14
Dic
2017

Corsi e ricorsi della legge di bilancio sulla tassazione dei tabacchi—di Marco Spallone

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Marco Spallone.

In sede di conversione del DL Fiscale, era stata depositata nei giorni scorsi, presso la Commissione Bilancio del Senato della Repubblica, una serie di emendamenti, poi ritirati, che, in sintesi, introduceva un aumento delle tasse sulle sigarette di prezzo più basso. La stessa idea è ora ripresentata alla Camera (emendamenti 12.13; 80.17; 2.2; 8.68; 23-ter 9; 40.73; 92.6. Analogamente, la proposta emendativa 41.0.36 alla Legge di Bilancio 2018, presentata neanche un mese fa e e poi ritirata, prevedeva l’introduzione di una tassa di scopo di un centesimo a sigaretta per finanziare, almeno apparentemente, il fondo per l’acquisto di farmaci oncologici innovativi. Oggi, anche questa proposta viene ripresentata, seppure in altre forme, dalla Commissione Affari Sociali e dalla Commissione Lavoro (emendamento 4768/XII/1.8; 4768/XI/1. 30, 32 e 34).

Sull’effettiva capacità del mercato di sopportare l’ennesimo aggravio fiscale derivante dall’eventuale approvazione di simili emendamenti sono state espresse perplessità dagli organi tecnici (Ragioneria Generale, Ufficio Parlamentare del Bilancio, Agenzia delle Dogane e dei Monopoli): un mercato in calo del 4% su base annua, caratterizzato da un’elasticità della domanda non più trascurabile, non potrebbe garantire un aumento di gettito, ma al contrario, avrebbe difficoltà ad assorbire lo shock fiscale, con conseguenze imprevedibili sulle entrate. In sostanza, secondo la maggior parte degli esperti del settore, le entrate non aumenterebbero ed il mercato illegale trarrebbe un giovamento inaspettato dall’aumento dei prezzi dei prodotti legali.

Al di là di questo, pare difficile identificare questi incrementi come tasse di scopo, nonostante talora così siano presentati: le tasse di scopo infatti hanno per presupposto che questo sia chiaramente identificato e non modificabile, condizione quest’ultima che non sembra garantita dall’orizzonte temporale limitato degli emendamenti. Per giunta, questa volta, lo scopo è stato modificato prima ancora di esistere: era l’acquisto dei farmaci oncologici innovativi nella prima stesura degli emendamenti, è per il Fondo Sanitario Nazionale (come conseguenza del mancato accordo in conferenza Stato-Regioni) e per gli ammortizzatori sociali in quest’ultima. La verità lampante è che lo scopo serve per giustificare agli occhi dei cittadini (presto elettori) l’aumento della pressione fiscale. Le esigenze di bilancio si soddisfano come al solito (l’accoppiata vincente nel nostro Paese è sempre stata sigarette e benzina) e le spese improduttive, soprattutto in campagna elettorale, diventano di colpo incomprimibili.

Che il mercato dei tabacchi stia attraversando un momento critico, aggravato dall’incertezza che ha caratterizzato gli interventi fiscali recenti (a giugno 2017, per esempio, è stato innalzato drasticamente l’onere fiscale minimo sui prodotti di prezzo basso con un intervento in totale discontinuità con quelli dei due anni precedenti), è ormai certificato: la recente Legge di assestamento di Bilancio, infatti, ha rivisto al ribasso le previsioni relative ai proventi da accisa sui tabacchi, portandole da 11,05 a 10,05 miliardi di €: meno un miliardo, una variazione senza precedenti nella storia del mercato dei tabacchi. Per rimanere sui numeri: l’attuale tassazione sui tabacchi prevede meccanismi automatici di adeguamento delle imposte al variare del prezzo medio; l’inasprimento del prelievo conseguente all’introduzione di una tassa di scopo si tradurrebbe in aumenti di prezzo di circa 50 centesimi (e fino a 2 euro negli anni successivi), un’enormità se si pensa che aumenti molto inferiori indotti dagli interventi fiscali di giugno hanno provocato una rilevante perdita di gettito (meno 224 milioni nel periodo gennaio-settembre 2017, secondo i dati del MEF).

È ovvia a tutti la necessità di intervenire sul settore, ma farlo non significa auspicare un aumento dei fumatori; significa piuttosto garantire che il consumo sia confinato all’interno del mercato legale e che le dinamiche concorrenziali siano corrette: solo così si può massimizzare il benessere sociale, cioè tutelare la salute dei consumatori e massimizzare il gettito erariale.

E’ ormai chiaro che la riforma della tassazione sui tabacchi debba essere rivista, ma non nel modo e nella direzione verso cui si muovono questi emendamenti.

Entrando nel merito, alcuni degli emendamenti in questione propongono di esprimere l’onere fiscale minimo, oggi espresso in €/kg, come percentuale della tassazione sul prezzo medio ponderato, percentuale che varia a seconda degli umori degli estensori degli emendamenti e che raramente trova una giustificazione di natura scientifica. Tra l’altro, il prezzo medio ponderato è per sua natura variabile e, peggio ancora, manipolabile, soprattutto in un mercato caratterizzato dalla presenza di posizioni dominanti consolidate nel tempo. Per fare un esempio, un produttore con una quota di mercato rilevante potrà decidere di alzare i prezzi (per incrementare i profitti e non certo per scoraggiare i consumatori), ottenendo un duplice effetto: l’aumento dei margini e l’inasprimento del carico fiscale sui concorrenti, proprio coloro che per competere vorrebbero lasciare i prezzi invariati.

E come se non bastasse, si vorrebbe concedere anche al legislatore la possibilità di intervenire discrezionalmente sul rapporto tra onere fiscale minimo e tassazione sul prezzo medio ponderato, di nuovo sottoponendolo alle prevedibili pressioni dei portatori di diversi interessi. Inoltre, attraverso una serie di incrementi discrezionali (serie più o meno lunga a seconda dei margini di discrezionalità previsti dagli emendamenti, di nuovo senza alcuna base scientifica), l’onere fiscale minimo potrebbe raggiungere un livello superiore alla fiscalità totale pagata dalle sigarette vendute al prezzo medio ponderato. La natura dell’onere fiscale minimo ne uscirebbe stravolta, così come l’equa concorrenza sul mercato.

Ogni intervento anche sulla tassazione dei tabacchi dovrebbe essere, come sempre, il risultato di una valutazione attenta, che consideri non solo le mal riposte speranze dell’Erario, ma anche le reazioni dei consumatori. Una volta riformata organicamente la tassazione sui tabacchi, riprendendo gli aspetti positivi della corrente legislazione e correggendone quelli negativi, nessun intervento discrezionale ed estemporaneo, dettato da esigenze di cassa più o meno condivisibili, potrà o dovrà essere proposto perché rischioso per tutti: i consumatori, l’Erario, l’industria. Piuttosto, sostenibilità, stabilità e prevedibilità dovrebbero essere i capisaldi di una riforma organica e complessiva della fiscalità di questo settore, coinvolgendo tutti gli attori coinvolti e non affidandosi a strumenti dell’ultima ora e dettati dall’urgenza. Un esempio a cui puntare potrebbe essere l’introduzione di un calendario fiscale sul modello tedesco, ancorato all’inflazione, che in Germania ha portato (pianificazione 2011-2015) ad un aumento generalizzato della tassazione ma consentendo all’Erario di realizzare, nel contempo, un gettito complessivo superiore alle previsioni di ben 2,4 miliardi di euro. Evitando invece l’esempio della Grecia in cui interventi repentini e squilibrati dettati dall’urgenza hanno ridotto i volumi di mercato e favorito la crescita esponenziale del contrabbando (meno 600 milioni per il solo 2016, in termini di mancate entrate).

Al momento, però, chi fuma contribuisce alle entrate dello Stato (il mercato dei tabacchi porta nelle casse dell’Erario circa 14 miliardi di euro tra accise e Iva), mentre domani, in conseguenza di interventi volti ad inasprire il carico fiscale sui tabacchi, già elevatissimo, potrebbe decidere di rivolgersi al mercato illegale, spendendo meno e scegliendo prodotti potenzialmente più dannosi, con buona pace dell’Erario.

Il Professor Marco Spallone è Vicedirettore di CASMEF, Università LUISS Guido Carli.

14
Dic
2017

Tassa Airbnb: c’è un giudice a Palazzo Spada?

Qualche mese fa, nell’affrontare la comparsa di servizi come Airbnb, capaci di sovvertire in pochi mesi equilibri e prassi del mercato immobiliare ferme da decenni, il governo aveva seguito pedissequamente la celebre massima di Ronald Reagan: se una cosa si muove, tassala; se continua a muoversi, regolala; se smette di muoversi, sussidiala.

Con Airbnb e compagni siamo ancora alla prima fase. Il turismo internazionale è stato a dir poco stravolto dall’emergere di piattaforme di intermediazione online che offrono forme di accoglienza alternative a quella alberghiera: i cosiddetti “affitti brevi”, effettuati direttamente tra privati tramite Airbnb e servizi simili. Albergatori e intermediari tradizionali, negli ultimi anni, hanno denunciato con forza il fenomeno, ritenendolo una forma di concorrenza sleale. La ragione è semplice: gli appartamenti privati, a differenza di ostelli, B&B e alberghi, non sono sottoposti a tutta una serie di norme (sulla sicurezza, sulle garanzie da offrire alla clientela, sui livelli di igiene, sul trattamento fiscale) che ne complicano – e quindi ne rendono più onerosa – la gestione.

Il problema è che applicare le regole previste per alberghi e altre strutture assimilabili agli appartamenti privati ha effetti a dir poco grotteschi: come si può pretendere che una persona che affitti il proprio appartamento per pochi giorni provveda a dotarsi di cucine “di almeno 14 metri quadri” o di “installare un sanitario water-bidet provvisto di doccetta limitrofa”, come previsto in alcuni regolamenti regionali?

E così, nell’impossibilità di assimilare Airbnb ai servizi alberghieri ma sotto la pressione delle categorie professionali di questi ultimi, il legislatore ha agito nel modo in cui è solito agire in mancanza di altre idee: tassando. Lo ha fatto con una cedolare secca sugli affitti brevi al 21%, applicata dall’intermediario in quanto considerato sostituto di imposta, con obbligo di comunicazione mensile dei dati all’Agenzia delle entrate. Un bel problema – non solo economico, ma soprattutto organizzativo e gestionale – per Airbnb, che infatti ha immediatamente presentato ricorso al Tar, contestando soprattutto la disparità di trattamento con gli operatori nazionali e con quelli che non intervengono nel trasferimento dei pagamenti tra ospite e proprietario, come Booking, entrambi non soggetti agli obblighi.

A esprimere qualche dubbio sulla “tassa Airbnb” era stata, fin da subito, l’Autorità antitrust, segnalando il pericolo che alla fine gli unici a perderci sarebbero stati i consumatori. L’Autorità si dichiarò “pienamente consapevole” che l’intervento del legislatore fosse mirato a realizzare “un interesse pubblico di natura fiscale e a contrastare il fenomeno dell’evasione”, e tuttavia l’introduzione degli obblighi previsti non appariva “proporzionata rispetto al perseguimento di tali finalità”. Insomma: volete contrastare l’evasione? Fatelo, ma senza rendere la vita impossibile a chi vuole solo affittare una stanza o un appartamento. E ciò a maggior ragione perché la norma rappresenta un unicum nel panorama europeo, con il rischio di allontanare utilizzatori finali e operatori e, così, frenare lo sviluppo del turismo italiano.

Il Tar, nel frattempo, bocciò la richiesta di Airbnb di sospendere il provvedimento in attesa di maggiore chiarezza sui suoi effetti. Ma ieri dal Consiglio di Stato è arrivata la doccia fredda: i giudici di Palazzo Spada hanno ordinato al Tar di riprendere in mano le carte, in quanto le questioni poste dall’azienda sarebbero “meritevoli di un attento apprezzamento”. Per il momento, insomma, rimane tutto in gioco: la speranza è che, per una volta, l’interesse generale e il buon senso abbiano la meglio sulla difesa dello status quo.

Twitter: @glmannheimer

11
Dic
2017

Il bonus mamma: “una buona cosa di pessimo gusto”

I “bonus”, misura economica ormai standard per i governi di questi ultimi anni, hanno il sapore delle “buone cose di pessimo gusto”, come recita una celebre poesia di Guido Gozzano.

Il bonus, per definizione, è un premio elargito ed ispirato da buoni propositi, ma che né soddisfa, né risulta essere particolarmente utile o efficace a contrastare un determinato problema. Al tempo stesso, è una misura politica di pessimo gusto poiché mira in primis a creare consenso politico. Infatti, l’idea che lo stato debba fare un “regalo” a coloro che mettono al mondo dei figli è davvero di pessimo gusto: questo non è altro che il “bonus mamma” di 800 euro stanziato a tutte quelle donne che hanno partorito nel corso dell’anno 2017. Erogato senza alcun limite o pochissimi requisito di sorta, il “bonus mamma” è stato dato a tutte quelle donne all’inizio dell’ottavo mese di gravidanza. Nel caso di parto plurimo il bonus è stato riconosciuto per ogni figlio (ad esempio, il parto di due gemelli ha consentito alle mamme in questione di ricevere 1.600 euro).

Se da un lato, si tratta di soldi che fanno ovviamente piacere a chi li riceve; dall’altro la misura in se non incide in alcun modo sull’obiettivo finale: risollevare il tasso di fertilità. Nonostante questo importante problema il Parlamento sta pensando di confermare questo bonus anche per il 2018. Non contento di questa inefficace misura economica, Matteo Renzi ha recentemente rilanciato una nuova proposta: l’estensione degli 80 euro alle famiglie con figli a carico.

Il problema demografico, ovvero la mancanza di nascite, è un dato di fatto assolutamente drammatico per il nostro paese. Purtroppo, a livello politico, l’interesse a parlare di questa tematica in modo serio è scarso. Da un lato, infatti, una certa politica, vittima della stortura ideologica per la quale i temi figli e famiglia sono roba da propaganda mussoliniana, finge di non vedere o capire. Dall’altro, ci sono coloro che pensano che il sostegno alla natalità possa essere uno strumento anti-immigrazione. Infine ci sono i sindacati, tutti protesi a tutelare lo “status quo” delle fette più anziane della popolazione, che insistono a rimandare l’irrimandabile, ossia l’indicizzazione dell’età pensionabile all’aumento dell’aspettativa di vita.

Il problema demografico è, invece, gravissimo. Ce lo ricorda anche l’ONU: gli italiani sono un gruppo in via di estinzione. Il rapporto tra nascite e decessi nel nostro paese è negativo dal 1990 e da ormai vent’anni la nostra è una popolazione letteralmente ferma. Secondo alcuni economisti non è detto che l’attuale suicidio demografico dell’Italia sarà accompagnato da un conseguente disastro economico. Secondo questi studiosi è possibile rimanere ricchi purché si investa in tecnologia, scienza, istruzione e politiche per la produttività. Questa teoria però si scontra con la realtà. In Italia, oggi, si sta facendo troppo poco per rilanciare gli investimenti ed il nostro sistema educativo. Di conseguenza è facile immaginare come all’interno di una società sempre più anziana l’attuale sistema di welfare possa diventare sempre meno sostenibile. Nessun sistema pensionistico e sanitario è in grado di sopportare trend simili. Ma chi sarebbe disposto a sacrificarsi per le generazioni future?

I figli costano, fare figli non è conveniente e facendoli si diventa relativamente più poveri. Questo vale soprattutto per le classi medie. Tutto il sistema di sostegno alle famiglie con figli andrebbe dunque rivisto poiché quello attuale risulta essere squilibrato, spesso iniquo e certamente mal finanziato. Ad oggi, tra assegni familiari, detrazioni e bonus vari, esistono ben 11 misure nazionali di sostegno alle famiglie. Nonostante ciò alcune categorie familiari particolarmente svantaggiate ricevono aiuti pressoché nulli. Ed è proprio per questo motivo che un sostegno vero non può che tradursi, fondamentalmente, con una ridefinizione dei principi che reggono il nostro sistema di welfare familiare, ristabilendo un diverso rapporto tra cittadino e stato che ci permetta di avere a disposizione più denaro da investire in spese per i nostri figli all’interno di un mercato dei servizi veramente libero e competitivo. All’interno di un sistema più equilibrato le famiglie italiane rinuncerebbero molto volentieri a tutte quelle sporadiche “paghette” dal sapore di patetico spot elettorale.

Un modo concreto e possibile per rimodulare a fondo il sistema attuale può sicuramente essere quello di ripensare radicalmente il nostro sistema fiscale, e nello specifico il rapporto tra fisco e famiglia.  In questo senso, un buon suggerimento viene fornito nella proposta “Venticinque % per tutti” nell’omonimo volume a cura di Nicola Rossi, edito da IBL Libri. In questo volume viene spiegato che se, come oggi, il soggetto passivo del tributo è la singola persona fisica, nell’ambito dei nuclei famigliari si creano situazioni potenzialmente molto distorsive. A parità di reddito complessivo famigliare, l’attuale sistema fiscale (IRPEF ad aliquote progressive incentrato sugli individui) penalizza le famiglie, specialmente le cosiddette famiglie mono-reddito. Con una tassazione ad aliquota unica del 25% tutte queste distorsioni verrebbero meno. Inoltre, non si favorirebbero in modo maggiore le famiglie con redditi più elevati (dove entrambi i coniugi lavorano), né si disincentiverebbe al lavoro il secondo coniuge a basso reddito. La dimensione e le caratteristiche della famiglia utilizzata come unità impositiva potrebbero entrare in gioco nella modulazione dell’esenzione alla base, graduando il minimo vitale esente da imposta, in funzione delle necessità del nucleo, della sua numerosità, della presenza di “soggetti deboli” e di altre condizioni socio-demografiche.

L’Italia ha ancora la possibilità di ristabilire nuove regole con i suoi cittadini, anche allo scopo di ringiovanire la sua popolazione. Se, invece, i futuri governi continueranno nel solco degli ultimi, è facile immaginare come il nostro paese sia destinato a diventare una vera a propria casa di riposo. Con una classe politica incapace di comprendere il preoccupante ed eclatante dato dell’invecchiamento della popolazione, tutte quelle “buone cose di pessimo gusto” come l’attuale “bonus mamma” rischiano di minare completamente il nostro futuro e di ipotecare il nostro presente.

6
Dic
2017

La politica contro il glifosato: perchè non oscurare anche il sole?

Lunedì 27 novembre i 28 Stati membri dell’Unione Europea hanno deciso, attraverso un voto a maggioranza qualificata, di rinnovare la licenza del glifosato fino al 2022. Questa decisione pone così fine ad una lunga diatriba politica iniziata due anni fa e garantisce maggiori certezze all’intero settore agricolo europeo.

Nell’ambito di un protocollo di licenza UE, l’autorizzazione del glifosato sarebbe già dovuta avvenire entro il 30 giugno 2016, ma proprio a causa della mancanza di un accordo al momento del voto del Consiglio, la Commissione aveva optato per una proroga di 18 mesi. Nonostante i numerosi tentativi di mediazione, durante il più recente voto del 9 novembre 2017 i 28 Stati membri non avevano ancora trovato un compromesso. Quel giorno, 14 paesi si espressero a favore del rinnovo, 9 si schierarono contro (tra questi anche Belgio, Francia ed Italia), mentre 5 (tra cui anche la Germania, in quel momento alle prese con un potenziale accordo tra CDU, FDP e Verdi) decisero di astenersi.

La vicenda si è però finalmente risolta settimana scorsa grazie alla decisione di Berlino di appoggiare il rinnovo. Con ben 18 voti favorevoli, 8 contrari e 1 solo astenuto (il Portogallo), gli Stati membri hanno rinnovato l’utilizzo del glifosato. Subito dopo il voto Emmanuel Macron ha immediatamente confermato che il suo esecutivo prenderà tutte le misure necessarie affinché il glifosato (un diserbante non selettivo, ovvero una molecola che elimina indistintamente tutte le erbe infettanti) venga vietato dalla Francia nel giro di tre anni, non appena sarà disponibile un’alternativa. Il governo italiano e quello belga hanno subito appoggiato le istanze francesi spiegando che il voto va contro la tutela dei cittadini europei e dell’ambiente.

Come risulta però essere evidente, la volontà di eliminare l’utilizzo del glifosato a livello comunitario è esclusivamente politica. Fino ad oggi, infatti, l’utilizzo del glifosato è sempre stato ritenuto relativamente innocuo. Non è un caso, dunque, che la maggior parte degli studi più recenti ed importanti sulla molecola in questione spieghino come quest’ultima non sia cancerogena per l’uomo. Ad esempio, nel novembre 2015, l’EFSA (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare) ha pubblicato una nuova valutazione del glifosato in cui si afferma che “è improbabile che il glifosato sia geno-tossico (in altre parole, che danneggi il DNA) o che rappresenti un rischio di cancro per l’essere umano”. Allo stesso tempo, nel maggio del 2016 e nel marzo del 2017 sia la FAO che l’ECHA (l’Agenzia europea per le sostanze chimiche) hanno comunicato che non esistono problemi di cancerogenicità della sostanza. Le agenzie sanitarie nazionali di Canada, Australia, Giappone e Nuova Zelanda hanno ribadito lo stesso concetto, mentre secondo l’NPIC (il National Pesticide Information Center) degli Stati Uniti, questa molecola, quando ingerita, passa per la maggior parte attraverso il corpo in modo rapido, venendo subito espulsa.

L’unico studio che ha inserito il glifosato tra le sostante “probabilmente tossiche” è quello pubblicato nel 2015 dalla IARC, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. A questo proposito è pero necessaria un’importante precisazione: al gruppo delle sostanze “probabilmente cancerogene” (il gruppo 2A in base alla classificazione dello IARC) in cui si trova il glifosato appartiene anche la carne rossa, alcuni composti chimici utilizzati dai parrucchieri, o le sostanze che si sprigionano dalla frittura ad alte temperature. Secondo questa classificazione, il glifosato sarebbe, ad esempio, meno cancerogeno dell’esposizione al sole. Infine, come viene ricordato dalla IARC stessa, l’appartenenza a ciascun gruppo non è una misura del rischio concreto nella vita di tutti i giorni.

Nonostante la posizione praticamente univoca di tutti i maggiori studi scientifici, la questione glifosato è invece politicamente tossica. I governi di Belgio, Francia ed Italia, da superpotenze agricole dell’Unione quali sono, mirano ad ottenere notevoli vantaggi economici dalla norma. Bruxelles, Parigi e Roma vorrebbero infatti introdurre sul mercato un prodotto “europeo” che possa essere utilizzato al posto dell’attuale “Roundup”, erbicida brevettato e commercializzato dalla Monsanto.

Ad oggi, l’idea che molti politici europei stanno pensando di perseguire sarebbe quella di promuovere un erbicida più “naturale” come Beloukha, un prodotto a base di acido pelargonico di origine vegetale per il controllo non selettivo della vegetazione commercializzato da Jade, un’azienda francese controllata da Belchim, un consorziato agro-chimico belga. Dal 2015, in Italia, Beloukha viene distribuito in esclusiva da Novamont, azienda che due anni fa ha raggiunto un accordo con Consorzi Agrari d’Italia, società a cui fanno riferimento tutti i membri di Coldiretti. Inutile, a questo proposito, ricordare come Coldiretti da tempo si batta purtroppo per i propri interessi lobbystici anziché per tutelare gli agricoltori italiani. Da questo punto di vista la recente vicenda Fidenato-OGM e la continua battaglia contro l’accordo di libero scambio con il Canada non lasciano alcun dubbio: meglio proteggere gli interessi di poche aziende “amiche” piuttosto che tutelare veramente i nostri produttori e raccontare la verità ai cittadini.

Se nel corso dei prossimi anni Beloukha sarà effettivamente in grado di sostituire Roundup in quanto prodotto di qualità superiore con prezzo competitivo, i primi ad accorgersene saranno certamente gli agricoltori europei e non ci sarà bisogno di alcun intervento legislativo. Al contrario, se il consenso scientifico continuerà ad esprimersi in modo esaustivo in materia e Beloukha non riuscirà ad imporsi sul mercato perché prodotto di qualità inferiore o perché prodotto troppo costoso rispetto alla concorrenza, è giusto che Roundup continui ad essere – anche in un futuro – la prima scelta per i nostri coltivatori.

Tutto questo ci porta ad una drammatica conclusione, ormai triste leitmotiv della politica odierna: in un ambito in cui il dibattito politico dovrebbe basarsi principalmente su studi, ricerche e test scientifici, la voglia di eliminare l’utilizzo del glifosato attraverso il ricorso al semplice “principio di precauzione” rischia di avere effetti negativi di lungo termine sull’avanzamento tecnologico del settore agricolo europeo, sull’efficienza operativa di milioni di aziende agricole e sull’export di numerosi paesi emergenti, come Argentina o Brasile. Una decisione del genere rischia inoltre di generare una doppia ed inefficiente legislazione, come già avvenuto nel caso degli organismi geneticamente modificati. Insomma, contrariamente a quanto viene spesso riportato da coloro che intendono difendere la nostra salute ed il nostro ambiente, un risultato del genere tutelerebbe solamente specifici interessi industriali.

1
Dic
2017

L’etica non è (solo) benevolenza! – di Giuseppe Antonio Giunta

Il rapporto tra economia ed etica è un argomento molto in voga negli ambienti economici. Il motivo appare chiaro: oltre ad avere una sterminata storiografia, esso risulta ancor’oggi uno dei fondamenti della stessa scienza economica.
Detto questo, la riflessione sembra però molto confusa. A mio avviso sono presenti due errori alquanto banali che ci inducono a credere che economia ed etica siano due settori rigidamente scissi e contrapposti. Il primo è la reductio della dimensione etica alla benevolenza. Il secondo sorge quando l’etica altruistica viene considerata l’unico collante sociale. Read More

30
Nov
2017

La lotta alla concorrenza fiscale di Margrethe Vestager

Due giorni fa, martedì 28 novembre, è ufficialmente iniziato il nuovo anno accademico dell’Università Bocconi. Oltre agli interventi di Mario Monti e del Rettore Gianmario Verona, la cerimonia d’apertura si è contraddistinta per il discorso programmatico di Margrethe Vestager, attuale Commissario europeo per la concorrenza. Come previsto, il discorso di Vestager ha assunto connotati estremamente politici: l’occasione è infatti servita per ribadire, ancora una volta, le linee guida della politica fiscale avviata da Bruxelles nel corso di questi ultimi anni.

Nello specifico, nel corso del suo intervento “bocconiano”, il Commissario Vestager ha fatto riferimento, in modo più o meno diretto, alle tre iniziative legislative principali promosse dalla Commissione negli ultimi 12 mesi: 1) la direttiva su una base imponibile consolidata comune per le società (Common Consolidate Corporate Tax Base, meglio conosciuta con l’acronimo di CCCTB); 2) la direttiva sui meccanismi di risoluzione delle controversie in materia di doppia imposizione a livello UE; e 3) la direttiva sulla riduzione delle imposte (Anti-Tax Avoidance) che considera i disallineamenti con paesi terzi.

Per quanto concerne la prima delle tre direttive sopra citate è giusto sottolineare che già un paio di anni fa era stata affossata dagli Stati membri. Presentata per la prima volta nel 2011, la nuova proposta, per una base imponibile consolidata comune per le società, è suddivisa in due direttive diverse, una che copre la base imponibile comune per le società (CCTB) e l’altra che copre la stessa CCCTB. Così facendo, la Commissione spera di attirare un maggiore consenso tra gli Stati membri. Tuttavia, i governi di Danimarca, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi e Svezia hanno già presentato obiezioni formali affermando che, così come la proposta del 2011, anche questa “doppia” iniziativa non rispetta il principio di sussidiarietà.

La CCCTB non è la riforma fiscale di cui l’Unione Europea avrebbe bisogno. Innanzitutto, se approvata entro la fine del mandato Juncker, una misura fiscale simile aggiungerà un ulteriore livello di regolamentazione ai già complicati ed intrusivi quadri internazionali, stabiliti per contrastare l’elusione fiscale. Come ricordano, ad esempio, sia il sindacato olandese dell’industria e dei datori di lavoro, sia il Parlamento britannico, i 15 punti programmatici, sviluppati nel contesto del progetto BEPS (Base Erosion & Profit Shifting) promosso dai paesi OCSE e dai paesi del G20, hanno già come obiettivo quello di introdurre un pacchetto di misure fiscali che monitori le pratiche di elusione dell’imposta sulle multinazionali, a livello globale. L’aggiunta di ulteriori e discutibili regole fiscali, all’interno di un quadro internazionale particolarmente articolato, metterà in una posizione di svantaggio tutti i paesi membri, soprattutto in termini di competitività rispetto al resto del mondo.

In secondo luogo, l’introduzione di una proposta simile richiederebbe la fusione di tutti i vari sistemi giuridici nazionali dell’UE, comporterebbe la creazione di un nuovo codice fiscale a livello Comunitario per le multinazionali, non risolverebbe i problemi di “transfer (mis)pricing” e metterebbe a rischio la sovranità fiscale degli Stati membri. Viste tutte queste problematiche di fondamentale importanza, la CCCTB appare solo una pessima proposta che finirà per punire i paesi europei maggiormente aperti al commercio internazionale e premiare i governi poco virtuosi.

Sebbene la proposta della Commissione non incida direttamente sull’aliquota delle imposte sulle imprese di un determinato paese, tutti gli Stati membri perderanno la propria libertà rispetto al modo in cui la base imponibile viene definita. Secondo uno studio condotto da Ernst & Young nel 2011 l’introduzione della CCCTB porterebbe ad enormi cambiamenti di riscossione: su 27 paesi europei (Croazia esclusa) gli unici tre Stati membri che otterrebbero dei veri benefici in termini di occupazione, investimenti diretti dall’estero e produzione sarebbero il Belgio, la Francia e la Spagna. Al contrario, tutti gli altri paesi non otterrebbero alcun vantaggio economico. Con l’adozione della CCCTB si arriverebbe dunque al paradosso di vedere un numero consistente di Stati membri aumentare o introdurre nuove tasse che permettano ai vari governi di recuperare le perdite accumulate.

Infine, per quanto riguarda le imprese, è altamente probabile che la riduzione dei costi amministrativi derivanti da una CCCTB venga subito compensata da un incremento dei costi aziendali interni. Una CCCTB obbligatoria rischia di cambiare il comportamento aziendale, incluso il luogo fisico dove aprire un’azienda. Inoltre una direttiva come quella proposta rischia di scoraggiare la crescita di grandi “campioni” europei. Rendendo le nuove regole obbligatorie per tutti i gruppi con entrate consolidate superiori a €750 milioni, molte imprese europee avranno un incentivo a non superare questa soglia limite. Ad esempio, una volta raggiunto questo livello di entrate, le imprese in questione perderanno l’opportunità di accedere a varie agevolazioni fiscali, come i cosiddetti “patents and innovation boxes”. Di conseguenza, risulta essere abbastanza facile ipotizzare che i costi di transizione al nuovo sistema fiscale europeo saranno molto elevati.

Alla luce di tutte queste nostre considerazioni, la domanda sorge spontanea: chissà se il Commissario per la concorrenza, Margrethe Vestager, abbia intuito i pericoli derivanti dall’introduzione di una base imponibile consolidata comune per le società? La nostra speranza è che quantomeno i docenti ed i molti studenti presenti alla cerimonia li abbiano percepiti.

 

 

 

 

 

27
Nov
2017

L’ennesimo attacco alla concorrenza leale di Flixbus

Con la discussione sulla legge di Bilancio per il 2018 si riapre la guerriglia normativa a Flixbus? La piattaforma tedesca era già stata oggetto di una surreale vicenda alcuni mesi fa, con norme anti-concorrenziali prima approvate e poi soppresse. Ora gli stessi emendamenti si riaffacciano al Senato; ed è probabile che li vedremo spuntare anche alla Camera.

In particolare, le proposte emendative hanno una chiarissima finalità: quella di garantire la sostenibilità occupazionale e limitare il più possibile il ricorso alla messa in mobilità dei lavoratori del settore, con riferimento proprio al “caso” Flixbus.

Secondo quanto emerge dalla stampa locale e nazionale, Flixbus è stata identificata come causa principale della crisi di alcune aziende di trasporti e del licenziamento di alcuni lavoratori. In altre parole, la concorrenza di Flixbus, azienda che opera su una piattaforma di mobilità internazionale, collaborando con compagnie di autobus regionali provenienti da tutta Europa, è stata additata come motivo primario della crisi del settore dei trasporti su ruota in Italia. Questa operazione sembra avere un obiettivo ben preciso: scaricare sull’azienda tedesca (nata a Monaco di Baviera nel 2011) la responsabilità della messa in mobilità dei lavoratori di altre aziende del relativo settore.

Ma come si può sostenere che le difficoltà di alcune aziende siano colpa unicamente della concorrenza di Flixbus? A fronte del successo di un’azienda, c’è spesso la cattiva gestione ed incapacità di innovarsi di un’altra: Flixbus, che è entrata nel mercato italiano nell’estate del 2015, ha semplicemente proposto il suo prodotto, a promosso prezzi più bassi, ha portato avanti numerose efficaci promozioni, ed è riuscita ad attirare molti consumatori. Questi ultimi hanno scelto i servizi offerti da Flixbus per il tramite delle aziende partner, anziché quelli dei concorrenti, per una ragione banale: li hanno giudicati migliori e hanno riscontrato prezzi inferiori. Contrastare Flixbus con vincoli o divieti, anziché sul terreno della competizione, significa privare i consumatori dell’opzione che hanno mostrato di preferire. A ben guardare, dunque, non si tratta di una guerra contro la piattaforma tedesca, ma contro i consumatori italiani.

Seppur con motivazioni parzialmente differenti rispetto a quelle passate, i recenti attacchi verso Flixbus sembrano riproporre un copione già visto.

Con il Decreto Milleproroghe pubblicato lo scorso febbraio, fu inserito un emendamento proprio contro i bus low cost. La norma in questione poneva un diktat a Flixbus: trasformarsi in un operatore economico (con mezzi propri – bus e personale), o chiudere i battenti.

La discussione che ne scaturì fu surreale. Il provvedimento di allora, voluto fortemente dall’ANAV (Azienda Nazionale Autotrasporto Viaggiatori), si basava su due punti: Flixbus veniva accusato di fare dumping e di essere una piattaforma tecnologica anziché un operatore del settore.

Anche l’Antitrust intervenne, confermando che Flixbus non aveva effettuato alcun dumping, né, tanto meno, i suoi servizi risultavano essere anti-competitivi. L’AGCM, in una segnalazione inviata a Parlamento e Governo, spiegava addirittura che un intervento normativo anti-Flixbus sarebbe stato in grado di determinare effetti fortemente anticoncorrenziali nel settore dei trasporti di passeggeri su strada con danni diretti e tangibili per i consumatori. La norma venne successivamente cancellata, per poi essere reintrodotta in un altro provvedimento e di nuovo cancellata.

La speranza è che questi emendamenti vengano rigettati sia dal Senato sia dalla Camera. I consumatori, la concorrenza e l’innovazione vengono prima di qualsiasi contentino pre-elettorale.

 

Un ringraziamento speciale a Giuseppe Giunta, stagista IBL, per aver contribuito al post.