Web tax: sempre più un balzello
L’ultimo (in ordine di tempo) emendamento alla “webtax” approvata al Senato introduce un’imposta pari al 3 per cento dei corrispettivi relativi alle transazioni digitali, applicabile alle sole prestazioni di servizi tra operatori economici (“business to business”) mediante ritenuta alla fonte da parte del committente.
Viene così superata una delle precedenti versioni, che applicava l’imposta anche alle operazioni al consumo finale e al cosiddetto commercio elettronico, diretto o indiretto.
Il nuovo emendamento supera anche alcune delle criticità delle precedenti versioni: cade il rischio di discriminazioni a danno delle imprese non residenti, dato che l’imposta si applicherà allo stesso modo anche nei confronti degli operatori economici residenti, che non potranno utilizzare la ritenuta alla fonte applicata dal committente a scomputo delle imposte sui redditi dovute in Italia. Inoltre, il meccanismo applicativo si semplifica e “normalizza”, non essendo più previsto il coinvolgimento degli intermediari finanziari operanti in Italia alla stregua di sostituti d’imposta.
L’imposta si applicherà come detto mediante ritenuta e contestuale rivalsa, che sarà applicata dalle imprese residenti in Italia al momento del pagamento dei corrispettivi alle proprie controparti, italiane od estere che siano.
Se sul piano della praticabilità dell’imposta e della sua conformità ai principi comunitari l’emendamento è dunque sotto diversi aspetti migliorativo, la logica iniziale che aveva ispirato l’istituzione della nuova imposta appare stravolta fino a risultare irriconoscibile.
Si era infatti partiti con l’obiettivo dichiarato, discutibile ma comprensibile, di intervenire unilateralmente sui famigerati “giganti del web”, cioè sulle imprese multinazionali della digital economy (Google, Facebook, Amazon, etc.) accusate di non pagare abbastanza imposte sui profitti, grazie allo sfruttamento delle regole di fiscalità internazionale che non fanno sorgere una pretesa impositiva nello Stato di destinazione dei prodotti e servizi in mancanza di una sede fissa (stabile organizzazione) in quel territorio.
Ma questa logica, appunto, risulta ora superata dagli eventi, posto che la nuova imposta sulle transazioni digitali, se dovesse essere approvata nei termini su descritti, si applicherà in egual misura a tutte le imprese, estere o italiane, del tutto a prescindere dalla loro localizzazione in Paesi a bassa fiscalità. Non siamo dunque più al cospetto di una misura dettata da un intento di equità e perequazione, dalla volontà di recuperare gettito assumendo uno “sfruttamento esentasse” del mercato italiano da parte delle multinazionali del web.
Si è smarrita la logica dell’equalization levy, cioè di un tributo che surroga forfettariamente la mancata applicazione delle imposte sul reddito nello Stato della fonte, e che costituisce al tempo stesso una “spinta gentile” all’apertura di una stabile organizzazione in Italia. La nuova misura, che come detto si applicherà anche alle imprese già residenti in Italia e a quelle estere che qui si localizzeranno, si è trasformata strada facendo in un balzello aggiuntivo sui ricavi di un settore dell’economia digitale (servizi pubblicitari on-line, cloud computing, etc.), con un aggravio selettivo sul comparto di cui al momento sfugge la ratio giustificatrice: almeno fino al prossimo emendamento.