19
Dic
2017

Web tax: sempre più un balzello

L’ultimo (in ordine di tempo) emendamento alla “webtax” approvata al Senato introduce  un’imposta pari al 3 per cento dei corrispettivi relativi alle transazioni digitali, applicabile alle sole prestazioni di servizi tra operatori economici (“business to business”) mediante ritenuta alla fonte da parte del committente.

Viene così superata una delle precedenti versioni, che applicava l’imposta anche alle operazioni al consumo finale e al cosiddetto commercio elettronico, diretto o indiretto.

Il nuovo emendamento supera anche alcune delle criticità delle precedenti versioni: cade il rischio di discriminazioni a danno delle imprese non residenti, dato che l’imposta si applicherà allo stesso modo anche nei confronti degli operatori economici residenti, che non potranno utilizzare la ritenuta alla fonte applicata dal committente a scomputo delle imposte sui redditi dovute in Italia. Inoltre, il meccanismo applicativo si semplifica e “normalizza”, non essendo più previsto il coinvolgimento degli intermediari finanziari operanti in Italia alla stregua di sostituti d’imposta.

L’imposta si applicherà come detto mediante ritenuta e contestuale rivalsa, che sarà applicata dalle imprese residenti in Italia al momento del pagamento dei corrispettivi alle proprie controparti, italiane od estere che siano.

Se sul piano della praticabilità dell’imposta e della sua conformità ai principi comunitari l’emendamento è dunque sotto diversi aspetti migliorativo, la logica iniziale che aveva ispirato l’istituzione della nuova imposta appare stravolta fino a risultare irriconoscibile.

Si era infatti partiti con l’obiettivo dichiarato, discutibile ma comprensibile, di intervenire unilateralmente sui famigerati “giganti del web”, cioè sulle imprese multinazionali della digital economy (Google, Facebook, Amazon, etc.) accusate di non pagare abbastanza imposte sui profitti, grazie allo sfruttamento delle regole di fiscalità internazionale che non fanno sorgere una pretesa impositiva nello Stato di destinazione dei prodotti e servizi in mancanza di una sede fissa (stabile organizzazione) in quel territorio.

Ma questa logica, appunto, risulta ora superata dagli eventi, posto che la nuova imposta sulle transazioni digitali, se dovesse essere approvata nei termini su descritti, si applicherà in egual misura a tutte le imprese, estere o italiane, del tutto a prescindere dalla loro localizzazione in Paesi a bassa fiscalità. Non siamo dunque più al cospetto di una misura dettata da un intento di equità e perequazione, dalla volontà di recuperare gettito assumendo uno “sfruttamento esentasse” del mercato italiano da parte delle multinazionali del web.

Si è smarrita la logica dell’equalization levy, cioè di un tributo che surroga forfettariamente la mancata applicazione delle imposte sul reddito nello Stato della fonte, e che costituisce al tempo stesso una “spinta gentile” all’apertura di una stabile organizzazione in Italia. La nuova misura, che come detto si applicherà anche alle imprese già residenti in Italia e a quelle estere che qui si localizzeranno, si è trasformata strada facendo in un balzello aggiuntivo sui ricavi di un settore dell’economia digitale (servizi pubblicitari on-line, cloud computing, etc.), con un aggravio selettivo sul comparto di cui al momento sfugge la ratio giustificatrice: almeno fino al prossimo emendamento.

18
Dic
2017

La RAI e la raccolta pubblicitaria: ha ragione Pier Silvio Berlusconi?

È vero, come ha dichiarato al Corriere della Sera Pier Silvio Berlusconi, che il ruolo svolto dalla RAI nella raccolta pubblicitaria è un unicum nel contesto degli operatori di servizio pubblico radiotelevisivo dei grandi Paesi europei?

In Francia, Germania, Regno Unito e Spagna nessuno dei gruppi di servizio pubblico genera una quota così alta di ricavi pubblicitari. Come viene mostrato nella figura sotto riportata, i servizi di Francia (France Télevisions – FTV) e Spagna (Corporación de Radio y Televisión Española) hanno ridotto drasticamente la loro quota di ricavi pubblicitari. Nel 2015, in Francia tale quota si è rispettivamente fermata al 12% del totale mentre in Spagna si è attestata al 5%. Inoltre, è interessante notare come in Francia, a partire dal 2009, la pubblicità sulla televisione pubblica non è più ammessa durante la cosiddetta “prima serata”.

Nel Regno Unito, invece, la BBC non raccoglie pubblicità e viene finanziata esclusivamente dal canone. I britannici pagano un Canone (fee) di 147 sterline all’anno, ovvero l’equivalente di circa 170 euro. Per quanto riguarda l’emittente pubblica britannica, l’unico canale finanziato attraverso pubblicità è BBC Worldwide che però risulta essere visibile via satellite anche nel nostro paese. In Germania, infine, ARD e ZDF, i due operatori pubblici del paese, raccolgono dalla pubblicità solo il 6% del totale dei ricavi cumulati. Nel nostro paese, nel 2015, questa quota raggiungeva il 26% del totale, ovvero oltre un quarto dei ricavi, mentre il 66% di questi ultimi veniva incassato attraverso la riscossione del Canone, la cui raccolta, a partire dal 2016, è stata posta a carico delle società di erogazione dell’energia elettrica. Qui di seguito si può notare come anche a livello EBU (European Broadcasting Union), nel 2014, due terzi dei ricavi degli operatori di servizio pubblico sia stato raccolto attraverso un Canone.

Secondo quanto riporta una recente relazione commissionata dal ministero dell’economia, la decisione di inserire il Canone radiotelevisivo all’interno della bolletta della luce ha assicurato allo stato un incasso aggiuntivo, rispetto al 2015, di circa 420 milioni di euro, di cui i due terzi alla RAI (280 milioni di euro in più). Come previsto anche da Silvio Boccalatte, in un focus IBL del 2016 intitolato “Per una RAI senza pubblicità (o quasi)”, questo cambiamento ha portato ad una sensibile riduzione dell’evasione del canone, che si è subito attestata attorno al 10%, in linea con la media europea.

Un’analisi più attenta dei dati disponibili ci permette dunque di capire che attraverso il recupero del Canone evaso, la RAI ha oggi un’occasione storica per ristrutturare la propria offerta ed essere più allineata al concetto di servizio pubblico delle più importanti realtà europee ed internazionali. Così facendo, l’intero mercato radiotelevisivo ed editoriale potrebbe ottenere importanti benefici. Finché questa occasione, non verrà colta, avrà ragione Pier Silvio Berlusconi a sostenere che le regole di raccolta pubblicitaria dell’operatore televisivo pubblico in Italia sono un’eccezione rispetto ai principali Paesi europei.

14
Dic
2017

Incubo prenatalizio

È l’anno 1 del primo governo dell’era  neo-autarchica. Fa freddo, molto freddo, perché con il nuovo governo dell’era neo-autarchica l’inverno è tornato ad essere l’inverno di una volta e sono tornate anche le mezze stagioni: è bastato abolire, per legge, l’uso delle autovetture che riscaldavano l’aria, dei phon per asciugarsi i capelli e dei termometri, strumento diabolico della scienza globalizzata, e basarsi, con metodo naturale, sulla temperatura percepita da ciascuno di noi.

È il 1 dicembre e anche quest’anno sono iniziate le ferie invernali che durano, per legge, 3 mesi,  per permettere alle famiglie di essere felici. E come ogni anno ci si appresta a preparare il pranzo di Natale.

Nell’anno 1 del primo governo dell’era neo-autarchica preparare il pranzo di Natale è però un inferno e si rischia la galera: vige, infatti, la legge del km 0, cioè non si possono consumare cose prodotte ad oltre un km da casa e devono essere originarie del territorio. Chi vive in città di mare compra affettati  di contrabbando; conosco madri di famiglia multate per aver consumato un pandoro prodotto a ben 200 km da casa e gente ai domiciliari perché trovata in possesso di datteri e banane. Per non parlare dello spaccio illegale di cotechini e zamponi provenienti dall’Emilia Romagna.

Così si prova con il “fai-da-te”. Due mesi fa un vicino di casa, nel suo giardino, ha iniziato ad allevare abusivamente un vitello: è stato scoperto ed imprigionato per 6 mesi dal nuovo ministro degli animali,  perché gli animali, per legge, hanno ora gli stessi diritti e regole degli uomini. Tanto è che si sta addirittura sperimentando la consulenza di pecore e suini negli assessorati all’urbanistica in diversi comuni.

Non resta, allora, che provare a fare la spesa nel mercato legale. I supermercati non esistono più: per legge sono autorizzati solo piccoli negozietti dalla superficie massima di 25 mq, aperti dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 18 , per rispettare l’obbligo di legge della pennichella pomeridiana. I giorni di apertura sono il lunedì, il mercoledì e il venerdì. È vietata l’apertura il sabato e la domenica, pena il ritiro a vita della licenza commerciale, licenza che viene erogata secondo una programmazione quinquennale in un numero contingentato, calcolato sulla base di algoritmi che quantificano i consumi in un paniere di beni di più assiduo utilizzo, la cui assiduità è valutata da un altro algoritmo basato su un parametro storico-statistico inversamente proporzionale al profitto e direttamente controbilanciato dal martedì e dal giovedì. Questi due giorni settimanali sono diventati, per legge, le giornate nazionali del baratto e tutte le compravendite sono state vietate su tutto il territorio nazionale.

Ma tutto questo non è un problema: c’è tanto tempo a disposizione per fare la spesa per il nostro adorato banchetto natalizio. Infatti, il primo articolo della nuova costituzione neo-autarchica recita: “L’Italia è fondata sul tempo libero”. Per questo, per legge, si lavora 20 ore alla settimana e per il tempo rimanente sono state istituite, per legge, le ore del sogno e dell’immaginazione per pensare, tutti insieme, ad un mondo ancora migliore: i sogni e le fantasie vengono votati on line e scelti dal primo ministro come programma per  il secondo governo e realizzati, con soldi pubblici, dal terzo governo. Nell’era neo-autarchica l’iniziativa privata è stata abolita per legge, in quanto non serve: lo Stato sceglie, regola e realizza i nostri sogni, i nostri desideri e le nostre aspettative. Nel nostro piccolo mondo neo-autarchico stiamo tutti bene e siamo tutti felici, a Natale come in ogni altro giorno dell’anno: per legge dello Stato.

 

14
Dic
2017

Corsi e ricorsi della legge di bilancio sulla tassazione dei tabacchi—di Marco Spallone

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Marco Spallone.

In sede di conversione del DL Fiscale, era stata depositata nei giorni scorsi, presso la Commissione Bilancio del Senato della Repubblica, una serie di emendamenti, poi ritirati, che, in sintesi, introduceva un aumento delle tasse sulle sigarette di prezzo più basso. La stessa idea è ora ripresentata alla Camera (emendamenti 12.13; 80.17; 2.2; 8.68; 23-ter 9; 40.73; 92.6. Analogamente, la proposta emendativa 41.0.36 alla Legge di Bilancio 2018, presentata neanche un mese fa e e poi ritirata, prevedeva l’introduzione di una tassa di scopo di un centesimo a sigaretta per finanziare, almeno apparentemente, il fondo per l’acquisto di farmaci oncologici innovativi. Oggi, anche questa proposta viene ripresentata, seppure in altre forme, dalla Commissione Affari Sociali e dalla Commissione Lavoro (emendamento 4768/XII/1.8; 4768/XI/1. 30, 32 e 34).

Sull’effettiva capacità del mercato di sopportare l’ennesimo aggravio fiscale derivante dall’eventuale approvazione di simili emendamenti sono state espresse perplessità dagli organi tecnici (Ragioneria Generale, Ufficio Parlamentare del Bilancio, Agenzia delle Dogane e dei Monopoli): un mercato in calo del 4% su base annua, caratterizzato da un’elasticità della domanda non più trascurabile, non potrebbe garantire un aumento di gettito, ma al contrario, avrebbe difficoltà ad assorbire lo shock fiscale, con conseguenze imprevedibili sulle entrate. In sostanza, secondo la maggior parte degli esperti del settore, le entrate non aumenterebbero ed il mercato illegale trarrebbe un giovamento inaspettato dall’aumento dei prezzi dei prodotti legali.

Al di là di questo, pare difficile identificare questi incrementi come tasse di scopo, nonostante talora così siano presentati: le tasse di scopo infatti hanno per presupposto che questo sia chiaramente identificato e non modificabile, condizione quest’ultima che non sembra garantita dall’orizzonte temporale limitato degli emendamenti. Per giunta, questa volta, lo scopo è stato modificato prima ancora di esistere: era l’acquisto dei farmaci oncologici innovativi nella prima stesura degli emendamenti, è per il Fondo Sanitario Nazionale (come conseguenza del mancato accordo in conferenza Stato-Regioni) e per gli ammortizzatori sociali in quest’ultima. La verità lampante è che lo scopo serve per giustificare agli occhi dei cittadini (presto elettori) l’aumento della pressione fiscale. Le esigenze di bilancio si soddisfano come al solito (l’accoppiata vincente nel nostro Paese è sempre stata sigarette e benzina) e le spese improduttive, soprattutto in campagna elettorale, diventano di colpo incomprimibili.

Che il mercato dei tabacchi stia attraversando un momento critico, aggravato dall’incertezza che ha caratterizzato gli interventi fiscali recenti (a giugno 2017, per esempio, è stato innalzato drasticamente l’onere fiscale minimo sui prodotti di prezzo basso con un intervento in totale discontinuità con quelli dei due anni precedenti), è ormai certificato: la recente Legge di assestamento di Bilancio, infatti, ha rivisto al ribasso le previsioni relative ai proventi da accisa sui tabacchi, portandole da 11,05 a 10,05 miliardi di €: meno un miliardo, una variazione senza precedenti nella storia del mercato dei tabacchi. Per rimanere sui numeri: l’attuale tassazione sui tabacchi prevede meccanismi automatici di adeguamento delle imposte al variare del prezzo medio; l’inasprimento del prelievo conseguente all’introduzione di una tassa di scopo si tradurrebbe in aumenti di prezzo di circa 50 centesimi (e fino a 2 euro negli anni successivi), un’enormità se si pensa che aumenti molto inferiori indotti dagli interventi fiscali di giugno hanno provocato una rilevante perdita di gettito (meno 224 milioni nel periodo gennaio-settembre 2017, secondo i dati del MEF).

È ovvia a tutti la necessità di intervenire sul settore, ma farlo non significa auspicare un aumento dei fumatori; significa piuttosto garantire che il consumo sia confinato all’interno del mercato legale e che le dinamiche concorrenziali siano corrette: solo così si può massimizzare il benessere sociale, cioè tutelare la salute dei consumatori e massimizzare il gettito erariale.

E’ ormai chiaro che la riforma della tassazione sui tabacchi debba essere rivista, ma non nel modo e nella direzione verso cui si muovono questi emendamenti.

Entrando nel merito, alcuni degli emendamenti in questione propongono di esprimere l’onere fiscale minimo, oggi espresso in €/kg, come percentuale della tassazione sul prezzo medio ponderato, percentuale che varia a seconda degli umori degli estensori degli emendamenti e che raramente trova una giustificazione di natura scientifica. Tra l’altro, il prezzo medio ponderato è per sua natura variabile e, peggio ancora, manipolabile, soprattutto in un mercato caratterizzato dalla presenza di posizioni dominanti consolidate nel tempo. Per fare un esempio, un produttore con una quota di mercato rilevante potrà decidere di alzare i prezzi (per incrementare i profitti e non certo per scoraggiare i consumatori), ottenendo un duplice effetto: l’aumento dei margini e l’inasprimento del carico fiscale sui concorrenti, proprio coloro che per competere vorrebbero lasciare i prezzi invariati.

E come se non bastasse, si vorrebbe concedere anche al legislatore la possibilità di intervenire discrezionalmente sul rapporto tra onere fiscale minimo e tassazione sul prezzo medio ponderato, di nuovo sottoponendolo alle prevedibili pressioni dei portatori di diversi interessi. Inoltre, attraverso una serie di incrementi discrezionali (serie più o meno lunga a seconda dei margini di discrezionalità previsti dagli emendamenti, di nuovo senza alcuna base scientifica), l’onere fiscale minimo potrebbe raggiungere un livello superiore alla fiscalità totale pagata dalle sigarette vendute al prezzo medio ponderato. La natura dell’onere fiscale minimo ne uscirebbe stravolta, così come l’equa concorrenza sul mercato.

Ogni intervento anche sulla tassazione dei tabacchi dovrebbe essere, come sempre, il risultato di una valutazione attenta, che consideri non solo le mal riposte speranze dell’Erario, ma anche le reazioni dei consumatori. Una volta riformata organicamente la tassazione sui tabacchi, riprendendo gli aspetti positivi della corrente legislazione e correggendone quelli negativi, nessun intervento discrezionale ed estemporaneo, dettato da esigenze di cassa più o meno condivisibili, potrà o dovrà essere proposto perché rischioso per tutti: i consumatori, l’Erario, l’industria. Piuttosto, sostenibilità, stabilità e prevedibilità dovrebbero essere i capisaldi di una riforma organica e complessiva della fiscalità di questo settore, coinvolgendo tutti gli attori coinvolti e non affidandosi a strumenti dell’ultima ora e dettati dall’urgenza. Un esempio a cui puntare potrebbe essere l’introduzione di un calendario fiscale sul modello tedesco, ancorato all’inflazione, che in Germania ha portato (pianificazione 2011-2015) ad un aumento generalizzato della tassazione ma consentendo all’Erario di realizzare, nel contempo, un gettito complessivo superiore alle previsioni di ben 2,4 miliardi di euro. Evitando invece l’esempio della Grecia in cui interventi repentini e squilibrati dettati dall’urgenza hanno ridotto i volumi di mercato e favorito la crescita esponenziale del contrabbando (meno 600 milioni per il solo 2016, in termini di mancate entrate).

Al momento, però, chi fuma contribuisce alle entrate dello Stato (il mercato dei tabacchi porta nelle casse dell’Erario circa 14 miliardi di euro tra accise e Iva), mentre domani, in conseguenza di interventi volti ad inasprire il carico fiscale sui tabacchi, già elevatissimo, potrebbe decidere di rivolgersi al mercato illegale, spendendo meno e scegliendo prodotti potenzialmente più dannosi, con buona pace dell’Erario.

Il Professor Marco Spallone è Vicedirettore di CASMEF, Università LUISS Guido Carli.

14
Dic
2017

Tassa Airbnb: c’è un giudice a Palazzo Spada?

Qualche mese fa, nell’affrontare la comparsa di servizi come Airbnb, capaci di sovvertire in pochi mesi equilibri e prassi del mercato immobiliare ferme da decenni, il governo aveva seguito pedissequamente la celebre massima di Ronald Reagan: se una cosa si muove, tassala; se continua a muoversi, regolala; se smette di muoversi, sussidiala.

Con Airbnb e compagni siamo ancora alla prima fase. Il turismo internazionale è stato a dir poco stravolto dall’emergere di piattaforme di intermediazione online che offrono forme di accoglienza alternative a quella alberghiera: i cosiddetti “affitti brevi”, effettuati direttamente tra privati tramite Airbnb e servizi simili. Albergatori e intermediari tradizionali, negli ultimi anni, hanno denunciato con forza il fenomeno, ritenendolo una forma di concorrenza sleale. La ragione è semplice: gli appartamenti privati, a differenza di ostelli, B&B e alberghi, non sono sottoposti a tutta una serie di norme (sulla sicurezza, sulle garanzie da offrire alla clientela, sui livelli di igiene, sul trattamento fiscale) che ne complicano – e quindi ne rendono più onerosa – la gestione.

Il problema è che applicare le regole previste per alberghi e altre strutture assimilabili agli appartamenti privati ha effetti a dir poco grotteschi: come si può pretendere che una persona che affitti il proprio appartamento per pochi giorni provveda a dotarsi di cucine “di almeno 14 metri quadri” o di “installare un sanitario water-bidet provvisto di doccetta limitrofa”, come previsto in alcuni regolamenti regionali?

E così, nell’impossibilità di assimilare Airbnb ai servizi alberghieri ma sotto la pressione delle categorie professionali di questi ultimi, il legislatore ha agito nel modo in cui è solito agire in mancanza di altre idee: tassando. Lo ha fatto con una cedolare secca sugli affitti brevi al 21%, applicata dall’intermediario in quanto considerato sostituto di imposta, con obbligo di comunicazione mensile dei dati all’Agenzia delle entrate. Un bel problema – non solo economico, ma soprattutto organizzativo e gestionale – per Airbnb, che infatti ha immediatamente presentato ricorso al Tar, contestando soprattutto la disparità di trattamento con gli operatori nazionali e con quelli che non intervengono nel trasferimento dei pagamenti tra ospite e proprietario, come Booking, entrambi non soggetti agli obblighi.

A esprimere qualche dubbio sulla “tassa Airbnb” era stata, fin da subito, l’Autorità antitrust, segnalando il pericolo che alla fine gli unici a perderci sarebbero stati i consumatori. L’Autorità si dichiarò “pienamente consapevole” che l’intervento del legislatore fosse mirato a realizzare “un interesse pubblico di natura fiscale e a contrastare il fenomeno dell’evasione”, e tuttavia l’introduzione degli obblighi previsti non appariva “proporzionata rispetto al perseguimento di tali finalità”. Insomma: volete contrastare l’evasione? Fatelo, ma senza rendere la vita impossibile a chi vuole solo affittare una stanza o un appartamento. E ciò a maggior ragione perché la norma rappresenta un unicum nel panorama europeo, con il rischio di allontanare utilizzatori finali e operatori e, così, frenare lo sviluppo del turismo italiano.

Il Tar, nel frattempo, bocciò la richiesta di Airbnb di sospendere il provvedimento in attesa di maggiore chiarezza sui suoi effetti. Ma ieri dal Consiglio di Stato è arrivata la doccia fredda: i giudici di Palazzo Spada hanno ordinato al Tar di riprendere in mano le carte, in quanto le questioni poste dall’azienda sarebbero “meritevoli di un attento apprezzamento”. Per il momento, insomma, rimane tutto in gioco: la speranza è che, per una volta, l’interesse generale e il buon senso abbiano la meglio sulla difesa dello status quo.

Twitter: @glmannheimer

11
Dic
2017

Il bonus mamma: “una buona cosa di pessimo gusto”

I “bonus”, misura economica ormai standard per i governi di questi ultimi anni, hanno il sapore delle “buone cose di pessimo gusto”, come recita una celebre poesia di Guido Gozzano.

Il bonus, per definizione, è un premio elargito ed ispirato da buoni propositi, ma che né soddisfa, né risulta essere particolarmente utile o efficace a contrastare un determinato problema. Al tempo stesso, è una misura politica di pessimo gusto poiché mira in primis a creare consenso politico. Infatti, l’idea che lo stato debba fare un “regalo” a coloro che mettono al mondo dei figli è davvero di pessimo gusto: questo non è altro che il “bonus mamma” di 800 euro stanziato a tutte quelle donne che hanno partorito nel corso dell’anno 2017. Erogato senza alcun limite o pochissimi requisito di sorta, il “bonus mamma” è stato dato a tutte quelle donne all’inizio dell’ottavo mese di gravidanza. Nel caso di parto plurimo il bonus è stato riconosciuto per ogni figlio (ad esempio, il parto di due gemelli ha consentito alle mamme in questione di ricevere 1.600 euro).

Se da un lato, si tratta di soldi che fanno ovviamente piacere a chi li riceve; dall’altro la misura in se non incide in alcun modo sull’obiettivo finale: risollevare il tasso di fertilità. Nonostante questo importante problema il Parlamento sta pensando di confermare questo bonus anche per il 2018. Non contento di questa inefficace misura economica, Matteo Renzi ha recentemente rilanciato una nuova proposta: l’estensione degli 80 euro alle famiglie con figli a carico.

Il problema demografico, ovvero la mancanza di nascite, è un dato di fatto assolutamente drammatico per il nostro paese. Purtroppo, a livello politico, l’interesse a parlare di questa tematica in modo serio è scarso. Da un lato, infatti, una certa politica, vittima della stortura ideologica per la quale i temi figli e famiglia sono roba da propaganda mussoliniana, finge di non vedere o capire. Dall’altro, ci sono coloro che pensano che il sostegno alla natalità possa essere uno strumento anti-immigrazione. Infine ci sono i sindacati, tutti protesi a tutelare lo “status quo” delle fette più anziane della popolazione, che insistono a rimandare l’irrimandabile, ossia l’indicizzazione dell’età pensionabile all’aumento dell’aspettativa di vita.

Il problema demografico è, invece, gravissimo. Ce lo ricorda anche l’ONU: gli italiani sono un gruppo in via di estinzione. Il rapporto tra nascite e decessi nel nostro paese è negativo dal 1990 e da ormai vent’anni la nostra è una popolazione letteralmente ferma. Secondo alcuni economisti non è detto che l’attuale suicidio demografico dell’Italia sarà accompagnato da un conseguente disastro economico. Secondo questi studiosi è possibile rimanere ricchi purché si investa in tecnologia, scienza, istruzione e politiche per la produttività. Questa teoria però si scontra con la realtà. In Italia, oggi, si sta facendo troppo poco per rilanciare gli investimenti ed il nostro sistema educativo. Di conseguenza è facile immaginare come all’interno di una società sempre più anziana l’attuale sistema di welfare possa diventare sempre meno sostenibile. Nessun sistema pensionistico e sanitario è in grado di sopportare trend simili. Ma chi sarebbe disposto a sacrificarsi per le generazioni future?

I figli costano, fare figli non è conveniente e facendoli si diventa relativamente più poveri. Questo vale soprattutto per le classi medie. Tutto il sistema di sostegno alle famiglie con figli andrebbe dunque rivisto poiché quello attuale risulta essere squilibrato, spesso iniquo e certamente mal finanziato. Ad oggi, tra assegni familiari, detrazioni e bonus vari, esistono ben 11 misure nazionali di sostegno alle famiglie. Nonostante ciò alcune categorie familiari particolarmente svantaggiate ricevono aiuti pressoché nulli. Ed è proprio per questo motivo che un sostegno vero non può che tradursi, fondamentalmente, con una ridefinizione dei principi che reggono il nostro sistema di welfare familiare, ristabilendo un diverso rapporto tra cittadino e stato che ci permetta di avere a disposizione più denaro da investire in spese per i nostri figli all’interno di un mercato dei servizi veramente libero e competitivo. All’interno di un sistema più equilibrato le famiglie italiane rinuncerebbero molto volentieri a tutte quelle sporadiche “paghette” dal sapore di patetico spot elettorale.

Un modo concreto e possibile per rimodulare a fondo il sistema attuale può sicuramente essere quello di ripensare radicalmente il nostro sistema fiscale, e nello specifico il rapporto tra fisco e famiglia.  In questo senso, un buon suggerimento viene fornito nella proposta “Venticinque % per tutti” nell’omonimo volume a cura di Nicola Rossi, edito da IBL Libri. In questo volume viene spiegato che se, come oggi, il soggetto passivo del tributo è la singola persona fisica, nell’ambito dei nuclei famigliari si creano situazioni potenzialmente molto distorsive. A parità di reddito complessivo famigliare, l’attuale sistema fiscale (IRPEF ad aliquote progressive incentrato sugli individui) penalizza le famiglie, specialmente le cosiddette famiglie mono-reddito. Con una tassazione ad aliquota unica del 25% tutte queste distorsioni verrebbero meno. Inoltre, non si favorirebbero in modo maggiore le famiglie con redditi più elevati (dove entrambi i coniugi lavorano), né si disincentiverebbe al lavoro il secondo coniuge a basso reddito. La dimensione e le caratteristiche della famiglia utilizzata come unità impositiva potrebbero entrare in gioco nella modulazione dell’esenzione alla base, graduando il minimo vitale esente da imposta, in funzione delle necessità del nucleo, della sua numerosità, della presenza di “soggetti deboli” e di altre condizioni socio-demografiche.

L’Italia ha ancora la possibilità di ristabilire nuove regole con i suoi cittadini, anche allo scopo di ringiovanire la sua popolazione. Se, invece, i futuri governi continueranno nel solco degli ultimi, è facile immaginare come il nostro paese sia destinato a diventare una vera a propria casa di riposo. Con una classe politica incapace di comprendere il preoccupante ed eclatante dato dell’invecchiamento della popolazione, tutte quelle “buone cose di pessimo gusto” come l’attuale “bonus mamma” rischiano di minare completamente il nostro futuro e di ipotecare il nostro presente.

6
Dic
2017

La politica contro il glifosato: perchè non oscurare anche il sole?

Lunedì 27 novembre i 28 Stati membri dell’Unione Europea hanno deciso, attraverso un voto a maggioranza qualificata, di rinnovare la licenza del glifosato fino al 2022. Questa decisione pone così fine ad una lunga diatriba politica iniziata due anni fa e garantisce maggiori certezze all’intero settore agricolo europeo.

Nell’ambito di un protocollo di licenza UE, l’autorizzazione del glifosato sarebbe già dovuta avvenire entro il 30 giugno 2016, ma proprio a causa della mancanza di un accordo al momento del voto del Consiglio, la Commissione aveva optato per una proroga di 18 mesi. Nonostante i numerosi tentativi di mediazione, durante il più recente voto del 9 novembre 2017 i 28 Stati membri non avevano ancora trovato un compromesso. Quel giorno, 14 paesi si espressero a favore del rinnovo, 9 si schierarono contro (tra questi anche Belgio, Francia ed Italia), mentre 5 (tra cui anche la Germania, in quel momento alle prese con un potenziale accordo tra CDU, FDP e Verdi) decisero di astenersi.

La vicenda si è però finalmente risolta settimana scorsa grazie alla decisione di Berlino di appoggiare il rinnovo. Con ben 18 voti favorevoli, 8 contrari e 1 solo astenuto (il Portogallo), gli Stati membri hanno rinnovato l’utilizzo del glifosato. Subito dopo il voto Emmanuel Macron ha immediatamente confermato che il suo esecutivo prenderà tutte le misure necessarie affinché il glifosato (un diserbante non selettivo, ovvero una molecola che elimina indistintamente tutte le erbe infettanti) venga vietato dalla Francia nel giro di tre anni, non appena sarà disponibile un’alternativa. Il governo italiano e quello belga hanno subito appoggiato le istanze francesi spiegando che il voto va contro la tutela dei cittadini europei e dell’ambiente.

Come risulta però essere evidente, la volontà di eliminare l’utilizzo del glifosato a livello comunitario è esclusivamente politica. Fino ad oggi, infatti, l’utilizzo del glifosato è sempre stato ritenuto relativamente innocuo. Non è un caso, dunque, che la maggior parte degli studi più recenti ed importanti sulla molecola in questione spieghino come quest’ultima non sia cancerogena per l’uomo. Ad esempio, nel novembre 2015, l’EFSA (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare) ha pubblicato una nuova valutazione del glifosato in cui si afferma che “è improbabile che il glifosato sia geno-tossico (in altre parole, che danneggi il DNA) o che rappresenti un rischio di cancro per l’essere umano”. Allo stesso tempo, nel maggio del 2016 e nel marzo del 2017 sia la FAO che l’ECHA (l’Agenzia europea per le sostanze chimiche) hanno comunicato che non esistono problemi di cancerogenicità della sostanza. Le agenzie sanitarie nazionali di Canada, Australia, Giappone e Nuova Zelanda hanno ribadito lo stesso concetto, mentre secondo l’NPIC (il National Pesticide Information Center) degli Stati Uniti, questa molecola, quando ingerita, passa per la maggior parte attraverso il corpo in modo rapido, venendo subito espulsa.

L’unico studio che ha inserito il glifosato tra le sostante “probabilmente tossiche” è quello pubblicato nel 2015 dalla IARC, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. A questo proposito è pero necessaria un’importante precisazione: al gruppo delle sostanze “probabilmente cancerogene” (il gruppo 2A in base alla classificazione dello IARC) in cui si trova il glifosato appartiene anche la carne rossa, alcuni composti chimici utilizzati dai parrucchieri, o le sostanze che si sprigionano dalla frittura ad alte temperature. Secondo questa classificazione, il glifosato sarebbe, ad esempio, meno cancerogeno dell’esposizione al sole. Infine, come viene ricordato dalla IARC stessa, l’appartenenza a ciascun gruppo non è una misura del rischio concreto nella vita di tutti i giorni.

Nonostante la posizione praticamente univoca di tutti i maggiori studi scientifici, la questione glifosato è invece politicamente tossica. I governi di Belgio, Francia ed Italia, da superpotenze agricole dell’Unione quali sono, mirano ad ottenere notevoli vantaggi economici dalla norma. Bruxelles, Parigi e Roma vorrebbero infatti introdurre sul mercato un prodotto “europeo” che possa essere utilizzato al posto dell’attuale “Roundup”, erbicida brevettato e commercializzato dalla Monsanto.

Ad oggi, l’idea che molti politici europei stanno pensando di perseguire sarebbe quella di promuovere un erbicida più “naturale” come Beloukha, un prodotto a base di acido pelargonico di origine vegetale per il controllo non selettivo della vegetazione commercializzato da Jade, un’azienda francese controllata da Belchim, un consorziato agro-chimico belga. Dal 2015, in Italia, Beloukha viene distribuito in esclusiva da Novamont, azienda che due anni fa ha raggiunto un accordo con Consorzi Agrari d’Italia, società a cui fanno riferimento tutti i membri di Coldiretti. Inutile, a questo proposito, ricordare come Coldiretti da tempo si batta purtroppo per i propri interessi lobbystici anziché per tutelare gli agricoltori italiani. Da questo punto di vista la recente vicenda Fidenato-OGM e la continua battaglia contro l’accordo di libero scambio con il Canada non lasciano alcun dubbio: meglio proteggere gli interessi di poche aziende “amiche” piuttosto che tutelare veramente i nostri produttori e raccontare la verità ai cittadini.

Se nel corso dei prossimi anni Beloukha sarà effettivamente in grado di sostituire Roundup in quanto prodotto di qualità superiore con prezzo competitivo, i primi ad accorgersene saranno certamente gli agricoltori europei e non ci sarà bisogno di alcun intervento legislativo. Al contrario, se il consenso scientifico continuerà ad esprimersi in modo esaustivo in materia e Beloukha non riuscirà ad imporsi sul mercato perché prodotto di qualità inferiore o perché prodotto troppo costoso rispetto alla concorrenza, è giusto che Roundup continui ad essere – anche in un futuro – la prima scelta per i nostri coltivatori.

Tutto questo ci porta ad una drammatica conclusione, ormai triste leitmotiv della politica odierna: in un ambito in cui il dibattito politico dovrebbe basarsi principalmente su studi, ricerche e test scientifici, la voglia di eliminare l’utilizzo del glifosato attraverso il ricorso al semplice “principio di precauzione” rischia di avere effetti negativi di lungo termine sull’avanzamento tecnologico del settore agricolo europeo, sull’efficienza operativa di milioni di aziende agricole e sull’export di numerosi paesi emergenti, come Argentina o Brasile. Una decisione del genere rischia inoltre di generare una doppia ed inefficiente legislazione, come già avvenuto nel caso degli organismi geneticamente modificati. Insomma, contrariamente a quanto viene spesso riportato da coloro che intendono difendere la nostra salute ed il nostro ambiente, un risultato del genere tutelerebbe solamente specifici interessi industriali.

1
Dic
2017

L’etica non è (solo) benevolenza! – di Giuseppe Antonio Giunta

Il rapporto tra economia ed etica è un argomento molto in voga negli ambienti economici. Il motivo appare chiaro: oltre ad avere una sterminata storiografia, esso risulta ancor’oggi uno dei fondamenti della stessa scienza economica.
Detto questo, la riflessione sembra però molto confusa. A mio avviso sono presenti due errori alquanto banali che ci inducono a credere che economia ed etica siano due settori rigidamente scissi e contrapposti. Il primo è la reductio della dimensione etica alla benevolenza. Il secondo sorge quando l’etica altruistica viene considerata l’unico collante sociale. Read More