22
Nov
2017

Il diritto alla casa non può passare per la negazione della proprietà

In una fresca giornata di primavera di quattro anni fa, trecentocinquanta persone occupavano illegalmente un intero edificio in via Caravaggio, a Roma. Era l’inizio di un vero e proprio incubo: la denuncia, sporta dai proprietari dell’immobile immediatamente dopo l’occupazione, cadeva nel vuoto. Tutti erano stati messi al corrente: la procura, la polizia, il questore, il prefetto e il sindaco di Roma. Eppure, nessuno tentò di sgomberare l’edificio. Nei giorni successivi gli occupanti manomisero le centrali termoelettriche, la rete idrica e quella antincendio, oltre a svolgere abusivamente alcuni lavori di ristrutturazione. I proprietari, a quel punto, presentarono una richiesta di sequestro preventivo alla procura, ma non bastò nemmeno questo. Il sequestro fu disposto, ma mai attuato.

Di storie come questa se ne potrebbe raccontare tante. Solo a Roma sono centinaia gli immobili occupati, uno addirittura da tredici anni, senza contare le violazioni che non riguardano interi edifici ma singole unità immobiliari. E del resto non è un mistero che le occupazioni abusive, nell’ordinamento italiano, costituiscano reato solo in teoria. Negli ultimi anni si è assistito a un graduale affievolimento della tutela della proprietà nei loro confronti: sempre più spesso infatti le occupazioni abusive sono valutate dai decisori pubblici e dai tribunali, nei loro effetti e problemi connessi, contemperando esigenze e interessi diversi: dal principio alla legalità all’ordine pubblico, dalla dignità personale al diritto all’abitazione; in questo bilanciamento, tuttavia, il diritto di proprietà non rientra quasi mai, se non indirettamente.

Alla base di questo sconsiderato disprezzo per il diritto di proprietà c’è la convinzione che tenere in considerazione altri diritti nel bilanciamento con quello di proprietà conduca verso una società più umana e ‘giusta’. Ma si tratta di un’illusione: in questo modo si procede a passo spedito, piuttosto, verso una società in cui non vi è certezza del diritto e in cui, quindi, ogni assunzione di responsabilità e ogni investimento divengono esercizi di speranza verso la benevolenza di uno Stato arbitrario, che decide di riconoscere o negare i diritti di proprietà con un semplice gesto del pollice.

Di storie come quella dell’immobile di via Caravaggio, dicevamo, ce n’è tante. Ma è la sentenza con cui il Tribunale di Roma ha chiuso, almeno temporaneamente, la vicenda, a costituire un precedente importante. I giudici, infatti, hanno riconosciuto che lo Stato ha l’obbligo giuridico di impedire l’occupazione di un edificio o quantomeno di adottare, in un lasso di tempo ragionevole, le misure necessarie per porvi fine. Non aver agito per oltre quattro anni, nel caso in questione, ha pertanto compresso illegittimamente i diritti fondamentali del proprietario. E la responsabilità di tutto questo – conclude la sentenza – è del Ministero dell’Interno, da cui dipendono le forze di polizia incaricate dell’esecuzione del sequestro quattro anni fa. Con conseguenze molto concrete: il Tribunale ha infatti condannato il Ministero a pagare al proprietario quasi 300mila euro al mese, da quando fu disposto il sequestro preventivo fino a quando l’immobile sarà finalmente liberato.

È una sentenza significativa, questa, non solo per il precedente che crea, ma soprattutto perché mette a nudo con grande chiarezza l’ipocrisia di uno Stato che – non riuscendo a garantire un diritto sociale – lo pone in contrasto con altri diritti, in questo caso quello di proprietà. E che, così facendo, dimostra tre volte la propria inefficacia: nel non riuscire a garantire il diritto all’abitazione agli occupanti, nel non riuscire a garantire il diritto di proprietà ai proprietari, e nell’essere pertanto costretto a rimborsare questi ultimi con i soldi dei contribuenti. Un monito, speriamo, per comprendere finalmente che il riconoscimento del diritto all’abitazione non può passare per la negazione del diritto di proprietà.

Twitter: @glmannheimer

21
Nov
2017

Tassare le sigarette elettroniche per tutelare la salute o il gettito?

La Corte Costituzionale ha il non facile compito di esaminare il corretto uso della discrezionalità legislativa, verificando se questa è per caso stata esercitata in contrasto con i parametri costituzionali, in modo discriminatorio, incoerente e così via.
Ma il “giudice delle leggi” dovrebbe almeno evitare di argomentare esso stesso in modo manifestamente irragionevole, con impiego di motivazioni contraddittorie, come accaduto con la recente sentenza n. 240 del 2017, con cui è stata salvata la norma che estende alla vendita delle sigarette elettroniche – sostanze liquide aromatiche senza nicotina – lo stesso  regime delle accise sulla produzione e vendita dei tabacchi lavorati.
In una recentissima occasione, peraltro, i giudici costituzionali (relatore, anche allora, Giuliano Amato) avevano deciso diversamente, affermando l’illegittimità della norma che sottoponeva a imposta di consumo la commercializzazione di prodotti non contenenti nicotina e idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati.
La sentenza n. 83 del 2015 ha infatti ravvisato la «intrinseca irrazionalità della disposizione che assoggetta ad un’aliquota unica e indifferenziata una serie eterogenea di sostanze, non contenenti nicotina, e di beni, aventi uso promiscuo», tenuto conto che «mentre il regime fiscale dell’accisa con riferimento ai mercato dei tabacchi trova la sua giustificazione nel disfavore nei confronti di un bene riconosciuto come gravemente nocivo per la salute e del quale si cerca di scoraggiare il consumo, tale presupposto non è ravvisabile in relazione al commercio di prodotti contenenti “altre sostanze” diverse dalla nicotina, idonee a sostituire il consumo del tabacco, nonché dei dispositivi e delle parti di ricambio che ne consentono il consumo».
Per la Corte l’imposta sui tabacchi si giustifica dunque come tributo extrafiscale, introdotto per  scoraggiare il consumo di sostanze nocive per la salute: l’obiettivo del legislatore è raggiunto se l’ammontare dell’accisa è tale da scoraggiare le persone all’acquisto e al consumo di tabacchi. Un tributo di questo tipo non si prefigge l’obiettivo di massimizzare il gettito, anzi paradossalmente raggiunge il suo massimo risultato quando le entrate, insieme al consumo del tabacco, si azzerano.
Il legislatore, dopo la dichiarazione di incostituzionalità, non si è però arreso, e ha reintrodotto l’accisa sui tabacchi lavorati (nella misura ridotta del 50 per cento) anche sulle sostanze liquide da inalazione senza nicotina, le cosiddette sigarette elettroniche, con una norma che ha sollevato analoghi dubbi di legittimità costituzionale (data l’irragionevole equiparazione al tabacco di prodotti privi di nicotina, in contrasto con la ricordata ratio dell’imposta e il suo obiettivo di scoraggiare il consumo di prodotti nocivi). Ma stavolta la Corte ha deciso diversamente, sulla base di argomenti, svelati nell’ultima parte della sentenza, che lasciano interdetti.
Per la Corte «l’imposta di consumo in questione – la cui finalità primaria è data dal recupero di un’entrata erariale (l’accisa sui tabacchi lavorati) erosa dal mercato delle sigarette elettroniche – non contrasta con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., anche nella parte in cui assoggetta i liquidi privi di nicotina alla medesima aliquota impositiva dei liquidi nicotinici. Essa, infatti, colpisce beni del tutto voluttuari, immessi in consumo dai fabbricanti e dai produttori, che per ciò stesso dimostrano una capacità contributiva adeguata, così come i consumatori finali sui quali viene traslata l’imposta. D’altronde, al legislatore spetta un’ampia discrezionalità in relazione alle varie finalità alle quali s’ispira l’attività di imposizione fiscale, essendogli consentito, sia pure con il limite della non arbitrarietà, di determinare i singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all’obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza. Nondimeno, la finalità secondaria di tutela della salute propria dell’imposta di consumo, che già di per sé giustifica l’imposizione sui prodotti nicotinici, legittima anche l’eventuale effetto di disincentivo, in nome del principio di precauzione, nei confronti di prodotti che potrebbero costituire un tramite verso il tabacco».
Insomma, la Corte da un lato considera l’accisa sui tabacchi un tributo pigouviano, non finalizzato a reperire entrate ma volto a eliminare le conseguenze dannose del fumo derivante dalla combustione del tabacco e dalla nicotina, ma dall’altro mette a fondamento della propria ratio decidendi l’esigenza di contrastare l’erosione del gettito prodotta dalle sigarette elettroniche, senza rendersi conto (?) che attribuire all’imposta sulle sostanze liquide non nicotiniche la “finalità primaria” di recupero di un’entrata erariale contrasta in modo insanabile con l’affermata natura extrafiscale dell’accisa sui tabacchi, il cui obiettivo non è il gettito ma la tutela della salute.
Che senso ha tassare dei comportamenti alternativi al consumo di tabacco, se è questo che si vuole scoraggiare?
Per giustificare l’imposta sulle sigarette elettroniche alla luce del principio di capacità contributiva la Corte è poi costretta a evocare le vecchie imposte suntuarie, sulle spese di lusso, ritenendo tali – in modo grottesco – le sigarette elettroniche (in un contesto in cui, diversamente da quello pre-moderno in cui trovavano applicazione le imposte suntuarie, tutti i consumi scontano l’Iva e a monte hanno scontato l’imposta sul reddito).
Infine, dopo aver inspiegabilmente degradato a “finalità secondaria” dell’accisa la tutela della salute (ma la sentenza 83/2015 non aveva affermato che l’accisa “trova la sua giustificazione nel disfavore nei confronti di un bene riconosciuto come gravemente nocivo per la salute e del quale si cerca di scoraggiare il consumo”?), la Corte prova a puntellare il ragionamento richiamando il principio di precauzione, che giustificherebbe un’imposizione su prodotti che potrebbero costituire un tramite verso il tabacco.
Le evidenze empiriche sembrano però suggerire che le sigarette elettroniche senza nicotina costituiscono un’alternativa non nociva (o di gran lunga meno nociva) al consumo di tabacco, non già un viatico per passare prima o poi al fumo tradizionale. Quello della Corte è un modo di argomentare che ricorda quello secondo cui le droghe leggere costituiscono l’anticamera delle droghe pesanti, ma sembra in realtà solo strumentale all’obiettivo di tutelare le entrate dello Stato.
La spiacevole impressione che la sentenza trasmette è che per i giudici costituzionali la tutela della salute sia meno importante della salvaguardia del gettito, che esso sì non deve – è il caso di dirlo – “andare in fumo”.
15
Nov
2017

Accise tabacchi più alte: per quale scopo?—di Alessia Sbroiavacca

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Alessia Sbroiavacca

Un importante emendamento alla legge di bilancio per il 2018 prevede che i maggiori introiti derivanti dal consumo dei tabacchi sarebbero destinati alla copertura dei costi delle cure dei malati di cancro. Segnatamente, in base a quanto testualmente recita l’emendamento 41.0.36 e che introduce un articolo 41-bis, rubricato “accise sui tabacchi”, il maggior gettito derivante dall’incremento dell’aliquota delle accise sui tabacchi di prima istanza ipotizzato in misura non inferiore ad euro 600 milioni – verrebbe ad essere destinato in parte al Fondo per i farmaci oncologici innovativi (euro 500 milioni) ed in parte al Fondo sanitario nazionale (euro 100 milioni). Si noti, solo il secondo Fondo godrebbe di un incremento delle risorse disponibili, mentre l’accredito al primo dell’importo previsto servirebbe a svincolare una pari somma che confluirebbe nella quota di finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale.

Se adottata, la misura in parola, caldeggiata anche dal Ministro Lorenzin, promotrice della “crociata” contro il fumo, sembrerebbe generare un vincolo di destinazione del maggior gettito conseguito dall’Erario: ogni sigaretta acquistata dai consumatori costerà qualche centesimo in più e questi maggiori introiti confluiranno nei predetti Fondi per curare i malati di cancro.

Ad una attenta disamina del contenuto dell’emendamento balza agli occhi come questa proposta, lungi dall’essere un’imposta di scopo, non costituisca altro che un abile espediente per assicurare un maggior gettito all’Erario. Nel dettaglio, col termine “imposizione di scopo” si intende l’istituzione di tributi esplicitamente collegati al raggiungimento di obiettivi – solitamente di interesse pubblico – individuati dal legislatore. Si tratta, cioè, di strumenti mirati, connotati da uno specifico fine, il cui gettito, in deroga al generale principio di unità del bilancio, deve essere destinato al conseguimento degli obiettivi posti e non a coprire dei disavanzi di bilancio. A titolo esemplificativo, un tributo di scopo è l’imposta di soggiorno, il cui gettito va a finanziare interventi di sostegno e manutenzione delle strutture ricettive.

Avuto riguardo al caso di specie, stando al tenore dell’attuale emendamento sembra invece che lo “scopo” consista esclusivamente nel raccogliere un maggiore gettito e non tanto nel curare i malati – se invece così fosse, perché non incrementare semplicemente il Fondo per farmaci oncologici?

Peraltro, la formulazione dell’emendamento appare altresì imprecisa nella parte in cui viene deciso di destinare il maggior gettito che sarà conseguito grazie all’aumento delle accise sui tabacchi ai Fondi successivamente menzionati: la criticità, in questo caso, risiede nella circostanza che il conseguimento di un maggior gettito è un’ipotesi del tutto eventuale che potrebbe, cioè, anche non verificarsi.

Come noto, infatti, secondo le leggi di incrocio di domanda ed offerta, ad un incremento dei prezzi dei prodotti potrebbe accompagnarsi una riduzione nell’acquisto dei medesimi; considerando la tendenziale elasticità della domanda dei tabacchi, ciò potrebbe sfociare in condotte socialmente non apprezzabili: i consumatori potrebbero cioè rivolgersi altrove, anche al mercato del contrabbando, e in questo modo l’Erario non vedrebbe certo incrementare il gettito nella misura sperata. D’altra parte, questo effetto, e cioè la riduzione del gettito a fronte di incrementi nelle aliquote, si è già verificato nel 2017: l’aumento delle accise sulle qualità più economiche di sigarette non ha infatti generato variazioni positive negli introiti erariali. Anzi: secondo il MEF le entrate sono calate di 224 milioni nel periodo gennaio-settembre 2017, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E, nelle stime del Governo per il 2017 contenute nel recente assestamento di Bilancio, vi sarebbe 1 miliardo di euro in mancate entrate erariali, rispetto agli obiettivi di gettito previsti dalla legge di Bilancio del 2016 per l’anno in corso.

Un certo incremento del gettito potrebbe invece determinarsi a fronte di un aumento nel consumo dei tabacchi per l’anno a venire, ma certo questa ipotesi appare contraddittoria con le presunte finalità dell’imposta di combattere e scoraggiare l’uso dei tabacchi.

Il rischio è che i consumatori di tabacco oggi siano colpiti dall’incremento in questione con la “promessa” che gli introiti conseguiti vengano destinati al Fondo per farmaci oncologici innovativi ed al Fondo sanitario nazionale, e che tuttavia in futuro questo vincolo sia modificato a piacimento dal legislatore. Nulla infatti gli vieta di intervenire successivamente, naturalmente mantenendo la maggiorazione dell’aliquota dell’accisa sui tabacchi ma ridefinendo la destinazione del gettito. In altri termini, con una qualsiasi legge ordinaria successiva ben potrebbe essere disposto che il “maggiore” gettito in questione (sempre se realizzato) venga destinato ad altri fondi ovvero altri programmi di spesa, anche completamente differenti rispetto l’originaria previsione di cui all’emendamento in questione.

15
Nov
2017

Cosa abbiamo imparato da un secolo di comunismo

La ricorrenza del centenario della Rivoluzione Bolscevica sembra essere un momento propizio per riflettere su cosa abbiamo imparato, nella pratica, dal comunismo.

Martedì 7 novembre è ricorso il centenario della presa del potere da parte dei Bolscevichi, che condusse alla formazione del regime comunista in Russia e col tempo anche in molti altri paesi del mondo. Questo risulta essere il momento più opportuno per rievocare le enormi quantità di oppressione, tirannia e stermini attuati dai vari regimi comunisti nel mondo. Benché storici e altri intellettuali abbiano documentato le numerose atrocità comuniste, buona parte dell’opinione pubblica rimane ancora inconsapevole della loro sorprendente quantità. Questo è senza dubbio un momento più che adeguato per considerare quale lezione possiamo apprendere da questa orrenda storia.

I. Un record di stermini e oppressione

Collettivamente, i regimi comunisti hanno ucciso oltre 100 milioni di persone, un numero superiore ai morti prodotti della somma di tutti gli altri regimi dittatoriali durante lo medesimo arco temporale. Il maggior numero di vittime fu di gran lunga generato dai tentativi comunisti di collettivizzare l’agricoltura e di eliminare l’indipendenza personale dei contadini, tramite la soppressione della proprietà privata. Nella sola Cina, il Grande balzo in avanti di Mao Zedong condusse a una carestia artificiale, in cui perirono circa 45 milioni di persone –l’evento di omicidio di massa più grande della storia mondiale. Nell’URSS, la collettivizzazione voluta da Joseph Stalin – che servì come modello per simili tentativi in Cina come altrove – produsse circa 6-10 milioni di morti. Carestie di massa si verificarono in molti altri regimi comunisti, dalla Corea del Nord all’Etiopia. In ognuno di questi casi, i legislatori comunisti erano consapevoli che le loro politiche avrebbero causato delle stragi, ma persistettero nei loro obiettivi, spesso perché consideravano lo sterminio dei “Kulaki” più o meno come una disinfestazione.

Benché la collettivizzazione fu la più grande forma omicida, i regimi comunisti sperimentarono ulteriori forme di sterminio su vasta scala. Milioni morirono in schiavitù nei campi di lavoro, come nei Gulag dell’URSS o negli altri equivalenti. Molti altri, invece, morirono tramite metodi convenzionali, come nella Grande Purga di Stalin e nei Campi della Morte della Cambogia.

Le ingiustizie del comunismo non devono essere limitate esclusivamente agli stermini. I fortunati sopravvissuti furono soggetti a severe repressioni, inclusa la violazione della libertà di espressione, di religione, la perdita del diritto di proprietà e la criminalizzazione dell’ordinaria attività economica. Nessun precedente tiranno cercò di ottenere un così completo e totalizzante controllo della vita delle persone.

Nonostante le promesse di una società utopica, in cui le classi lavoratrici avrebbero sperimentato una prosperità senza precedenti, i comunisti generarono una povertà collettiva. Ovunque Stati comunisti e non comunisti si ritrovarono confinanti, furono proprio quelli comunisti ad ergere muri e ad applicare politiche di morte per impedire alla propria gente di fuggire presso quelle società con maggiori opportunità.

II. Perché il comunismo ha fallito

Come ha potuto un’ideologia basata sulla liberazione condurre a così tanta oppressione, tirannia e morte? I suoi fallimenti erano intrinseci al progetto comunista oppure derivarono da errori evitabili, dovuti a particolari legislatori o a specifiche nazioni? Come tutti i grandi sviluppi storici, i fallimenti del comunismo non possono esseri ridotti a una singola causa. Piuttosto, in generale, furono intrinseci.

Due fattori rilevanti furono le cause determinanti delle atrocità prodotte dai regimi comunisti: ostinazione e conoscenze inadeguate. L’istituzione di un’economia e di una società pianificate centralmente richiedevano necessariamente, per l’ideologia socialista, un’enorme concentrazione di potere. Benché i comunisti non desiderassero altro che una società utopica in cui lo Stato, eventualmente, potesse “sparire poco a poco”, credevano che il primo passo sarebbe stato quello di stabilire un’economia controllata, al fine di organizzare la produzione per gli interessi della gente. In questo caso, ebbero molti punti in comune con gli altri socialisti.

Per rendere operativo il socialismo, le strategie governative esigevano l’autorità di dirigere e coordinare la produzione e la distribuzione di tutti i beni virtualmente prodotti nella società. In più, la considerevole coercizione fu necessaria per indurre gli individui a cedere le attività private e a lavorare su ciò che lo Stato richiedeva. Carestie e stermini furono, probabilmente, le uniche vie percorribili dai legislatori dell’URSS, della Cina e degli altri stati comunisti, per obbligare i contadini a cedere terre e bestiame e per costringerli ad accettare una nuova forma di schiavitù nelle fattorie collettive – senza considerare che a molti contadini fu proibito di lasciare queste fattorie collettive senza un permesso ufficiale, per paura che potessero cercare altrove una vita più semplice.

L’immenso potere necessario per stabilire e mantenere il sistema comunista attrasse naturalmente persone senza scrupoli, inclusi egoisti e arrampicatori sociali dell’ultima ora, che diedero priorità a propri interessi rispetto a quelli perorati dalla causa. Ciò che risulta sbalorditivo è che le peggiori atrocità comuniste furono compiute non da leader di partito corrotti, ma da ferventi sostenitori quali Lenin, Stalin e Mao. Proprio perché furono dei ferventi sostenitori, essi risultarono disposti a far tutto quello che servisse per poter rendere realtà il loro utopico sogno.

Come il sistema socialista creò le opportunità per le innumerevoli atrocità dei suoi legislatori, così distrusse anche gli incentivi alla produzione per le persone comuni. In assenza dei mercati (se non altro di un mercato legale), era presente un incentivo per i lavoratori così piccolo da non spingerli né ad essere produttivi, né a concentrare gli sforzi produttivi su quei beni che potevano essere, in quel determinato momento, utili ai consumatori. Diversi cercarono di lavorare il meno possibile sul posto di lavoro ufficiale e dove possibile dirottare gli sforzi reali in attività presenti sul mercato nero. Come il vecchio Soviet va dicendo, i lavoratori hanno l’attitudine al “noi fingiamo di lavorare, loro fingono di pagare”.

Perfino quando le strategie socialiste cercarono genuinamente di produrre prosperità e di sostenere le domande del consumatore, spesso non possedevano le informazioni adeguate per farlo. Come il vincitore del premio Nobel F. A. von Hayek descrisse in un famoso articolo, un’economia di mercato esprime un’informazione vitale a produttori e consumatori attraverso il sistema dei prezzi. I prezzi di mercato permettono ai produttori di conoscere il valore relativo di beni e servizi differenti e di determinare quanto i consumatori valutano i loro prodotti. Sotto la pianificazione centralizzata socialista, di contro, non esiste alcun sostituto per questa conoscenza fondamentale. E come risultato, le strategie socialiste spesso non hanno la possibilità di conoscere cosa produrre, attraverso quali metodi o in che quantità. Questa è una delle motivazioni per cui gli Stati comunisti soffrono ciclicamente di carenza di beni primari, benché simultaneamente producano enormi quantità di prodotti scadenti per cui è presente una misera domanda.

III. Perché il fallimento non può essere spiegato diversamente

In questo giorno, i difensori della pianificazione centralizzata socialista sostengono che il comunismo fallì per motivi evitabili e contingenti anziché per motivi intrinseci alla natura del sistema. Forse l’affermazione più popolare di questo tipo è che l’economia pianificata può funzionare correttamente solo se è democratica. L’Unione Sovietica, come tutti gli altri Stati comunisti, erano delle dittature. Ma se essi fossero stati democratici, probabilmente i leader avrebbero avuto degli incentivi più validi per far sì che il sistema funzionasse a beneficio della popolazione. Se fallissero in questo intento, gli elettori potrebbero “cacciare via i bastardi” alle successive elezioni.

Sfortunatamente, è poco probabile che uno Stato comunista riesca per lungo tempo a rimanere democratico. La democrazia richiede un’effettiva opposizione di partiti. E perché funzioni, tali partiti devono essere in grado di diffondere il loro messaggio e di mobilizzare gli elettori, che a turno richiedono risorse estensive. In un sistema economico in cui tutte o quasi tutte le risorse di valore sono controllate dallo Stato, il governo in carica può facilmente soffocare l’opposizione, negandogli l’accesso a quelle risorse. Sotto il socialismo, l’opposizione non può funzionare se essi non hanno la possibilità di diffondere il loro messaggio sui media controllati dallo Stato o se non hanno la possibilità di usare la proprietà statale per i loro raduni e riunioni. Non è accidentale che virtualmente tutti i regimi comunisti sopprimono i partiti all’opposizione subito dopo aver preso il potere.

Perfino se uno Stato comunista riuscisse a mantenere la democrazia per un lungo periodo, sarebbe difficile immaginare come possa risolvere i problemi “gemelli” di conoscenza e incentivi. Che sia democratico o no, un’economia socialista richiederebbe sempre un’enorme concentrazione di potere e un’estensiva coercizione. E una strategia social-democratica si imbatterebbe nella maggior parte degli stessi problemi informativi della sua controparte autoritaria. Inoltre, in una società dove il governo controlla tutto o la maggior parte dell’economia, sarebbe virtualmente impossibile per gli elettori ottenere abbastanza conoscenza per monitorare la maggior parte delle attività statali. Questo inasprirebbe notevolmente il già severo problema dell’ignoranza dell’elettorato che affligge le moderne democrazie.

Un’altra possibile spiegazione per i fallimenti del comunismo è che il problema fu la cattiva leadership. Se i regimi comunisti non fossero stati guidati da mostri come Stalin o Mao, avrebbero potuto produrre degli effetti migliori. Non c’è dubbio che i regimi comunisti abbiano avuto una buona quota di leader crudeli e perfino sociopatici. Ma è poco probabile che questo fu il fattore decisivo nel loro fallimento. A risultati molto simili si giunse anche in regimi comunisti con leader che avevano un’ampia varietà di personalità. Nell’Unione Sovietica, è importante ricordare che le principali istituzioni repressive (inclusi i Gulag e la polizia segreta) furono stabiliti non da Stalin ma da Vladimir Lenin, considerato una persona “normale”. Dopo la morte di Lenin, il principale rivale per il potere di Stalin – Leon Trotskij – sostenne delle politiche che furono per certi aspetti addirittura più oppressive di quelle di Stalin stesso. È difficile evitare la conclusione che il principale fattore – del fallimento del comunismo – non fu né la personalità del leader, né – in alternativa – che i regimi comunisti tendano a porre persone orribili nelle posizioni di potere. O forse entrambe le soluzioni.

Risulta ugualmente complesso dare credito a quelle affermazioni che imputano il fallimento del comunismo solo ai difetti culturali delle nazioni che lo hanno adottato. È certamente vero che la Russia, la prima nazione comunista, abbia una lunga storia di corruzione, autoritarismo e oppressione. Ma è anche vero che i comunisti attuarono oppressioni e stermini su vasta scala, a livelli mai raggiunti dai precedenti governi della Russia. E il comunismo fallì in molte altre nazioni con culture molto diverse. Nei casi della Corea, della Cina e della Germania, le persone con background culturali simili sopportarono terribili privazioni sotto il comunismo, ma ebbero dei notevoli successi sotto un’economia di mercato.

Nel complesso, le atrocità e i fallimenti del comunismo furono le naturali conseguenze degli sforzi tesi a stabilire un’economia socialista in cui tutta o quasi tutta la produzione risulta controllata dallo Stato. Se non sempre completamente inevitabile, l’oppressione risultante era altamente prevedibile.

Proprio come le atrocità del Nazismo rappresentano delle lezioni estreme sui pericoli del nazionalismo, del razzismo, dell’antisemitismo, così la storia dei crimini comunisti ci insegna i pericoli del socialismo. La storia del comunismo non prova che ogni e tutte le forme di interventismo statale siano da evitare. Ma pone in evidenza i pericoli di permettere agli stati di prendere il controllo di tutta o della maggior parte dell’economia e di eliminare la proprietà privata. Inoltre, i problemi relativi alla conoscenza e agli incentivi che sorgono sotto il socialismo affliggono anche gli sforzi su larga scala dell’economia pianificata che non risulta all’altezza del completo controllo governativo della produzione.

Tristemente, queste lezioni sono molto rilevanti oggi, in un’era in cui il socialismo ha nuovamente ricominciato ad attrarre seguaci in varie parti del mondo. In Venezuela, il regime sta provando a stabilire una nuova dittatura socialista che persegua molte delle stesse politiche degli anni passati, inclusa perfino l’uso della carenza di cibo per strangolare l’opposizione. Anche nelle democrazie di lungo periodo, le recenti difficoltà economiche e sociali hanno incrementato la popolarità di dichiarati socialisti vecchio stampo come Bernie Sanders negli Stati Uniti e Jeremy Corbyn in Gran Bretagna. Sia Sanders che Corbyn sono degli ammiratori di lunga data dei brutali regimi comunisti. Perfino se loro desiderassero, è poco probabile che Sanders o Corbyn possano fondare un autentico socialismo nei loro rispettivi paesi. Ma potrebbero nondimeno danneggiare profondamente i loro paesi.

Dall’altra parte dello spettro politico, ci sono allarmanti similitudini tra comunismo e movimenti populisti e nazionalisti di estrema destra. Entrambi fondono tendenze autoritarie con il disdegno dei valori liberali e con il desiderio di estendere il controllo governativo su larga parte dell’economia.

Le pericolose tendenze odierne, sia di destra che di sinistra, non sono ancora minacciose come cento anni fa, e non hanno la possibilità di provocare così tanto male. Più comprenderemo le dolorose lezioni della storia del comunismo, più saremo in grado di evitare la ricomparsa dei suoi crimini.

L’articolo, scritto da Ilya Somin, Professore di Legge presso la George Mason University, è comparso su Foundation for Economic Education il 9 novembre, dopo essere stato pubblicato originariamente sul Washington Post 7 novembre 2017.
Traduzione dall’inglese di Giuseppe Antonio Giunta.

15
Nov
2017

Gli usi extra-Bitcoin della Blockchain-di Giulia Anselmo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Giulia Anselmo.

Sono in molti a pensare che la tecnologia blockchain sia destinata nel futuro prossimo ad essere utilizzata nei più disparati ambiti.

La blockchain è un database “diffuso”, ove i dati non sono contenuti fisicamente in un unico sistema centrale bensì distribuiti e successivamente suddivisi in diversi computer in maniera condivisa. La struttura del database è costituita da “blocchi” di transazioni (o record).
Ciascun “blocco” è collegato al precedente, dando così vita a una catena resistente a possibili manomissioni. Per poter falsificare un singolo record di “blocco”, sarebbe necessario forzare tutti quelli che sono tra loro concatenati.
Tale aspetto ha certamente reso popolare la blockchain, caratterizzata dalla sua tracciabilità e sicurezza, come anche dall’assenza di un sistema di governo centralizzato, trasformandola – sostanzialmente – in una sorta di registro pubblico. Il suo effetto principale è la “disintermediazione” delle figure che operano nei servizi del settore privato e pubblico, con conseguente riduzione delle filiere professionali, in termini di costi e tempi, e aumento di efficienza delle attività produttive – e in generale dei servizi.

In tale contesto, bitcoin è una moneta elettronica che utilizza la tecnologia blockchain per l’esecuzione delle transazioni. La sua peculiarità risiede nella totale assenza di un ente centrale capace di regolare la sua immissione nel mercato o di bloccarne i flussi, influendo sul valore reale: è un’applicazione decentralizzata per i pagamenti.

Nel sistema è diffusa una paura collettiva nascente dall’associazione tra le criptovalute e riciclaggio, criminalità organizzata e – più in generale – traffici illeciti. Ma la blockchain è al contrario una tecnologia che facilita le transazioni e anche la loro tracciabilità, permettendo contemporaneamente la possibilità di mantenere l’anonimato. Alcune soluzioni sono state però previste in concreto: ad esempio, nelle piattaforme di Exchange è posto un obbligo di registrazione agli utenti che vi accedono al fine di cambiare in euro le criptovalute e viceversa.

Nell’ambito della PA, il Ministero dell’Economia sta sviluppando un sistema cloud, chiamato “Cloudify NoiPA”, che dà la possibilità di collegare le amministrazioni centrali e quelle periferiche per la gestione condivisa delle risorse umane, un’area particolarmente sensibile (paghe e stipendi). Il MEF ha scelto, fra le tante, proprio la tecnologia blockchain per gestire il Data Warehouse decentrato e condiviso tra tutte le amministrazioni pubbliche collegate; ciò perché garantisce una tracciabilità maggiore, collegando più di diecimila enti tra Comuni, Regioni e ASL.

Ancora, nel settore bancario e finanziario si trae grande beneficio da tale tecnologia nel sistema dei controlli interni, in cui ogni funzione, con l’apposizione di una firma digitale, valida i controlli svolti tramite la partecipazione ad una catena che coinvolge in maniera sicura e trasparente le diverse aree aziendali. Inoltre, è possibile generare delle chiavi di sicurezza per gestire l’accesso ai database, ai software e ai documenti condivisi internamente dalla banca; inoltre, nelle istituzioni finanziarie e nelle banche, è possibile servirsi di smart contract per la modulistica standard (investimenti, mutui, ecc.) che viene fornita alla clientela, ottenendo una notevole riduzione delle tempistiche e delle varie (e comunissime) irregolarità contrattuali.

Gli smart contract possono essere utilizzati non solo nel settore bancario ma anche nel settore dei servizi. Nel settore del noleggio auto, in particolare, l’utente che decide di noleggiare un’autovettura può procedere mediante un identificativo che rimanda alla tecnologia blockchain, connesso a uno smart contract che attiva automaticamente il pagamento alla presenza di particolari condizioni; e ciò perché si tratta di registri in grado di sottoscrivere non soltanto ogni tipo di transazione, ma anche di gestire automaticamente delle istruzioni e tutto ciò senza la necessità di rivolgersi a intermediari specializzati.

Ad esempio, la Toyota sta portando avanti questa iniziativa che utilizza la tecnologia blockchain per creare una piattaforma aperta in cui gli utenti possono controllare i propri dati di guida. Insieme a Gem, Toyota sta sviluppando un’applicazione – già utilizzata per l’assicurazione sanitaria – anche per l’assicurazione auto. L’azienda fornisce un registro per gli ingressi distribuiti da una serie di fonti diverse che possono dunque essere utilizzate per automatizzare gran parte del processo di assicurazione. Bigchain DB (Berlino) ha dato avvio ad una raccolta fondi di oltre 3 milioni di dollari per creare un registro flessibile e scalabile basato su blocchi, aiutando a sviluppare il tipo di struttura che la Toyota dovrà adottare per ottenere maggior crescita. Anche Oaken Innovations e Communerz (Dallas e Tel Aviv) stanno lavorando per far nascere delle applicazioni con tecnologia blockchain per la condivisione di auto, accesso ai veicoli, pagamenti e carpooling.

La blockchain e le novità che essa porta incideranno notevolmente anche sul settore delle professioni.
Gli smart contract potrebbero, infatti, segnare la fine di professioni come quella del notaio, dando la possibilità a chiunque di realizzare e anche sottoscrivere in modo autonomo un atto. Questo aspetto pone non poche problematicità, specialmente in merito alla perfetta sostituibilità di tali intermediari con gli smart contract, rendendo necessario l’uso di un linguaggio per gli stessi che segua degli standard garanti delle reali intenzioni dell’utilizzatore e ciò per evitare lunghi contenziosi di carattere interpretativo.

Infine, nel settore dell’arte si è applicato lo stesso principio, dando vita alla cosiddetta notarchain: una piattaforma contenente file digitali archiviati in sicurezza dai notai per dare certezza ai dati su opere d’arte e beni mobili, e ciò per dare un’importante svolta alla lotta alla contraffazione. Tramite il notarchain è possibile conoscere il proprietario attuale di una determinata opera, ma è anche possibile risalire a ritroso a tutti i passaggi di proprietà della stessa, fino ad arrivare alla individuazione dell’autore originario. Tale strumento potrà essere utilizzato anche nelle aste telematiche, garantendo che tutto ciò che viene messo in vendita sia a norma.

13
Nov
2017

Impiego pubblico percepito-di Matteo Repetti

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Matteo Repetti.

 

Nei giorni scorsi è comparso sul Corriere della Sera un articolo “Eurostat: l’Italia del pubblico impiego? Semmai è il Paese delle badanti – La bufala del pubblico impiego” (6 novembre), di cui riporto alcuni passaggi:

“Ma l’Italia è davvero il Paese dei miracolati del posto fisso alla Checco Zalone, il Bengodi degli impiegati pubblici? Apparentemente no. Semmai, siamo diventati la terra delle badanti. Questo almeno dicono gli ultimi dati Eurostat sul lavoro in Europa”.

In particolare, nel nostro Paese la percentuale degli impiegati pubblici rispetto al dato complessivo degli occupati è del 18,9 per cento. “Ma se facciamo il confronto con gli altri Paesi siamo al quintultimo posto per numero di colletti bianchi. In testa ci sono i soliti svedesi (34 per cento), seguiti a ruota da danesi (30,8 per cento) e belgi (30,6 per cento). Al quarto posto si confermano i francesi (30,1). Tutti gli altri sono sotto il trenta per cento: inglesi e tedeschi attorno al 25 (25,1 per cento e 24,6 per cento), giù giù fino all’Italia che sta sotto il 20 per cento”.

A voi pare uno scenario verosimile? A me no. E’ davvero possibile che in Italia ci siano molti meno dipendenti pubblici che a Londra ed in Inghilterra? Dove sta il trucco?

Il busillis sta nelle pieghe del cosiddetto ed ipertrofico “para-pubblico”.

I dati presi in considerazione da Eurostat sono tendenzialmente relativi agli “employee numbers in central public administration of EU Member States”, ovvero ai – tradizionali – impiegati presso lo Stato e le Amministrazioni centrali (Ministeri, Sanità, Scuola, vecchie Intendenze di Finanza, Forze di Polizia, ecc.).

Rimane fuori da questa contabilità ufficiale tutto ciò che è storicamente para-pubblico e/o che è stato interessato da processi di privatizzazione solo formale a partire dagli anni ’90, così come le funzioni ed i servizi solo apparentemente esternalizzate ma comunque sempre riconducibili al comparto pubblico e rigorosamente a carico del contribuente: agenzie fiscali, enti pubblici economici, enti di ricerca, società partecipate, enti previdenziali ed assistenziali, fondazioni culturali, ex municipalizzate, società cd. in house di servizi pubblici, enti locali di varia natura, ecc..

Si tratta di un arcipelago praticamente sterminato, rispetto al quale non ci sono dati ufficiali, come se la presa di realtà di un fenomeno così pervasivo e generalizzato non fosse sostenibile, psicologicamente ancor prima che finanziariamente.

Insomma, per risolvere il problema ed apparire virtuosi in ambito comunitario, all’impiego pubblico basta cambiargli di nome e far finta che non esista. Se non puoi convincerli, confondili.

10
Nov
2017

ATAC: l’unica vera rivoluzione è il mercato

“Per effetto di politiche sciagurate ATAC rischiava il fallimento, noi la salveremo mantenendola saldamente in mano pubblica”. Così dichiarava Virginia Raggi poco più di un mese fa, dipingendo la decisione di prorogare l’affidamento in house del trasporto pubblico locale romano fino al 2024 come “una rivoluzione”. Peccato che, di rivoluzionario, quella scelta non abbia proprio niente. Ad essere rimasto “saldamente in mano pubblica” da quando esiste, infatti, non è solo il trasporto pubblico di Roma, ma la stragrande maggioranza dei servizi pubblici locali di tutta Italia. Basti pensare che sul totale dei servizi pubblici locali italiani – compresi quindi i trasporti, ma anche la gestione dell’acqua e dei rifiuti – tre su quattro sono partecipati in misura maggioritaria dagli enti territoriali di riferimento.

E sono proprio questi ultimi, di norma, ad essere i destinatari degli affidamenti in house, cioè senza gara: in pratica, i comuni affidano la gestione dei servizi pubblici direttamente alle partecipate, in barba alla concorrenza, alla trasparenza, all’efficienza. È, questo, il tragico effetto dei referendum “sull’acqua pubblica” del 2011, che ha comportato l’abrogazione della norma che consentiva di affidare la gestione dei servizi pubblici locali a società interamente pubbliche solo in situazioni del tutto eccezionali, che non permettessero il ricorso al mercato. Oggi, invece, la gestione in house e quella attraverso procedure competitive sono di fatto messe sullo stesso piano, lasciando maggiore discrezionalità di scelta ai comuni. Che – indovinate un po’? – scelgono spesso l’opzione che dà loro più potere.

Teoricamente, i comuni non potrebbero affidare i servizi in house senza ragioni specifiche. La norma che ha sostituito quella abrogata dai referendum impone che l’affidamento del servizio venga effettuato sulla base di una “relazione”, pubblicata dall’ente affidante, che dia conto “delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti per la forma di affidamento prescelta”. E sebbene la norma abbia portata generale, è evidente che la necessità di questa “relazione” emerga principalmente nei casi degli affidamenti diretti in house, che presentano le maggiori criticità rispetto alla normativa europea sulla concorrenza nei servizi pubblici. E quali sono, per gli affidamenti in house, i “requisiti” previsti? Essenzialmente tre: l’esistenza di peculiari caratteristiche del contesto territoriale di riferimento che non permettano un efficace e utile ricorso al mercato; la proprietà interamente pubblica, il rispetto della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e la prevalenza dell’attività svolta dalla stessa per conto e nell’interesse dell’ente pubblico controllante; e la previa effettuazione di un’analisi comparativa di mercato che dimostri la convenienza economica della scelta.

L’affidamento ad ATAC del servizio di trasporto pubblico locale di Roma rispetta questi requisiti? È quello che si è chiesta l’Autorità antitrust in un’indagine culminata in un parere, rivolto al Comune di Roma, in cui lo invita a “valutare con estrema attenzione” la loro sussistenza. Sia perché la situazione di grave crisi economica e finanziaria in cui versa ATAC non sembra giustificare la proroga del contratto di affidamento, sia perché, qualora intendesse affidare nuovamente il servizio in house ad ATAC, il Comune dovrebbe dimostrare che la scelta sia, se non la più efficiente, quantomeno mediamente efficiente rispetto al ricorso al mercato. E considerata la situazione in cui versa ATAC, appunto, sembrerebbe difficile sostenere che l’in house possa essere, ancora una volta, considerata una soluzione efficiente.

L’unica vera rivoluzione, cara Virginia Raggi, è il mercato. È procedere con il concordato preventivo in continuità, perché oggi vendere ATAC o farla fallire è improponibile, e nel 2019 mettere finalmente a gara il servizio. Facendo competere in modo trasparente aziende diverse, che possano finalmente garantire ai romani un servizio di trasporto pubblico degno di una capitale europea.

Twitter: @glmannheimer

9
Nov
2017

Repetita iuvant: vendere quote del tesoro alla Cassa Depositi e Prestiti non significa privatizzare.

Dopo Enav, ecco Eni. Il “nuovo” programma di privatizzazioni del governo sembra finalmente prendere forma. Stando alle ultimissime notizie, l’esecutivo punta a recuperare circa 2,5 miliardi di euro dalla vendita della quota del Tesoro in Enav e dalla cessione del 2,15% della quota del Tesoro in Eni a Cassa Depositi e Prestiti (CdP) entro la fine dell’anno. Inutile ricordare come queste operazioni siano, oggi come sempre, delle semplici partite di giro (a.k.a. finte privatizzazioni).

Nonostante la CdP rimanga fuori dal perimetro contabile della pubblica amministrazione, essa è una Cassa finanziata e controllata al 100% dal pubblico. Ad oggi, il Ministero dell’Economia e delle Finanze controlla l’82,77% del capitale della CdP, il 15,93% è detenuto da una folta schiera di fondazioni bancarie, mentre l’1,3% è controllato dalla CdP stessa, attraverso Azioni proprie. Di conseguenza, l’idea di vendere alcuni “gioielli di famiglia” alla CdP non è da considerarsi assolutamente una privatizzazione. Contrariamente alla definizione di privatizzazione, in questa circostanza il governo non farebbe ricorso al mercato, né sposterebbe la proprietà di un ente o di una società dal controllo statale a quello privato.

Non è un caso che, come riporta anche Bloomberg, questa mossa rischia di essere completamente snobbata dagli investitori. Secondo molti analisti, infatti, questa “privatizzazione all’Italiana” rimuoverebbe dal bilancio statale un’entità pubblica mantenendola essenzialmente sotto il controllo governativo, senza ridurre in alcun modo la presenza dello stato all’interno dell’economia.

Dopo un già misero 2016 (in cui il MEF è riuscito a raccogliere solo lo 0,1% del PIL dalle “privatizzazioni”), il Governo ha previsto per l’anno in corso una forte riduzione del target delle privatizzazioni. Mentre nel DEF 2016 si parlava di proventi derivanti dalle privatizzazioni pari allo 0,5% per gli anni 2016, 2017 e 2018 (una cifra attorno agli 8 miliardi all’anno per tre anni), oggi il governo punta a recuperare solo lo 0,2% del PIL. Troppo poco per ridurre il debito pubblico e per cercare di mettere in sicurezza finanze pubbliche che paiono essere sempre più fragili e mal gestite.

Nel corso degli ultimi anni la Cassa Depositi e Prestiti è tornata prepotentemente al centro della politica industriale italiana. Dopo aver assorbito pezzi crescenti d’industria, tra cui Snam, Terna, Fincantieri, Eni, Saipem Ansaldo Energia, il colosso in mano al MEF è ora pronto a comprare tutta la quota del Tesoro in Enav e metà delle rimanti quote del Tesoro in Eni. Mentre la CdP ha ormai assunto tutte le sembianze di una nuova IRI, all’interno del governo regna la confusione più totale e – per ora – di vere privatizzazioni meglio non parlarne.