: l’Italia del pubblico impiego? Semmai è il Paese delle badanti – La bufala del pubblico impiego” (6 novembre), di cui riporto alcuni passaggi:

“Ma l’Italia è davvero il Paese dei miracolati del posto fisso alla Checco Zalone, il Bengodi degli impiegati pubblici? Apparentemente no. Semmai, siamo diventati la terra delle badanti. Questo almeno dicono gli ultimi dati Eurostat sul lavoro in Europa”.

In particolare, nel nostro Paese la percentuale degli impiegati pubblici rispetto al dato complessivo degli occupati è del 18,9 per cento. “Ma se facciamo il confronto con gli altri Paesi siamo al quintultimo posto per numero di colletti bianchi. In testa ci sono i soliti svedesi (34 per cento), seguiti a ruota da danesi (30,8 per cento) e belgi (30,6 per cento). Al quarto posto si confermano i francesi (30,1). Tutti gli altri sono sotto il trenta per cento: inglesi e tedeschi attorno al 25 (25,1 per cento e 24,6 per cento), giù giù fino all’Italia che sta sotto il 20 per cento”.

A voi pare uno scenario verosimile? A me no. E’ davvero possibile che in Italia ci siano molti meno dipendenti pubblici che a Londra ed in Inghilterra? Dove sta il trucco?

Il busillis sta nelle pieghe del cosiddetto ed ipertrofico “para-pubblico”.

I dati presi in considerazione da Eurostat sono tendenzialmente relativi agli “employee numbers in central public administration of EU Member States”, ovvero ai – tradizionali – impiegati presso lo Stato e le Amministrazioni centrali (Ministeri, Sanità, Scuola, vecchie Intendenze di Finanza, Forze di Polizia, ecc.).

Rimane fuori da questa contabilità ufficiale tutto ciò che è storicamente para-pubblico e/o che è stato interessato da processi di privatizzazione solo formale a partire dagli anni ’90, così come le funzioni ed i servizi solo apparentemente esternalizzate ma comunque sempre riconducibili al comparto pubblico e rigorosamente a carico del contribuente: agenzie fiscali, enti pubblici economici, enti di ricerca, società partecipate, enti previdenziali ed assistenziali, fondazioni culturali, ex municipalizzate, società cd. in house di servizi pubblici, enti locali di varia natura, ecc..

Si tratta di un arcipelago praticamente sterminato, rispetto al quale non ci sono dati ufficiali, come se la presa di realtà di un fenomeno così pervasivo e generalizzato non fosse sostenibile, psicologicamente ancor prima che finanziariamente.

Insomma, per risolvere il problema ed apparire virtuosi in ambito comunitario, all’impiego pubblico basta cambiargli di nome e far finta che non esista. Se non puoi convincerli, confondili.

10
Nov
2017

ATAC: l’unica vera rivoluzione è il mercato

“Per effetto di politiche sciagurate ATAC rischiava il fallimento, noi la salveremo mantenendola saldamente in mano pubblica”. Così dichiarava Virginia Raggi poco più di un mese fa, dipingendo la decisione di prorogare l’affidamento in house del trasporto pubblico locale romano fino al 2024 come “una rivoluzione”. Peccato che, di rivoluzionario, quella scelta non abbia proprio niente. Ad essere rimasto “saldamente in mano pubblica” da quando esiste, infatti, non è solo il trasporto pubblico di Roma, ma la stragrande maggioranza dei servizi pubblici locali di tutta Italia. Basti pensare che sul totale dei servizi pubblici locali italiani – compresi quindi i trasporti, ma anche la gestione dell’acqua e dei rifiuti – tre su quattro sono partecipati in misura maggioritaria dagli enti territoriali di riferimento.

E sono proprio questi ultimi, di norma, ad essere i destinatari degli affidamenti in house, cioè senza gara: in pratica, i comuni affidano la gestione dei servizi pubblici direttamente alle partecipate, in barba alla concorrenza, alla trasparenza, all’efficienza. È, questo, il tragico effetto dei referendum “sull’acqua pubblica” del 2011, che ha comportato l’abrogazione della norma che consentiva di affidare la gestione dei servizi pubblici locali a società interamente pubbliche solo in situazioni del tutto eccezionali, che non permettessero il ricorso al mercato. Oggi, invece, la gestione in house e quella attraverso procedure competitive sono di fatto messe sullo stesso piano, lasciando maggiore discrezionalità di scelta ai comuni. Che – indovinate un po’? – scelgono spesso l’opzione che dà loro più potere.

Teoricamente, i comuni non potrebbero affidare i servizi in house senza ragioni specifiche. La norma che ha sostituito quella abrogata dai referendum impone che l’affidamento del servizio venga effettuato sulla base di una “relazione”, pubblicata dall’ente affidante, che dia conto “delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti per la forma di affidamento prescelta”. E sebbene la norma abbia portata generale, è evidente che la necessità di questa “relazione” emerga principalmente nei casi degli affidamenti diretti in house, che presentano le maggiori criticità rispetto alla normativa europea sulla concorrenza nei servizi pubblici. E quali sono, per gli affidamenti in house, i “requisiti” previsti? Essenzialmente tre: l’esistenza di peculiari caratteristiche del contesto territoriale di riferimento che non permettano un efficace e utile ricorso al mercato; la proprietà interamente pubblica, il rispetto della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e la prevalenza dell’attività svolta dalla stessa per conto e nell’interesse dell’ente pubblico controllante; e la previa effettuazione di un’analisi comparativa di mercato che dimostri la convenienza economica della scelta.

L’affidamento ad ATAC del servizio di trasporto pubblico locale di Roma rispetta questi requisiti? È quello che si è chiesta l’Autorità antitrust in un’indagine culminata in un parere, rivolto al Comune di Roma, in cui lo invita a “valutare con estrema attenzione” la loro sussistenza. Sia perché la situazione di grave crisi economica e finanziaria in cui versa ATAC non sembra giustificare la proroga del contratto di affidamento, sia perché, qualora intendesse affidare nuovamente il servizio in house ad ATAC, il Comune dovrebbe dimostrare che la scelta sia, se non la più efficiente, quantomeno mediamente efficiente rispetto al ricorso al mercato. E considerata la situazione in cui versa ATAC, appunto, sembrerebbe difficile sostenere che l’in house possa essere, ancora una volta, considerata una soluzione efficiente.

L’unica vera rivoluzione, cara Virginia Raggi, è il mercato. È procedere con il concordato preventivo in continuità, perché oggi vendere ATAC o farla fallire è improponibile, e nel 2019 mettere finalmente a gara il servizio. Facendo competere in modo trasparente aziende diverse, che possano finalmente garantire ai romani un servizio di trasporto pubblico degno di una capitale europea.

Twitter: @glmannheimer

9
Nov
2017

Repetita iuvant: vendere quote del tesoro alla Cassa Depositi e Prestiti non significa privatizzare.

Dopo Enav, ecco Eni. Il “nuovo” programma di privatizzazioni del governo sembra finalmente prendere forma. Stando alle ultimissime notizie, l’esecutivo punta a recuperare circa 2,5 miliardi di euro dalla vendita della quota del Tesoro in Enav e dalla cessione del 2,15% della quota del Tesoro in Eni a Cassa Depositi e Prestiti (CdP) entro la fine dell’anno. Inutile ricordare come queste operazioni siano, oggi come sempre, delle semplici partite di giro (a.k.a. finte privatizzazioni).

Nonostante la CdP rimanga fuori dal perimetro contabile della pubblica amministrazione, essa è una Cassa finanziata e controllata al 100% dal pubblico. Ad oggi, il Ministero dell’Economia e delle Finanze controlla l’82,77% del capitale della CdP, il 15,93% è detenuto da una folta schiera di fondazioni bancarie, mentre l’1,3% è controllato dalla CdP stessa, attraverso Azioni proprie. Di conseguenza, l’idea di vendere alcuni “gioielli di famiglia” alla CdP non è da considerarsi assolutamente una privatizzazione. Contrariamente alla definizione di privatizzazione, in questa circostanza il governo non farebbe ricorso al mercato, né sposterebbe la proprietà di un ente o di una società dal controllo statale a quello privato.

Non è un caso che, come riporta anche Bloomberg, questa mossa rischia di essere completamente snobbata dagli investitori. Secondo molti analisti, infatti, questa “privatizzazione all’Italiana” rimuoverebbe dal bilancio statale un’entità pubblica mantenendola essenzialmente sotto il controllo governativo, senza ridurre in alcun modo la presenza dello stato all’interno dell’economia.

Dopo un già misero 2016 (in cui il MEF è riuscito a raccogliere solo lo 0,1% del PIL dalle “privatizzazioni”), il Governo ha previsto per l’anno in corso una forte riduzione del target delle privatizzazioni. Mentre nel DEF 2016 si parlava di proventi derivanti dalle privatizzazioni pari allo 0,5% per gli anni 2016, 2017 e 2018 (una cifra attorno agli 8 miliardi all’anno per tre anni), oggi il governo punta a recuperare solo lo 0,2% del PIL. Troppo poco per ridurre il debito pubblico e per cercare di mettere in sicurezza finanze pubbliche che paiono essere sempre più fragili e mal gestite.

Nel corso degli ultimi anni la Cassa Depositi e Prestiti è tornata prepotentemente al centro della politica industriale italiana. Dopo aver assorbito pezzi crescenti d’industria, tra cui Snam, Terna, Fincantieri, Eni, Saipem Ansaldo Energia, il colosso in mano al MEF è ora pronto a comprare tutta la quota del Tesoro in Enav e metà delle rimanti quote del Tesoro in Eni. Mentre la CdP ha ormai assunto tutte le sembianze di una nuova IRI, all’interno del governo regna la confusione più totale e – per ora – di vere privatizzazioni meglio non parlarne.

7
Nov
2017

“Paradise Papers”: dov’è lo scandalo?

I “Paradise Papers” assomigliano più ad un’ottimizzazione fiscale che ad una frode, che è molto più sottovalutata dalle imprese interessate rispetto ai media che denunciano questo finto scandalo.

Alcuni giornali francesi, che fanno parte del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi e di 95 media associati, hanno pubblicato un nuovo scandalo rivelando 13,5 milioni di documenti, dei quali una buona parte fuoriuscita da studi di avvocati esteri specializzati nella finanza offshore e dai registri della cancelleria di tribunali commerciali situati nei cosiddetti “paradisi fiscali”.

Ma dove sarebbe lo scandalo? Vengono rivelati milioni di documenti ottenuti con metodi fraudolenti in quanto coperti da segreto professionale o bancario. Ma, nota Le Monde, «contrariamente ai “Panama Papers”, questa nuova inchiesta riguarda in modo molto minore il riciclaggio di denaro sporco, derivante da frode fiscale e da altre attività illecite (traffico di armi, di droga etc.), ma prende in considerazione piuttosto alcuni sistemi legali realizzati da squadre di esperti in ottimizzazione fiscale». In altre parole: «Alcuni di questi sistemi non possono al momento – parafrasando il quotidiano parigino – essere qualificati come fraudolenti!» La frode è quindi sottovalutata dalle imprese coinvolte rispetto ai giornali che denunciano questo sedicente scandalo.

L’ottimizzazione fiscale non è deplorevole. La maggior parte dei francesi che pagano l’imposta sul reddito la fanno quando si chiedono, nel momento della loro dichiarazione dei redditi, come poter ridurre la propria imposta utilizzando una delle numerosissime nicchie fiscali che sono loro offerte. Questo è niente di più e niente di meno che ottimizzazione fiscale. E ad esempio, quando i francesi guadagnano 300 euro di imposta in questo modo su 2000 euro di imposta che pagano, questo guadagno equivale ai 300 milioni di euro che risparmiano le multinazionali facendo la pianificazione fiscale legale rispetto ai 2 miliardi di euro di imposta che pagano.

Certamente, si può trovare ingiusto che le società più ricche cerchino anche di evitare le imposte. Ma se queste aziende lo fanno in maniera legale, bisogna piuttosto domandarsi perché le leggi fiscali siano così mal scritte e permettano tutto questo.

Il problema è che la legge fiscale di tutti i paesi sviluppati, e in particolare della Francia, è diventata un labirinto. E ci si nasconde più facilmente in un labirinto che in un deserto. Inoltre, la fiscalità è diventata, in particolare in Francia, eccessiva e spogliatrice. La cura non consiste quindi nel dare la caccia alle streghe, ma nel riformare il fisco per semplificarlo, per renderlo più chiaro e per rendere i tassi di imposta più ragionevoli.

A furia di voler combattere i ricchi, si rischia, invece e soprattutto, di danneggiare ulteriormente i ceti meno abbienti. Nel corso degli ultimi quarant’anni i più ricchi si sono arricchiti maggiormente rispetto alla media. Negli ultimi due decenni questo trend è principalmente una conseguenza del successo di meravigliose imprese che operano all’interno della cosiddetta “new economy” e dell’apertura degli scambi a livello mondiale. Ma nello stesso tempo la povertà, che interessa coloro che vivono con meno di 1,90$ al giorno, si è ridotta di quasi l’80%. L’effetto di “trickle-down”, che vuole che la creazione della ricchezza giovi più o meno a tutti, è stato efficace. Come direbbe Emmanuel Macron, abbiamo bisogno di capicordata affinché tutta la cordata sia tirata su.

Il punto è quindi capire se conviene di più lottare contro i ricchi o contro la povertà. Tutti i sistemi hanno i propri difetti ma, tutto sommato vivere in Occidente è meglio che vivere in Corea del Nord o in Venezuela. D’altronde questi ultimi paesi dimostrano che con la ricerca dell’uguaglianza a tutti i costi, si diffonde invece una miseria generalizzata e si favorisce la corruzione come fonte di disuguaglianze ancora più profonde perché fondate sulla frode e sull’eccesso di potere permanente.

Infine, e più fondamentalmente, bisogna diffidare di questa nuova dottrina che vuole imporci la trasparenza totale di tutti noi davanti agli altri. Ci ritroveremo presto nudi e privati della nostra intimità che fonda la nostra umanità. Il saggista tedesco Byung-Chall Han lo dice con chiarezza sottolineando che nei suoi eccessi «La trasparenza è una controfigura della trascendenza».

 

L’articolo è comparso originariamente su Institut de Recherches Économiques et Fiscales il 6 novembre 2017 col titolo “Mais où est vraiment le scandale des «Paradise Papers»?”.
Traduzione dal francese di Lucia Caraccia.

 

24
Ott
2017

Referendum autonomia Lombardia: un ottimo risultato

Dopo oltre due decenni di discussione politica, domenica 22 ottobre i cittadini lombardi e veneti hanno finalmente avuto l’opportunità di esprimere la propria opinione sull’autonomia delle loro regioni. Risultato finale: 5.1 milioni di cittadini si sono espressi a favore del quesito. Si può tranquillamente parlare di risultato importante, che conferma la necessità di cambiamento. Il rapporto di potere tra stato e regioni è da sempre il vero problema del nostro paese. Non è quindi un caso che l’attuale status quo venga percepito da moltissimi cittadini italiani (non solo “settentrionali”) come ingiusto ed iniquo. Di conseguenza, il convincente risultato di domenica evidenza un forte stato di malessere, lontano dall’essere risolto.

Effettuando una simpatica e semplice simulazione di voto, se alle prossime elezioni l’affluenza si attesterà al 75% (la stessa del 2013), 5.1 milioni di voti equivarrebbero ad un partito del 15%. Stando agli ultimi sondaggi EGM Acqua per il TG La7, un partito di queste proporzioni sarebbe il terzo partito più grande d’Italia. Giusto poi ricordare come il 55% degli elettori che hanno votato a favore dell’autonomia (quasi 2,9 milioni di cittadini) siano lombardi.

Se da un lato Luca Zaia ha però ottenuto una vittoria convincente sotto tutti i punti di vista (complimenti!), dall’altro lato Roberto Maroni è stato accusato di aver “fallito”, o comunque di aver ottenuto un risultato “appena sufficiente”.

Nonostante, in linea di principio, tutte le maggiori forze politiche (dalla Lega al PD; da Forza Italia al MoVimento 5 Stelle) fossero da tempo favorevoli al referendum per l’autonomia della Lombardia, la realtà era – ed è – molto più complessa. Giuseppe Sala, sindaco di Milano, pur augurandosi di vedere le urne affollate, non ha votato. La segreteria lombarda del PD ha mantenuto toni neutrali ma critici, spiegando come la consultazione fosse inutile e dispendiosa. In Via del Nazareno sono invece rimasti contrari al referendum. Forza Italia ha mantenuto un profilo moderato (tra meno di due settimane si terranno le elezioni regionali in Sicilia e stando agli ultimi sondaggi il candidato del centro-destra, Nello Musumeci, è in vantaggio). Il MoVimento 5 Stelle si è espresso a favore del referendum in modo soft. Non è una notizia ricordare che Di Maio & Co. non godono di ampia fiducia in Lombardia.

La maggior parte dei media si sono poi schierati contro il referendum. L’idea che il “ricco” Nord volesse – e voglia – rubare soldi al “povero” Sud è stata la più gettonata. Dopo il voto, invece, i media hanno subito evocato il “modello catalano”. In altre parole, fino ad oggi, la strategia adottata dalla maggior parte dei giornalisti, degli accademici e degli addetti ai lavori è stata quella di impaurire i cittadini. Un altro cavallo di battaglia post-referendario riguarda infine il dato dell’affluenza. Molti, infatti, cercano di spiegare come in Lombardia l’affluenza sia stata bassa. Il referendum è dunque da considerarsi un insuccesso.

Ma è veramente così? Assolutamente no. Analizzando i dati di tutte le consultazioni referendarie dal 1997 ad oggi, si può notare l’esatto opposto. L’affluenza lombarda è stata – tutto sommato – alta. Un risultato soddisfacente. Facendo la media delle 12 consultazioni referendarie tenutesi negli ultimi 20 anni (con un totale di 33 quesiti posti ai cittadini) il risultato di domenica è positivo.

Ma c’è di più. L’affluenza di domenica è stata superiore di oltre 1 punto percentuale alla media di tutti i 33 quesiti controllati. Inoltre, è interessante notare come solo 7 quesiti abbiano richiamato alle urne una percentuale di lombardi più elevata. Nel corso di questi ultimi 2 decenni l’affluenza più alta la si è riscontrata lo scorso 4 dicembre, quando il 74,23% dei lombardi ha espresso parere sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi. In Lombardia, la media dei 33 quesiti analizzati è pari a 37,02%. Sommando l’affluenza di tutti i quesiti precedenti al referendum di domenica (escludendo quest’ultimo), la media si attesta al 36,98%.

Oltre all’elevato numero di “Si” (2.875.438 persone), il 38,25% di domenica si conferma un ottimo risultato per la regione Lombardia, regione che – è importante ripeterlo – nel 2015 aveva raggiunto un residuo fiscale di 54 miliardi di euro.

Tabella 1: dati affluenza Lombardia di tutte le consultazioni referendarie (abrogative, costituzionali, consultive) nel periodo 1997-2017.