30
Nov
2017

La lotta alla concorrenza fiscale di Margrethe Vestager

Due giorni fa, martedì 28 novembre, è ufficialmente iniziato il nuovo anno accademico dell’Università Bocconi. Oltre agli interventi di Mario Monti e del Rettore Gianmario Verona, la cerimonia d’apertura si è contraddistinta per il discorso programmatico di Margrethe Vestager, attuale Commissario europeo per la concorrenza. Come previsto, il discorso di Vestager ha assunto connotati estremamente politici: l’occasione è infatti servita per ribadire, ancora una volta, le linee guida della politica fiscale avviata da Bruxelles nel corso di questi ultimi anni.

Nello specifico, nel corso del suo intervento “bocconiano”, il Commissario Vestager ha fatto riferimento, in modo più o meno diretto, alle tre iniziative legislative principali promosse dalla Commissione negli ultimi 12 mesi: 1) la direttiva su una base imponibile consolidata comune per le società (Common Consolidate Corporate Tax Base, meglio conosciuta con l’acronimo di CCCTB); 2) la direttiva sui meccanismi di risoluzione delle controversie in materia di doppia imposizione a livello UE; e 3) la direttiva sulla riduzione delle imposte (Anti-Tax Avoidance) che considera i disallineamenti con paesi terzi.

Per quanto concerne la prima delle tre direttive sopra citate è giusto sottolineare che già un paio di anni fa era stata affossata dagli Stati membri. Presentata per la prima volta nel 2011, la nuova proposta, per una base imponibile consolidata comune per le società, è suddivisa in due direttive diverse, una che copre la base imponibile comune per le società (CCTB) e l’altra che copre la stessa CCCTB. Così facendo, la Commissione spera di attirare un maggiore consenso tra gli Stati membri. Tuttavia, i governi di Danimarca, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi e Svezia hanno già presentato obiezioni formali affermando che, così come la proposta del 2011, anche questa “doppia” iniziativa non rispetta il principio di sussidiarietà.

La CCCTB non è la riforma fiscale di cui l’Unione Europea avrebbe bisogno. Innanzitutto, se approvata entro la fine del mandato Juncker, una misura fiscale simile aggiungerà un ulteriore livello di regolamentazione ai già complicati ed intrusivi quadri internazionali, stabiliti per contrastare l’elusione fiscale. Come ricordano, ad esempio, sia il sindacato olandese dell’industria e dei datori di lavoro, sia il Parlamento britannico, i 15 punti programmatici, sviluppati nel contesto del progetto BEPS (Base Erosion & Profit Shifting) promosso dai paesi OCSE e dai paesi del G20, hanno già come obiettivo quello di introdurre un pacchetto di misure fiscali che monitori le pratiche di elusione dell’imposta sulle multinazionali, a livello globale. L’aggiunta di ulteriori e discutibili regole fiscali, all’interno di un quadro internazionale particolarmente articolato, metterà in una posizione di svantaggio tutti i paesi membri, soprattutto in termini di competitività rispetto al resto del mondo.

In secondo luogo, l’introduzione di una proposta simile richiederebbe la fusione di tutti i vari sistemi giuridici nazionali dell’UE, comporterebbe la creazione di un nuovo codice fiscale a livello Comunitario per le multinazionali, non risolverebbe i problemi di “transfer (mis)pricing” e metterebbe a rischio la sovranità fiscale degli Stati membri. Viste tutte queste problematiche di fondamentale importanza, la CCCTB appare solo una pessima proposta che finirà per punire i paesi europei maggiormente aperti al commercio internazionale e premiare i governi poco virtuosi.

Sebbene la proposta della Commissione non incida direttamente sull’aliquota delle imposte sulle imprese di un determinato paese, tutti gli Stati membri perderanno la propria libertà rispetto al modo in cui la base imponibile viene definita. Secondo uno studio condotto da Ernst & Young nel 2011 l’introduzione della CCCTB porterebbe ad enormi cambiamenti di riscossione: su 27 paesi europei (Croazia esclusa) gli unici tre Stati membri che otterrebbero dei veri benefici in termini di occupazione, investimenti diretti dall’estero e produzione sarebbero il Belgio, la Francia e la Spagna. Al contrario, tutti gli altri paesi non otterrebbero alcun vantaggio economico. Con l’adozione della CCCTB si arriverebbe dunque al paradosso di vedere un numero consistente di Stati membri aumentare o introdurre nuove tasse che permettano ai vari governi di recuperare le perdite accumulate.

Infine, per quanto riguarda le imprese, è altamente probabile che la riduzione dei costi amministrativi derivanti da una CCCTB venga subito compensata da un incremento dei costi aziendali interni. Una CCCTB obbligatoria rischia di cambiare il comportamento aziendale, incluso il luogo fisico dove aprire un’azienda. Inoltre una direttiva come quella proposta rischia di scoraggiare la crescita di grandi “campioni” europei. Rendendo le nuove regole obbligatorie per tutti i gruppi con entrate consolidate superiori a €750 milioni, molte imprese europee avranno un incentivo a non superare questa soglia limite. Ad esempio, una volta raggiunto questo livello di entrate, le imprese in questione perderanno l’opportunità di accedere a varie agevolazioni fiscali, come i cosiddetti “patents and innovation boxes”. Di conseguenza, risulta essere abbastanza facile ipotizzare che i costi di transizione al nuovo sistema fiscale europeo saranno molto elevati.

Alla luce di tutte queste nostre considerazioni, la domanda sorge spontanea: chissà se il Commissario per la concorrenza, Margrethe Vestager, abbia intuito i pericoli derivanti dall’introduzione di una base imponibile consolidata comune per le società? La nostra speranza è che quantomeno i docenti ed i molti studenti presenti alla cerimonia li abbiano percepiti.

 

 

 

 

 

27
Nov
2017

L’ennesimo attacco alla concorrenza leale di Flixbus

Con la discussione sulla legge di Bilancio per il 2018 si riapre la guerriglia normativa a Flixbus? La piattaforma tedesca era già stata oggetto di una surreale vicenda alcuni mesi fa, con norme anti-concorrenziali prima approvate e poi soppresse. Ora gli stessi emendamenti si riaffacciano al Senato; ed è probabile che li vedremo spuntare anche alla Camera.

In particolare, le proposte emendative hanno una chiarissima finalità: quella di garantire la sostenibilità occupazionale e limitare il più possibile il ricorso alla messa in mobilità dei lavoratori del settore, con riferimento proprio al “caso” Flixbus.

Secondo quanto emerge dalla stampa locale e nazionale, Flixbus è stata identificata come causa principale della crisi di alcune aziende di trasporti e del licenziamento di alcuni lavoratori. In altre parole, la concorrenza di Flixbus, azienda che opera su una piattaforma di mobilità internazionale, collaborando con compagnie di autobus regionali provenienti da tutta Europa, è stata additata come motivo primario della crisi del settore dei trasporti su ruota in Italia. Questa operazione sembra avere un obiettivo ben preciso: scaricare sull’azienda tedesca (nata a Monaco di Baviera nel 2011) la responsabilità della messa in mobilità dei lavoratori di altre aziende del relativo settore.

Ma come si può sostenere che le difficoltà di alcune aziende siano colpa unicamente della concorrenza di Flixbus? A fronte del successo di un’azienda, c’è spesso la cattiva gestione ed incapacità di innovarsi di un’altra: Flixbus, che è entrata nel mercato italiano nell’estate del 2015, ha semplicemente proposto il suo prodotto, a promosso prezzi più bassi, ha portato avanti numerose efficaci promozioni, ed è riuscita ad attirare molti consumatori. Questi ultimi hanno scelto i servizi offerti da Flixbus per il tramite delle aziende partner, anziché quelli dei concorrenti, per una ragione banale: li hanno giudicati migliori e hanno riscontrato prezzi inferiori. Contrastare Flixbus con vincoli o divieti, anziché sul terreno della competizione, significa privare i consumatori dell’opzione che hanno mostrato di preferire. A ben guardare, dunque, non si tratta di una guerra contro la piattaforma tedesca, ma contro i consumatori italiani.

Seppur con motivazioni parzialmente differenti rispetto a quelle passate, i recenti attacchi verso Flixbus sembrano riproporre un copione già visto.

Con il Decreto Milleproroghe pubblicato lo scorso febbraio, fu inserito un emendamento proprio contro i bus low cost. La norma in questione poneva un diktat a Flixbus: trasformarsi in un operatore economico (con mezzi propri – bus e personale), o chiudere i battenti.

La discussione che ne scaturì fu surreale. Il provvedimento di allora, voluto fortemente dall’ANAV (Azienda Nazionale Autotrasporto Viaggiatori), si basava su due punti: Flixbus veniva accusato di fare dumping e di essere una piattaforma tecnologica anziché un operatore del settore.

Anche l’Antitrust intervenne, confermando che Flixbus non aveva effettuato alcun dumping, né, tanto meno, i suoi servizi risultavano essere anti-competitivi. L’AGCM, in una segnalazione inviata a Parlamento e Governo, spiegava addirittura che un intervento normativo anti-Flixbus sarebbe stato in grado di determinare effetti fortemente anticoncorrenziali nel settore dei trasporti di passeggeri su strada con danni diretti e tangibili per i consumatori. La norma venne successivamente cancellata, per poi essere reintrodotta in un altro provvedimento e di nuovo cancellata.

La speranza è che questi emendamenti vengano rigettati sia dal Senato sia dalla Camera. I consumatori, la concorrenza e l’innovazione vengono prima di qualsiasi contentino pre-elettorale.

 

Un ringraziamento speciale a Giuseppe Giunta, stagista IBL, per aver contribuito al post.

22
Nov
2017

Il diritto alla casa non può passare per la negazione della proprietà

In una fresca giornata di primavera di quattro anni fa, trecentocinquanta persone occupavano illegalmente un intero edificio in via Caravaggio, a Roma. Era l’inizio di un vero e proprio incubo: la denuncia, sporta dai proprietari dell’immobile immediatamente dopo l’occupazione, cadeva nel vuoto. Tutti erano stati messi al corrente: la procura, la polizia, il questore, il prefetto e il sindaco di Roma. Eppure, nessuno tentò di sgomberare l’edificio. Nei giorni successivi gli occupanti manomisero le centrali termoelettriche, la rete idrica e quella antincendio, oltre a svolgere abusivamente alcuni lavori di ristrutturazione. I proprietari, a quel punto, presentarono una richiesta di sequestro preventivo alla procura, ma non bastò nemmeno questo. Il sequestro fu disposto, ma mai attuato.

Di storie come questa se ne potrebbe raccontare tante. Solo a Roma sono centinaia gli immobili occupati, uno addirittura da tredici anni, senza contare le violazioni che non riguardano interi edifici ma singole unità immobiliari. E del resto non è un mistero che le occupazioni abusive, nell’ordinamento italiano, costituiscano reato solo in teoria. Negli ultimi anni si è assistito a un graduale affievolimento della tutela della proprietà nei loro confronti: sempre più spesso infatti le occupazioni abusive sono valutate dai decisori pubblici e dai tribunali, nei loro effetti e problemi connessi, contemperando esigenze e interessi diversi: dal principio alla legalità all’ordine pubblico, dalla dignità personale al diritto all’abitazione; in questo bilanciamento, tuttavia, il diritto di proprietà non rientra quasi mai, se non indirettamente.

Alla base di questo sconsiderato disprezzo per il diritto di proprietà c’è la convinzione che tenere in considerazione altri diritti nel bilanciamento con quello di proprietà conduca verso una società più umana e ‘giusta’. Ma si tratta di un’illusione: in questo modo si procede a passo spedito, piuttosto, verso una società in cui non vi è certezza del diritto e in cui, quindi, ogni assunzione di responsabilità e ogni investimento divengono esercizi di speranza verso la benevolenza di uno Stato arbitrario, che decide di riconoscere o negare i diritti di proprietà con un semplice gesto del pollice.

Di storie come quella dell’immobile di via Caravaggio, dicevamo, ce n’è tante. Ma è la sentenza con cui il Tribunale di Roma ha chiuso, almeno temporaneamente, la vicenda, a costituire un precedente importante. I giudici, infatti, hanno riconosciuto che lo Stato ha l’obbligo giuridico di impedire l’occupazione di un edificio o quantomeno di adottare, in un lasso di tempo ragionevole, le misure necessarie per porvi fine. Non aver agito per oltre quattro anni, nel caso in questione, ha pertanto compresso illegittimamente i diritti fondamentali del proprietario. E la responsabilità di tutto questo – conclude la sentenza – è del Ministero dell’Interno, da cui dipendono le forze di polizia incaricate dell’esecuzione del sequestro quattro anni fa. Con conseguenze molto concrete: il Tribunale ha infatti condannato il Ministero a pagare al proprietario quasi 300mila euro al mese, da quando fu disposto il sequestro preventivo fino a quando l’immobile sarà finalmente liberato.

È una sentenza significativa, questa, non solo per il precedente che crea, ma soprattutto perché mette a nudo con grande chiarezza l’ipocrisia di uno Stato che – non riuscendo a garantire un diritto sociale – lo pone in contrasto con altri diritti, in questo caso quello di proprietà. E che, così facendo, dimostra tre volte la propria inefficacia: nel non riuscire a garantire il diritto all’abitazione agli occupanti, nel non riuscire a garantire il diritto di proprietà ai proprietari, e nell’essere pertanto costretto a rimborsare questi ultimi con i soldi dei contribuenti. Un monito, speriamo, per comprendere finalmente che il riconoscimento del diritto all’abitazione non può passare per la negazione del diritto di proprietà.

Twitter: @glmannheimer

21
Nov
2017

Tassare le sigarette elettroniche per tutelare la salute o il gettito?

La Corte Costituzionale ha il non facile compito di esaminare il corretto uso della discrezionalità legislativa, verificando se questa è per caso stata esercitata in contrasto con i parametri costituzionali, in modo discriminatorio, incoerente e così via.
Ma il “giudice delle leggi” dovrebbe almeno evitare di argomentare esso stesso in modo manifestamente irragionevole, con impiego di motivazioni contraddittorie, come accaduto con la recente sentenza n. 240 del 2017, con cui è stata salvata la norma che estende alla vendita delle sigarette elettroniche – sostanze liquide aromatiche senza nicotina – lo stesso  regime delle accise sulla produzione e vendita dei tabacchi lavorati.
In una recentissima occasione, peraltro, i giudici costituzionali (relatore, anche allora, Giuliano Amato) avevano deciso diversamente, affermando l’illegittimità della norma che sottoponeva a imposta di consumo la commercializzazione di prodotti non contenenti nicotina e idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati.
La sentenza n. 83 del 2015 ha infatti ravvisato la «intrinseca irrazionalità della disposizione che assoggetta ad un’aliquota unica e indifferenziata una serie eterogenea di sostanze, non contenenti nicotina, e di beni, aventi uso promiscuo», tenuto conto che «mentre il regime fiscale dell’accisa con riferimento ai mercato dei tabacchi trova la sua giustificazione nel disfavore nei confronti di un bene riconosciuto come gravemente nocivo per la salute e del quale si cerca di scoraggiare il consumo, tale presupposto non è ravvisabile in relazione al commercio di prodotti contenenti “altre sostanze” diverse dalla nicotina, idonee a sostituire il consumo del tabacco, nonché dei dispositivi e delle parti di ricambio che ne consentono il consumo».
Per la Corte l’imposta sui tabacchi si giustifica dunque come tributo extrafiscale, introdotto per  scoraggiare il consumo di sostanze nocive per la salute: l’obiettivo del legislatore è raggiunto se l’ammontare dell’accisa è tale da scoraggiare le persone all’acquisto e al consumo di tabacchi. Un tributo di questo tipo non si prefigge l’obiettivo di massimizzare il gettito, anzi paradossalmente raggiunge il suo massimo risultato quando le entrate, insieme al consumo del tabacco, si azzerano.
Il legislatore, dopo la dichiarazione di incostituzionalità, non si è però arreso, e ha reintrodotto l’accisa sui tabacchi lavorati (nella misura ridotta del 50 per cento) anche sulle sostanze liquide da inalazione senza nicotina, le cosiddette sigarette elettroniche, con una norma che ha sollevato analoghi dubbi di legittimità costituzionale (data l’irragionevole equiparazione al tabacco di prodotti privi di nicotina, in contrasto con la ricordata ratio dell’imposta e il suo obiettivo di scoraggiare il consumo di prodotti nocivi). Ma stavolta la Corte ha deciso diversamente, sulla base di argomenti, svelati nell’ultima parte della sentenza, che lasciano interdetti.
Per la Corte «l’imposta di consumo in questione – la cui finalità primaria è data dal recupero di un’entrata erariale (l’accisa sui tabacchi lavorati) erosa dal mercato delle sigarette elettroniche – non contrasta con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., anche nella parte in cui assoggetta i liquidi privi di nicotina alla medesima aliquota impositiva dei liquidi nicotinici. Essa, infatti, colpisce beni del tutto voluttuari, immessi in consumo dai fabbricanti e dai produttori, che per ciò stesso dimostrano una capacità contributiva adeguata, così come i consumatori finali sui quali viene traslata l’imposta. D’altronde, al legislatore spetta un’ampia discrezionalità in relazione alle varie finalità alle quali s’ispira l’attività di imposizione fiscale, essendogli consentito, sia pure con il limite della non arbitrarietà, di determinare i singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all’obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza. Nondimeno, la finalità secondaria di tutela della salute propria dell’imposta di consumo, che già di per sé giustifica l’imposizione sui prodotti nicotinici, legittima anche l’eventuale effetto di disincentivo, in nome del principio di precauzione, nei confronti di prodotti che potrebbero costituire un tramite verso il tabacco».
Insomma, la Corte da un lato considera l’accisa sui tabacchi un tributo pigouviano, non finalizzato a reperire entrate ma volto a eliminare le conseguenze dannose del fumo derivante dalla combustione del tabacco e dalla nicotina, ma dall’altro mette a fondamento della propria ratio decidendi l’esigenza di contrastare l’erosione del gettito prodotta dalle sigarette elettroniche, senza rendersi conto (?) che attribuire all’imposta sulle sostanze liquide non nicotiniche la “finalità primaria” di recupero di un’entrata erariale contrasta in modo insanabile con l’affermata natura extrafiscale dell’accisa sui tabacchi, il cui obiettivo non è il gettito ma la tutela della salute.
Che senso ha tassare dei comportamenti alternativi al consumo di tabacco, se è questo che si vuole scoraggiare?
Per giustificare l’imposta sulle sigarette elettroniche alla luce del principio di capacità contributiva la Corte è poi costretta a evocare le vecchie imposte suntuarie, sulle spese di lusso, ritenendo tali – in modo grottesco – le sigarette elettroniche (in un contesto in cui, diversamente da quello pre-moderno in cui trovavano applicazione le imposte suntuarie, tutti i consumi scontano l’Iva e a monte hanno scontato l’imposta sul reddito).
Infine, dopo aver inspiegabilmente degradato a “finalità secondaria” dell’accisa la tutela della salute (ma la sentenza 83/2015 non aveva affermato che l’accisa “trova la sua giustificazione nel disfavore nei confronti di un bene riconosciuto come gravemente nocivo per la salute e del quale si cerca di scoraggiare il consumo”?), la Corte prova a puntellare il ragionamento richiamando il principio di precauzione, che giustificherebbe un’imposizione su prodotti che potrebbero costituire un tramite verso il tabacco.
Le evidenze empiriche sembrano però suggerire che le sigarette elettroniche senza nicotina costituiscono un’alternativa non nociva (o di gran lunga meno nociva) al consumo di tabacco, non già un viatico per passare prima o poi al fumo tradizionale. Quello della Corte è un modo di argomentare che ricorda quello secondo cui le droghe leggere costituiscono l’anticamera delle droghe pesanti, ma sembra in realtà solo strumentale all’obiettivo di tutelare le entrate dello Stato.
La spiacevole impressione che la sentenza trasmette è che per i giudici costituzionali la tutela della salute sia meno importante della salvaguardia del gettito, che esso sì non deve – è il caso di dirlo – “andare in fumo”.
15
Nov
2017

Accise tabacchi più alte: per quale scopo?—di Alessia Sbroiavacca

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Alessia Sbroiavacca

Un importante emendamento alla legge di bilancio per il 2018 prevede che i maggiori introiti derivanti dal consumo dei tabacchi sarebbero destinati alla copertura dei costi delle cure dei malati di cancro. Segnatamente, in base a quanto testualmente recita l’emendamento 41.0.36 e che introduce un articolo 41-bis, rubricato “accise sui tabacchi”, il maggior gettito derivante dall’incremento dell’aliquota delle accise sui tabacchi di prima istanza ipotizzato in misura non inferiore ad euro 600 milioni – verrebbe ad essere destinato in parte al Fondo per i farmaci oncologici innovativi (euro 500 milioni) ed in parte al Fondo sanitario nazionale (euro 100 milioni). Si noti, solo il secondo Fondo godrebbe di un incremento delle risorse disponibili, mentre l’accredito al primo dell’importo previsto servirebbe a svincolare una pari somma che confluirebbe nella quota di finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale.

Se adottata, la misura in parola, caldeggiata anche dal Ministro Lorenzin, promotrice della “crociata” contro il fumo, sembrerebbe generare un vincolo di destinazione del maggior gettito conseguito dall’Erario: ogni sigaretta acquistata dai consumatori costerà qualche centesimo in più e questi maggiori introiti confluiranno nei predetti Fondi per curare i malati di cancro.

Ad una attenta disamina del contenuto dell’emendamento balza agli occhi come questa proposta, lungi dall’essere un’imposta di scopo, non costituisca altro che un abile espediente per assicurare un maggior gettito all’Erario. Nel dettaglio, col termine “imposizione di scopo” si intende l’istituzione di tributi esplicitamente collegati al raggiungimento di obiettivi – solitamente di interesse pubblico – individuati dal legislatore. Si tratta, cioè, di strumenti mirati, connotati da uno specifico fine, il cui gettito, in deroga al generale principio di unità del bilancio, deve essere destinato al conseguimento degli obiettivi posti e non a coprire dei disavanzi di bilancio. A titolo esemplificativo, un tributo di scopo è l’imposta di soggiorno, il cui gettito va a finanziare interventi di sostegno e manutenzione delle strutture ricettive.

Avuto riguardo al caso di specie, stando al tenore dell’attuale emendamento sembra invece che lo “scopo” consista esclusivamente nel raccogliere un maggiore gettito e non tanto nel curare i malati – se invece così fosse, perché non incrementare semplicemente il Fondo per farmaci oncologici?

Peraltro, la formulazione dell’emendamento appare altresì imprecisa nella parte in cui viene deciso di destinare il maggior gettito che sarà conseguito grazie all’aumento delle accise sui tabacchi ai Fondi successivamente menzionati: la criticità, in questo caso, risiede nella circostanza che il conseguimento di un maggior gettito è un’ipotesi del tutto eventuale che potrebbe, cioè, anche non verificarsi.

Come noto, infatti, secondo le leggi di incrocio di domanda ed offerta, ad un incremento dei prezzi dei prodotti potrebbe accompagnarsi una riduzione nell’acquisto dei medesimi; considerando la tendenziale elasticità della domanda dei tabacchi, ciò potrebbe sfociare in condotte socialmente non apprezzabili: i consumatori potrebbero cioè rivolgersi altrove, anche al mercato del contrabbando, e in questo modo l’Erario non vedrebbe certo incrementare il gettito nella misura sperata. D’altra parte, questo effetto, e cioè la riduzione del gettito a fronte di incrementi nelle aliquote, si è già verificato nel 2017: l’aumento delle accise sulle qualità più economiche di sigarette non ha infatti generato variazioni positive negli introiti erariali. Anzi: secondo il MEF le entrate sono calate di 224 milioni nel periodo gennaio-settembre 2017, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E, nelle stime del Governo per il 2017 contenute nel recente assestamento di Bilancio, vi sarebbe 1 miliardo di euro in mancate entrate erariali, rispetto agli obiettivi di gettito previsti dalla legge di Bilancio del 2016 per l’anno in corso.

Un certo incremento del gettito potrebbe invece determinarsi a fronte di un aumento nel consumo dei tabacchi per l’anno a venire, ma certo questa ipotesi appare contraddittoria con le presunte finalità dell’imposta di combattere e scoraggiare l’uso dei tabacchi.

Il rischio è che i consumatori di tabacco oggi siano colpiti dall’incremento in questione con la “promessa” che gli introiti conseguiti vengano destinati al Fondo per farmaci oncologici innovativi ed al Fondo sanitario nazionale, e che tuttavia in futuro questo vincolo sia modificato a piacimento dal legislatore. Nulla infatti gli vieta di intervenire successivamente, naturalmente mantenendo la maggiorazione dell’aliquota dell’accisa sui tabacchi ma ridefinendo la destinazione del gettito. In altri termini, con una qualsiasi legge ordinaria successiva ben potrebbe essere disposto che il “maggiore” gettito in questione (sempre se realizzato) venga destinato ad altri fondi ovvero altri programmi di spesa, anche completamente differenti rispetto l’originaria previsione di cui all’emendamento in questione.

15
Nov
2017

Cosa abbiamo imparato da un secolo di comunismo

La ricorrenza del centenario della Rivoluzione Bolscevica sembra essere un momento propizio per riflettere su cosa abbiamo imparato, nella pratica, dal comunismo.

Martedì 7 novembre è ricorso il centenario della presa del potere da parte dei Bolscevichi, che condusse alla formazione del regime comunista in Russia e col tempo anche in molti altri paesi del mondo. Questo risulta essere il momento più opportuno per rievocare le enormi quantità di oppressione, tirannia e stermini attuati dai vari regimi comunisti nel mondo. Benché storici e altri intellettuali abbiano documentato le numerose atrocità comuniste, buona parte dell’opinione pubblica rimane ancora inconsapevole della loro sorprendente quantità. Questo è senza dubbio un momento più che adeguato per considerare quale lezione possiamo apprendere da questa orrenda storia.

I. Un record di stermini e oppressione

Collettivamente, i regimi comunisti hanno ucciso oltre 100 milioni di persone, un numero superiore ai morti prodotti della somma di tutti gli altri regimi dittatoriali durante lo medesimo arco temporale. Il maggior numero di vittime fu di gran lunga generato dai tentativi comunisti di collettivizzare l’agricoltura e di eliminare l’indipendenza personale dei contadini, tramite la soppressione della proprietà privata. Nella sola Cina, il Grande balzo in avanti di Mao Zedong condusse a una carestia artificiale, in cui perirono circa 45 milioni di persone –l’evento di omicidio di massa più grande della storia mondiale. Nell’URSS, la collettivizzazione voluta da Joseph Stalin – che servì come modello per simili tentativi in Cina come altrove – produsse circa 6-10 milioni di morti. Carestie di massa si verificarono in molti altri regimi comunisti, dalla Corea del Nord all’Etiopia. In ognuno di questi casi, i legislatori comunisti erano consapevoli che le loro politiche avrebbero causato delle stragi, ma persistettero nei loro obiettivi, spesso perché consideravano lo sterminio dei “Kulaki” più o meno come una disinfestazione.

Benché la collettivizzazione fu la più grande forma omicida, i regimi comunisti sperimentarono ulteriori forme di sterminio su vasta scala. Milioni morirono in schiavitù nei campi di lavoro, come nei Gulag dell’URSS o negli altri equivalenti. Molti altri, invece, morirono tramite metodi convenzionali, come nella Grande Purga di Stalin e nei Campi della Morte della Cambogia.

Le ingiustizie del comunismo non devono essere limitate esclusivamente agli stermini. I fortunati sopravvissuti furono soggetti a severe repressioni, inclusa la violazione della libertà di espressione, di religione, la perdita del diritto di proprietà e la criminalizzazione dell’ordinaria attività economica. Nessun precedente tiranno cercò di ottenere un così completo e totalizzante controllo della vita delle persone.

Nonostante le promesse di una società utopica, in cui le classi lavoratrici avrebbero sperimentato una prosperità senza precedenti, i comunisti generarono una povertà collettiva. Ovunque Stati comunisti e non comunisti si ritrovarono confinanti, furono proprio quelli comunisti ad ergere muri e ad applicare politiche di morte per impedire alla propria gente di fuggire presso quelle società con maggiori opportunità.

II. Perché il comunismo ha fallito

Come ha potuto un’ideologia basata sulla liberazione condurre a così tanta oppressione, tirannia e morte? I suoi fallimenti erano intrinseci al progetto comunista oppure derivarono da errori evitabili, dovuti a particolari legislatori o a specifiche nazioni? Come tutti i grandi sviluppi storici, i fallimenti del comunismo non possono esseri ridotti a una singola causa. Piuttosto, in generale, furono intrinseci.

Due fattori rilevanti furono le cause determinanti delle atrocità prodotte dai regimi comunisti: ostinazione e conoscenze inadeguate. L’istituzione di un’economia e di una società pianificate centralmente richiedevano necessariamente, per l’ideologia socialista, un’enorme concentrazione di potere. Benché i comunisti non desiderassero altro che una società utopica in cui lo Stato, eventualmente, potesse “sparire poco a poco”, credevano che il primo passo sarebbe stato quello di stabilire un’economia controllata, al fine di organizzare la produzione per gli interessi della gente. In questo caso, ebbero molti punti in comune con gli altri socialisti.

Per rendere operativo il socialismo, le strategie governative esigevano l’autorità di dirigere e coordinare la produzione e la distribuzione di tutti i beni virtualmente prodotti nella società. In più, la considerevole coercizione fu necessaria per indurre gli individui a cedere le attività private e a lavorare su ciò che lo Stato richiedeva. Carestie e stermini furono, probabilmente, le uniche vie percorribili dai legislatori dell’URSS, della Cina e degli altri stati comunisti, per obbligare i contadini a cedere terre e bestiame e per costringerli ad accettare una nuova forma di schiavitù nelle fattorie collettive – senza considerare che a molti contadini fu proibito di lasciare queste fattorie collettive senza un permesso ufficiale, per paura che potessero cercare altrove una vita più semplice.

L’immenso potere necessario per stabilire e mantenere il sistema comunista attrasse naturalmente persone senza scrupoli, inclusi egoisti e arrampicatori sociali dell’ultima ora, che diedero priorità a propri interessi rispetto a quelli perorati dalla causa. Ciò che risulta sbalorditivo è che le peggiori atrocità comuniste furono compiute non da leader di partito corrotti, ma da ferventi sostenitori quali Lenin, Stalin e Mao. Proprio perché furono dei ferventi sostenitori, essi risultarono disposti a far tutto quello che servisse per poter rendere realtà il loro utopico sogno.

Come il sistema socialista creò le opportunità per le innumerevoli atrocità dei suoi legislatori, così distrusse anche gli incentivi alla produzione per le persone comuni. In assenza dei mercati (se non altro di un mercato legale), era presente un incentivo per i lavoratori così piccolo da non spingerli né ad essere produttivi, né a concentrare gli sforzi produttivi su quei beni che potevano essere, in quel determinato momento, utili ai consumatori. Diversi cercarono di lavorare il meno possibile sul posto di lavoro ufficiale e dove possibile dirottare gli sforzi reali in attività presenti sul mercato nero. Come il vecchio Soviet va dicendo, i lavoratori hanno l’attitudine al “noi fingiamo di lavorare, loro fingono di pagare”.

Perfino quando le strategie socialiste cercarono genuinamente di produrre prosperità e di sostenere le domande del consumatore, spesso non possedevano le informazioni adeguate per farlo. Come il vincitore del premio Nobel F. A. von Hayek descrisse in un famoso articolo, un’economia di mercato esprime un’informazione vitale a produttori e consumatori attraverso il sistema dei prezzi. I prezzi di mercato permettono ai produttori di conoscere il valore relativo di beni e servizi differenti e di determinare quanto i consumatori valutano i loro prodotti. Sotto la pianificazione centralizzata socialista, di contro, non esiste alcun sostituto per questa conoscenza fondamentale. E come risultato, le strategie socialiste spesso non hanno la possibilità di conoscere cosa produrre, attraverso quali metodi o in che quantità. Questa è una delle motivazioni per cui gli Stati comunisti soffrono ciclicamente di carenza di beni primari, benché simultaneamente producano enormi quantità di prodotti scadenti per cui è presente una misera domanda.

III. Perché il fallimento non può essere spiegato diversamente

In questo giorno, i difensori della pianificazione centralizzata socialista sostengono che il comunismo fallì per motivi evitabili e contingenti anziché per motivi intrinseci alla natura del sistema. Forse l’affermazione più popolare di questo tipo è che l’economia pianificata può funzionare correttamente solo se è democratica. L’Unione Sovietica, come tutti gli altri Stati comunisti, erano delle dittature. Ma se essi fossero stati democratici, probabilmente i leader avrebbero avuto degli incentivi più validi per far sì che il sistema funzionasse a beneficio della popolazione. Se fallissero in questo intento, gli elettori potrebbero “cacciare via i bastardi” alle successive elezioni.

Sfortunatamente, è poco probabile che uno Stato comunista riesca per lungo tempo a rimanere democratico. La democrazia richiede un’effettiva opposizione di partiti. E perché funzioni, tali partiti devono essere in grado di diffondere il loro messaggio e di mobilizzare gli elettori, che a turno richiedono risorse estensive. In un sistema economico in cui tutte o quasi tutte le risorse di valore sono controllate dallo Stato, il governo in carica può facilmente soffocare l’opposizione, negandogli l’accesso a quelle risorse. Sotto il socialismo, l’opposizione non può funzionare se essi non hanno la possibilità di diffondere il loro messaggio sui media controllati dallo Stato o se non hanno la possibilità di usare la proprietà statale per i loro raduni e riunioni. Non è accidentale che virtualmente tutti i regimi comunisti sopprimono i partiti all’opposizione subito dopo aver preso il potere.

Perfino se uno Stato comunista riuscisse a mantenere la democrazia per un lungo periodo, sarebbe difficile immaginare come possa risolvere i problemi “gemelli” di conoscenza e incentivi. Che sia democratico o no, un’economia socialista richiederebbe sempre un’enorme concentrazione di potere e un’estensiva coercizione. E una strategia social-democratica si imbatterebbe nella maggior parte degli stessi problemi informativi della sua controparte autoritaria. Inoltre, in una società dove il governo controlla tutto o la maggior parte dell’economia, sarebbe virtualmente impossibile per gli elettori ottenere abbastanza conoscenza per monitorare la maggior parte delle attività statali. Questo inasprirebbe notevolmente il già severo problema dell’ignoranza dell’elettorato che affligge le moderne democrazie.

Un’altra possibile spiegazione per i fallimenti del comunismo è che il problema fu la cattiva leadership. Se i regimi comunisti non fossero stati guidati da mostri come Stalin o Mao, avrebbero potuto produrre degli effetti migliori. Non c’è dubbio che i regimi comunisti abbiano avuto una buona quota di leader crudeli e perfino sociopatici. Ma è poco probabile che questo fu il fattore decisivo nel loro fallimento. A risultati molto simili si giunse anche in regimi comunisti con leader che avevano un’ampia varietà di personalità. Nell’Unione Sovietica, è importante ricordare che le principali istituzioni repressive (inclusi i Gulag e la polizia segreta) furono stabiliti non da Stalin ma da Vladimir Lenin, considerato una persona “normale”. Dopo la morte di Lenin, il principale rivale per il potere di Stalin – Leon Trotskij – sostenne delle politiche che furono per certi aspetti addirittura più oppressive di quelle di Stalin stesso. È difficile evitare la conclusione che il principale fattore – del fallimento del comunismo – non fu né la personalità del leader, né – in alternativa – che i regimi comunisti tendano a porre persone orribili nelle posizioni di potere. O forse entrambe le soluzioni.

Risulta ugualmente complesso dare credito a quelle affermazioni che imputano il fallimento del comunismo solo ai difetti culturali delle nazioni che lo hanno adottato. È certamente vero che la Russia, la prima nazione comunista, abbia una lunga storia di corruzione, autoritarismo e oppressione. Ma è anche vero che i comunisti attuarono oppressioni e stermini su vasta scala, a livelli mai raggiunti dai precedenti governi della Russia. E il comunismo fallì in molte altre nazioni con culture molto diverse. Nei casi della Corea, della Cina e della Germania, le persone con background culturali simili sopportarono terribili privazioni sotto il comunismo, ma ebbero dei notevoli successi sotto un’economia di mercato.

Nel complesso, le atrocità e i fallimenti del comunismo furono le naturali conseguenze degli sforzi tesi a stabilire un’economia socialista in cui tutta o quasi tutta la produzione risulta controllata dallo Stato. Se non sempre completamente inevitabile, l’oppressione risultante era altamente prevedibile.

Proprio come le atrocità del Nazismo rappresentano delle lezioni estreme sui pericoli del nazionalismo, del razzismo, dell’antisemitismo, così la storia dei crimini comunisti ci insegna i pericoli del socialismo. La storia del comunismo non prova che ogni e tutte le forme di interventismo statale siano da evitare. Ma pone in evidenza i pericoli di permettere agli stati di prendere il controllo di tutta o della maggior parte dell’economia e di eliminare la proprietà privata. Inoltre, i problemi relativi alla conoscenza e agli incentivi che sorgono sotto il socialismo affliggono anche gli sforzi su larga scala dell’economia pianificata che non risulta all’altezza del completo controllo governativo della produzione.

Tristemente, queste lezioni sono molto rilevanti oggi, in un’era in cui il socialismo ha nuovamente ricominciato ad attrarre seguaci in varie parti del mondo. In Venezuela, il regime sta provando a stabilire una nuova dittatura socialista che persegua molte delle stesse politiche degli anni passati, inclusa perfino l’uso della carenza di cibo per strangolare l’opposizione. Anche nelle democrazie di lungo periodo, le recenti difficoltà economiche e sociali hanno incrementato la popolarità di dichiarati socialisti vecchio stampo come Bernie Sanders negli Stati Uniti e Jeremy Corbyn in Gran Bretagna. Sia Sanders che Corbyn sono degli ammiratori di lunga data dei brutali regimi comunisti. Perfino se loro desiderassero, è poco probabile che Sanders o Corbyn possano fondare un autentico socialismo nei loro rispettivi paesi. Ma potrebbero nondimeno danneggiare profondamente i loro paesi.

Dall’altra parte dello spettro politico, ci sono allarmanti similitudini tra comunismo e movimenti populisti e nazionalisti di estrema destra. Entrambi fondono tendenze autoritarie con il disdegno dei valori liberali e con il desiderio di estendere il controllo governativo su larga parte dell’economia.

Le pericolose tendenze odierne, sia di destra che di sinistra, non sono ancora minacciose come cento anni fa, e non hanno la possibilità di provocare così tanto male. Più comprenderemo le dolorose lezioni della storia del comunismo, più saremo in grado di evitare la ricomparsa dei suoi crimini.

L’articolo, scritto da Ilya Somin, Professore di Legge presso la George Mason University, è comparso su Foundation for Economic Education il 9 novembre, dopo essere stato pubblicato originariamente sul Washington Post 7 novembre 2017.
Traduzione dall’inglese di Giuseppe Antonio Giunta.

15
Nov
2017

Gli usi extra-Bitcoin della Blockchain-di Giulia Anselmo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Giulia Anselmo.

Sono in molti a pensare che la tecnologia blockchain sia destinata nel futuro prossimo ad essere utilizzata nei più disparati ambiti.

La blockchain è un database “diffuso”, ove i dati non sono contenuti fisicamente in un unico sistema centrale bensì distribuiti e successivamente suddivisi in diversi computer in maniera condivisa. La struttura del database è costituita da “blocchi” di transazioni (o record).
Ciascun “blocco” è collegato al precedente, dando così vita a una catena resistente a possibili manomissioni. Per poter falsificare un singolo record di “blocco”, sarebbe necessario forzare tutti quelli che sono tra loro concatenati.
Tale aspetto ha certamente reso popolare la blockchain, caratterizzata dalla sua tracciabilità e sicurezza, come anche dall’assenza di un sistema di governo centralizzato, trasformandola – sostanzialmente – in una sorta di registro pubblico. Il suo effetto principale è la “disintermediazione” delle figure che operano nei servizi del settore privato e pubblico, con conseguente riduzione delle filiere professionali, in termini di costi e tempi, e aumento di efficienza delle attività produttive – e in generale dei servizi.

In tale contesto, bitcoin è una moneta elettronica che utilizza la tecnologia blockchain per l’esecuzione delle transazioni. La sua peculiarità risiede nella totale assenza di un ente centrale capace di regolare la sua immissione nel mercato o di bloccarne i flussi, influendo sul valore reale: è un’applicazione decentralizzata per i pagamenti.

Nel sistema è diffusa una paura collettiva nascente dall’associazione tra le criptovalute e riciclaggio, criminalità organizzata e – più in generale – traffici illeciti. Ma la blockchain è al contrario una tecnologia che facilita le transazioni e anche la loro tracciabilità, permettendo contemporaneamente la possibilità di mantenere l’anonimato. Alcune soluzioni sono state però previste in concreto: ad esempio, nelle piattaforme di Exchange è posto un obbligo di registrazione agli utenti che vi accedono al fine di cambiare in euro le criptovalute e viceversa.

Nell’ambito della PA, il Ministero dell’Economia sta sviluppando un sistema cloud, chiamato “Cloudify NoiPA”, che dà la possibilità di collegare le amministrazioni centrali e quelle periferiche per la gestione condivisa delle risorse umane, un’area particolarmente sensibile (paghe e stipendi). Il MEF ha scelto, fra le tante, proprio la tecnologia blockchain per gestire il Data Warehouse decentrato e condiviso tra tutte le amministrazioni pubbliche collegate; ciò perché garantisce una tracciabilità maggiore, collegando più di diecimila enti tra Comuni, Regioni e ASL.

Ancora, nel settore bancario e finanziario si trae grande beneficio da tale tecnologia nel sistema dei controlli interni, in cui ogni funzione, con l’apposizione di una firma digitale, valida i controlli svolti tramite la partecipazione ad una catena che coinvolge in maniera sicura e trasparente le diverse aree aziendali. Inoltre, è possibile generare delle chiavi di sicurezza per gestire l’accesso ai database, ai software e ai documenti condivisi internamente dalla banca; inoltre, nelle istituzioni finanziarie e nelle banche, è possibile servirsi di smart contract per la modulistica standard (investimenti, mutui, ecc.) che viene fornita alla clientela, ottenendo una notevole riduzione delle tempistiche e delle varie (e comunissime) irregolarità contrattuali.

Gli smart contract possono essere utilizzati non solo nel settore bancario ma anche nel settore dei servizi. Nel settore del noleggio auto, in particolare, l’utente che decide di noleggiare un’autovettura può procedere mediante un identificativo che rimanda alla tecnologia blockchain, connesso a uno smart contract che attiva automaticamente il pagamento alla presenza di particolari condizioni; e ciò perché si tratta di registri in grado di sottoscrivere non soltanto ogni tipo di transazione, ma anche di gestire automaticamente delle istruzioni e tutto ciò senza la necessità di rivolgersi a intermediari specializzati.

Ad esempio, la Toyota sta portando avanti questa iniziativa che utilizza la tecnologia blockchain per creare una piattaforma aperta in cui gli utenti possono controllare i propri dati di guida. Insieme a Gem, Toyota sta sviluppando un’applicazione – già utilizzata per l’assicurazione sanitaria – anche per l’assicurazione auto. L’azienda fornisce un registro per gli ingressi distribuiti da una serie di fonti diverse che possono dunque essere utilizzate per automatizzare gran parte del processo di assicurazione. Bigchain DB (Berlino) ha dato avvio ad una raccolta fondi di oltre 3 milioni di dollari per creare un registro flessibile e scalabile basato su blocchi, aiutando a sviluppare il tipo di struttura che la Toyota dovrà adottare per ottenere maggior crescita. Anche Oaken Innovations e Communerz (Dallas e Tel Aviv) stanno lavorando per far nascere delle applicazioni con tecnologia blockchain per la condivisione di auto, accesso ai veicoli, pagamenti e carpooling.

La blockchain e le novità che essa porta incideranno notevolmente anche sul settore delle professioni.
Gli smart contract potrebbero, infatti, segnare la fine di professioni come quella del notaio, dando la possibilità a chiunque di realizzare e anche sottoscrivere in modo autonomo un atto. Questo aspetto pone non poche problematicità, specialmente in merito alla perfetta sostituibilità di tali intermediari con gli smart contract, rendendo necessario l’uso di un linguaggio per gli stessi che segua degli standard garanti delle reali intenzioni dell’utilizzatore e ciò per evitare lunghi contenziosi di carattere interpretativo.

Infine, nel settore dell’arte si è applicato lo stesso principio, dando vita alla cosiddetta notarchain: una piattaforma contenente file digitali archiviati in sicurezza dai notai per dare certezza ai dati su opere d’arte e beni mobili, e ciò per dare un’importante svolta alla lotta alla contraffazione. Tramite il notarchain è possibile conoscere il proprietario attuale di una determinata opera, ma è anche possibile risalire a ritroso a tutti i passaggi di proprietà della stessa, fino ad arrivare alla individuazione dell’autore originario. Tale strumento potrà essere utilizzato anche nelle aste telematiche, garantendo che tutto ciò che viene messo in vendita sia a norma.